alberto alesina

Ripresa? Possiamo sprecarla solo noi

Ripresa? Possiamo sprecarla solo noi

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Arrivano notizie dall’Europa. Alcune buone, altre meno. Cominciamo dalle seconde. La Commissione europea ha leggermente modificato le regole sui conti pubblici: rimangono sempre astruse, anzi sono più complicate di prima e i cambiamenti riguardano decimali di cui si fa fatica a capire la rilevanza macroeconomica. Ma è comunque un segnale. Bruxelles comincia a riconoscere che le regole devono tener conto della situazione dell’economia e aiutare i governi a fare le riforme. Bene anche che la maggior flessibilità non si applichi agli investimenti: i politici non si devono illudere che costruendo autostrade si faccia ripartire la crescita. La buona notizia è che la Banca centrale europea si appresta ad acquistare titoli pubblici, l’ultimo strumento che le è rimasto per evitare la deflazione. È una novità importante e positiva: fino a poche settimane fa questa ipotesi era considerata anatema da molti europei.

Nel frattempo, ed è la notizia più importante, la nostra economia potrebbe aver raggiunto il punto di svolta: in novembre la produzione industriale ha ricominciato a crescere, con un rialzo dello 0,3% su ottobre, quando ancora si era fermi. Il livello rimane del 10% più basso rispetto al 2008, quindi abbiamo un mare da recuperare, ma non siamo più alla deriva. Gli interventi e gli annunci della Bce hanno già fatto svalutare l’euro rispetto al dollaro del 17% circa, da 1,4 a 1,16. Quando la Banca comincerà i suoi acquisti ci potrebbe essere un ulteriore indebolimento dell’euro. Questo favorirà le imprese esportatrici che grazie al Jobs act cominceranno ad assumere a tempo indeterminato. Ecco la risposta a chi dice che il Jobs act è controproducente. Più domanda con un’offerta bloccata da un mercato del lavoro rigido servirebbe a poco, così come una riforma del lavoro senza domanda non produrrebbe nuovi posti di lavoro. Ma la domanda estera non basta, serve anche quella interna, cioè consumi e investimenti. Ecco perché sarebbe un errore imperdonabile concludere che le nuove regole europee e i prossimi interventi della Bce ci consentano di ricominciare a dormire sonni tranquilli.

Le nuove regole probabilmente ci eviteranno una manovra di correzione dei conti a metà anno, cioè un ulteriore aumento delle tasse. È già qualcosa, ma certo non ci permettono di ridurre (a parità di spesa) il peso del fisco, che non è stato scalfito dalla legge di Stabilità e che continua ad essere incompatibile con una ripresa dell’economia. Il fisco influisce sia sulla domanda, riducendo le buste paga nette, sia sull’offerta, aumentando il costo del lavoro per le imprese. Nel 2015 le tasse, seppur redistribuite per favorire le famiglie, continueranno a pesare sul Prodotto interno lordo per il 48,3%, il medesimo livello dei due anni passati. Il governo prevede che cresceranno di un altro mezzo punto nel 2016. Per ridurre la pressione fiscale vi è un solo modo: avviare seriamente, non a parole, i tagli alla spesa. Ormai non bastano più le dita di una mano per contare le spending review annunciate da vari governi. Ne sta facendo una anche il governo Renzi, ripartendo da zero.

Possiamo sapere a che punto siamo? Tagliare le spese per poter ridurre le tasse sul lavoro è cruciale per due motivi. Per competere con la Germania ad armi pari dobbiamo portare le nostre imposte sul lavoro almeno al livello tedesco, e questo richiede molti miliardi di tasse in meno. Inoltre, i Paesi dell’Europa del Nord sono sempre stati restii ad allentare i vincoli fiscali e a consentire che la Bce intervenga perché temono che in questo modo i Paesi del Sud rilassino i loro programmi di risanamento fiscale e strutturale. Non dobbiamo farlo: innanzitutto perché non conviene a noi, e poi perché, se lo facessimo, potremmo dire addio a qualunque ulteriore aiuto da parte dell’Europa. Insomma, le buone notizie devono essere un trampolino per le riforme, non un poltrona su cui rilassarsi.

La tentazione irresistibile della spesa pubblica

La tentazione irresistibile della spesa pubblica

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

I primi dati sull’economia dell’eurozona nell’ultimo trimestre dell’anno non sono positivi: il 2015 potrebbe iniziare con un ulteriore rallentamento. I risultati definitivi per l’anno che si chiude saranno disponibili solo a metà febbraio, e queste previsioni vanno prese con cautela. Tuttavia le intenzioni di acquisto delle aziende dell’eurozona hanno raggiunto in novembre il livello più basso da 16 mesi in qua. Anche l’indicatore degli ordini è sceso, per la prima volta in un anno. L’indice Markit – che traduce questi dati in una previsione del Prodotto interno lordo (Pil) – vede un’eurozona che nel 2014 è rimasta sostanzialmente ferma (+ 0,1/0,2%) dopo due anni consecutivi di recessione: – 0,7% nel 2012 e -0,4% nel 2013.

Per l’Italia questo significa che la straordinaria serie di 13 trimestri consecutivi di caduta del Pil potrebbe non interrompersi. Tredici trimestri! Non è mai accaduto in un Paese avanzato dalla crisi degli anni Trenta. I risvolti sociali si vedono. Nelle periferie delle grandi città si è accesa una guerra fra deboli, tra italiani impoveriti dalla recessione e immigrati. C’e poi un’altra guerra, quella fra generazioni: padri e madri protetti dai sindacati, e figli precari ignorati. La famiglia italiana compensa questa «guerra» con trasferimenti infra-familiari, con i figli disoccupati mantenuti da genitori pensionati. Ma la prossima generazione, quella dei nostri nipoti, non godrà di un tale lusso. Solo una cura drastica può interrompere questa spirale di depressione. La strada per uscire da questa recessione che pare non finire mai non sono investimenti pubblici che, se va bene, impiegherebbero un paio d’anni a produrre domanda e nel frattempo rischiano di produrre solo corruzione. Occorre abbassare in modo radicale la pressione fiscale su famiglie e imprese per aiutare i consumi e dare una boccata d’aria a chi produce. Non tranquillizza che il ministro dell’Economia, illustrando la legge di Stabilità alla Camera, abbia detto che «la pressione fiscale passerà dal 43,3% del 2014 al 43,2 nel 2015». Cioè rimarrà invariata.

Contemporaneamente, per evitare che la riduzione delle tasse si traduca in un aumento permanente del debito, essa va accompagnata da un impegno formale a ridurre di altrettanto la spesa. Se questo impegno richiedesse un controllo da parte della Commissione europea, esso sia benvenuto: potrebbe solo aiutarci a resistere alle mille lobby che si oppongono ai tagli di spesa. Occorrono fantasia e determinazione nel tagliare spese non essenziali, salvando quelle che veramente garantiscono la protezione dei più deboli. Ma di tagli veri nella legge di Stabilità non c’è più che qualche miliardo.

Quando critica i «burocrati di Bruxelles» Renzi ha ragione: se non fosse stato per il grido di allarme di Mario Draghi e per il suo richiamo al dramma della disoccupazione, sarebbero rimasti arroccati ai decimali del rapporto deficit-Pil. Ma la partita che Renzi ha aperto con Bruxelles è piena di insidie. Se, come ha fatto nell’ultimo vertice europeo, egli si avvicinasse troppo a Cameron e lasciasse intendere di essere anche lui pronto a rovesciare il tavolo, i mercati e gli altri Paesi europei comincerebbero a chiedersi quanto sia solido l’impegno dell’Italia a rimanere nell’unione monetaria. A quel punto sarebbe difficile criticare chi sostiene che la Banca centrale europea, qualora decidesse di acquistare titoli pubblici dei Paesi dell’eurozona, dovrebbe escludere da tali acquisti i titoli di Stato italiani.

Tante misure per così poco

Tante misure per così poco

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Quando presentò la legge di Stabilità, Matteo Renzi disse: «È una grande, grande, grande novità: una manovra anticiclica in un momento di difficoltà». A un mese di distanza facciamo fatica a vedere in che modo questa legge possa aiutare la crescita. Il deficit dei conti pubblici (stime della Commissione europea) sarà quest’anno il 3% del prodotto interno lordo, e scenderebbe al 2,7% l’anno prossimo. Il deficit «strutturale» (cioè depurato dal ciclo economico) rimarrebbe sostanzialmente invariato: 0,9% quest’anno, 0,8 il prossimo.

La manovra quindi è a deficit costante. Ma una manovra può essere espansiva anche se, a parità di deficit, riduce le tasse sul lavoro, compensandole con tagli di spesa, soprattutto in un Paese in cui la tassazione sul lavoro è una delle cause della scarsa competitività. Nemmeno questo pare essere il caso. Nell’audizione del 4 novembre alla Camera, il ministro Padoan ha detto: «Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale passa dal 43,3% del 2014 al 43,2%, nel 2015». Cioè rimane invariata. E temiamo che questo calcolo parta dall’ipotesi ottimista che le Regioni non traducano i 4 miliardi di tagli loro imposti dallo Stato in maggiori tasse locali, come alcune già stanno facendo. Che cosa c’è di «grande» e di «anticiclico» in questa manovra? Ben poco. La legge di Stabilità elimina dalla base imponibile dell’Irap il costo del lavoro per dipendenti con contratti a tempo indeterminato. Ma cancella anche la riduzione delle aliquote Irap che era stata decisa a maggio. Dal prossimo anno l’effetto netto sarà comunque una riduzione della tassa. Ma il taglio delle aliquote oggi cancellato era stato finanziato aumentando dal 20 al 26% l’imposta sostitutiva sui redditi da capitale diversi dai titoli di Stato. Conclusione: l’aumento di imposte è confermato, il taglio cancellato, almeno per il 2014, quando varrà ancora la vecchia base imponibile Irap.

Insomma, una legge partita con buone intenzioni si è trasformata in una manovra irrilevante per la crescita. Perché? Il problema è che l’impegno di Renzi è durato lo spazio di un mattino. Approvata la legge, e difesala a Bruxelles, il premier, anziché seguirla passo passo, se ne è disinteressato e si è occupato d’altro: di legge elettorale e di riforme istituzionali. Riformare lo Stato non è tempo perso: serve a governare meglio, anche l’economia. Ma nell’emergenza in cui ci troviamo non possiamo permettercelo: il tempo stringe, tutte le forze vanno destinate a far riprendere la crescita, altrimenti avremo un Paese magari con istituzioni migliori, ma dissanguato.

Piccole misure senza ambizioni

Piccole misure senza ambizioni

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Il governo sta compiendo un errore che potrebbe costarci un altro anno (sarebbe il quarto consecutivo) di crescita negativa con conseguente, ulteriore aumento della disoccupazione. Nessun Paese industriale, almeno negli ultimi 70 anni, ha avuto una recessione tanto lunga. Se non cresciamo, il debito (già al 131,6% del Pil ) rischia di diventare insostenibile, almeno nella percezione degli investitori internazionali, che ne detengono oltre 600 miliardi. Se non ricominciamo rapidamente a crescere rischiamo una crisi finanziaria.

La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicata dal governo la scorsa settimana assume che la crescita miracolosamente aumenti di quasi un punto: dal -0,3 previsto per il 2014 a +0,6 nel 2015. L’Ocse invece prevede un misero +0,1. Da dove verrà quel mezzo punto di crescita in più? Previsioni ottimistiche sono un vecchio trucco per fare apparire più roseo il bilancio. Se la crescita non dovesse raggiungere il livello previsto dal governo anche l’obiettivo di un deficit inferiore al 3% verrebbe mancato, salvo una correzione dei conti in corso d’anno che in parole semplici vuol dire un aumento di imposte. E comunque il ministro Padoan ha detto che già nella legge di Stabilità gli ammortizzatori sociali «saranno coperti dalla spending review e da alcune misure di efficientamento delle entrate». Ecco come si sta sotto il 3%: con un aumento della pressione fiscale!

Deve essere chiaro che c’è un solo modo per sperare di poter riprendere a crescere: ridurre la pressione fiscale. Abbassare le tasse sul lavoro pagate dalle imprese italiane al livello di quelle tedesche significa tagliarle di 40 miliardi. Tagliare immediatamente le spese di una cifra corrispondente non è possibile perché per ridurre la spesa serve tempo. Se solo si fosse cominciato prima! Nei prossimi due, tre anni quindi supereremmo la soglia del 3%. Se sforiamo, entreremmo nella procedura prevista per chi viola le regole europee, ma senza effetti significativi se già avessimo approvato un programma vincolante di tagli alla spesa e varato per decreto una riforma seria del mercato del lavoro. È ciò che fece la Germania nel 2003 quando Schröder varò la sua riforma del lavoro. La Francia ha annunciato per il 2015 un deficit del 4,3%, ma finora Hollande non ha fatto alcuna riforma significativa.

Certo, è più facile per il ministro dell’Economia fare poco o nulla cercando di resistere sotto il 3%, magari con un aumento mascherato della pressione fiscale, e farsi applaudire nei consigli europei. Un piano complesso e innovativo di tagli di tasse, riduzioni di spesa e riforme richiederebbe un massiccio investimento di credibilità politica. Ma è l’unica via per salvare il governo di Matteo Renzi e, ciò che è più importante, l’Italia.

Promesse finite, il tempo scade

Promesse finite, il tempo scade

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Matteo Renzi ha avuto una buona intuizione convocando un Consiglio europeo dedicato alla crescita nella prima settimana di ottobre, alla vigilia della presentazione delle leggi di Stabilità da parte dei Paesi della Ue. In questo modo quelle leggi verranno valutate dalla Commissione europea – che deve esprimere un giudizio su ciascuna di esse – alla luce delle indicazioni che emergeranno in quella riunione. Il bollettino mensile della Banca centrale europea (Bce), diffuso ieri, sottolinea che in Italia la mancata crescita potrebbe essere, quest’anno, peggiore del previsto. Abbiamo più volte suggerito – non solo noi in realtà, ad esempio anche Guido Tabellini su Il Sole 24Ore – che per far riprendere lo sviluppo nei Paesi dell’euro sarebbe necessario un taglio delle imposte coordinato fra tutte le nazioni e finanziato tramite acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Programmi di investimenti pubblici – come i 300 miliardi di spese in infrastrutture proposti dal nuovo presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker – possono aiutare nel medio periodo ma, dati i tempi necessari per avviare questi progetti, servono a poco nell’immediato. Per far ripartire in tempi brevi la domanda c’è un solo modo: ridurre permanentemente la pressione fiscale.

È però difficile che nel Consiglio di ottobre si trovi un accordo per una politica coordinata di riduzione delle imposte. La Bce, dal canto suo, nelle scorse settimane ha fatto tutto ciò che poteva senza violare il suo statuto e senza perdere la fiducia dei Paesi del Nord. Il risultato di quelle misure è stato un significativo deprezzamento dell’euro sul dollaro (da oltre 1,39 in primavera a meno di 1,29 oggi) che aiuterà le esportazioni. È difficile aspettarsi di più dalla politica monetaria. Ora tocca ai governi agire. Con il medesimo senso di urgenza che ha guidato le decisioni della Bce. Ma se non si troverà un accordo per un’azione coordinata, ciascun Paese dovrà agire da solo.

Che cosa può fare il governo italiano per farci uscire da una recessione che sembra non finire mai? Il presidente del Consiglio ha spiegato che le riforme vanno fatte bene, senza fretta. Ha detto che saranno necessari mille giorni per rilanciare l’Italia. Ha ragione, ma solo in parte. È vero che alcune riforme, come quella del sistema fiscale, della giustizia e della pubblica amministrazione, richiedono tempo. Ma su altre scelte che il governo è chiamato a fare, Renzi non ha né mille, né cento giorni: ha tre settimane, da oggi al Consiglio di ottobre. Non ci si può illudere che senza interventi concreti miracolosamente si riavvii la crescita.

Al Consiglio europeo – a maggior ragione avendolo convocato lui – Renzi deve arrivare avendo fatto tre cose. Primo, una riduzione aggressiva delle imposte: da un lato aumentando e rendendo permanenti gli 80 euro di maggio, ed estendendo la platea di cittadini che ne beneficiano; dall’altro, riducendo le tasse sul lavoro. Un complessivo taglio della pressione fiscale pari a circa 30 miliardi. Secondo, tagli di spesa per la medesima cifra, alcuni da attuare contestualmente alla riduzione delle tasse (10 miliardi), il resto nei 2-3 anni a seguire. Nell’arco di un triennio la riduzione del carico fiscale sarà così interamente finanziata. Ridurre da subito le spese di 10 miliardi non è impossibile: si può iniziare dalle proposte del commissario Carlo Cottarelli. È un piano che porterebbe il nostro deficit oltre la soglia del 3% per un triennio. Non saremmo soli. Francia e Spagna sono già oltre quel limite: sopra il 4 la Francia, 5 la Spagna. Ma se facessimo solo questo, sfondando il limite del 3% senza fare altro, non solo saremmo soggetti alle sanzioni di Bruxelles, rischieremmo di allarmare i mercati e far ripartire lo spread. È necessario un terzo passo che dimostri come la flessibilità che chiediamo non è un modo, l’ennesimo, per evitare di fare riforme da troppo tempo già rinviate.

Il capitolo da affrontare è il mercato del lavoro, perché è una delle riforme più importanti, ma anche perché è sostanzialmente pronta e serve solo la volontà politica di andare avanti. Il via libera del Parlamento alla legge-delega sul lavoro (verrà votata in commissione al Senato la settimana prossima) deve però accompagnarsi, entro l’inizio di ottobre, al varo di alcuni decreti che, disegnando le nuove norme, in primis quelle che introdurranno il «contratto unico a tutele crescenti», spieghino in che modo il governo intenda attuare la delega.

Una simile strategia – riforme accompagnate da un temporaneo periodo di maggior flessibilità – ha un precedente illustre. Nel 2003, quando era la Germania «il malato d’Europa», il cancelliere tedesco Gerhard Schröder introdusse importanti riforme nel mercato del lavoro (le celebri norme Hartz) e allo stesso tempo chiese di poter superare per qualche anno il limite del 3% nel rapporto deficit-Pil. Fu l’inizio della riscossa tedesca. Il presidente del Consiglio e il governo devono avere ben chiaro che a preoccupare cittadini, imprese e investitori è oggi soprattutto la mancata crescita, che è il motivo per cui il nostro rapporto debito-Pil continua a salire. Gli operatori internazionali detengono circa un terzo del nostro debito pubblico. Per continuare a farlo si aspettano un segnale forte sullo sviluppo. E loro, come il Paese, se lo aspettano subito.  

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Grazie ad un incrocio fortunato di eventi i Paesi dell’euro hanno oggi la possibilità di attuare quella svolta che è necessaria per uscire dal lungo periodo di stagnazione economica in cui viviamo da quasi sette anni. Il governo italiano potrebbe avere un ruolo fondamentale nel renderlo possibile.

Venerdì scorso Mario Draghi ha detto chiaramente che per ricominciare a crescere sono necessarie riforme strutturali dal lato dell’offerta, accompagnate però da una ripresa della domanda, in particolare dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese. E che questo la Bce non può farlo, almeno non da sola. La prima mossa spetta ai governi che, oltre a fare le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, devono abbassare le tasse riducendo al tempo stesso la spesa pubblica. E se le due cose non possono procedere alla medesima velocità, perché le tasse si abbassano in un giorno mentre per tagliare le spese serve un po’ più tempo, non bisogna strapparsi le vesti se il deficit temporaneamente cresce. Forse anche la Germania se ne sta convincendo. Infatti (anche se questa non è una buona notizia) i dati recenti lasciano intravvedere un rallentamento dell’economia tedesca che potrebbe rendere Angela Merkel meno ostile a provvedimenti concordati volti ad aumentare la domanda interna nell’eurozona.

Domenica a Parigi il presidente Hollande ha chiesto al suo primo ministro, Manuel Valls, di sostituire i membri del governo che si opponevano alle riforme e ai tagli di spesa. Il cambiamento più significativo è avvenuto al ministero dell’Economia e dell’Industria dove Emmanuel Macron (36 anni), il più liberista dei consiglieri di Hollande, ha sostituito Arnaud Montebourg (56 anni), un socialista del secolo scorso, alfiere dell’intervento dello Stato nell’economia, strenuo oppositore della globalizzazione e apertamente ostile alla Bce. Una svolta che ricorda il marzo del 1983 quando Mitterrand, dopo due anni di illusioni, cambiò radicalmente politica, si affidò a Jacques Delors e salvò la sua presidenza. Anche a Parigi si comincia ad accettare che «il liberismo è di sinistra».

A Roma Matteo Renzi si è impegnato a varare oggi, il giorno prima del vertice europeo di domani, la riforma della giustizia e il decreto cosiddetto sblocca Italia. Ma la riforma più importante riguarda il mercato del lavoro. Renzi ha promesso che si adopererà affinché entro il mese di settembre il Parlamento vari il disegno di legge delega proposto dal suo governo, che riprende le idee del senatore Pietro Ichino riscrivendo da zero lo Statuto dei lavoratori. E quindi modificando anche il famoso articolo 18.

Come non sprecare questo incrocio fortunato? L’Italia ha una responsabilità particolare, e non solo perché il vertice europeo di domani sarà presieduto da Matteo Renzi. Siamo (con l’eccezione della Grecia) il Paese dell’euro con il debito più elevato e quindi quello che più di ogni altro deve convincere che la qualità delle riforme attuate giustifica un allentamento temporaneo dei vincoli sul deficit, condizione necessaria per poter abbassare subito le tasse sul lavoro. Le parole «qualità» e «attuate» qui sono cruciali. Le riforme non devono essere annunci ma leggi approvate. E a queste leggi devono seguire in tempi rapidi i decreti che le rendono operative, la qualità appunto. Ad esempio a 5 mesi dalla legge che ha abolito le Province (Legge 56 del 7 aprile) i decreti che ne ripartiscono le funzioni fra Stato, Comuni e Regioni non sono ancora stati varati, cosicchè quella riforma per ora rimane una norma senza effetti. Anche se va riconosciuto al premier di aver abolito il livello elettivo dei Consigli provinciali.

Uscire dalla riunione Ue di domani senza un accordo sulla necessità di sostenere la domanda interna significherebbe rimandare almeno di un altro anno la ripresa dell’eurozona. Raggiungere quell’obiettivo dipende anche dalle decisioni che prenderà oggi il Consiglio dei ministri, dalla determinazione con cui Renzi ripeterà l’impegno a varare il Jobs Act entro settembre e dall’esempio che egli saprà offrire al nuovo governo di Parigi, che si trova ad affrontare problemi analoghi.

Essere convincenti sulle riforme e sul percorso che vogliamo seguire per uscire dalla recessione deve essere l’obiettivo di Renzi nel vertice europeo. Se egli invece lascerà che la riunione si perda in una trattativa defatigante sui nuovi commissari e sul ruolo che avrà Federica Mogherini a Bruxelles, avrà perso un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più. È improbabile che domani vengano già varati provvedimenti a livello europeo per far crescere la domanda. Ma sarebbe importante che una prima discussione cominciasse.