alberto brambilla

Partecipata addio?

Partecipata addio?

Alberto Brambilla – Il Foglio

Decidere cosa tagliare e come farlo è una scelta politica, ha detto ieri il ministro del’Economia, Pier Carlo Padoan, in un’intervista al Corriere della Sera. Uno dei “terreni propizi per un’opera di razionalizzazione – disse a inizio agosto alla presentazione del decreto sblocca Italia – è quello delle partecipate”. Opera d’impatto sui potentati locali che in questi anni hanno contribuito al dissesto di almeno un terzo delle municipalizzate italiane. Secondo gli annunci del governo, in attesa del Cdm di venerdì che darà allo sblocca Italia i crismi dell’ufficialità, le municipalizzate volgono a una riforma drastica e complessiva scaturita dalle indagini del commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli. Nell’architettura del disboscamento, secondo indiscrezioni, ci sarebbero elementi di novità significativi. Il più rilevante è la possibilità di prevedere il fallimento delle società in perdita. Sono almeno 1.250 su 8.000 censite (un numero certo non esiste, alcune non hanno registrato i bilanci 2012). Secondo Cottarelli, anche attraverso altre chiusure, cessioni e privatizzazioni, nei prossimi tre anni si potrà arrivare ad averne solo un migliaio, come in Francia, con un ritorno per lo stato di 2-3 miliardi. Risorse provvidenziali a coprire i costi per il rilancio dei progetti infrastrutturali rimasti fermi, il fulcro del maxi provvedimento sblocca Italia. 

La chiusura di aziende inefficienti è spesso obbligata, visti i bilanci malandati: in cinquemila organismi privati e partecipati dagli enti locali l’indebitamento complessivo è di 34 miliardi, dice la Corte dei Conti. Per quelle in attivo la privatizzazione o la vendita di quote in Borsa invece è possibile. Per incentivare i Comuni a vendere e allo studio del governo l’eventualità di non conteggiare i proventi della vendita ai fini del patto di stabilità interno. Mentre verranno prorogate le concessioni (fino a 22 anni, dice il Corriere) in caso di sbarco a Piazza Affari. Le intenzioni pragmatiche del governo hanno già riscosso consensi dagli economisti più liberisti, sebbene con qualche avvertenza. “Se il governo riuscisse davvero a confermare le proposte annunciate e a renderle operative, sarebbe un segnale di concretezza nella svolta per un sistema più efficiente delle risorse pubbliche e più aperto ai benefici della concorrenza”, dice al Foglio Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’istituto Bruno Leoni. Anche i compromessi cui si potrebbe giungere in corso d’opera per arrivare all’obiettivo di riportare all’efficienza aziende di pubblica utilità sono in parte indice di pragmatismo, dice Sileoni. Ad esempio, la mancanza di un’esplicita scelta di aprire alla concorrenza i servizi pubblici e quindi lasciare la gestione diretta solo come ipotesi eccezionale deriva probabilmente dalla volontà di non contraddire il risultato referendario del 2011, quello sull’acqua pubblica. Oppure l’intenzione di mantenere la concessione anche in caso di fusione o acquisizione societaria. “Specie nel periodo transitorio, i compromessi sono una costante di ogni piccola o grande riforma, ma se le proroghe e le deroghe dovessero essere sproporzionate rispetto alle necessità della transizione, e si spera in particolare che sia smentita la possibilità di allungare la concessione per le società quotate, non faranno altro che smentire gli obiettivi governativi”, aggiunge Sileoni.

Per ora le aspettative sono alte. Finora si è intervenuti in modo “astratto e inefficace”, per usare le parole del presidente dell’Anci e sindaco di Torino, Piero Fassino, attraverso la richiesta ai Comuni di liquidare società in perdita a una certa data di scadenza. Il riferimento è alla legge di stabilità del 2010 che imponeva ai Comuni con 30mila abitanti di liquidare o cedere entro il settembre 2013 le loro partecipazioni. Finora delle 1.472 società interessate solo un quinto risulta in liquidazione, dice il Cerved. Il motivo di fondo è che attorno alle municipalizzate ruotano interessi politici che si esplicitano attraverso l’assegnazione di incarichi nei cda, un numero di cariche che spesso supera quello dei dipendenti. L’affollamento è una degenerazione: con le privatizzazioni degli anni Novanta è stato tolto il pane di bocca alla politica che si è rifatta su scala locale. La possibilità di incidere e sfrondare è autoevidente soprattutto in quelle società che si dedicano a servizi collaterali (consulenza gestionale, pubbliche relazioni, organizzazione eventi) con attivi scarsi e che sono di discutibile utilità.

L’Antitrust dà l’assist a Renzi per liberalizzare e rottamare le fondazioni

L’Antitrust dà l’assist a Renzi per liberalizzare e rottamare le fondazioni

Alberto Brambilla – Il Foglio

Con la pubblicazione delle Segnalazioni ai fini della legge annuale sulla concorrenza, attese da quattro mesi, ieri l’Antitrust ha fornito un assist al governo. Il premier Matteo Renzi si era impegnato col Documento di economia e finanza a recepire le raccomandazioni per cominciare a liberalizzare i settori dell’economia più ingessati. Le segnalazioni ne toccano molti. Sulla Sanità, ad esempio, si chiede in sostanza di estendere a tutta Italia il modello lombardo nel quale pubblico e privato sono in concorrenza. Sulle Poste viene invocata la separazione societaria dei servizi bancari da quelli postali, che significa fare saltare l’attuale processo di privatizzazione, messo in discussione dal cda, e ripensare le modalità di vendita sul mercato. Sulle municipalizzate: togliere l’affidamento in house dei servizi locali e privilegiare la gara pubblica. Sul trasporto pubblico locale: limitare le attività dei monopolisti e consentire ai privati di offrire servizi aggiuntivi al servizio pubblico e in concorrenza tra loro. Sul trasporto cittadino, l’invito è di ridurre le «distorsioni concorrenziali» aprendo ad altri modelli di business diversi dai taxi (un approccio “uberista”).

«È un vasto programma che lascia il compito alla politica di determinare la priorità», dice al Foglio Salvatore Rebecchini, componente del collegio dell’Autorità. Il presidente dell’Autorità garante e del mercato (Agcm) Giovanni Pitruzzella il 30 giugno ha bersagliato l’intreccio tra potentati economici e politici, quel capitalismo di relazione che difende le «rendite di posizione» a detrimento di «concorrenza e innovazione». Ambizione che richiama all’orecchio lo Sherman Antitrust Act del 1890, prima legge antitrust americana tesa a colpire monopoli e cartelli che trovò applicazione solo a decenni dall’introduzione a causa di scontate resistenze. È lecito attendersi resistenze enormi nel caso delle raccomandazioni sule banche. Da un lato s’invoca l’abolizione del voto capitario nelle banche popolari, con cui i soci dipendenti possono condizionare le decisioni; tema oggetto di scontro tra Banca d’Italia (che ha cercato, senza successo, di fare una modifica) e la Banca popolare di Milano (che resiste). Dall’altro recidere il legame tra banche commerciali e fondazioni, per decenni simbolo del rapporto incestuoso tra finanza e politica. Per la prima volta l’Agcm ufficialmente consiglia al governo di archiviare l’era delle fondazioni padrone e limitare l’influenza sugli istituti di credito di cui sono azioniste: «Rafforzare la separazione fra fondazione e banca conferitaria», «vietare il passaggio dai vertici della fondazione agli organi delle banca e viceversa» ed «estendere il divieto per le fondazioni di detenere il controllo di una banca anche nei casi in cui il controllo è esercitato di fatto, anche congiuntamente con altri azionisti», si legge.

Ultimamente le fondazioni, vigilate dal Tesoro, sono state pungolate anche dalla Banca d’Italia e dal Fondo monetario internazionale in quanto le banche da esse influenzate rappresentano l’anello debole del settore. Per capire quanto la presenza degli enti incida sulle scelte strategiche basti dire che le fondazioni detengono congiuntamente il 9 e il 25 per cento del valore azionario di Unicredit e Intesa San Paolo, e arrivano a esprimere oltre l’80 per cento del consiglio in entrambi gli istituti esercitando pieno controllo, secondo Lavoce.info. Il legislatore ha più volte cercato di ridurne il potere (legge Amato-Carli del 1990 e legge Ciampi del 1996) con alterne fortune. Tuttavia il loro ministero regge, pur indebolito dalla crisi.

Renzi di rado ha sfiorato l’argomento: si è tenuto lontano dalle vicende del Monte dei Paschi pure quando la terza banca del paese è stata vittima di un abnorme assedio mediatico-giudiziario. A fare una richiesta così dirompente come quella dell’Agcm per ora ci hanno pensato i Radicali che, pur non essendo presenti in Parlamento, con la campagna “#sbanchiamoli” stanno cercando di reclutare deputati e senatori disponibili a firmare una petizione, contenente una proposta di legge, per separare le banche dalle fondazioni. Tuttavia gli onorevoli sono tuttora riluttanti a prendere posizione dato il conflitto di interesse dei partiti a livello locale.