alessandro barbera

Fisco meno caro ma non per tutti

Fisco meno caro ma non per tutti

Alessandro Barbera – La Stampa

L’anno volge al termine e per l’italiano è giunta l’ora di porsi la ferale domanda: nel 2015 pagherò più tasse? Negli ultimi cinque anni la risposta è stata sempre la stessa. Quest’anno le cose andranno diversamente. Non per tutti però. Partiamo dal dato più importante, la cosiddetta pressione fiscale. Il documento di economia e finanza dice che nel 2015 sarà lievemente più alta: il 43,4, appena un decimale in più di quest’anno. Le apparenze non traggano in inganno: l’aumento è dovuto al fatto che le regole contabili europee non contabilizzano il bonus Irpef da ottanta euro come una riduzione fiscale. Nonostante il tentativo di superarlo, il governo si è trovato costretto a confermare un meccanismo perverso che tramuta quei dieci miliardi di minori tasse in maggiori spese. Nella pressione fiscale sono invece calcolati il taglio dell’Irap alle imprese, la decontribuzione per i nuovi assunti, l’aumento delle tasse sui fondi pensione che va ad aggiungersi a quello già previsto quest’anno per depositi bancari e titoli. Il governo Renzi ha scelto di aumentare le tasse sulle rendite (erano mediamente più basse che nel resto dell’Ue) per abbassare quelle sul lavoro. Gli ultimi dati disponibili (Istat 2012) dicono che se un dipendente italiano costava mediamente all’imprenditore 41 mila euro, al lavoratore andavano meno di trentamila: peggio di noi in Europa facevano solo Danimarca, Germania e Francia. In ogni caso nel 2015 la somma di dare e avere sarà positiva: nel complesso le tasse scenderanno. Ma «complessivamente» non significa necessariamente per tutti. La manovra di Renzi è «di sinistra» molto più di quanto, a sinistra, non si voglia ammettere.

Casa, niente sorprese
Tasi e Imu non riserveranno sorprese grazie al tetto che bloccherà il tetto massimo per le tasse sulle casa. Con un però: i Comuni potranno aumentare l’aliquota Tasi fino allo 0,8 per cento se suddivisa fra prima casa e altri immobili. Chi ha molti investimenti nel mattone ha buone probabilità di pagare di più. In alcune Regioni le brutte sorprese per i più ricchi arriveranno in ogni caso dalle addizionali Irpef. Attenzione alle cronache locali, non c’è momento migliore del Natale per far passare lievemente le cattive notizie. Il Lazio di Nicola Zingaretti ha già messo a bilancio un aumento dell’addizionale dall’1,73 al 2,33 per cento ai redditi sopra i 28mila euro. Per inciso, l’esenzione dagli aumenti ancora non c’è: la maggioranza ha promesso una legge entro aprile. Per i più ricchi in Piemonte si prepara un salasso: aliquota invariata fino a 28mila euro (oggi è del 2,13 per cento), dello 0,44 per cento fino a 55mila, dell’un per cento al di sopra, al quale va poi aggiunto l’aumento del bollo auto. L’addizionale salirà anche in Liguria, con una fascia di esenzione uguale a quella promessa dal Lazio: 28 mila euro annui. In ossequio al federalismo fiscale che c’è, i toscani non avranno di che lamentarsi: invece di aumentare le aliquote il presidente Rossi ha preferito il taglio delle partecipate.

Chi ottiene di più
A questo punto si può tracciare l’identikit di chi con certezza l’anno prossimo pagherà meno tasse: è un lavoratore dipendente, ha uno stipendio di circa 1400 euro al mese e ha al massimo una casa di proprietà. Sopra quella soglia tutto dipenderà da cosa possiede, quante persone ha a carico e soprattutto da dove vive: se possiede più di una casa, ha risparmi, non ha figli a carico e vive nel Lazio o in Piemonte ha ottime probabilità di pagarne di più. Lo scenario si farebbe ancora più cupo se nel frattempo il governo non riuscisse a tagliare la spesa nei numeri promessi. In quel caso – il primo gennaio 2016 – scatterebbero le clausole di salvaguardia previste dalla legge di Stabilità: l’aliquota media Iva salirebbe dal 10 al 12 per cento, quella più alta dal 22 al 24, più un ritocco sulla benzina. La regola aurea del nuovo fisco nei Paesi occidentali è «dalla persona alla cosa». La speranza è di schivarle entrambe.

La carica delle slot 2.0, raccolgono soldi in Italia e pagano le tasse all’estero

La carica delle slot 2.0, raccolgono soldi in Italia e pagano le tasse all’estero

Alessandro Barbera – La Stampa

A Bolzano, dove il gioco l’hanno dichiarato illegale tout court con una grida di stampo manzoniano, nei bar si trovano ormai solo quelli. Si chiamano «totem», e somigliano in tutto per tutto a bancomat per il prelievo di contante. All’ultima fiera del settore, a Roma, sono andati a ruba. Ne vendevano di ogni tipo: neri o colorati, multitouch, con distributore di gettoni o ricariche per cellulare. Per quanto tentino di camuffarle, altro non sono che macchine per il gioco on line: poker, gratta e vinci, scommesse sportive. Non sono le slot machine tradizionali, quelle macchine protagoniste di una querelle iniziata ai tempi di Vincenzo Visco su quanto dovessero versare al fisco. I «totem» non sono collegati alla rete dei Monopoli, non sono gestiti dai concessionari italiani, non pagano le tasse in Italia. I totem sono collegati a internet, e pagano le tasse dove sta il concessionario che le gestisce. Poco importa se in un paradiso fiscale, in Gran Bretagna o a Malta. Un ordine del giorno presentato alla Camera pochi giorni fa ha chiesto al governo di «rafforzare gli interventi repressivi», nel timore che finiscano per far crollare il gettito dei concessionari italiani.

Per capire il perché di questa esplosione occorre leggere un passaggio dell’articolo 44 della legge di Stabilità, quello che aumenta per quasi un miliardo il prelievo sulle slot machine dei concessionari italiani. «In attesa del riordino della disciplina in materia di giochi pubblici» e «per assicurare parità di condizione fra imprese che offrono scommesse per conto dello Stato e persone che offrono comunque scommesse con vincite in denaro»›…segue una lunga lista di disposizioni. In sintesi: i totem non sono autorizzati, ma nemmeno del tutto illegali. Basta scorrere la lunga serie di dissequestri avvenuti negli ultimi mesi: a Bolzano, a Venezia, Roma, Castel di Sangro, Catania. La Guardia di Finanza chiude i centri, il giudice non convalida. La ratio è la stessa che già nel 2012 aveva permesso il dissequestro di un centro scommesse di Stanleybet, la multinazionale inglese con sede a Liverpool. In quel caso il giudice sottolineò l’«assoluto dispregio delle regole comunitarie nella distribuzione delle concessioni».

Nel settore dei giochi, come già è accaduto nel caso di Google, tracciare il confine fra ciò che è italiano e ciò che non lo è a fini fiscali è sempre più difficile. Lo dimostra la soluzione kafkiana scelta dall’articolo 44 per una delle sanzioni da infliggere a chi installa un totem: non è pagata per l’apparecchio cosiddetto «abusivo», ma per ciascuno degli apparecchi installati e dotati di regolare concessione. La norma sembra folle ma non lo é: serve a dissuadere i gestori delle macchine dal far installare apparecchi «legali» negli stessi spazi dei totem.

Fino a che lo Stato non riuscirà a farsi pagare le tasse dai gestori stranieri non resta che farne pagare di più a chi ha una concessione in Italia. L’articolo 44 aumenta la tassa a carico delle vincite fino al 9 per cento per le videolotterie (oggi è al 5 per cento, tre anni fa era del 2), al 17 per cento (oggi è del 12 per cento) per le altre macchine come ad esempio il videpoker: per i concessionari italiani significherebbe azzerare o quasi i margini. Per limitare l’impatto dell’aumento, il governo propone di abbassare la vincita a chi gioca, riducendo la percentuale minima dal 75 al 70 per cento. C’è un ma: la revisione delle quote significa intervenire sul software di ciascuna slot. Secondo Fabio Schiavolin di Cogetech per adeguare le macchine sono necessari «da un anno a un anno e mezzo»: il rischio è quello di un nuovo maxicontenzioso. Confindustria stima che nel frattempo saranno stati persi 75mila posti di lavoro e fino a un quarto del gettito fiscale. Non un grande affare.

Aprire un’impresa è più facile ma il fisco resta un labirinto

Aprire un’impresa è più facile ma il fisco resta un labirinto

Alessandro Barbera – La Stampa

Nel dibattito italiano, quello nel quale le parole prendono spesso il sopravvento su fatti e numeri, le cause della crisi sembrano essersi trasformate in una variabile indipendente. La domanda non riparte, gli imprenditori non investono, e capita di sentir dire che la responsabilità è tutta degli austeri tedeschi, della gabbia dell’euro, dei burocrati di Bruxelles. Poi arrivano le classifiche internazionali, quelle che periodicamente costringono a riportare la realtà alla sua rappresentazione più semplice e noiosa.

Ad esempio: quante ore deve dedicare agli adempimenti fiscali un imprenditore? Domanda cruciale per chi fa impresa, piccola o grande che sia: più salgono le ore, più aumentano i costi dei consulenti, più è difficile fare previsioni sulle percentuale di utili o perdite alla fine dell’anno. Ebbene, in Italia ci vogliono ancora 269 ore l’anno, in Germania 218, in Spagna 167. Nella Francia di François Hollande, non propriamente un bengodi per gli investitori, ne bastano la metà: 137. In Gran Bretagna scendiamo a 110. Ancora: quanti pagamenti fiscali deve fare mediamente un imprenditore italiano rispetto ad un collega europeo? Fra tasse locali, addizionali, Irap, Ires si arriva a quindici l’anno. In Germania ne sono sufficienti nove, in Francia, Spagna e Gran Bretagna otto. In passato la classifica «Doing Business» della Banca Mondiale è stata oggetto di critiche per quel «total tax rate» che calcola la pressione fiscale delle imprese italiane fino al 65,4 per cento dei profitti; poco di meno della Francia (al 66,6 per cento), diciassette punti in più della Germania (48,8 per cento), il doppio della Gran Bretagna, ferma al 33 per cento. Ad alcuni sembrano numeri spropositati, se non altro perché la pressione fiscale calcolata dagli istituti di statistica è più bassa. Ma quel dato riguarda il peso della tassazione sui profitti d’impresa, che è cosa diversa dalla pressione fiscale nel suo complesso. In ogni caso «Doing Business» è ormai lo strumento più completo per chi vuole confrontare il fare impresa in giro per il mondo.

L’ultimo rapporto conferma i mali italiani ma offre anche alcune speranze. I tempi per avviare una nuova attività, ad esempio: nel giro di due anni l’Italia ha recuperato 44 posizioni e si è classificata 46esima su 189 Paesi. Merito fra gli altri – così dice l’Ordine dei Notai – della trasmissione telematica degli atti. O ancora la tutela degli azionisti di minoranza nelle società di capitali: l’anno scorso la Banca Mondiale ci ha classificati 21esimi, trenta posizioni sopra la Germania.

Le buone nuove finiscono qui. Il resto conferma le peggior impressioni, basti un rapido confronto sull’asse Roma-Berlino. Prendiamo le formalità burocratiche da espletare per una licenza edilizia: l’Italia si classifica al 116 posto, la Germania all’ottavo. Per chiudere una pratica in Italia sono necessari mediamente 233 giorni, in Germania ne bastano 96. Accesso all’energia elettrica: l’Italia è 102esima, la Germania terza. Se per un allaccio una impresa italiana aspetta mediamente 124 giorni, chi vuole aprire uno stabilimento nelle pianure tedesche avrà il sì in 28. Accesso al credito: Italia 89esima, Germania 23esima. Trasferimento della proprietà immobiliare: Germania 41esima, Italia 89esima. Quando il piazzamento italiano non è pessimo, i tedeschi svettano. È il caso della voce «apertura e chiusura delle procedure fallimentari»: in Italia sono necessari mediamente un anno e otto mesi (29esimi), in Germania un anno e due mesi (terza nel ranking). Come tutte le classifiche «Doing Business» ha i suoi limiti. Scoprire che la grande malata d’Europa – la Francia – sia l’unico dei grandi Paesi europei a risalire la classifica (dal 33esimo al 31esimo posto) può sembrare strano. Le classifiche valgono per quel che offrono, ma constatare che l’Italia è 56esima, quattro posti più in basso del 2014 fra Turchia e Bielorussia, non è incoraggiante.

Cinque corpi per cinque ministeri, lo spreco dei fondi per la sicurezza

Cinque corpi per cinque ministeri, lo spreco dei fondi per la sicurezza

Alessandro Barbera – La Stampa

A parte qualche raro caso – sono quelli che fanno storia – i politici tentano sempre di rinviare le soluzioni dolorose. Prendiamo il caso della pubblica sicurezza. In Italia è garantita da poco più di trecentomila agenti divisi in cinque corpi: Carabinieri, Polizia, Guardia di finanza, Polizia penitenziaria e Corpo forestale. Il caso vuole che ciascuno di essi dipenda funzionalmente da un ministero diverso: Difesa, Interni, Tesoro, Giustizia e Agricoltura. Il blocco delle assunzioni in vigore da anni sta assottigliando gli organici: Polizia e Carabinieri ne hanno persi quindicimila a testa. I tagli lineari hanno funzionato: se nel 1990 la voce ordine pubblico valeva l’8,9 per cento dei consumi pubblici, vent’anni dopo, nel 2009, quel valore era sceso di un punto percentuale. D’altra parte, secondo i dati di Eurostat del 2012, l’Italia è uno dei Paesi europei e mediterranei con il più alto numero di unità di polizia ogni centomila abitanti: 466 contro i 312 della Francia e i 298 della Germania. Fra i grandi Paesi ci superano solo Turchia (552 unità) e Spagna (533).

Finché hanno potuto far finta di nulla, la politica e le alte burocrazie hanno ignorato il problema. Ma come testimoniano i numeri, lo hanno solo aggravato. Poco prima di lasciare Palazzo Chigi, a marzo dell’anno scorso, Piero Giarda ha lasciato in eredità trecento pagine di «analisi di alcuni settori di spesa pubblica». Più della metà sono dedicate alla dinamica dei costi di Polizia, Carabinieri, Questure, Prefetture. Giarda spiega che «le spese per abitante delle forze di polizia (alle quali sono associati vigili del fuoco e capitanerie di porto) sono significativamente più elevate, a parità di condizioni, nelle province o nelle regioni con meno abitanti». Ad esempio: le spese pro capite più alte per i servizi di prefettura sono in Molise e Basilicata. Ancora: la spesa pro capite per il funzionamento della Polizia ad Aosta e in Liguria supera i 140 euro l’anno; in Veneto e Lombardia, le più basse, il costo per contribuente è inferiore ai 60 euro. Numeri non troppo diversi da quelli dei Carabinieri: in Molise e Sardegna costano mediamente più di 160 euro a testa, in Piemonte, Lombardia e Veneto meno della metà.

Il costo complessivo del comparto sicurezza – lo ha calcolato di recente il commissario alla spesa Carlo Cottarelli – è attorno ai 20 miliardi di euro l’anno. Non è moltissimo: un quarantesimo del bilancio dello Stato, un quarto di quel che spendiamo in interessi sul debito. Eppure ci permettiamo di sprecare 1,7 miliardi l’anno (questa la stima di Giarda) per tenere in vita cinque corpi male organizzati. Una cifra che potrebbe essere ben utilizzata, ad esempio, per gli aumenti contrattuali. A giugno, in una delle bozze della riforma della pubblica amministrazione, era apparsa una norma che disponeva il passaggio di forestali e agenti di polizia penitenziaria sotto il controllo dei corpi più grandi. L’ipotesi è tramontata nel giro di poche ore. Pare che i ministri vigilanti non gradissero. Ieri, nel piano di risparmi per il 2015 presentato dal ministro della Giustizia non c’era traccia della proposta. A Ferragosto il ministro dell’Interno Alfano aveva già spiegato il perché: «Non ci sono forze generaliste, ognuna ha compiti specifici. Razionalizzare le spese è logico è giusto, ma se si deve tagliare con la mannaia non aderisco». La Polizia ha di recente varato un piano per il taglio di 300 fra uffici e commissariati: garantiranno risparmi per 60 milioni. Di accorpamenti se ne riparlerà. Un giorno, chissà.

Bagni, saline, hotel e funivie: la saga dei Comuni tuttofare

Bagni, saline, hotel e funivie: la saga dei Comuni tuttofare

Alessandro Barbera – La Stampa

L’ultima relazione della sezione regionale della Corte dei Conti dice che il bilancio della Sicilia è regolare. Fanno eccezione – definiamoli così – alcuni non trascurabili dettagli. Anzi, trentatré: le società partecipate dalla Regione. C’è chi estrae il sale (Italikali), chi fa consulenza imprenditoriale (Sicilia Sviluppo), chi commercia all’ingrosso (Mercati Agri Alimentari) o produce software (Sicilia e-servizi). A quelle latitudini la crisi dei debiti sovrani non è mai arrivata, diversamente non si spiegherebbero le due acquisizioni dell’anno scorso: le quote dell’aeroporto di Trapani e il 20 per cento di Interpoli siciliani. Per la Corte è impossibile «una valutazione precisa dei valori patrimoniali», «l’assenza di introiti», l’«impatto considerevole derivante dagli oneri sostenuti» per gli oltre settemila dipendenti: più di un miliardo di euro fra il 2009 e il 2012, 300 milioni solo l’anno scorso. Per cogliere fino in fondo le ragioni che spingono i tedeschi a non dare troppo spazio alle richieste di flessibilità dell’Italia è in numeri come questi.

In passato alcuni politici hanno tentato di convincerci che per risolvere il problema basterebbe separare l’Italia in due e liberarsi del Sud. Poi uno scorre un’altra relazione – questa volta della sezione «autonomie» della Corte dei Conti – e capisce perché alla fine gli italiani non gli hanno creduto. Delle circa 7.500 società censite, il 34 per cento stanno nel Nord Ovest, una su quattro nel Nord Est. La sola Provincia di Trento conta quaranta partecipazioni. Gestisce quattro alberghi – fra cui il mitico Hotel Lido Palace – campi da golf, funivie, masi di montagna e distretti tecnologici. Qualcuno obietterà che occorre distinguere fra chi fa utili e chi non li fa. Sappiamo che molte, troppe, fanno più perdite che utili e che l’unica soluzione per risolvere i loro problemi è un piano industriale per accorpare le più importanti. La chiusura delle Province inizia a dare i suoi effetti, se ieri il presidente di Vercelli, in una lettera piccata a Renzi, ha annunciato «la vendita degli ultimi gioielli di famiglia». A titolo di esempio, è sempre più difficile sostenere che abbia senso per il Comune di Treviglio occuparsi di trattamento degli scarti di legname con la “Ecolegno bergamasca”. L’universo delle partecipate italiane conta 87 società per la pesca e la silvicoltura, 166 si occupano di sport e divertimento, 187 fanno commercio all’ingrosso o riparazione di auto e moto. Altre 149 società si occupano di noleggio, viaggi e di «servizi di supporto alle imprese», 106 di costruzioni, 383 gestiscono hotel e ristoranti. Settori nei quali la crisi non è mai davvero arrivata Eppure nel 2012 la società che gestisce gli impianti sportivi di Cortina è riuscita a perdere più di un milione e mezzo di euro.

Fra le grandi città quella specializzata nel mandare in rosso le società controllate è senza dubbio Genova. Non c’è solo il noto caso dell’azienda dei trasporti, meno di dieci milioni nel 2012 e una privatizzazione bloccata dallo sciopero selvaggio degli autisti genovesi. Nella lista della Corte dei Conti svettano “Sportingenova” – i cui due milioni di rosso sono nulla rispetto ai nove persi da “Milanosport spa” – e i 109mila euro persi da “Bagni marina genovese spa”, la società proprietaria di alcune delle spiagge più belle del litorale. Se c’è un settore in cui far tornare i conti non è difficile è quello delle concessioni. Se poi la concessione è una spiaggia e c’è da gestire ombrelloni e bagnini, per andare in perdita occorre impegno.