alessandro plateroti

La barriera dell’euro e l’abisso incertezza

La barriera dell’euro e l’abisso incertezza

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

In un’Europa divisa e senza leadership, politicamente in stallo ed economicamente fragile, non c’è evento straordinario a cui non venga ormai attribuito un potenziale dirompente per il futuro dell’Eurozona. Che si tratti di crisi geopolitiche, di tensioni finanziarie o monetarie, di elezioni nazionali o di scelte politiche su austerity e riforme, poco importa. Più il destino dell’euro viene messo in gioco, più chi lo fa guadagna: guadagnano denaro gli speculatori di Borsa, come avviene ormai dal 2011 con l’altalena di tassi, azioni e valute, e guadagnano consenso partiti e movimenti antagonisti, che proprio negli slogan contro l’euro e l’Europa hanno trovato ragion d’essere.

In questo senso, gli eventi dell’ultima settimana offrono più spunti di riflessione sia per chi difende l’Unione monetaria sia per chi l’attacca all’origine: in particolare, il quantitative easing della Bce e le elezioni in Grecia. Entrambi gli eventi sono stati caricati di tensione e di significati ben oltre il dovuto, con palesi distorsioni della realtà dei fatti. Da un lato, si è attribuita infatti alla Germania una cinica determinazione nel bloccare la manovra monetaria di stimolo economico e di contrasto della deflazione: bloccando il Qe, è stato il coro, Berlino farà saltare per i propri interessi la Grecia, l’Italia e l’euro, affermandosi come potenza egemonica. Risultato: il sentimento anti-tedesco è lievitato nell’Europa mediterranea, mentre in Grecia ha fornito a Syriza e a Tsipras la spinta decisiva per il successo elettorale. Le cose sono andate però diversamente: non solo Draghi ha ottenuto il via libera al Qe, ma l’entità della manovra – 1.100 miliardi di euro in acquisti di bond sovrani – è andata ben oltre le attese del mercato. Le Borse sono quindi salite, i tassi periferici (a cominciare da quelli dei BTp italiani) sono scesi ai minimi storici e l’euro ha perso terreno sul dollaro, come appunto si voleva. E con la manovra Draghi, ha stimato la Confindustria, il Pil italiano potrebbe mettere a segno un balzo dell’1,8% nell’arco di due anni, mentre per le imprese ci sarà un risparmio di 3,2 miliardi sugli interessi.

È forse questa la dimostrazione del sentimento anti-europeo della Germania? In Borsa non la pensano certamente così, visto il rally degli indici e dei listini europei: per i mercati, il QE non è certo la panacea della crisi e la ripresa economica resta una sfida da vincere con le riforme, ma l’Euro e la sua difesa da parte della Bce sono la vera garanzia a protezione degli investimenti finanziari e produttivi. Se l’Italia sta già beneficiando di questa percezione malgrado la durezza della crisi, è solo perché il mercato non attribuisce ai movimenti anti-Euro la forza per spingere politicamente un ritorno alla lira. Nell’ottica di chi investe, la sfida al rigore non è un delitto: un conto è dare fiducia a un Paese in crisi che chiede meno vincoli e condizioni migliori per tornare a crescere, un altro è investire su una nazione indipendente ma isolata, con una valuta “sudamericana” in balia degli eventi, con scarse possibilità di riaccedere al mercato dei capitali e senza reti di protezione internazionale sui tassi di interesse.

Un discorso analogo vale per la Grecia: se i mercati ieri hanno reagito in modo composto alla vittoria di Tsipras è soltanto perchè hanno capito bene che il leader di Syriza non ha alcuna intenzione di abbandonare l’Euro. I greci non vogliono la Dracma, ma comprensione, solidarietà e migliori condizioni dai loro creditori. I mercati non votano, non sono né di destra né di sinistra, cercano solo garanzie e certezze finanziarie: la Grecia oggi è un fattore di rischio, ma circoscritto, quantificabile e gestibile.

Chi ha attribuito alla Grecia e a Tsipras la volontà di uscire dall’Unione monetaria lo fatto insomma per esigenze politiche nazionali o per rincorrere il vento del populismo. E lo stesso è stato fatto con la Germania. Anche se Berlino e la Bundesbank hanno la propria parte di responsabilità nell’escalation delle tensioni sul voto greco, sarebbe un errore pensare che la Germania o l’Europa siano pronte a espellere Atene dall’Unione monetaria solo perché chiede di rinegoziare le condizioni dei prestiti e dell’austerity. A questo proposito, è bene ricordare che già nel 2012 l’Europa accettò la rinegoziazione dei prestiti alla Grecia proprio per evitare l’uscita di Atene dall’Euro e il rischio di un devastante contagio europeo, sia politico sia finanziario. Perchè ora non si dovrebbe fare altrettanto?

Abbandonare ora la Grecia sarebbe non solo sbagliato, ma in contrasto con lo spirito solidaristico con cui l’Europa sta cercando di ripartire. E d’altra parte, proprio i mercati finanziari sembrano aver capito meglio di altri osservatori politici che non sarà certamente la Germania a mettersi di traverso sul salvataggio della Grecia o sulle manovre di stimolo della Bce. A dirglielo è stata direttamente la Merkel lunedì scorso, nel pieno delle polemiche contro Berlino: «Questa settimana – ha risposto la Merkel alle domande dei giornalisti sullo scontro in Bce – non sarà affatto determinante per l’Europa: tanto il risultato della riunione in Bce sul quantitative easing quanto l’esito delle elezioni in Grecia non rappresenteranno fattori di rottura o di sopravvivenza per l’Euro». E così è stato. Detto questo, è chiaro che i prossimi mesi saranno determinanti per l’Eurozona. Il caso greco, per le sue dimensioni finanziarie limitate, può rappresentare l’occasione giusta non solo per ricalibrare, secondo un principio di equità e di tolleranza, il peso dei sacrifici nei Paesi ancora schiacciati dalla recessione, ma anche una grande opportunità per dimostrare che l’Europa è molto più di un’espressione geografica.

La grande minaccia è l’incertezza

La grande minaccia è l’incertezza

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

«Le banche sono il polmone del sistema economico: se gli si stringe troppo il collo, il polmone si ferma e tutto il sistema collassa». Più che uno scenario, per i banchieri è oggi una certezza: lo stallo dell’economia, il crollo delle Borse e l’avvitamento dei titoli bancari su tutti i grandi listini – e in particolare a Piazza Affari – hanno purtroppo radici comuni.Quali? Risposta scontata: il clima di incertezza che circonda le banche. Tesi di parte o autodifesa che sia, sta di fatto che il mercato finanziario sembra ormai confermare con i fatti quanto le banche paventavano da tempo: il rischio di soffocamento da «stretta regolatoria».

È difficile definire del resto una casualità il fatto che il crollo di Wall Street, Londra, Milano, Parigi o Francoforte sia cominciato proprio con la diffusione dei bilanci trimestrali delle grandi banche internazionali: per gli investitori, la redditività stagnante, il basso rendimento del capitale e quindi gli utili asfittici emersi dai conti dei colossi americani come JP Morgan, Wells Fargo o Citigroup sembrano rappresentare non solo la conferma di uno stallo globale della ripresa economica, ma soprattutto il segnale di una svolta strutturale nel ruolo-guida avuto finora dalle banche nella crescita dei mercati e degli indici azionari.

Per i banchieri non è una sorpresa: tassi di interesse ai minimi storici, economie ancora deboli, domanda di credito che non riparte e soprattutto l’incertezza creata dai crescenti requisiti di capitale e dagli eccessi regolatori si stanno combinando in una miscela esplosiva, pericolosa tanto per il credito quanto per le Borse e il risparmio investito. Se Wall Street è crollata infatti sui bilanci delle grandi banche sistemiche, le Borse europee stanno palesemente tremando sull’incertezza (e la durezza) creata dagli stress test dell’Eba. Il timore di un’ondata di ricapitalizzazioni forzate dopo la diffusione dei risultati il 26 ottobre è infatti generalizzato in tutta Europa, esasperando le illazioni sui sistemi nazionali e sulle banche che saranno più colpiti dall’esito dei test sui bilanci del 2013. Un importante contributo al crollo borsisitico delle banche italiane e quindi di Piazza Affari, per esempio, lo ha dato ieri uno dei più autorevoli quotidiani tedeschi: sul sito online dello Spiegel è apparso infatti un articolo in cui si affermava che l’Italia è fra i paesi che avranno i risultati peggiori dagli stress test sulle banche disposti dalla Bce.

Lo Spiegel, citando fonti anonime «ma ben informate», ha preannunciato che per due-tre Paesi del Sud Europa i risultati saranno molto negativi: «Candidati bollenti – è scritto nell’articolo – sono Italia e Cipro». Risultato: il Banco Popolare ha ceduto l’8,09%, Mps il 7,63%, Bpm il 7,59%, Unicredit il 6,14%, Intesa il 5,85% e Mediobanca il 5,77%. Davanti alle illazioni e a un crollo di tale portata, persino il presidente dell’Abi Antonio Patuelli si è sentito in dovere di intervenire: «Spero che le nostre pagelle siano buone – ha detto Patuelli – ma il vero problema è quello delle regole, della rigidezza e della loro applicazione». Anche in questo caso si può obiettare che quella di Patuelli è solo un’auto-difesa d’ufficio, una posizione che cerca di nascondere le debolezze strutturali di un sistema bancario che non ha completato la pulizia dei bilanci e deve ancora affrontare un ineludibile processo di ristrutturazione. Ma l’analisi sarebbe riduttiva. I timori e le incertezze create dalla stretta regolatoria che rischia di soffocare le banche italiane sono gli stessi che gravano sui colossi globali del credito e soprattutto sulle cosiddette banche sistemiche, un gruppo in cui l’Italia è rappresentata solo da Unicredit.

Ebbene, le proposte di revisione dei requisiti di capitale in via di definizione da parte del Financial Stability Board e dal Comitato di Basilea sulla Supervisione bancaria sono talmente ampie e confuse da aver creato un destabilizzante clima di incertezza, tanto per le banche quanto per il mercato. Senza entrare troppo nel dettaglio, basti pensare che l’Fsb ha fatto circolare delle bozze in cui si ipotizza di elevare tra il 16% e il 20% il «core tier one» dei colossi del credito (è il cuscinetto di capitale necessario per assorbire perdite impreviste). Sembrano pochi punti, ma quando si parla di migliaia di miliardi il risultato finale cambia radicalmente: con la soglia del 20%, le banche globali avrebbero un deficit patrimoniale di 870 miliardi di dollari, con quella del 16% di 375 miliardi di dollari. Per i banchieri, come per gli investitori, la forbice dell’incertezza comincia qui. E da qui comincia la caduta dei mercati.

Il credito riparte quando c’è crescita

Il credito riparte quando c’è crescita

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

Il primo colpo di bazooka contro la crisi è andato a vuoto: l’asta Bce dei prestiti agevolati per riattivare l’erogazione del credito in Europa è andata ben al di sotto delle aspettative, creando così seri interrogativi sull’efficacia della manovra per favorire la ripresa manifatturiera e sulla necessità di interventi monetari più radicali. Se le banche hanno chiesto infatti meno del previsto – 82,6 miliardi a fronte di aspettative per quasi 150 miliardi di euro – significa che le tensioni e le incertezze che si vedono ancora all’orizzonte, soprattutto sul fronte economico, rendono del tutto superflua un’ulteriore provvista di liquidità da riservare all’attività di lending per le piccole e medie imprese: senza la domanda, la maggiore offerta ha poco senso.

L’asta Tltro ha messo a disposizione delle banche quasi 400 miliardi di qui al 2016, da rimborsare in quattro anni. E l’ha agganciata a una condizione ben precisa: se la banca non utilizza il prestito per aumentare le erogazioni alle piccole e medie imprese non finanziarie, dovrà restituire l’intero ammontare entro due anni. Una condizione “tagliola”, questa, voluta espressamente dallo stesso Mario Draghi per scoraggiare il ricorso ai prestiti di Francoforte solo per poi acquistare titoli di Stato: «I prestiti – ha detto a chiare lettere Draghi – devono essere contratti solo per finanziare l’economia reale». Se l’intenzione e gli obiettivi dell’operazione erano (e sono) dunque buoni – in Inghilterra la ripresa del credito si deve proprio a una manovra analoga lanciata dalla Bank of England (loan for lending) – resta da capire perchè le banche dell’Eurozona non si siano presentate in massa allo sportello.

Anche se conclusioni più certe e definitive sulla partecipazione delle banche al programma per le pmi si avranno non prima di dicembre, quando scatterà la seconda delle 6 aste Tltro programmate dalla Bce per un totale di 400 miliardi, l’esito dell’assegnazione di ieri non è stata del tutto una sorpresa nemmeno a Francoforte: non solo perchè l’asta è caduta proprio alla vigilia della pubblicazione degli stress test sui bilanci bancari – un esame che mette in tensione le banche e le spinge alla prudenza – ma soprattutto perchè è ormai da tempo che la stessa Banca centrale europea va ripetendo che le manovre sulla liquidità servono a stabilizzare il mercato finanziario, ma possono fare poco o nulla per rilanciare l’economia europea e soprattutto quella dei paesi periferici dell’Eurozona la cui ripresa (anche in termini di investimenti esteri e di fiducia dei mercati) molto dipende dalle riforme strutturali, dal varo di efficaci politiche industriali e soprattutto dalla capacità della classe politica europea di rispondere con nuove politiche di bilancio più flessibili alle sfide di una crisi che non si può più nemmeno definire a macchia di leopardo.

Il non aver affrontato per tempo la crisi industriale e occupazionale in Paesi chiave dell’Unione Europea – come per esempio l’Italia – ha generato infatti una sorta di effetto-domino sulle economie circostanti, fino a ostacolare la ripresa in paesi-guida come la Germania o a peggiorare situazioni già in bilico come quella francese. Ora che lo stallo dell’economia europea è chiaro a tutti – come confermano i recenti allarmi di tutte le organizzazioni economiche e finanziarie internazionali, dall’Fmi all’Ocse fino all’Eurotower di Mario Draghi – il vero nodo della questione è che cosa farà Bruxelles sul fronte politico per dare peso, sostanza e prospettive alla manovra di stimolo monetario appena avviata da Francoforte. Qui non si tratta più solo di discutere i margini di flessibilità fiscale che ogni Paese ha il diritto di avere per fronteggiare una crisi economica, ma di fare almeno tre passi in più: dare un ruolo alla Commissione nel decidere piani di intervento di sostegno straordinario per i casi di crisi industriale più acuta a livello nazionale o regionale, aumentare il bilancio della Ue per dotarlo di risorse ad hoc da utilizzare nel sostegno dell’occupazione laddove le crisi industriali hanno superato il livello di guardia. Non ultimo, rivedere il sistema di regole sulla stabilità del mercato finanziario e dell’industria bancaria per ridurre, se non temperare, quelle norme chiaramente pro-cicliche che hanno costretto le banche di ogni tipo e dimensione a stringere il credito per sostenere (o evitare) drastici interventi di ricapitalizzazione e pulizia dei bilanci.

Oggi per una banca è estremamente oneroso non solo detenere partecipazioni azionarie nelle aziende – fenomeno tipico dei mercati come il nostro in cui il ruolo del mercato dei capitali è stato tradizionalmente svolto dal settore bancario – ma anche erogare credito alle piccole e medie imprese, che sono non a caso le più colpite dal credit crunch. Secondo i parametri di Basilea 3, la banca che presta soldi a una piccola azienda la cui solidità o patrimonializzazione non è eccellente (e quale Pmi non si trova oggi in questa situazione?) è costretta a effettuare accontamenti che si avvicinano ormai alla stessa entità del prestito: a che serve allora dotarsi di liquidità aggiuntiva? In conclusione, il flop dell’asta Tltro è in realtà un messaggio molto chiaro lanciato dalle banche ai governi e alle istituzioni europee: la liquidità è utile per sostenere il mercato finanziario, per uscire dallo spettro della deflazione e per rafforzare il patrimonio del settore creditizio attraverso gli acquisti di titoli di Stato. Ma se l’obiettivo è quello di rilanciare l’economia, serve molto di più del denaro facile: servono politiche industriali per indirizzare gli investimenti delle imprese, serve un’Europa più consapevole dell’interdipendenza che lega i destini – e le economie – dei suoi stati membri.