alluvione

Alluvionati e tassati

Alluvionati e tassati

Il Foglio

Chirurgici come cecchini ieri Libero e Panorama hanno assestato un colpo ferale all’idea governativa di creare un sistema assicurativo universale contro le calamità naturali: pagherete altre tasse. Ai vertici dell’esecutivo, in realtà. non c’è chiarezza sul da farsi. Le dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio – “si ragiona sull’ipotesi di un”assicurazione obbligatoria” – sono da leggere come voce dal sen fuggita che le truppe renziane a Palazzo Chigi si sono affrettate a smentire: “Non c’è alcuna ipotesi, siamo contrari a nuove tasse, non ci sarà un`altra Imu”, riporta il sito formiche.net. La proverbiale pezza più grande del buco: pronunciare la parola “tasse” in questo ambito e un boomerang, per di più fuorviante.

Un’assicurazione universale obbligatoria o semi-obbligatoria – se ne discute da vent’anni – non comporta necessariamente un aumento della pressione fiscale. Dipende dal criterio, ma in linea di principio si tratta di spalmare il rischio catastrofale sulla totalità dei cittadini col risultato di abbassare il costo medio della polizza per tutti (e magari renderlo deducibile dalla dichiarazione dei redditi). Sono oltre l’80 per cento i Comuni a rischio e, secondo l’Associazione delle imprese assicuratrici (Ania), assicurare un’abitazione di 90-100 mq costerebbe in media 100 euro l’anno.

Ovvio ci sono obiezioni (perché chi abita in Brianza dovrebbe pagare chi dorme sotto il Vesuvio?), controindicazioni (chi garantisce che i premi non aumenteranno senza controllo?) e perplessità (è comprensibile la diffidenza verso le assicurazioni nel paese meno assicurato d’Europa dove il costante rincaro dell’obbligatoria Rc Auto è odioso e odiato). Tuttavia sarebbe un sistema basato sulla mutualità sperimentato in ventuno paesi industrializzati: pagare tutti per pagare meno e soprattutto ricostruire in fretta. E poi la riscossione del premio è certa e puntuale. Se vogliamo parlare di tasse e calamità allora guardiamo ai balzelli delle accise sulla benzina. Aumentate sempre ma senza criterio all’indomani dei terremoti: soldi dei cittadini “motorizzati” che non hanno sistemato né L’Aquila né l’Irpinia. “Se finora la politica non s’è mossa – dice al Foglio Antonio Coviello, esperto di assicurazioni del Cnr – forse è perché sul fiume di soldi pubblici elargiti per le calamità non c’è controllo e fa comodo a molti. Il problema è che i soldi sono finiti”.

L’acqua e le balle

L’acqua e le balle

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Ha ragione Renzi: i danni provocati dal maltempo sono da mettere in conto alle regioni. Dico di più: sono il triste epitaffio sul miraggio federalista che per oltre vent’anni ha illuso (quasi) tutta l’Italia. Il “dissesto idrogeologico” non è l’espressione della lotta tra la “natura buona” e “l’uomo cattivo” (Elefantino docet), quanto la condizione prodotta dai mancati interventi di ordinaria prevenzione del territorio (a cominciare dall’assicurazione anticatastrofale) da parte di tutti, ma che più di tutti e imputabile alle regioni. Il malinteso “decentramento”, tra l’altro inadatto all’Italia, che pretendeva di avvicinare il potere ai cittadini e snellire le decisioni, nella realtà ha aumentato gli sprechi, coltivato la già enorme diffidenza degli italiani verso le istituzioni, e, soprattutto, moltiplicato i diritti di veto che ci paralizzano.

Dietro lo psicodramma delle “bombe d’acqua” c’è, infatti, l’ennesima evidenza nella lunga storia dei fallimenti del localismo da campanile che abbiamo chiamato pomposamente federalismo. Come dice Renzi, le regioni non hanno concorso a stilare piani strategici unitari, hanno guerreggiato tra di loro e verso lo Stato centrale su competenze e poteri, hanno speso meno di un quarto dei soldi a disposizione dal 2009, avviando solo il 22 per cento delle opere programmate per la messa in sicurezza del territorio. Certo, non tutto le regioni sono uguali, ma nel complesso il risultato è disastroso. A monte c’è, ovviamente, la responsabilità di una politica nazionale debole, che ha cercato nel decentramento regionale una stampella. Per esempio, sempre per rimanere nel campo della tutela del territorio, fu una follia, anche solo semantica, la divisione delle competenze operata dal Titolo V nel 2001 tra la “tutela dell’ambiente“, affidata in via esclusiva allo Stato, e il suo “governo”, in concorrenza tra stato e regioni. E cosi, poiché ogni regione ha potuto dire la propria, le 120 “grandi opere” necessarie nel 2001 sono diventate oggi 403, con un aumento del 210 per cento dei costi e il nefasto effetto per cui, di fronte a troppe priorità, non c’è nessuna priorità. Inoltre, si potrebbe fare un lungo elenco di infrastrutture di interesse nazionale bloccate per decenni dai veti degli enti locali (di questi giorni l’assurdo diniego trentino contro la Valdastico Nord).

Il Titolo V ha creato terreno fertile per le gelosie e le incompetenze della politica da campanile. Già negli anni passati, i governi hanno nominato alcuni commissari, ai quali pero le regioni hanno ostacolato il lavoro. Adesso, con l’istituzione dell’Unità di Missione contro il dissesto idrogeologico e l’unifìcazione della figura del commissario con quella del governatore, stiamo assistendo a qualche passo avanti, ma eliminare solo un ramo di una pianta che è malata fin dalle sue radici non rappresenta certo la soluzione definitiva. Non è populismo anticasta sottolineare che per la “protezione della natura e dei beni ambientali” le regioni spendono quanto per le indennità di consiglieri e assessori (1,1 miliardi l’anno). Con un andamento tendenziale amaramente inverso: in 4 anni le spese per giunte e consigli sono cresciute del 26 per cento, quelle per l’ambiente diminuite quasi del 39 per cento. Le tasse regionali, poi, dal 2001 a oggi, sono passate da 47 a 81 miliardi, andando a coprire la crescita del 40 per cento della “spesa corrente”, mentre gli investimenti diminuivano dell’1l,3 per cento. Inoltre, le spese in conto capitale dei Comuni sono scese dai 44,1 miliardi del 2009 ai 27,7 del 2013 (-37,1 per cento). Per di più, le Regioni non sono in grado di garantire i cofinanziamenti necessari a liberare i miliardi dei fondi strutturali eiuopei.

Ma se oggi è il combinato disposto tra la mancata tutela dell’ambiente e il blocco delle opere, grandi e piccole, a inchiodare le Regioni a un clamoroso fallimento, tra i capi d’imputazione non è certo da meno la sanità. Perché “nonostante l’efficienza non sia aumentata. con il trasferimento delle competenze alle regioni la spesa sanitaria è esplosa” (Lorenzin dixit). Di quasi il 33 per cento per l’esattezza, pari a 56 miliardi in più in 10 anni. Se le Regioni sono in decadenza, come conferma anche la decrescente affluenza elettorale alle elezioni locali (che sarà confermata domenica in Emilia Romagna e Calabria) e le Province sono assolutamente prive di legittimità, anche i Comuni non se la passano bene, visto che degli 8.100 esistenti ben 479 hanno dichiarato il dissesto finanziario.

La lista delle responsabilità del federalismo è lunga. ll Patto del Nazareno, su cui si regge questo governo, aveva tra le sue priorità anche la Riforma del Titolo V. Oggi sarebbe sufficiente solo a rimetterci una pezza, mentre qui serve “cambiare verso”, per dirla renzianamente. Ci vuole una rivoluzione: abolire le Regioni autonome e tutte le Province; accorpare i Comuni sotto i 15 mila abitanti; cancellare i soggetti secondari, dalle comunità montane agli enti di bacino. E le Regioni? Come minimo devono ridursi a sette e perdere le competenze sanitarie. Ma non mi straccerei le vesti se si decidesse che debbano essere proprio le Regioni a dover sparire del tutto. Speriamo solo che bombe d’acqua non abbiano colpito le buone intenzioni.

Tra cataclismi e scontri sociali

Tra cataclismi e scontri sociali

Stefano Biasioli – Segretario Generale Confedir

“Piove, governo ladro”.
Da 2 mesi a questa parte, non piove ma diluvia. Esondano fiumi e fiumiciattoli; la terra smotta e distrugge case e persone. Bombe d’acqua su bombe d’acqua. Acquazzoni mai visti, per durata ed intensità. Lo sappiamo. Da decenni a questa parte, governi su governi, amministrazioni regionali e locali hanno fatto strage del territorio: in montagna, in collina, in pianura. Non solo non hanno programmato ed attuato la doverosa manutenzione dei corsi d’acqua (fiumi, torrenti, rii, lagune, laghi) ma hanno consentito di costruire in zone a rischio di alluvione. Hanno permesso la costruzione di case sul greto dei torrenti (Genova e dintorni) e sopra risorgive (Caldogno-Vi; Ospedale di San Bonifacio-Vr). Poche citazioni, per tutte. Il discorso è identico per l’intero Paese: Nord, Centro e Sud.
Pur di costruire, pur di muovere soldi (bianchi e neri) le amministrazioni pubbliche hanno concesso di tutto, fino a pochi anni fa. Ma ora è tardi. Il cambiamento del clima e le piogge “equatoriali” di questi mesi hanno fatto il resto. Il Po era stranamente alto in Agosto; immaginatevi ora, con i suoi affluenti di destra e di sinistra strapieni. Dora Riparia, Dora Baltea, Ticino, Adda, Oglio, Mincio……A memoria, ce li facevano imparare. Ora le cronache televisive ce li mostrano “arrabbiati, tumultuosi, pieni di materiale vario…..che arriva da Nord”. Conosciamo la litania: “Non ci sono soldi per pulire i corsi dei fiumi…”. Abbiamo sprecato tanto, nei tempi del consociativismo catto-comunista, del craxismo, del berlusconismo, del prodismo. Abbiamo sprecato e violentato la natura.
Ora ne vediamo le conseguenze. Il mio povero nonno Angelo (famoso ispettore forestale veronese, quello che ha rimboscato l’alta Val d’Illasi) ripeteva a me bambino (tenendomi sulle ginocchia):”Stefanino, ricordati che la natura va rispettata. Se non lo fai, si vendica…per rimettere in ordine le cose…”. Non ci si difende dalle esondazioni con i soli muraglioni, ma soprattutto pulendo i corsi d’acqua. Non si evita l’acqua alta con il faraonico Mose (80 maxi-paratie meccaniche) ma pulendo, ciclicamente i canali di Venezia. E cosi’ via. Una sola cosa avrebbe dovuto fare il governo Renzi, invece di impigliarsi sull’articolo 18. Avrebbe dovuto finanziare un “Piano Fanfani” (i piu’ vecchi se lo ricordano!) non per l’INA-casa ma per la sistemazione del dissesto idrogeologico in un paese, il nostro, che dovrebbe vivere di turismo e di cultura. Non l’ha fatto, Matteo. E la natura gli si ritorce contro, con una continuità mai vista prima. E siamo solo in autunno. Cosa succederà, se nevica in modo altrettanto pesante ? “Matteo, il boy-scout, porta sfiga”. Dopo la cacciata di Mazzarri, questo motto si sta diffondendo.
Ritorna il sessantotto.
Le cronache di questi giorni sono piene di notizie su cortei e scontri. Allo sciopero sociale organizzato dalla CGIL e dai Cobas si sono sovrapposti, in tutta Italia (in almeno 50 città) scontri con la polizia, da parte di esponenti della cosiddetta frangia antagonista: no-global, centri sociali, studenti. “Scontri sociali” li hanno definiti. Decine di feriti, soprattutto tra le forze dell’ordine. Non spetta a Noi fare la cronaca dettagliata dei fatti e dei fattacci. Ci sia permessa una riflessione veneta, da estendere pero’ al paese. 44 anni fa, a Padova, tutto incomincio’ dalle parti della Facoltà di Lettere e di Scienze politiche. Dal regno di Toni Negri e dintorni. Il 14 novembre 2014 l’episodio più grave è avvenuto a due passi dalla Facoltà di Lettere. Il passato ritorna. La novità, caso mai, è racchiusa da un particolare: gli scontri sono avvenuti perché gli autonomi volevano occupare la sede del PD.
Ovvie le dichiarazioni ufficiali. “Solidarietà alle forze dell’ordine….Non ci faremo intimidire…” (Massimo Berrin, Segretario Provinciale PD)…”Nella confusione fratricida della sinistra, ci rimettono la polizia e la città…”(Maurizio Sala, assessore di Bitonci)….”Hanno vinto loro, i professionisti del disordine” (Gessica Stellato, M5S). E’ già nato un leader: Zeno Rocca, 23 anni, veronese, attivista del centro sociale Pedro, iscritto a Legge. Un cambio generazionale, forse. Quello che si è visto a Padova, Milano, Roma, Napoli, Pisa, Palermo è forse qualcosa di nuovo. Qualcosa che rimanda, per alcuni aspetti, al sessantotto. In strada c’erano le sigle degli studenti, medi ed universitari; c’erano gli antagonisti (centri sociali ed anti TAV ), c’era l’Adl Cobas e Cobas scuola: il sindacato forte nei centri della logistica e delle spedizioni, nelle cooperative sociali e nei servizi. Quelli che il pubblico ha regalato al privato. In altre parole: c’erano gli antagonisti; c’erano i precari; c’era il precariato spinto. I nomi degli antagonisti? Pedro, Bios, Collettivo di Scienze Politiche, Gramigna, Rivolta, Sale Docks, Bocciodromo, Arcadia, Django, Casa dei Beni comuni. Uno o piu’ di uno, per ogni provincia veneta.
“Una giornata di sciopero sociale”, ha detto uno che se ne intende: Beppe Caccia, protagonista nei movimenti sociali di 20-30 anni fa. “L’assenza di prospettive e di speranza ha riunito i disperati nelle piazze”. “Padova,città aperta”, ha detto uno di loro. Padova come laboratorio per riunire le varie forme di lotta e di rivendicazione sociale.  Ecco, ci siamo. La prolungata crisi economica, il precariato spinto, la disoccupazione hanno – alla fine- portato alla coagulazione di forze eterogenee. Che non si accontenteranno delle sceneggiate televisive del premier fiorentino ma chiederanno, chiedono già da ora, risposte certe, diritti, lavoro, reddito. “Botte: governo ladro!”. Chi non ha lavoro ha perso la pazienza. Non siamo convinti che Renzi capisca. Non siamo convinti che questo Governo, questa politica, questi sindacati siano in grado di dare una seria prospettiva al Paese.
È la pioggia che va

È la pioggia che va

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Scorrono cicliche le stagioni e come ogni autunno ci ritroviamo a piangere sul latte versato della pioggia che cade, dei fiumi che esondano, delle città che si allagano. Nonostante la moderna ossessione del “rischio zero” abbia creato neologismi terrorizzanti e prodotto allarmismi preventivi dal sapore paternalista – come ha testimoniato con efficacia Piero Vietti su queste colonne – perdura comunque immutata la totale assenza di concrete azioni a tutela del nostro territorio. Il che significa assoluta mancanza di investimenti che, oltre a mettere in sicurezza il territorio, alimenterebbero crescita e occupazione.

Nella lotta al dissesto idrogeologico il governo ha annunciato di aver già sbloccato dai patti di stabilità degli enti locali 2,3 miliardi, a cui si aggiungono i 5 che il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha promesso di stanziare entro il 2020. Bene, ma rischiano di non essere sufficienti. Per tre ordini di ragioni. Primo, perché è necessario superare la logica spot-emergenziale e gli interventi a macchia di leopardo. Secondo, anche quando i soldi ci sono, non è detto che siano usati, come testimonia il caso del Bisagno a Genova, per il quale i lavori di risistemazione della parte interrata sono stati bloccati, more solito, dai ricorsi giudiziari delle aziende che perdono i bandi di gara. O come dimostrano i 50 milioni di euro fermi nelle casse del Comune di Olbia nonostante i 18 morti del 2013 siano ancora freschi. Terzo, la spesa pubblica italiana è subordinata agli stretti margini di bilancio dei vincoli europei, con il rischio che, di fronte alla mancata inversione (probabile) del ciclo economico, i primi tagli saranno proprio alla voce investimenti in conto capitale, come del resto avviene da anni.

Gli effetti del surriscaldamento globale – con le piogge intense aumentate del 900 per cento in due decenni e la temperatura media della Terra cresciuta di 0,84 gradi in 100 anni – sono un fenomeno risolvibile solo nel lungo periodo e con una strategia globale. Soprattutto, mentre le calamità naturali ci sono sempre state nella storia dell’umanità, lo sfruttamento del suolo senza la minima considerazione dell’equilibrio dell’ecosistema negli ultimi decenni ha reso il territorio italiano assai fragile, così che a ogni acquazzone torniamo a parlare di tragedie.

Di fronte a queste condizioni naturali e artificiali e con il 68 per cento delle frane europee che si verifica nel Belpaese, il governo dovrebbe utilizzare le poche settimane che restano del semestre di presidenza europea per fare almeno qualcosa di utile: lanciare una proposta per escludere dai parametri Ue un piano di investimenti continentale che, oltre a salvare vite umane, patrimonio ambientale, centri abitati e zone industriali, stimoli la ripresa della stagnante economia europea. Insomma, un piano federale, in cui coinvolgere i privati con il project financing, che testimonierebbe l’unitarietà dell’Europa, per la prima volta dopo la nascita dell’euro e al di là delle imposizioni del rigore finanziario.

Certo, l’Italia non può certo permettersi di aspettare né il Godot dell’integrazione europea, né anche solo un piano comunitario per la tutela del territorio, visto che nel nostro paese quasi 9 Comuni su 10 sono classificati ad alto rischio e negli ultimi dieci anni lo Stato ha sostenuto spese per 33 miliardi di euro per mettere riparo – spesso malamente – alle conseguenze di eventi naturali. Una somma enorme che, se fosse stata spesa prima, avrebbe evitato danni e vittime. Adesso, però, invece di attendere inermi, perché non dotarsi, come tutti i paesi civili, di un’assicurazione obbligatoria sui rischi catastrofali per le case, che costerebbe ai proprietari in media 1 euro al metro quadro ma che permetterebbe ai contribuenti un risparmio di 3,3 miliardi l’anno?

Al riguardo ha spiegato bene la Consap – società controllata dal ministero dell’Economia che svolge servizi assicurativi pubblici volti alla copertura dei “rischi della collettività” – che tali polizze esistono in Francia, Stati Uniti, Giappone, Messico o Turchia e che, attraverso l’istituzione di un Fondo di garanzia (come quello in ambito Rc Auto) si risparmierebbe a regime almeno 1 miliardo l’anno. Il nostro è uno dei pochi paesi dove a coprire tutti i danni, sia pubblici che privati, e solo lo Stato, mentre altrove esiste spesso un sistema pubblico-privato, con un’assicurazione obbligatoria o semi-obbligatoria contro le calamità. Se le compagnie non dovessero accettare per gli alti rischi, lo Stato potrà dotarsi (come in Francia e Spagna) di una società di riassicurazione pubblica che offre alle compagnie la possibilità di tutelarsi a un tasso fisso, oppure affidarsi alle società di “re-insurance” specializzate in questo tipo di polizze. Tra poco finirà il semestre europeo: tra una “bomba d’acqua” e l’altra, invece di piangere sul latte versato, diamo un segno di vita in Europa, dopo aver fatto i compiti a casa, please.

Genova, dopo il fango la beffa delle tasse

Genova, dopo il fango la beffa delle tasse

Teodoro Chiarelli – La Stampa

Il 15 ottobre, con Genova in ginocchio nel fango per l’alluvione di quattro giorni prima, un comunicato della Presidenza del Consiglio annuncia l’impegno del governo a chiedere al ministro dell’Economia e delle Finanze Pietro Carlo Padoan di disporre il differimento dei termini del versamento dei tributi statali nelle zone interessate da calamità alluvionali. Impegno accompagnato da tanti «non vi lasceremo soli» e dalla celebrazione consolatoria degli “angeli del fango”. E se “il governo si impegna” c’è motivo di dubitare del contrario?

Errore. Come insegna Fabrizio De Andrè (“Don Raffae’”), «lo Stato che fa, si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità». Molti sostituti d’imposta, ossia datori di lavoro – alluvionati e no – non effettuano il versamento delle ritenute Irpef. Mal gliene incoglie. Il 20 ottobre arriva il decreto del Ministero dell’Economia e salta fuori che l’adempimento andava, invece, regolarmente effettuato. Il solito pasticcio burocratico all’italiana? Sì, ma non solo. Le associazioni di industriali, commercianti e artigiani si rivolgono alla Direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate per tentare di dirimere la vicenda. Martedì 4 novembre, giornata delle Forze armate, la risposta che al danno unisce la beffa: chi non ha versato i contributi non solo dovrà subito regolarizzare la propria posizione a mezzo di «ravvedimento operoso», una sorta di autodenuncia, ma dovrà anche versare una sanzione.

E le promesse, gli impegni, la solidarietà e la vicinanza? Niente da fare: pagare. Camera di Commercio, Confindustria Genova, Cna, Confcommercio, Confesercenti, persino l’Ordine dei consulenti del lavoro non hanno neppure la forza di ribellarsi. Restano inebetiti e sconcertati. Prendono carta e penna e scrivono una lettera aperta al premier Renzi, al governatore Claudio Burlando e al sindaco Marco Doria. «Riteniamo inaccettabile che le imprese debbano subire, oltre il danno causato dagli eventi alluvionali, anche le conseguenze di un inconveniente sorto al livello delle massime cariche di Governo». Chiedono un intervento presso il ministero dell’Economia e delle Finanze: «Per trovare tempestivamente una soluzione che non penalizzi ulteriormente il tessuto economico della nostra città». A proposito: «A oggi, non si è avuto ancora il riconoscimento dello stato di calamità per Genova e non sono state emanate misure specifiche da parte del Ministero del Welfare in merito agli adempimenti contributivi delle imprese alluvionate».

L’ultima beffa agli alluvionati: “Tasse rinviate di un giorno”

L’ultima beffa agli alluvionati: “Tasse rinviate di un giorno”

Stefano Filippi – Il Giornale

Medaglia d’oro e menzione d’onore al prefetto di Genova, che con alta sensibilità e vicinanza alla popolazione colpita dall’alluvione ha concesso ai cittadini, vessati dalle tasse almeno quanto dal maltempo, un rinvio per pagare le cartelle esattoriali di Equitalia. Una dilazione significativa, congrua, adeguata al dramma che la città vive da giorni: 24 ore. Insediatasi il 1° ottobre scorso (ha lasciato Imperia per volontà del ministro Alfano), il prefetto Fiamma Spena non ha voluto mancare l’occasione per manifestare tutta la sua solidarietà ai genovesi. Non poteva trovare modo migliore per presentarsi a loro.

Il decreto porta la data del 12 ottobre, domenica. Tiene conto dell’«emergenza in atto connessa agli eventi alluvionali» e del fatto che «la situazione di Allerta 2 si protrarrà fino alle ore 23.59 di lunedì 13 ottobre»: i tecnici dell’Arpal (Azienda regionale per la protezione dell’ambiente ligure) non saranno abilissimi nel preavvertire la popolazione dei disastri incombenti, ma sono dei fenomeni nelle previsioni. Calcolano al minuto quando le nubi si schiuderanno sul cielo di Genova. Dalla mezzanotte sarà davvero un altro giorno.

E così i contribuenti che il giorno 13 avrebbero dovuto saldare le cartelle esattoriali, esaurita la perturbazione, la mattina del 14 (cioè ieri) non avevano più scuse per non versare il dovuto a Equitalia. La quale, tramite il direttore centrale sicurezza, aveva rivolto al prefetto Spena una «richiesta in tal senso per le vie brevi», cioè senza troppi protocolli. Una telefonata, forse una mail. Ma che bontà d’animo, che attenzione per gli sfollati. Ventiquattr’ore di slittamento. Una beffa per gli alluvionati, come se nel volgere di una giornata tutto possa tornare alla normalità e la gente abbia già voltato pagina, pronta a pagare le tasse. Ventiquattr’ore di proroga, la classica soluzione burocratica che consente di proclamare: «Non è vero che non abbiamo fatto niente per alleggerire i disagi». Genova è ancora sommersa dal fango, la gente impugna ancora i badili per liberare case, strade e negozi, la pazienza sta raggiungendo il limite. Ma la pazienza dei genovesi è sfidata da quest’ultimo schiaffo della burocrazia. Lo Stato è incapace di difendere la popolazione, non ha i soldi per il risanamento idrogeologico, quando riesce a finanziare le opere non riesce a completarle perché i ricorsi, i tribunali, la burocrazia impediscono di dare risposte reali ai cittadini. Il sindaco premia i funzionari comunali che dovevano intervenire e l’hanno fatto nel modo che si è visto. Il premier non si fa vedere tra i carrugi e, al solito, promette. Grillo fa retromarcia e pure lui evita di sporcarsi le mani, a differenza degli «angeli del fango».

Una dilazione di un mese sarebbe stata un segnale di svolta. Uno stato finalmente preoccupato delle condizioni del popolo. E avrebbe anche obbedito al buon senso. Che cosa sarebbe successo se l’Allerta non fosse rientrata? Vista la tempestività con cui (non) vengono diramati gli avvisi, non era un’eventualità così improbabile. Il prefetto avrebbe diramato una seconda ordinanza alle 23:59 e 10 secondi di lunedì notte? Come avrebbe potuto avvertire la cittadinanza? Non era il caso di fissare subito un termine più ampio, in modo che i contribuenti attesi alle forche caudine di Equitalia avessero tutto il tempo di provvedere una volta terminata l’emergenza? No, il rappresentante del governo ha stabilito che il rinvio di un giorno fosse adeguato. E i genovesi, che finora hanno sperimentato l’incapacità dello stato di mettere il territorio in sicurezza, ora sanno che andrà ancora avanti così.