angela merkel

Sfiduciati

Sfiduciati

Davide Giacalone – Libero

L’immagine della locomotiva, riferita alla Germania, fa deragliare molti ragionamenti. In qualche caso, negli ultimi anni, oltre a non trascinare nessuno la Germania è stata trainata. Tenerlo presente aiuta a capire i dati sul calo della fiducia (indice Ifo), da parte delle aziende tedesche: è il quarto ribasso consecutivo e, per giunta, ci si aspettava il calo di un punto (a 107 da 108 di luglio), invece è stato di un 1,7 (106,3). Posto ciò, e prima di guardare dentro al problema, meglio non dimenticare che il prodotto interno lordo tedesco è previsto in crescita di un punto e mezzo, alla fine del 2014, avendo perso mezzo punto rispetto alle previsioni di inizio anno. Noi, invece, abbiamo perso di più (0,6-0,7), rispetto alle previsioni del governo, e chiuderemo a zero o a zero più un nulla, in quel caso festeggiando il non avere chiuso in negativo. Così, giusto perché non sfuggano le differenze, ingigantite dai dati del passato prossimo.

Torniamo alla locomotiva. La Germania sarebbe effettivamente tale se i suoi consumi interni trascinassero le esportazioni di altri paesi europei. Ma non è così. Il modello tedesco, negli ultimi anni, s’è retto su tre pilastri: a. riforme del mercato interno, per rilanciare la competitività; b. basso costo per l’accesso ai capitali; c. esportazioni verso aree extra Unione europea (in questo incorporando importanti componenti made in Italy). La prima cosa è un loro merito (ed è una nostra colpa stare ancora qui a chiacchierare anziché adeguarci). La seconda è stata un coltellata alla schiena degli altri europei, noi per primi, in parte responsabili del loro disordine finanziario, in parte inchiodati da come l’euro è stato concepito e fin qui realizzato. La terza è un legittimo successo, salvo che ora il mondo s’è fatto meno ospitale, sicché le tensioni rendono meno floridi i commerci. A questo aggiungete che il nuovo governo, che ha sempre Angela Merkel come cancelliere, ma una composizione politica che ora comprende i socialdemocratici, ha deciso di indebolire il primo pilastro, puntando all’aumento dei salari minimi. Mettete assieme queste cose e vi spiegherete perché le aziende tedesche nutrono qualche preoccupazione.

Quel modello, comunque, non era una locomotiva per l’economia Ue. Noi italiani siamo stati vicini alla caldaia, a spalare carbone e consentire al ciuf-ciuf di non ansimare. Lo abbiamo fatto pagando il denaro assai più dei tedeschi. E lo abbiamo fatto finanziando gli europei in grave crisi e, con questo, alleggerendo le banche tedesche dai non pochi errori (e orrori) commessi. Il frutto di questi squilibri lo si sente nel cappio che il debito pubblico stringe attorno al nostro collo, costandoci il doppio del deficit consentito. E lo si vede anche nella bilancia commerciale tedesca, patologicamente e irregolarmente in avanzo. A far da controprova che la locomotiva era un vagone letto.

Nel corso di questa estate si sono lette tante cose, circa le ricette economiche da adottare. L’ingrediente più diffuso è stato la novità. C’è bisogno di idee nuove, s’è detto e scritto. Le ricette nuove sono sempre interessanti, se non pretendono di venderti un cecio con sentore di tamarindo quale pasto completo e sofisticato. Però la cucina ha una sua tradizione di ragionevolezza, destinata al nutrimento con soddisfazione. Supporre che i banchieri centrali o i mumble-mumble economici possano trasformare i debiti in ricchezza e la nullafacenza in produttività, non è da ottimisti, ma da illusi. Noi italiani abbiamo bisogno di cose semplici, benché non facili: lavorare di più, più numerosi, con meno tangente fiscale, avendo meno mantenuti sulle spalle. Rozzo? Certo, ma anche un panino al salame può esserlo, restando più convincente del citato cecio. In Europa, invece, ci si deve decidere: o si sta tutti ai parametri, nel qual caso i tedeschi paghino per i loro sforamenti; oppure ci si decide a ricordarsi che siamo l’area più ricca e produttiva del mondo, sicché si potrebbe provare ad accompagnare la politica, e la democrazia, alla moneta comune.

Non c’è modo che questi problemi si risolvano da soli. Mentre è da sciocchi supporre che qualcuno li risolva per noi.

Perché Berlino non fa i compiti?

Perché Berlino non fa i compiti?

Giorgio Ponziano – Italia Oggi

Non bisogna nascondere i propri problemi sotto il tappeto degli altri. Ma guardare a fondo l’economia tedesca e il sistema pubblico che la sorregge non significa cercare di autoassolversi, poiché il debito italiano rimane un moloch soffocante, può però servire per non restare silenziosi dietro la lavagna. Insomma al tavolo europeo i più bravi vanno lodati ma non debbono barare al gioco. I tasselli del mosaico che fotografa l’altra faccia della Germania provengono da analisi e studi di economisti, giornalisti, ricercatori, tra i quali Patricia Szarvas, Francesco Cancellato, un’èquipe dell’università di Linz, Lucrezia Reichlin, Mario Baldassarri, eccetera. Eccolo, il mosaico.

1. Franco Bassanini, presidente della Cdp, cassa depositi e prestiti, controllata per l’80 % dal ministero dell’Economia, ogni anno emette 320 milioni di euro di obbligazioni e il ministro Pier Carlo Padoan quei soldi li deve contabilizzare nel debito pubblico italiano. In Germania vi è un istituto fotocopia, che si chiama Kfw, Kreditanstalt für Wiederaufbau, anch’esso per l’80% appartenente al governo federale. Emette obbligazioni per finanziare i suoi interventi, l’ultimo anno ne ha emesse per 500 miliardi di euro. Ebbene, di quei 500 miliardi non c’è traccia nel deficit pubblico tedesco perché in Germania vi è una legge che esclude dal conteggio (e quindi dalle tante statistiche sul rapporto debito/pil) le società pubbliche che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato. Avviene quindi che nonostante le due strutture finanziarie siano pubbliche e si tratti di risorse reperite sul mercato con obbligazioni, in un caso è considerato debito pubblico e nell’altro no. Trattandosi di centinaia di miliardi non è cosa da poco.

2. In Italia, non essendoci federalismo amministrativo, tutto finisce nel calderone della finanza pubblica. I deficit di regioni, comuni e province (finché ci saranno) vengono contabilizzati dallo Stato e formano la massa del debito, tanto che si è dovuti ricorrere alla camicia di forza della spending review per bloccare le spese dei comuni e il presidente del consiglio, giustamente, ha annunciato un maggiore controllo anche sulle spese delle regioni, che in genere continuano a sgarrare rispetto al patto di stabilità. In Germania invece c’è federalismo e quindi i 600 miliardi di debito dei länder rimangono nei loro bilanci locali. Anche in questo caso si tratta di una disparità, rispetto ai conti pubblici italiani, difficile da comprendere. È vero che Angela Merkel, comunque preoccupata per il progressivo aumento del deficit dei länder, ha imposto il dietrofront, con l’obiettivo del pareggio dei loro bilanci, ma dovranno tagliare il traguardo nel 2020 e non nel 2015 come invece viene chiesto (e imposto) all’Italia.

3. Nelle classifiche sull’occupazione, la Germania svetta col suo (solo) 5% di disoccupati ma dietro questo dato vi è quello delle persone a rischio povertà, addirittura il 24%. Perché? Perché il 25% dell’offerta di lavoro è costituita dai mini job, lavori part time a basso costo: le statistiche tedesche considerano occupati coloro che hanno un contratto di mini job, in realtà essi hanno contratti di tre mesi, senza alcuna garanzia e la media del salario è 400 euro netti al mese. In molti casi si tratta quindi di una disoccupazione nascosta. Ovvero lo scarto tra il 12,7% della disoccupazione in Italia e il 5% di quella in Germania non è veritiero, la forbice è molto più stretta.

4. L’economia sommersa è una vergogna non solo italiana. In Germania il nero è calcolato dagli economisti tedeschi nel 13% della produzione tedesca, con 8 milioni di lavoratori e 350 miliardi di euro sottratti alle casse dello Stato. Soprattutto nella capitale Berlino, trainata dal poderoso settore dell’edilizia, la diffusione del lavoro nero sembra la regola più che l’eccezione. Né il rigore né i controlli degli appositi uffici tedeschi sono riusciti a rendere meno abnorme il fenomeno. L’aggiramento della legge è uno sport non solo italico.

5. Dopo varie peripezie, in Italia il sistema bancario è oggi privato e con la svolta del Montepaschi è caduta l’ultima roccaforte dell’incesto tra pubblico e privato. Al contrario, in Germania la svolta non c’è stata, il 45 % del sistema bancario tedesco è saldamente in mani pubbliche, comprese le banche regionali, poiché ogni länd ha il proprio istituto di credito. È scontato il fatto che il sistema pubblico tedesco funziona meglio di quello italiano e che la politica è meno invasiva ma rimane da rilevare che i 637 miliardi di crediti quasi inesigibili delle Landesbanken, appunto gli istituti dei länder, sono in ultima analisi sul groppone dello Stato, così come più o meno una cifra analoga pesa sui bilanci delle banche nazionali controllate dallo Stato. Quindi il passivo del sistema bancario pubblico tedesco non compare nel bilancio generale e non concorre al deficit e al rapporto tra debito e pil, eppure si tratta a tutti gli effetti di una passività pubblica. Non solo. Questo controllo del governo sulle banche può in teoria (o in pratica) essere usato per indirizzare politiche finanziarie a favore o contro altri Paesi. Un esempio. Silvio Berlusconi, da presidente del consiglio, rivolge parole volgari alla Merkel? Le banche pubbliche tedesche vendono titoli di Stato italiani, mettono Piazza Affari sotto pressione, lanciano allarmi finanziari: lo spread sale e il paese sotto tiro va in crisi. Si tratta di un uso politico della finanza che non ci sarebbe se l’Ue imponesse la privatizzazione delle banche, com’è avvenuto per altri settori. Ma la Germania non vuole e nulla si muove, mentre l’Italia deve fare i compiti a casa.

6. Si sono svolte anche recentemente aste dei titoli di Stato tedeschi e, come a volte succede, una parte non è stata assorbiti dal mercato primario. Invece di ricorrere al mercato secondario (con tassi più alti e perdita di valore dei titoli) è intervenuta direttamente, per acquistarli, la Bunbdesbank, anche se ciò è espressamente vietato dal trattato di Maastrich. Ma chi ha il coraggio di sgridare la banca centrale tedesca? In questo modo però essa evita la crescita del debito pubblico, una sorte a cui invece vanno incontro gli altri Paesi, che rispettano il trattato.

7. L’Italia si sta svenando per rispettare il six pack, cioè le sei direttive concordate nel 2011 che prevedono che un Paese non debba registrare un passivo superiore al 3% del pil e un surplus (export meno import) di oltre il 6%. La Germania è negli ultimi 5 anni largamente al di fuori di quest’ultima percentuale e se ne infischia. Il suo avanzo è attorno al 7% del pil e secondo il six pack avrebbe dovuto essere sanzionata, invece niente, mentre per noi il 3% è sacro e i tedeschi ce lo ripetono ogni giorno. Due pesi e due misure, che fanno crescere le ingiustizie e le differenze tra i sistemi economici degli Stati.

8. Infine l’Ocse. Avverte la Germania: oggi il vento soffia a favore (anche se da marzo si registra un rallentamento) ma attenzione al futuro. Dormire sugli allori può essere pericoloso. L’invecchiamento demografico, l’enfasi eccessiva sull’export, la bassa crescita della produttività, la scarsa concorrenza interna nel settore dei servizi, la burocrazia efficiente ma tentacolare sono nodi che la Repubblica Federale deve affrontare e risolvere per il suo bene ma anche per quello dell’Europa.