articolo 18

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Non c’è solo il patto del Nazareno a dettare tempi e condizioni del cambiamento. In economia è l’accordo raggiunto tra il premier ed i n. 1 della FCA, Sergio Marchionne, a imporre il ritmo di marcia. Patto di Detroit, si potrebbe chiamare l’intesa siglata tra il boyscout di Firenze e il manager italo-canadese. Un’intesa che punta dritta al cuore dei problemi italiani: far saltare tutti gli intermediari ormai inutili, oltre che eccessivamente costosi, nella gestione dell’economia contemporanea. E tra questi c’è sicuramente la Confindustria, dalla quale Marchionne è già uscito da un paio di anni.

La lobby confindustriale, così come è ancora organizzata, non serve più perché è solo un frenatore del cambiamento e un luogo per parrucconi desiderosi di comparsate a Ballarò o da Bruno Vespa. La velocità del business vero è altrove, non più, da anni, in Viale dell’Astronomia. Così Renzi e Marchionne hanno deciso di procedere all’unisono per rottamare Confindustria. Su art. 18, tfr in busta paga, sul primato della contrattazione aziendale per rilanciare la produttività, sulla lotta all’Irap, sulle molte riforme nell’agenda del governo l’amministratore delegato della Fiat sarà al fianco di Renzi. L’obiettivo è quello di dare all’Italia un capitalismo moderno, con relazioni meno intermediate da poteri sempre meno rappresentativi del mondo del lavoro e di quello dell’impresa perché forgiati nella logica della concertazione a tutti i costi e, soprattutto, autoconvinti di essere l’ombelico del mondo. I templari delle riforme, i guardiani del cambiamento che senza il loro via libera non può farsi realtà.

Renzi e Marchionne vogliono condurre il capitalismo italiano oltre la concertazione e la palude dei negoziati a oltranza e della rappresentanza, sempre più marginale, che ha potere di veto. Oltre lo status quo che ha fatto raggiungere alla disoccupazione giovanile la soglia record del 44,2% e fatto arretrare il pil di 10 punti. L’Italia della concertazione del ‘900 non ce la può fare a tenere i ritmi imposti dalla globalizzazione e dall’eurozona germanizzata. Questo per Marchionne è un concetto chiarissimo; Renzi se lo sente ripetere ogni volta che varca le Alpi. Via, dunque, il fardello Confindustria dalle spalle sempre più gracili del capitalismo del Belpaese, perché la lobby degli imprenditori deve diventare moderna e occidentale. Non più un troppo ambizioso contropotere politico ma una organizzazione capace di seguire bene le poche policy di cui è tenuta ad occuparsi. Anche stavolta Renzi ha scelto con arguzia il suo alleato, perché nessuno meglio di Marchionne incarna nel mondo il volto dell’Italia che lavora 16 ore al giorno e che non si rassegna mai alla sconfitta. E con il suo supporto la rottamazione di Confindustria è cosa già realizzata e i prossimi mesi serviranno solo a registrarlo.

Politiche attive, rilancio urgente

Politiche attive, rilancio urgente

Michele Tiraboschi – Il Sole 24 Ore

Superare la vecchia idea del posto fisso e l’articolo 18. È questo il progetto di Matteo Renzi e del Jobs Act per portare l’Italia nella modernità. Operazione certamente possibile. A condizione, tuttavia, di garantire a chi perde un lavoro un’efficiente rete di servizi al lavoro e adeguati programmi di riqualificazione professionale. Solo così si potrà realizzare il più volte annunciato passaggio da un sistema passivo di welfare, ormai alle corde, alle politiche attive e di ricollocazione del celebrato modello nordico.

Di politiche attive, invero, si parla da almeno vent’anni, a partire dalla legge Treu e, a seguire, dalla legge Biagi. Ma nulla è stato fatto. Anzi, la situazione si è non poco complicata con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha contribuito a una profonda frammentazione delle politiche del lavoro oggi gestite, con differenziali di efficienza preoccupanti quanto evidenti, su scala regionale. Si spiega così una delle novità più importanti contenuta nel progetto di Jobs Act: l’istituzione di un’Agenzia nazionale per l’occupazione, alla quale si intendono attribuite competenze gestionali in materia di servizi al lavoro, politiche attive e indennità di disoccupazione. Alle Regioni verrebbe garantito il mantenimento della definizione delle politiche attive del lavoro e anche un loro coinvolgimento nella costituzione dell’Agenzia nazionale. Quanto all’indennità di disoccupazione, poiché è una competenza dell’Inps, si prevede il raccordo tra l’Agenzia nazionale e l’Istituto, sia a livello centrale che a livello territoriale.

Pur con le difficoltà di coordinamento con i vari enti competenti di servizi e funzioni che essa dovrebbe gestire, ci si attende che l’Agenzia possa realizzare diversi obiettivi. Innanzitutto, superare la sostanziale mancanza di indirizzo e coordinamento a livello nazionale delle politiche attive e dei servizi per il lavoro dell’attuale regime. Inoltre, si spera che possa finalmente realizzare un più efficace raccordo tra politiche attive e passive e una vera condizionalità dei sussidi con un’effettiva attivazione dei lavoratori disoccupati, in particolare percettori di indennità di disoccupazione, pena la perdita del sostegno al reddito.

La realizzazione di tale obiettivo di collegamento di misure di sostegno al reddito e misure volte al reinserimento del disoccupato nel mercato del lavoro è attuata anche attraverso la grande novità degli accordi di ricollocazione stipulati tra agenzie per il lavoro o altri operatori accreditati e i percettori di un sostegno al reddito. Gli operatori privati sarebbero incentivati alla presa in carico dei lavoratori disoccupati per la loro ricollocazione mediante una remunerazione a fronte dell’effettivo inserimento nel mercato del lavoro per un periodo minimo e proporzionata alla difficoltà di collocamento del soggetto reinserito al lavoro.

Il rapporto tra servizi pubblici e privati per l’impiego si inquadra in un doppio canale. Accanto alla competizione per il ricollocamento di disoccupati e in particolare percettori di sostegno al reddito, si rilancia la promozione della collaborazione e la valorizzazione delle sinergie tra servizi pubblici e privati per il lavoro, con l’obiettivo di rafforzare le capacità d’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Con questo obiettivo paiono volersi ridefinire i criteri per l’accreditamento e l’autorizzazione dei soggetti che operano sul mercato del lavoro, nonché i livelli essenziali delle prestazioni nei servizi pubblici per l’impiego.

Dopo il fallimento della Borsa nazionale del lavoro, la delega del Jobs Act intende anche rilanciare i sistemi informatici esistenti per la gestione del mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni sociali erogate. Sarebbe questo uno strumento fondamentale, che dovrebbe essere a disposizione di tutti gli operatori del mercato del lavoro per garantire un efficace collegamento delle politiche attive e passive. Per rendere più efficace il sistema informativo del mercato del lavoro si prevede l’istituzione del fascicolo elettronico unico comprensivo di tutti gli elementi riferibili alla vita attiva della persona, dai percorsi educativi e formativi a quelli lavorativi, alle transizioni e ai relativi sussidi, fino al conto corrente previdenziale.

Tutto questo è condivisibile. La domanda, tuttavia, è se vi sono oggi le condizioni per realizzare progetti da tempo noti e presenti nelle riforme del lavoro che via via si sono succedute. La credibilità del Jobs Act si gioca, del resto, tutta qui: nella ragionevole aspettativa che il lavoratore che perde il posto non sarà lasciato solo e che una moderna rete di servizi al lavoro, pubblici o privati poco importa, lo accompagnerà verso la ricerca di un nuovo impiego.

Su questo fronte, la recente esperienza di Garanzia Giovani non lascia invero ben sperare. A fronte di uno stanziamento di 1,5 miliardi si è capito, dopo i primi mesi di sperimentazione, che per il nostro Paese il vero problema non tanto sono le risorse quanto la capacità di utilizzarle bene attraverso un’amministrazione pubblica in grado davvero di costruire le premesse dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Ebbene, nonostante la “garanzia” della presa in carico e del diritto a ottenere, entro quattro mesi, una proposta di lavoro o di stage o, in alternativa, un percorso di riqualificazione professionale, meno di un quarto dei 200mila giovani italiani registrati al programma Garanzia Giovani è stato convocato per un colloquio preliminare e poco altro. Tutti gli altri sono fermi davanti a una porta, quella delle politiche attive, che rimane incomprensibilmente chiusa anche quando le dotazioni finanziarie ci sono. Una prova ulteriore che le riforme del lavoro non passano necessariamente dalle leggi e dalla loro pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, quanto dalla capacità della nostra politica di attuarle giorno dopo giorno.

Sul lavoro le idee – come gli annunci e i convegni – non mancano. Ma se non vogliamo attendere il fallimento della quinta riforma del lavoro negli ultimi cinque anni è necessario un cambio di prospettiva che porti a prestare maggiore attenzione, più che alle regole, alla loro effettiva implementazione. Queste sono, del resto, le politiche attive. E non saremmo ancora oggi a parlare di introdurre una condizionalità dei sussidi, chiave di volta di un equo e moderno sistema di welfare, se avessimo dato attuazione a leggi vigenti da oltre un decennio.

Vigilessa sorpresa a rubare cacciata ma con buonuscita

Vigilessa sorpresa a rubare cacciata ma con buonuscita

Matteo Basile – Il Giornale

Un diritto da preservare per alcuni. Un totem vecchio di 40 anni da abbattere per altri. Un business per molti. Si scrive «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori», si legge «Articolo 18». Altro che tutelare i poveri lavoratori indifesi. Spesso, troppo spesso, diventa una scusa per quei furbetti che vogliono approfittarsi delle pieghe della legge e, quando ci sono, di giudici compiacenti per trarne profitto. Ma quanto accaduto a Genova va oltre.

Scordiamoci discriminazioni e comportamenti fuori legge di capi cattivoni, contratti farsa, dimissioni in bianco e ricatti assortiti. Succede che una vigilessa, in servizio nel capoluogo ligure, venga sorpresa a rubare. Nessuna calunnia: era in locale ed è stata immortalata dalle telecamere di sorveglianza mentre frugava dentro una borsa non sua e portava via dei soldi. Immagini che la inchiodano ma in un primo momento i vertici del corpo di polizia municipale non fanno nulla. Fino a che la notizia diventa di dominio pubblico e allora ecco il cambio di rotta: sospensione immediata dal servizio e ritiro dell’arma cui fa seguito il licenziamento in tronco. Ma lei non ci sta, fa ricorso e, udite udite, trova un giudice che le dà ragione. Almeno in parte.

È colpevole ma, in base all’articolo 18, la causa non è infondata. Ma è colpevole, quindi reintegrarla proprio non si può. Allora il giudice decide così: ok al licenziamento ma con una mega buonuscita equivalente a 18 mensilità. Hai rubato? Si. Sei colpevole? Si. Ti cacciano a pedate perché non degna di rappresentare la divisa che indossi? Ni. Perché comunque puoi incassare un anno e mezzo di stipendio senza colpo ferire. E tante grazie all’articolo 18. Nella sua assurdità l’ordinanza emessa dal Tribunale parla chiaro. «I fatti contestati non sono idonei a integrare giusta causa o giustificato motivo, con conseguente illegittimità del licenziamento». Il che significherebbe il reintegro sul posto di lavoro che avrebbe del clamoroso. Ma il dispositivo va avanti e specifica: «Per poter applicare le sanzioni previste in caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo occorre tener conto delle modifiche apportate dalla legge 92 del 2012», vale a dire la legge Fornero che rimodula alcuni aspetti dell’articolo 18. E allora? Ci ha provato e le andata male, arrivederci e grazie? No, ecco la beffa. Niente reintegro sul posto di lavoro ma mega contentino. Diciotto mensilità da corrispondere alla vigilessa dalla mano lesta. Che, per inciso, saranno elargiti dalla collettività in quanto la polizia municipale è sotto diretta giurisdizione del Comune, in questo caso quello di Genova.

Storture da articolo 18 avallate, ovviamente, dai sindacati che in questa causa di lavoro che rasenta il paradosso sono stati in prima fila a sostegno della «povera» lavoratrice. E via con i cattivi pensieri dato che proprio loro, i paladini dei lavoratori bistrattati, per ogni causa di lavoro che va a buon fine (come nel caso in questione) si intascano una bella percentuale di quanto incassato dal lavoratore. Con buona pace di tutti quei lavoratori, privi di ogni tutela contrattuale e ovviamente di articolo 18, che anche se realmente cacciati a pedate senza alcun valido motivo dal proprio datore di lavoro, presentandosi presso un ufficio sindacale si sono sentiti rispondere: «Eh, ci dispiace, ma non possiamo fare nulla». Che strano.

Riforma articolo 18? Occhio al labiale

Riforma articolo 18? Occhio al labiale

Giuliano Cazzola – Italia Oggi

Che Marco Biagi riposi in pace. Questa non è una legge «sua». L’idea di mercato del lavoro che si può intravedere tra le fumisterie dell’articolo 4 del disegno di legge delega Poletti (AS 1428), ora in Aula a Palazzo Madama, non corrisponde, per tanti aspetti, al pensiero del professore bolognese, assassinato dalle Brigate Rosse dodici anni or sono. La verità è che su quel provvedimento è in atto un regolamento di conti, a sinistra, che non trova riscontro nel merito. Nella norma emendata, infatti, pur essendo meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, continua a non esservi traccia né dei principi, né dei criteri direttivi, né della definizione dell’oggetto come disposto dall’art. 76 Cost. in materia di funzione legislativa delegata. Resta aperta, pertanto, non solo a dubbi di incostituzionalità ma anche ad ogni possibile soluzione al momento della decretazione attuativa. Il suo contenuto, vago e cerchiobottista, non ha nulla da spartire con la durezza del dibattito in corso.

Cominciamo dalle parole che mancano. Non sono neppure nominati lo Statuto dei lavoratori né tanto meno l’articolo 18 e la disciplina del licenziamento individuale. È possibile che significative modifiche ad istituti così importanti e delicati siano soltanto sussurrate o avvengano per «sentito dire» o mediante interviste a Repubblica, senza essere mai accennate, sommariamente, per iscritto, almeno su di una slide? Tralasciamo le questioni del «demansionamento» e dei controlli a distanza (anche in questi casi i criteri sono laschi) per andare diritti al clou: la «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio».

Il contratto di nuovo conio si applicherà ai nuovi assunti o anche a chi cambia lavoro e viene assunto ex novo da un altro datore? In ogni caso, consoliamoci, un cambiamento importante dovrà esserci: la tutela reale interverrebbe, quanto meno, a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Nella peggiore delle eventualità, pertanto, vi sarebbe una tutela modulata con un mix tra indennità risarcitoria e reintegra. Si tratterebbe certamente di un passo avanti. Guai però a chi ha cantato anticipatamente vittoria. Se quelle norme andranno in porto e i decreti delegati saranno coerenti con quegli oscuri principi che si possono decrittare tra le righe, il progetto è rivolto a rimettere al centro del mercato del lavoro il contratto a tempo indeterminato (sia pure a tutele crescenti), potando il più possibile quei rapporti atipici che, ordinati e disciplinati appunto dalla legge Biagi del 2003 (insieme al Pacchetto Treu del 1997), consentirono, pur in un contesto di modesta crescita economica, di incrementare di 3,5 milioni di unità il numero degli occupati e di dimezzare la disoccupazione.

Correrà seri rischi anche la riforma del contratto a termine che pur rappresenta la chiave di volta della flessibilità, dopo l’abolizione del «causalone» per l’intera durata dei 36 mesi e la possibilità di ben 5 proroghe. Questa tipologia non potrà non essere «resa coerente» con il nuovo contratto a tempo indeterminato, proprio perché le due forme contrattuali marcerebbero in parallelo, svolgendo la medesima funzione. E nessun imprenditore con un po’ di sale in zucca rinuncerebbe ad avvalersi del contratto a termine made by Poletti anche se il contratto a tutele crescenti, di nuova istituzione, fosse «drogato» con i soliti sconti fiscali e contributivi (per i quali sarebbe persino problematico reperire le risorse).

Marco Biagi sosteneva che nessun incentivo economico può compensare un disincentivo normativo. Basta considerare l’esito delle agevolazioni previste dal «pacchetto Giovannini» del 2013 (650 euro mensili per 18 mensilità a favore delle assunzioni a tempo indeterminato): appena è entrato in vigore il decreto Poletti sui contratti a termine, le richieste di avvalersi di quelle opportunità sono crollate, perché le imprese hanno preferito assumere a tempo determinato nonostante i maggiori costi previsti. In tutti questi anni, si è diffusa la teoria che i rapporti atipici fossero una «uscita di sicurezza» dal giogo di un contratto a tempo indeterminato troppo rigido. Sarebbe bastato, secondo quella tesi, modificare la disciplina del recesso per riportare quel rapporto al centro del mercato del lavoro.

Non era questa l’opinione del mio amico Marco Biagi, il quale non pensava affatto di introdurre, nella legge che porta il suo nome, tipologie flessibili in entrata allo scopo di consentire ai datori di aggirare, in uscita, la trappola dell’articolo 18. Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – ed utile alle imprese ed ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici mirati a regolare le diversità dei rapporti di lavoro, anziché imporre loro, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato (non più «unico») sia pure meno oppressivo e poliziesco per quanto riguarda la tutela del licenziamento. Ecco perché – lo ripetiamo – lo scontro sul Jobs act Poletti n.2 si svolge tra due sinistre: quella conservatrice e quella riformista. Ma il terreno di gioco è lo stesso: l’idea, sempre più fuori dalla realtà, che la figura centrale e prevalente del mercato del lavoro debba essere quella del dipendente assunto a tempo indeterminato. A sinistra, conservatori e riformisti, accettano tutti questo dogma. Si dividono su quale sia il modo migliore per realizzare tale obiettivo: forzando la vita quotidiana dentro i loro schemi ideologici come vogliono continuare a fare i conservatori o incoraggiando i datori ad assumere con incentivi economici e tutele più sostenibili in tema di recesso.

Dal “benaltro” al “ditino alzato”

Dal “benaltro” al “ditino alzato”

Il Foglio

Il giorno prima dicevano che sarebbe stato necessario “benaltro”. Il giorno dopo affermano con la stessa sicumera che bisognava fare “di più e di meglio”. Gli indiziati sono i soliti: confindustriali, sindacati, opinionisti vari. Molti fra loro – non tutti, ben inteso, infatti Repubblica ieri per esempio titolava a tutta pagina “Articolo 18, vince Renzi” – non sembrano essersi accorti che due sere fa, alla direzione nazionale del Partito democratico, il segretario del principale partito della sinistra ha sostenuto che “l’imprenditore ha il diritto di licenziare”, lo ha ripetuto ieri in inglese al Washington Post nel caso non si fosse capito, e il partito in questione ha votato compatto una mozione per riformare di conseguenza il mercato del lavoro italiano. La minoranza ha fatto la minoranza, perfino in maniera meno granitica e originale di quanto ci si potesse attendere da politici così esperti.

Ma il punto resta: se la delega sarà approvata in Parlamento, e se il governo scriverà i decreti promessi, il mercato del lavoro sarà un po’ più flessibile di prima e perfino l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – concentrato legislativo di un’ideologia ormai fuori dal tempo – sarà completamente superato per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Sia chiaro: non fossero esigenti per definizione, i commentatori – noi inclusi – avrebbero poco da commentare. Ma dopo che per mesi si è tentato di sviare l’italiano medio, sostenendo che scalfire ancora l’articolo 18 era poi piccola cosa, diventa incomprensibile la puntigliosità riformatrice e simil-thatcheriana del giorno dopo. Proprio adesso che, a riforma politicamente acquisita, sarebbe perfino legittimo parlare di “benaltro” – dal welfare alla contrattazione aziendale – e su questo incalzare il governo.

Insistere, insistere, insistere

Insistere, insistere, insistere

Il Foglio

Mentre si inasprisce il dissenso nell’ala minoritaria del Pd e nei sindacati sull’abrogazione dell’articolo 18, abrogazione che il premier Renzi pone nel Jobs Act col contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, arrivano i dati sulla disoccupazione in agosto. Anche in Italia, come in Europa, la disoccupazione ha registrato una flessione. Rispetto ad agosto del 2013, da noi, la riduzione dei disoccupati e dello 0,9 per cento, mentre a livello europeo è dello 0,4. Rispetto a luglio, in Italia vi è una diminuzione di 2,4 punti, mentre nell’Unione europea vi è una sostanziale stabilità. Certo, il nostro tasso di disoccupazione è comunque più alto della media del Vecchio continente: è al 12,3 per cento, contro il livello medio dell’11,5 per cento. Ma la nostra riduzione è maggiore, nonostante che la dinamica del nostro pil non sia positiva, a differenza di quella europea che è di modesta crescita.

La spiegazione della nostra migliore performance sta nell’effetto benefico della riforma dei contratti a termine, attuata nei mesi scorsi. E ciò indica che la strada della liberalizzazione del mercato del lavoro, che Renzi persegue nonostante i mal di pancia nel Pd e nella Cgil, è quella giusta. D’altra parte, l’Istat informa che ad agosto la disoccupazione giovanile e aumentata di 0,7 punti rispetto all’agosto del 2013: 88 mila giovani occupati in meno in un anno, a un tasso del 44 per cento. Un record negativo su cui soffia Camusso per guadagnare un titolo sui giornali. Eppure il premier ha ragione a dare battaglia per il nuovo contratto privo di articolo 18: mira a eliminare la discriminazione a danno dei giovani, e chi lo avversa pensa solo al posto degli anziani.

L’amaca

L’amaca

Michele Serra – La Repubblica

L’articolo 18, ben al di là dei suoi meriti e dei suoi demeriti, è diventato il capro espiatorio dello scontro finale (inevitabile) tra il mondo del posto fisso e quello della mobilità. Che nel primo ci fossero più garanzie per chi lavora e nel secondo di meno, è perfettamente vero. Ma che il secondo possa sentirsi più garantita grazie all’articolo 18, è abbastanza falso. Lo stesso concetto di reintegro, mettendo l’accento, più che sui diritti violati, sul posto di lavoro inteso quasi come ‘luogo di residenza’, evoca un assetto del lavoro precedente 1’attuale.

È piuttosto convincente quello che scrive (sul Post) Ivan Scalfarotto: in Inghilterra il concetto di reintegro non esiste, ma in caso di licenziamento per ragioni discriminatorie la legge ha la mano molto pesante con il datore di lavoro riconosciuto colpevole. Certo, la la giustizia è veloce e la discriminazione (razziale, religiosa, politica, sessuale) è colpa grave. Da noi il lavoratore licenziato per ingiusta causa rischia di restare a casa senza stipendio e in attesa di una sentenza e di un risarcimento economico che arriveranno dopo anni. Ma mettere mano alla precarietà, alla disoccupazione, alla sottoccupazione è davvero tutt’altra materia rispetto a un provvedimento bandiera nato quando si licenziava per cacciare dalle fabbriche i sindacalisti e i comunisti. Ora dalle fabbriche è stata cacciata una generazione quasi al completo, e la vera ‘ingiusta causa’ è la fuga dei capitali dal mondo della produzione, è la morte del lavoro. Non riguarda più solamente le ‘avanguardie di classe”. Riguarda tutti.

Cambiare tutto senza cambiare nulla

Cambiare tutto senza cambiare nulla

Tito Boeri – La Repubblica

La mediazione via sms all’interno del Partito Democratico, di cui ha dato conto questo giornale sabato scorso con il testo dei messaggini fra Matteo Renzi e Sergio Chiamparino, rischia di rendere il Jobs Act del tutto inefficace nell’incoraggiare incrementi di produttività e più assunzioni con contratti a tempo indeterminato. Speriamo che, mettendo da parte i cellulari, e affrontando il merito dei problemi, vi si ponga rimedio.

La direzione Pd lunedì ha approvato a larga maggioranza, non prima di deflagranti polemiche e minacce di scissione, un ordine del giorno che mantiene in vigore, fin dal primo giorno di vita di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la reintegrazione del lavoratore in caso “di licenziamenti ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie”. Questo significa che i licenziamenti individuali continueranno a essere fin da subito molto costosi, trattando un neo-assunto come un lavoratore già presente da 20 anni nell’azienda. In barba a quelle “tutele crescenti con l’azienda aziendale” cui fa esplicitamente riferimento l’emendamento governativo al disegno di legge delega recentemente approvato dalla Commissione Lavoro al Senato. Vediamo di capire perché.

Oggi un datore di lavoro che volesse licenziare un dipendente può addurre sia ragioni di natura disciplinare (legate al comportamento del lavoratore) che economica (legate alla performance dell’impresa). Se il giudice ritiene che queste motivazioni siano infondate (si parla di “manifesta insussistenza” nel caso di licenziamenti economici), può imporre la reintegrazione del lavoratore. Si vuole ora mantenere questa possibilità per i soli licenziamenti disciplinari. Ma il confine fra licenziamenti economici e licenziamenti disciplinari è molto sottile. I datori di lavoro avranno, nel caso in cui questa modifica entrasse in vigore, l’incentivo a perseguire solo la strada dei licenziamenti economici, anche nel caso di comportamenti opportunistici di un proprio dipendente, dato che, almeno sulla carta, i licenziamenti economici costano di meno dei licenziamenti disciplinari. Mentre un lavoratore licenziato per ragioni economiche potrà sempre far valere davanti al giudice il fatto che l’azienda volesse in realtà punirlo per il proprio comportamento. In questo caso, anche se il difetto del lavoratore fosse documentabile, ma l’impresa avesse altri modi di “punire” il lavoratore senza licenziarlo (ad esempio cambiando gli orari di lavoro), il giudice potrà imporre all’azienda il reintegro del dipendente. Si tratta perciò di una modifica marginale, del tipo di quella imposta dalla Legge Fornero con il principio della “manifesta insussistenza”, che viene peraltro in questo caso introdotta solo per i nuovi assunti, mentre la legge Fornero cambiava le regole per tutti i lavoratori.

Per quanto il legislatore possa definire con precisione i licenziamenti disciplinari (“la qualificazione specifica della fattispecie” cui fa riferimento il testo approvato lunedì), con questa mediazione si crea una forte asimmetria fra licenziamenti illegittimi di diversa natura, aprendo lo spazio al contenzioso. Nei paesi Ocse, la norma è quella di trattare tutti i licenziamenti illegittimi allo stesso modo, indipendentemente dalle ragioni inizialmente addotte dalle imprese. Da noi, invece, si mettono paradossalmente in una posizione di vantaggio i lavoratori coinvolti in un procedimento disciplinare rispetto a quelli coinvolti in una crisi aziendale di cui non hanno colpa alcuna. Se il licenziamento viene considerato legittimo, non riceveranno nulla come pure i lavoratori che hanno perso il lavoro per motivi economici. Se, invece, il licenziamento venisse considerato dal giudice senza giusta causa, il lavoratore licenziato per questioni disciplinari potrà essere reintegrato sul posto di lavoro, a differenza di chi ha avuto la sfortuna di trovarsi in un’azienda in crisi. Gli incentivi sono perversi: per aumentare la produttività bisognerebbe proprio scoraggiare i comportamenti opportunistici.

A chi oggi deve creare lavoro in Italia importano due cose. Primo, vuole essere rassicurato sul fatto che un eventuale errore nella selezione dei candidati, inevitabile quando si assume per le prestazioni più complesse richieste dalla stragrande maggioranza dei nuovi lavori, questo errore fosse rimediabile con costi certi e contenuti, tipo una compensazione monetaria fissata per legge. Secondo, vuole essere sicuro che il dipendente si impegnerà a svolgere sempre meglio le proprie mansioni “imparando facendo”. Il Jobs act uscito dalla direzione del Pd non cambia nulla su questi due piani. Di più, non viene neanche a sanare la contraddizione introdotta dal decreto Poletti che, permettendo di fatto un periodo di prova di tre anni, scoraggia qualsiasi assunzione a tempo indeterminato e la stessa conversione dei contratti temporanei in contratti permanenti, come certificato dai dati sulle comunicazioni obbligatorie raccolti dal ministero di cui Poletti è titolare.

È sconcertante, infine, che materie così importanti, che riguardano milioni di lavoratori, vengano negoziate via sms. Credevamo che con la nuova politica, l’arte del confronto, della mediazione e della ricerca del consenso, fosse un’altra cosa.

Paradosso di un totem: così Pd e sindacati aggirano l’articolo 18

Paradosso di un totem: così Pd e sindacati aggirano l’articolo 18

Paolo Bracalini – Il Giornale

Col taglio dei rimborsi elettorali si taglia anche il personale in eccesso nei partiti politici. I quali hanno un vantaggio mica da poco rispetto alle aziende: possono licenziare da un giorno all’altro senza rischiare cause di reintegro davanti ad un giudice, perché il reintegro non c’è. Per i partiti l’articolo 18 non vale, ti mandano a casa e tanti saluti. E succede anche nel Pd, proprio quello della vecchia ditta che fa la guerra a Renzi per aver attentato al dogma dell’articolo 18. Così, se scaduti i due anni di cassa integrazione in cui sono stati messi nove dipendenti del Pd in Sicilia (guidato dal già bersaniano e «giovane turco» Fausto Raciti) non ci saranno più i soldi per riassumerli, scatterà il licenziamento e amen. Alcuni di loro hanno già chiesto, in via informale, tramite lettere, di essere ripresi dal Pd regionale, ma finché gli eletti – consiglieri regionali e parlamentari Pd siculi – non si decideranno a versare tutti la loro quota, e il buco nelle casse non sarà coperto, resteranno a casa. Ma qui nessun giudice può ordinare nessun reintegro, perché c’è una legge che lo dice, la 108 del 1990: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori «non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto».

Ne sa qualcosa il signor Carmine De Guido, funzionario assunto a tempo indeterminato prima dal Pds, poi dai Ds, quindi in forze al Pd a Taranto, e licenziato telefonicamente, nel 2012, con una comunicazione del tesoriere Ugo Sposetti, senatore non renziano del Pd. De Guido è un dipendente dei Ds, non del Pd, anche se lavora per il Pd, e i Ds non possono pagare lo stipendio a un dipendente del Pd, formalmente un partito diverso. E quindi arrivederci. Da quel giorno De Guido cerca rassicurazioni dai vertici Pd, chiama Fassina, scrive lettere a D’Alema, a Bersani. Gli arrivano conferme che tutto sarà risolto, di continuare a lavorare per il Pd, mentre i suoi stipendi non arrivano, per sei mesi. Finché il dipendente fantasma – nel senso che c’è ma non viene pagato ed è formalmente licenziato – fa causa al giudice del lavoro, per il reintegro. Non però facendo leva sull’articolo 18, che per il Pd non vale, ma sulla modalità del licenziamento, solo verbale. Il Tribunale gli dà ragione ma il partito no, e il reintegro non avviene. Anzi, impugna la sentenza. Per fortuna del Pd che lo Statuto non si applica come nelle aziende, sennò dovevano riprenderselo o indennizzarlo. Il tutto esploso durante la segreteria di Guglielmo Epifani, ex segretario della Cgil, che invece si era indignato per gli operai non reintegrati dalla Fiat a Melfi («Marchionne non può fare così. Non si gioca con la vita delle persone»).

In effetti non è solo il Pd a poter beneficiare di una zona franca per il licenziamento. Anche la Cgil della Camusso ha lo stesso privilegio. Renzi lo ha ricordato: «Il sindacato è l’unica impresa sopra i 15 dipendenti e non lo applica» (in realtà anche i partiti). E infatti licenzia, tanto che è nato un sito, «licenziatidallacgil.blogspot.it», fondato dal gruppo «Comitato dei Lavoratori Licenziati dalla Cgil». Molti si presentano con nome e cognome e licenziamento: Alma Bianco, licenziata dalla Cgil di Messina, Ivana Gazzino, licenziata dalla Cgil di Udine, Luca Paoli licenziato dalla Cgil di Firenze, Franca Imbrogno, licenziata dalla Cgil di Milano, Roberto Lisi, licenziato dalla Cgil Lazio, e tanti altri. Basta farsi un giro su quel sito per trovare decine di storie, documentate, che raccontano la faccia meno nota del sindacato, quello che impiega la gente in nero, che viene condannato per mobbing o licenzia. Tanto l’articolo 18 lì non vale. Scrive il Comitato: «Com’è possibile che dentro un sindacato accadano queste cose? Semplice: ai sindacati non si applica lo Statuto dei lavoratori. Il famoso articolo 18 considera nullo il licenziamento quando avviene senza giusta causa o giustificato motivo. La mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, che prescrive una legge che disciplini l’attività sindacale, ha permesso alle organizzazioni dei lavoratori di operare in deroga». Tradotto: di licenziare senza paura del reintegro.

Le tutele non sono questione ideologica

Le tutele non sono questione ideologica

Vittorio Daniele – Il Garantista

I dibattiti sulle riforme raramente sfuggono alla retorica. Albert Hirschman, grande economista, scriveva che le retoriche dei conservatori si riconducono a tre tesi fondamentali. La prima tesi, della «futilità», argomenta che le riforme sono, semplicemente, inutili. La seconda, della «perversità», sostiene che i cambiamenti tendono a produrre effetti opposti a quelli desiderati. La terza tesi, della «messa a repentaglio», argomenta che le riforme comportano costi elevati e riducono le conquiste ottenute in passato. La retorica semplicistica, perentoria e intransigente non è, però, campo esclusivo dei «reazionari». Sotto questo profilo – scriveva Hirschman – le controparti «progressiste» non sono da meno. Nella versione progressista, le tre tesi reazionarie si ribaltano in tre opposte retoriche: del «progresso», della «sinergia» e del «pericolo incombente».

Nella retorica progressista, la ragione delle riforme è insita nel corso degli eventi: «abbiamo la storia dalla nostra parte!», sostiene il progressista. Le nuove riforme, aggiunge, migliorano quelle precedenti. In ogni caso, le riforme sono indispensabili e vanno realizzate in fretta; se non le si attua, si avranno gravi conseguenze: «il pericolo incombe». Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro non sfugge alle retoriche dell’intransigenza. Non è agevole, però, separare il campo dei conservatori da quello dei progressisti. Una ricorrente retorica sostiene che il dibattito sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è meramente ideologico. Secondo questa tesi, che echeggia quella del «progresso»›, l’art. 18 è un inutile orpello, retaggio di un mondo ormai passato.

L’economia italiana, si dice, è fatta di piccole o piccolissime imprese, per cui le garanzie dell’art. 18 interessano una quota assolutamente marginale di lavoratori. Esso ha, dunque, scarsa rilevanza pratica, ma la sua cancellazione un alto valore simbolico. Stanno davvero così le cose? Davvero le tutele dell’art. 18 riguardano un esiguo gruppo di ipergarantiti? I dati dell’ultimo censimento mostrano una realtà diversa. Effettivamente, la stragrande maggioranza (il 93 per cento) delle imprese italiane con dipendenti ha meno di 15 addetti. Ma le proporzioni si modificano, e di molto, quando si guarda all’occupazione. In Italia, il numero di dipendenti delle imprese e di 11.304.000. L’11 per cento circa ha un contratto a tempo determinato mentre il restante 89 per cento a tempo indeterminato. Le imprese con oltre 15 addetti occupano il 57,6 dei dipendenti, cioè circa 6.500.000 persone. Nonostante la definizione statistica di impresa sia ampia (include, per esempio, anche le aziende speciali di comuni, province o regioni), il numero degli occupati in imprese con oltre 15 dipendenti è tutt’altro che esiguo.

Un’altra argomentazione, che richiama la tesi del «pericolo incombente»›, sostiene che un mercato del lavoro più flessibile è necessario per uscire dalla recessione, per sostenere la crescita e attrarre investimenti. Affermazioni scarsamente suffragate dai fatti. Decine di ricerche mostrano come, per i Paesi sviluppati, il grado di rigidità del mercato del lavoro non sia correlato con la crescita di lungo periodo, né tantomeno con la capacità di attrarre investimenti dall’estero. È largamente riconosciuto, invece, che le riforme dal lato dell’offerta – quelle «strutturali», come con pappagallesco ritornello si ripete – non hanno effetti espansivi di breve periodo sulla produzione. Si argomenta che l’aumento della disoccupazione, il calo della produttività o la perdita di competitività dell’Italia, richiedano riforme urgenti. Ma occupazione, produttività e costo del lavoro per unità di prodotto dipendono anche dalla produzione che, a sua volta, dipende dalla domanda. Nel 2007, prima della Grande recessione, il tasso di disoccupazione in Italia era del 6%. Dopo il crollo della produzione, è passato all’attuale 12%. Per tutta risposta, si invocano riforme strutturali.

Quando, nel 2003 si riformò il mercato del lavoro si disse che le nuove norme avrebbero introdotto quella flessibilità che mancava. Si sostenne che il job-sharing. i co.co.pro o il lavoro a chiamata, e le altre formule della parcellizzazione del lavoro, avrebbero rivitalizzato la sclerotizzata economia italiana. Agli oppositori di allora si rispose con argomenti non dissimili dalle attuali retoriche progressiste. Molti di quelli che, in passato, predicarono l’urgenza delle riforme, constatano oggi che quelle stesse norme comportano enormi costi sociali, non favoriscono l’occupazione né, tantomeno, la crescita. Come tutte le riforme, anche quella del mercato del lavoro può, naturalmente, essere utile, magari per ridurre l’incertezza ansiogena della precarietà occupazionale. Un’opposizione di principio non ha molto senso. Ma intransigenti retoriche, conservatrici o progressiste che siano, creano solo divisioni e, di certo, non aiutano a capire.