articolo 18

Al lavoro non serve una riforma annacquata

Al lavoro non serve una riforma annacquata

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

La Carta sociale europea, non proprio un testo sacro della scuola austriaca, indica «il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio». E poco più avanti fissa «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Non si parla dunque di reintegro, non si parla delle regole previste dall’articolo 18. La Carta sociale europea è quindi in violazione dei diritti fondamentali del lavoratori? Oppure, come è più probabile, sull’obbligo di reintegro si è incancrenita da anni in Italia un’astratta discussione ideologica che ha fatto perdere di vista quello che è diritto e quello che è tutela giuridica, quello che è un valore assoluto e quello che è norma storica legata a determinati assetti della produzione e del rapporto tra Stato, impresa e lavoro?

Verrebbe da dire che l’aspro confronto nella direzione del Pd di ieri è stato ancora una volta ostaggio di quella ideologia del passato. Ma in realtà si è trattato per gran parte di un dibattito pretestuoso che, utilizzando una questione seria come la riforma del mercato del lavoro, ha avuto per oggetto la sfida sulla leadership di Matteo Renzi nel suo partito. In questo senso il premier può forse essere soddisfatto del voto ottenuto, con i 130 favorevoli e i soli 20 contrari. Ma quello che conta qui è altro. È dare all’Italia una buona e vera riforma del mercato del lavoro, per dare una spinta agli investimenti e alla creazione di posti di lavoro.

Non serve una riforma tanto per farla. Serve, finalmente, una incisiva rivoluzione delle regole del lavoro, per dare certezza alle imprese ed equità ai lavoratori. La “vittoria” politica di Renzi, se c’è stata, rischia allora di avere un costo, che è quello di un annacquamento della riforma, a cominciare proprio dall’articolo 18. Fino a domenica scorsa la posizione di Renzi sembrava molto chiara: il reintegro deve restare solo per i casi di provata discriminazione. In tutte le altre situazioni meglio l’indennizzo monetario crescente con gli anni di durata del rapporto di lavoro. Ieri, invece, il reintegro è rispuntato per i casi di licenziamento disciplinare, riallargando il perimetro del 18, ma soprattutto ripristinando quell’incertezza nell’intervento del giudice che disincentiva l’impresa dall’usare il contratto a tempo indeterminato. È vero che nel dispositivo finale votato dalla direzione si parla di fissare le fattispecie relative ai licenziamenti disciplinari, ma qui si rischia di entrare in una vicenda già vissuta all’epoca della legge Fornero, quando l’intervento sull’articolo 18 fu progressivamente svuotato e reso di fatto inefficace.

Non serve una riforma che nasce per cambiare tutto ma che poi cambia poco. Tanto più che anche sul lato delle regole in entrata, finora, non c’è stata chiarezza. Se si arriverà, alla fine, a un impercettibile miglioramento sui contratti a tempo indeterminato al costo di un irrigidimento significativo delle altre forme contrattuali più flessibili, allora il risultato per la creazione di posti di lavoro sarà negativo. È esattamente l’errore che fu fatto con la legge Fornero. Ripeterlo sarebbe un assurdo. Tanto più che il governo Renzi, al suo esordio, ha dimostrato piena consapevolezza del problema, eliminando gli irrigidimenti introdotti dalla Fornero sui contratti a tempo determinato. La precarietà non si riduce introducendo nuovi vincoli per tutti – così si alimenta solo il lavoro nero – ma rendendo davvero più conveniente il contratto a tempo indeterminato e, magari, prevedendo i giusti controlli contro gli abusi – che ci sono – sulle forme contrattuali più flessibili.

Sono cose che il presidente del Consiglio conosce bene. Le ha affermate lui stesso in queste settimane, con tutta l’oratoria e la capacità di convincimento di cui è capace. Finora ha dimostrato un grande coraggio nell’affermare e nel portare avanti un cambiamento netto nel modo con cui a sinistra si guarda al rapporto tra capitale e lavoro. Ancora ieri non ha avuto timore nello sbattere in faccia ai suoi oppositori la realtà che gli imprenditori sono lavoratori e non “padroni”. Perciò la sua riforma non può adesso smarrirsi nelle mediazioni e nelle contraddizioni. D’Alema, il suo avversario di ieri, a suo tempo lo fece, e dopo 15 anni siamo ancora qui a parlare di articolo 18. Renzi ci faccia il regalo di non doverne discutere tra altri 15.

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Premier più cauto ma la sinistra naufraga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

Divisa e confusa al suo interno, la minoranza del Pd ha dimostrato i suoi limiti politici. Spaccandosi fra astenuti e voti contrari nella direzione, ha permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro. Del resto, da politico astuto, Renzi aveva riservato i toni brucianti ai giorni della vigilia. Invece nella relazione davanti ai suoi è stato non diciamo cauto, ma certo piuttosto attento a non umiliare ancora la minoranza interna. Ha salvato l’essenza della riforma, ma ha gettato un po’ d’acqua sull’articolo 18. Ora c’è il reintegro del lavoratore licenziato per ragioni disciplinari e su basi discriminatorie: formula abbastanza ampia da abbracciare molte delle obiezioni avanzate dai “conservatori”.

Conservatori ai quali il premier si rivolge in modo quasi pedagogico per non lacerare il partito più del necessario. Avrebbe potuto scegliere di procedere come un carro armato, come annunciato nei giorni scorsi. Oppure avrebbe potuto dedicarsi alla mediazione, al compromesso a cui lo spingevano i suoi oppositori interni: con la prudenza a cui lo ha invitato D’Alema. In definitiva il presidente del Consiglio ha scelto una via di mezzo. Ha spiegato perché non si può rinunciare alla riforma e vi ha legato di nuovo la prospettiva di rinnovamento della sinistra italiana. È uno scenario alla Tony Blair, ma non alla Margaret Thatcher. Come dire che Renzi si rende conto più che mai che il suo destino politico, nonché la prospettiva di quel 41 per cento da lui raccolto alle europee, si consumerà dentro il recinto della socialdemocrazia europea, qualunque cosa questo termine oggi significhi. Verso tale traguardo il giovane premier, come è noto, vuole traghettare la sinistra italiana. Ma un conto è Blair e un conto la signora Thatcher.

Non perché evocare la “dama di ferro” sia un insulto. Ma per la buona ragione che la sinistra italiana può guardare al leader laburista, come peraltro tentò di fare a suo tempo anche D’Alema, mentre non potrebbe ispirarsi a una leadership conservatrice così dura ed esplicita. Renzi di solito finge di non preoccuparsi quando lo accusano di essersi spostato troppo a destra. Ma poiché l’uomo è accorto, ecco che si sforza di ricollocare l’annosa vicenda della riforma del lavoro, compreso l’art. 18, nel solco di una storia che si colloca a sinistra. E quindi garanzie invece di diritti statici e acquisiti una volta per tutte; confronto con i sindacati su nuovi temi; attenzione ai disoccupati invece che alle categorie iper-protette. Solo parole? Può darsi, ma ieri le parole avevano un significato preciso: avrebbero potuto essere assai più sferzanti e brutali.

Viceversa è emerso soprattutto un dato politico. Il presidente del Consiglio sembra comprendere che il 41 per cento di maggio rappresenta un passo verso le simpatie di un’opinione pubblica più centrista, magari in passato attratta da Berlusconi. Ma la conquista di quei ceti ha un senso se non avviene al prezzo di una frantumazione del centrosinistra. Ora, è vero che ieri sera il Pd si è diviso in tre parti: favorevoli alla riforma, contrari e astenuti. Ma questo dato, a parte segnalare un forte malessere politico, non rende il premier più saldo nel suo percorso verso la nuova Italia, anzi.

Per sedurre l’elettorato di centrodestra Renzi ha bisogno di due cose. Primo, che le elezioni siano vicine in una condizione economica del paese migliorata, cioè positiva. Non sembra che sia questo il caso. Secondo, che il presidente del Consiglio sia percepito come forte e solido da amici e avversari. Vedremo allora come andrà in Parlamento la riforma del lavoro. Ma il dato di ieri sera è che Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile. Ragion per cui è presto per dire che è nato il Blair italiano, ma di sicuro nella battaglia intorno all’art. 18 non ha preso forma alcun partito “thatcheriano”.

Licenziati e reintegrati, in Europa è regola. La legge italiana non è un’anomalia

Licenziati e reintegrati, in Europa è regola. La legge italiana non è un’anomalia

Roberto Mania – La Repubblica

Licenziati e poi reintegrati. Accade – sempre meno – in Italia, ma anche in tanti altri paesi europei: Austria, Germania, Grecia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Svezia e pure in Gran Bretagna, paese del common law. E il ritorno nel posto di lavoro non è del tutto escluso nemmeno in Francia, Finlandia, Spagna o Lussemburgo, in caso di licenziamento illegittimo. Insomma la reintegra, come la chiamano i giuslavoristi, «non costituisce un’anomalia tutta italiana». Così scrivono i ricercatori di “Italia Lavoro”, il braccio operativo del ministero nelle politiche attive per il lavoro, in un dossier, “La flessibilità in uscita in Europa”, che fa un’analisi comparativa dettagliata sulle regole dei licenziamenti individuali e collettivi nei paesi europei. Ne esce un quadro di tutele piuttosto estese sulla base di un principio sancito nella Carta sociale europea: i lavoratori licenziati senza valido motivo hanno diritto «ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione».

Con il suo reintegro in versione ridotta dopo la legge Fornero (vale per i licenziamenti discriminatori e quelli camuffati da motivi economici) l’Italia è in buona compagnia nel prevedere la possibilità che un lavoratore ingiustamente licenziato possa tornare al proprio posto di lavoro. In genere spetta al giudice (anche questa non è un’anomalia italiana) decidere, ma sono previsti casi di ricorso ad un arbitro per la conciliazione (possibile pure da noi). Ciò che distingue molto l’Italia dagli altri paesi è, piuttosto, la durata dei procedimenti giudiziari: in media intorno ai due anni contro i quattro-cinque mesi della Germania, stando ad un’indagine dell’Ocse. È questo che genera incertezza per gli imprenditori. Ed è questa la ragione principale per cui il governo Renzi ha deciso intervenire nuovamente (la legge Fornero è di soli due anni fa) sull’articolo 18 dello Statuto. Non tanto per rendere più flessibile l’uscita dal mercato del lavoro, quanto per rendere più certo il quadro per le aziende che intendano investire in Italia. Perché più che il reintegro in sé, le imprese temono l’incertezza (per i tempi e per le imprevedibili conclusioni diverse da tribunale a tribunale) che può condizionare non poco la loro operatività. La strada dell’indennizzo verso il quale ha scelto muoversi il governo diventa sotto questo profilo più prevedibile.

In Germania, dove la cultura dei giudici è meno pro labour ma il sindacato è più forte e strutturato nelle aziende, prevale Nell’impianto legislativo la conservazione del posto di lavoro. Dunque è il tribunale che può ordinare il mantenimento del rapporto di lavoro in caso di licenziamento nullo o ingiustificato. Tra l’almo, durante il periodo in cui si svolge il processo, il lavoratore ha il diritto di continuare a prestare la sua attività. Queste regole valgono per tutti i lavoratori con un’anzianità di servizio di almeno sei mesi e nelle aziende con più di dieci dipendenti. Una soglia dimensionale che non ha impedito che in Germania si formasse un sistema produttivo caratterizzato dalla presenza delle grande imprese. Nello stesso tempo è questo un’argomento a sfavore di chi, in Italia, sostiene che il nanismo del capitalismo tricolore dipenda tra l’altro dallo Statuto dei lavoratori che si applica alle aziende con più di quindici dipendenti.

In Francia vige un sistema “misto”. C’è il reintegro in tutti i casi di licenziamenti discriminatori o nei casi di violazione di diritti fondamentali e di libertà pubbliche. Negli altri casi, decisamente più numerosi, di fronte al licenziamento senza giusta causa scatta un risarcimento monetario. In Irlanda, paese nel passato preso ad esempio per la sua flessibilità e non solo per il favorevole trattamento fiscale, prevale il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo. Reintegro previsto anche in Gran Bretagna che affida margini di discrezionalità molto ampi al giudice il quale può reintegrare il lavoratore adibendolo a mansioni diverse da quelle precedenti. È interessante il fatto che queste ipotesi non valgano per i lavoratori che hanno meno di due anni di servizio. Tortuoso anche il procedimento in Olanda dove l’imprenditore deve ottenere dall’autorità pubblica l’autorizzazione (con funzione di deterrenza) per poter licenziare. Il problema dunque non è l’istituto del reintegro più comune, sulla carta, di quanto si pensi, bensì l’efficacia dell’iter che porta alla conclusione dell’eventuale contenzioso.

La riforma necessaria

La riforma necessaria

Giuseppe Turani – La Nazione

Se il lavoro manca, e ne manca tantissimo, la colpa non è di Renzi e nemmeno di quelli che l’hanno preceduto negli anni scorsi (Monti e Letta). La mancanza di lavoro ha due padri precisi. Il primo è la Grande Crisi che dal 2008 ha colpito l’economia internazionale e che ha portato l’Italia a perdere, come reddito pro-capite, un terzo di quello che aveva nel 2007. Di fronte a una botta così grande, è evidente che i famosi 80 euro rappresentano soltanto un risarcimento parziale. D’altra parte per ridare agli italiani quel terzo di reddito che hanno perso nella crisi ci vuole altro che qualche decreto governativo. Ci vorranno almeno dieci anni di buona crescita, ammesso che si riesca a farli. Ma poi c’è un secondo padre dei tantissimi disoccupati. È un padre collettivo. Si tratta di tutti quelli che facevano parte della classe dirigente negli ultimi trent’anni: sono loro che hanno consentito lo scempio del bilancio pubblico e la trasformazione dello Stato in una sorta di opera pia di prebende, stipendi, pensioni, rendite, enti inutili e tutto il resto. Fino a portarci oltre i due mila miliardi di euro di debiti. Si dirà: ma allora il colpevole è certamente Berlusconi. Calma. Berlusconi ha le sue colpe, ma anche tutti gli altri non possono andare in giro a testa alta.

Io non ho mai visto la signora Camusso o il compagno D’Alema sfilare in piazza contro l’eccesso di spesa pubblica. Anzi, sono lì che ne chiedono altra anche adesso (con quanto buonsenso lascio immaginare). Ma è proprio questa montagna di debiti che ha impedito all’Italia di mettere in campo misure di sostegno e di rilancio dell’economia. Siamo qui, bloccati in mezzo al guado, assistiamo impotenti al crescere della disoccupazione, perché non abbiamo un soldo: siamo ricchi solo di debiti. Oggi abbiamo tanti disoccupati, per essere sbrigativi, perché la generazione precedente è stata un fallimento totale: ha scambiato, a destra come a sinistra, consenso politico con spesa pubblica, e lo ha fatto per vent’anni, o trenta, di fila. Avrebbero ammazzato un elefante, non solo un Paese gentile come l’Italia. Adesso siamo a una prima resa dei conti. Renzi vuole cambiare il diritto del lavoro e contro di lui è schierata tutta la generazione che ha fallito. Il nostro diritto del lavoro ha mezzo secolo e, attraverso stratificazioni successive, è diventato un tale caos che l’unica cosa da fare è quella di abolirlo totalmente e scrivere un testo nuovo.

La Cgil e i suoi amici dentro il Pd hanno deciso di fare barricate sull’articolo 18. Segno che non hanno molto da dire sulla riforma del lavoro. Si aggrappano all’articolo 18 perché pensano che sia un tema popolare e di sicuro effetto: impedire ai padroni di licenziare. Ma vari sondaggi hanno già spiegato che a due terzi degli italiani dell’articolo 18 non importa nulla. È una garanzia in più per quelli che comunque un lavoro (e a tempo indeterminato) lo hanno. Ma qui il problema è di chi un lavoro non lo ha mai visto. Ancora una volta, cioè, una certa sinistra difende il proprio orticello e lascia gli altri (i piu sfortunati) sotto la pioggia e la neve.

Ma perché l’articolo 18 non può restare? Intanto perché è appunto la barricata di quelli che sbagliano. Inoltre una cosa è chiara: il nuovo modello di mercato del lavoro deve avere alla sua base la massima flessibilità in entrata e in uscita dalle aziende, prevedendo le giuste ricompense e la giusta assistenza per chi perde il lavoro (e il reddito). Ma diciamo basta ad anni di aule giudiziarie per chi vuole liberarsi di un dipendente incapace o lavativo.

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Sul Jobs act è giunto il tempo della decisione. Oggi si riunisce la segreteria del Pd e questa sera sarebbe auspicabile avere un segnale chiaro di approvazione. C’è una minoranza che non è d’accordo. Per alcuni l’intangibilità dell’articolo 18 è una questione di principio. Per altri (più numerosi) sembra invece essere una questione di contenuti. I margini per non rompere ci sono: Renzi ha già ceduto sui licenziamenti discriminatori, per i quali rimarrà il reintegro. L’altro punto su cui cercare convergenze riguarda le nuove tutele.

A quanto ammonterà l’indennizzo in caso di motivazioni economiche? E verranno davvero rafforzati gli ammortizzatori sociali? Il governo è in grave ritardo su questo fronte. Renzi deve chiarire quante risorse saranno disponibili nella legge di stabilità. La soluzione è usare già dal 2015 i fondi della Cassa integrazione in deroga per finanziare una indennità semiuniversale che colmi i buchi di copertura esistenti, soprattutto per interinali e contratti a termine. Non è una partita di giro, ma passaggio da un sistema aleatorio e discrezionale a una tutela finalmente «europea», basata su diritti soggettivi.

Il presidente del Consiglio deve insistere su questi aspetti. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» è oggi uno strumento per offrire stabilità d’impiego ai giovani che non ce l’hanno; la maggiore flessibilità in uscita si accompagnerà a protezioni più robuste ed efficaci. Qualcuno dei dissidenti farà ancora finta di non capire: pazienza. Con gli altri, Renzi non cerchi «rese dei conti», ma dia rassicurazioni, spieghi bene come e perché ci si può fidare del cambiamento. Il Jobs act non può e non deve essere vissuto e additato come boccone amaro imposto dalla Ue, ma come una opportunità per rendere il nostro mercato del lavoro più equo e inclusivo.

I cinque scogli che separano il premier dai sindacati

I cinque scogli che separano il premier dai sindacati

Paolo Baroni – La Stampa

Certo l’articolo 18 e il nodo del reintegro. Il rischio di «scardinare» lo Statuto dei lavoratori contrapposto alla necessità di «aggiornarlo». Ma i punti «indigeribili» del pacchetto-Poletti per una larga fetta del sindacato, in primis la Cgil (e quindi anche per la minoranza Pd), sono molti. E sono tutti concentrati nell’articolo 4 della legge delega.

Primo scoglio, la «revisione della disciplina delle mansioni». Il governo parla di contemperare «l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento». La Cgil invece denuncia esplicitamente il rischio di demansionamento, un’operazione «inaccettabile». Per questa via, sostiene l’ex sindacalista Giorgio Airaudo oggi deputato di Sel, si cerca solo di ridurre gli stipendi. Tutte accuse che l’ex ministro Maurizio Sacconi (Ncd), uno dei registi della riforma, respinge evocando «mansioni flessibili» in relazione «ai nuovi modi di lavorare che richiedono comportamenti più duttili, autonomi e più responsabili». Mediazione possibile? Sì alla flessibilità, ma solo con l’accordo tra le parti e a salario invariato.

Altra scelta che rischia di aumentare la precarietà anziché ridurla è il comma che prevede la possibilità di estendere a tutti i settori produttivi, anche alzando la soglia massima di reddito, l’utilizzo dei voucher impiegato oggi per i lavori saltuari (stagionali, colf, baby sitter…). Anche in questo caso si paventa il rischio che, allargando le maglie, le imprese alla fine ne possano abusare. Quindi, per far passare la norma, la condizione è una sola: deve resta l’attuale soglia dei 5 mila euro di reddito.

Ancora un tabù, ancora un problema: il controllo a distanza dei lavoratori. Lo «Statuto» è nato quando Internet manco esisteva ed è chiaro che molte norme oggi risultano superate. Per questo il governo punta alla «revisione» di tutta questa distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore». Definizione forse un po’ generica, ma poi nemmeno troppo. Epperò la minoranza Pd fa muro anche su questo: «si controllino le macchine, non le persone». Per Sacconi invece, «la doverosa tutela della dignità del lavoratore», che ovviamente resta confermata in pieno, «non deve diventare motivo di inibizione per il migliore impiego delle nuove tecnologie, incluse le opportunità di telelavoro fin qui trascurate».

Quarto «scoglio», il riordino dei contratti. In seguito all’introduzione del contratto unico si punta a disboscare l’attuale selva fatta di 47 differenti modelli. La norma inserita nella delega è abbastanza chiara: parla esplicitamente di «abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato» e punta «eliminare duplicazioni» e «difficoltà interpretative e applicative». Ma anche questa formulazione, per la minoranza Pd , è troppo generica. Ma altrettanto generica però è la sua controproposta.

Infine, c’è il nodo dei soldi. Renzi punta a stanziare 2 miliardi nella prossima legge di Stabilità per estendere gli ammortizzatori sociali ai co.co.co: il sospetto di molti è che però si tratti degli stessi soldi oggi usati per la cassa in deroga e gli altri ammortizzatori. Vero? Falso? Certo è che così, alla vigilia della direzione Pd di domani e poi del confronto/scontro in Senato, la partita si complica ancor di più.

L’Italia di Fellini

L’Italia di Fellini

Giovanni Morandi – La Nazione

Mi si perdoni l’autocitazione ma per un caso ho ritrovato in un cassetto la brutta copia del compito che feci all’esame dell’Ordine per diventare giornalista professionista, un foglio protocollo timbrato 5 aprile 1978. L’autocitazione mi serve per dimostrare come in Italia si parli da decenni degli stessi problemi, senza uscirne. Scriveva il giovane candidato: “La frattura tra le due società si allarga e la distanza accentua l’incomprensione. Il conflitto è diventato contrasto tra ruoli non solo tra idee. La società dei padri e quella dei figli si sono trasformate e adesso si chiamano in due modi diversi, la società dei garantiti e quella degli abbandonati”. Accadeva allora ed è uguale oggi e oggi i campioni del conservatorismo che tiene in piedi la baracca da demolire sono soprattutto la vecchia guardia del Pd e la Cgil, strenui difensori dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che all’epoca fu una conquista sociale ma che poi con il tempo è diventato un freno che blocca la ripresa e assicura i privilegi ai garantiti che hanno già un lavoro senza preoccuparsi degli abbandonati che invece un lavoro non ce l’hanno, in primis i giovani.

Ma guardiamo il calendario per vedere di quale epoca stiamo parlando. Della preistoria, perché lo Statuto dei lavoratori, ovvero l’articolo 18 della legge numero 300 porta la data del 20 maggio 1970, ovvero 44 anni fa. Mezzo secolo. Pannella era un vigoroso rompiscatole che proprio in quell’anno fece passare la legge sul divorzio, legge che seppellì un’Italia codina e ipocrita, incombevano le trame di piazza Fontana, le cui bombe erano esplose sei mesi prima, vennero istituite le regioni, senza che nessuno potesse immaginare che sarebbero diventate allegre assemblee dalle spese pazze e il Presidente della Repubblica era il socialdemocratico Giuseppe Saragat. Che cosa è rimasto di quell’Italia? Per un verso quasi nulla, per l’altro quasi tutto a cominciare dal blocco sociale dei garantiti che si trincerano dietro le cosiddette conquiste dei lavoratori e quelli che il lavoro non ce l’hanno si arrangino, anche se sono i figli degli occupati o dei pensionati. Così siamo arrivati a questo punto e chi si è azzardato a cambiare l’ha pagata cara, bastonato dai raduni alla Cofferati, che vorrebbe ancora sbarrare la strada, o eliminato dalle Brigate Rosse, che hanno ucciso i giuslavoristi. Uccisi per la sola colpa di voler rinnovare un paese dove gli intoccabili hanno sempre trovato protettori non sempre presentabili.

I prossimi giorni saranno decisivi per capire se Renzi ce la farà a dare un calcio all’articolo 18 o se invece dovrà fare valigie da Palazzo Chigi. Vedremo se vincerà lui o quelli che invece pensano si debba cambiare governo una volta l’anno, naturalmente pescando nel solito salottino milanese. Questa è l ‘Italia che Federico Fellini descrisse in modo magistrale nella “Prova d’orchestra”, film del 1979 che parla di un maestro costretto a piegarsi a musicisti somari e prepotenti. Fellini fece questo film molti decenni prima che la stessa amara esperienza capitasse al più celebre direttore d ‘orchestra italiano, Riccardo Muti, costretto a fuggire dall’Opera di Roma per non subire più le angherie di musicisti intoccabili e dei loro sindacati sfascisti che dentro quel teatro fanno da padroni. Una vergogna nazionale, anzi una vergogna esemplare.

Ogni anno 17mila licenziamenti, solo un quarto torna in azienda

Ogni anno 17mila licenziamenti, solo un quarto torna in azienda

Roberto Giovannini – La Stampa

«L’articolo 18? Stiamo discutendo di un tema che riguarda 3mila persone l’anno in un Paese che ha 60 milioni di abitanti», ha detto nei giorni scorsi il premier Matteo Renzi. Si sbaglia: secondo i dati ufficiali del ministero del Lavoro, solo nel gennaio-giugno 2014 ha riguardato 8537 persone. Potrebbero essere 15-16 mila per l’intero anno in corso.

Pochi, tanti? Noi abbiamo cercato di rispondere alla seguente domanda: quante persone vengono effettivamente licenziate per «giustificato motivo oggettivo» (sono i cosiddetti «licenziamenti economici» di cui si sta discutendo) nelle aziende con oltre 15 dipendenti? La risposta esatta a questa domanda è impossibile darla, per una serie di paradossi legislativi, amministrativi e statistici. Consultando gli unici dati disponibili, quelli del ministero del Lavoro, possiamo dire soltanto che dall’agosto del 2012 (data di entrata in vigore della riforma Fornero del mercato del lavoro) fino al giugno 2014, 39.405 lavoratori sono passati per i meccanismi giudiziari previsti dalla legge. Tanti sono i lavoratori che hanno ricevuto la comunicazione del loro datore di lavoro di volerli licenziare. Non siamo in grado di dire esattamente quanti di costoro abbiano perso il posto: ragionevolmente, si può stimare che almeno tre su quattro (dunque 30 mila circa) alla fine abbiano lasciato la vecchia azienda in cambio di una somma di danaro.

Facciamo un passo indietro. La riforma Fornero del 2012 ha già intaccato in modo significativo l’articolo 18, rendendo possibile (ad alcune condizioni) il licenziamento individuale in una azienda con più di 15 dipendenti. Ricordiamo anche che il licenziamento senza reintegro è possibile anche per «giusta causa» (se il dipendente ruba) e per «giustificato motivo soggettivo (se non lavora). E ci sono i licenziamenti collettivi in caso di crisi aziendale. Quando un datore di lavoro vuole fare un «licenziamento economico», in base alla legge deve avviare una procedura obbligatoria di conciliazione presso la direzione provinciale del Lavoro. Se l’ufficio non risponde in sette giorni il licenziamento è valido (è successo a 490 persone nel primo semestre 2014). Questo tentativo di conciliazione può sfociare in una causa giudiziaria se le parti non si mettono d’accordo (2563 su 8047 sempre nel primo semestre). Oppure in un accordo (4310 situazioni): il lavoratore accetta dei soldi e se ne va (la stragrande maggioranza dei casi) o l’azienda rinuncia al licenziamento (solo 428 casi). In conclusione, certamente degli 8537 lavoratori «pre-licenziati» nei primi sei mesi dell’anno, 4372 hanno finito per perdere il posto. A parte 1174 casi indicati misteriosamente come «altro», del destino dei 2563 andati in tribunale non sapremo mai esattamente nulla. Perché, come spiegano gli esperti, per una strana dimenticanza non è stato assegnato un «codice amministrativo» a questo tipo di cause. Che dunque non sono rilevate statisticamente. Secondo le rilevazioni della Cgil, considerate attendibili, nel 2013 nell’80-90% il giudice avrebbe dato ragione al lavoratore, reintegrandolo nel posto di lavoro. Ma due terzi dei lavoratori reintegrati avrebbe scelto comunque di lasciare il vecchio posto in cambio di un’indennità, maggiore di quella che avrebbe spuntato inizialmente.

Gli scarni dati disponibili consentono di sviluppare alcune considerazioni. Si conferma che in testa alla classifica delle «comunicazioni obbligatorie» ci sono le Regioni dove maggiore è l’attività economica, come la Lombardia, il Lazio e il Veneto. Come fa notare l’ex sindacalista e parlamentare Giuliano Cazzola – sulla base di un recentissimo documento dell’Isfol – «appena approvata la riforma Fornero c’è stata da parte dei datori di lavoro più fortemente motivati a licenziare una immediata attivazione. Questo, insieme alla forte crisi congiunturale a cavallo tra 2012 e inizio 2013, ha fatto sì che inizialmente i numeri dei licenziamenti economici siano stati più importanti».

Alla fine quasi 40 mila casi di avviato licenziamento nelle imprese con più di 15 dipendenti in 24 mesi (se il trend sarà costante, potrebbero essere 17 mila nel 2014) non sono obiettivamente moltissimi. Ma neanche così pochi, dicono in casa Cgil. Primo, perché non sarà mai possibile misurare (finiranno nell’elenco delle «dimissioni volontarie») tutte le situazioni in cui il lavoratore, informato più o meno garbatamente della volontà del suo datore di lavoro di licenziarlo in cambio di soldi, accetta l’assegno e si licenzia. Dunque, dicono i sindacalisti, anche con l’articolo 18 riveduto e corretto da Elsa Fornero, i licenziamenti individuali con indennizzo (tra quelli «nascosti» e quelli ufficializzati con la comunicazione) esistono eccome. Togliere il potere deterrente dell’articolo 18 servirà solo a diminuire l’importo dell’assegno per il lavoratore che perde il suo impiego. E a favorire la cacciata dalle aziende dei lavoratori che verranno considerati, caso per caso, «problematici».

Cosa paralizza il Made in Italy

Cosa paralizza il Made in Italy

Bruno Vespa – Il Mattino

La mia generazione si è formata nella convinzione che il lavoro subordinato sarebbe durato dal giorno dell’assunzione a quello del pensionamento e per poi congedarsi «col massimo», cioè con un assegno sostanzialmente equivalente all’ultimo stipendio. Nessuno pensava che il mondo sarebbe radicalmente cambiato e che anche in Italia si sarebbe dovuto affrontare un giorno il mutamento epocale, altrove avvenuto da tempo: si potrà essere licenziati con la garanzia che lo Stato si impegna a fornire un forte paracadute. E ad attivare efficienti meccanismi di assistenza e di formazione in modo che chi ha perso il lavoro abbia modo di trovarne un altro. È quanto è avvenuto in Germania dove nel 2003 la disoccupazione era maggiore dell’Italia e ora è la metà, i redditi sono più alti e l’economia è la più forte d’Europa.

Abbiamo perduto dodici anni da quando Silvio Berlusconi stipulò il 4 luglio 2002 un Patto per l’Italia con Cisl e Uil per fare qualcosa di simile, ma fu sconfitto sul campo dalla Cgil. E ne sono trascorsi quindici da quando ci provò Massimo D’Alema: sia pure con minor clamore fece la stessa fine. La condizione di paralisi in cui si trova l’economia italiana ha indotto Matteo Renzi a giocare la carta proibita: salvo ripensamenti dell’ultima ora, lunedì prossimo la direzione del Pd approverà la cornice della legge delega con la previsione di sostituire il reintegro per i nuovi assunti di qualunque età che fossero un giorno licenziati con un adeguato risarcimento economico e con tutti gli ammortizzatori sociali necessari. «Il mio impegno è chiaro», ha detto il premier al Wall Street Journal. «Realizzare le riforme indipendentemente dalle reazioni».

Le reazioni della Cgil e della minoranza del Pd saranno forti. Per la prima volta mercoledì a «Porta a porta» Susanna Camusso ha aperto alla possibilità che per un ridotto numero di anni i nuovi assunti possano rinunciare all’articolo 18, mettendosi sulla scia della minoranza democratica. Una svolta a suo modo epocale, ma insufficiente a far arretrare il presidente del Consiglio. Il richiamo di ieri della Conferenza episcopale italiana («Bisogna guardare con più realismo alle persone che non hanno lavoro e che cercano lavoro») invitando ad ammainare la bandiere sventolate intorno all’articolo 18 può essere interpretato come un freno a Renzi e quasi come un contraltare all’incoraggiamento che gli viene invece dal capo dello Stato. Ma è un contraltare ambiguo: qual è il modo migliore di preoccuparsi della sorte dei disoccupati? Blindare gli occupati del futuro al punto che restino senza lavoro nel presente?

Ha ragione la Camusso quando dice che l’articolo 18 è lo scalpo che Renzi deve portare al vertice europeo dell’8 ottobre. Sono fondate le preoccupazioni della minoranza Pd a proposito dei soldi che servono per finanziare nuovi e adeguati ammortizzatori sociali. Ma se è vero che la nostra legislazione sul lavoro è la più paralizzante in tutti i 35 paesi dell’Ocse, occorre renderla «normale». È essenziale, al tempo stesso, che Renzi si faccia pagare lo «scalpo» con una immediata flessibilità che gli consenta non solo di prevedere già nella legge di stabilità i nuovi ammortizzatori sociali, ma gli dia modo di distribuire soldi alle fasce meno protette e di ridurre ulteriormente l’Irap alle imprese. Bisogna insomma attivare un circuito virtuoso di cui la rimozione dell’articolo 18 per i nuovi assunti sia soltanto l’ingranaggio iniziale di un meccanismo del tutto nuovo e assai più efficiente della giungla attuale.

Con la (vera) riforma può finire un’epoca

Con la (vera) riforma può finire un’epoca

Emanuele Massagli – Libero

Il 19 settembre la Commissione Lavoro del Senato ha approvato il testo modificato del disegno di legge delega in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino dei rapporti di lavoro. Appare scontato il passaggio a Palazzo Madama, meno quello alla Camera, dove Cesare Damiano, presidente della competente Commissione e portavoce dell’anima Pd contraria alla riforma, ha annunciato battaglia «senza se e senza ma».

La nuova versione del disegno di legge n. 1428 è differente dalla precedente in diversi passaggi. Non si tratta di modifiche sostanziali (in buona parte sono tentativi di dettaglio di principi di delega che rimangono ancora molto vaghi), eccetto che nel caso dell’articolo 4, quasi integralmente riscritto. Qui è formalizzato l’ormai noto «attacco diretto» all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Invero, più che di un assalto si dovrebbe parlare di aggiramento, non contenendo l’articolo 4 alcuna modifica alle norme sul licenziamento individuale, sebbene sia evidente a tutti l’intenzione degli estensori dell’emendamento che ha modificato il testo originario: superare la rigidità dell’articolo 18 ripensando interamente la disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La lettera b) dell’articolo 4, infatti, dispone per le nuove assunzioni il «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Si tratta di una formulazione molto più eloquente di quella precedente, che si limitava a prevedere l’introduzione «eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti». Questa definizione apriva le porte al contratto di inserimento come proposto negli anni anche dallo stesso Damiano: uno, due o tre anni di prova «lunga» con la sola tutela economica in caso di licenziamento. Tutto il resto della vita lavorativa con la tradizionale copertura dell’articolo 18. Al contrario, la nuova lettera b) mira al superamento definitivo della reintegra in caso di licenziamento, di cui non godranno i nuovi assunti, che saranno invece coperti dalle cosiddette tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, ovvero un indennizzo economico proporzionale agli anni di dipendenza dall’impresa.

Si può discutere a lungo sull’opportunità politica, tecnico-giuridica, economica, ma anche sociale e valoriale di questo intervento; presentare i dati sul contenzioso che riguarda la materia (circa 17.000 cause di primo grado, 71.000 complessive); ricordare le ricerche economiche che dimostrano tanto l’inutilità quanto l’efficacia degli interventi sulla cosiddetta disciplina di protezione dell’impiego per incoraggiare l’occupazione. Teorizzare benaltristicamente il grande numero di ulteriori interventi che sarebbero necessari per modernizzare il diritto del lavoro; usare la comparazione con Germania o Regno Unito (i benchmark non sono mai scelti a caso) per confutare o avallare la logica sottostante al decreto. Si può fare tutto questo sempre rimanendo sulla superficie del passaggio storico che l’archiviazione dell’articolo 18 individua: il definitivo abbandono dei porti sicuri, delle definizioni certe in materia di lavoro conosciute nel Novecento.

Il dibattito sulla reintegra interessa più la politica e i sindacati che il Paese reale, quello che spera di trovarlo un lavoro prima ancora di studiare come difenderlo, quello che fatica perché il lavoro di tutti i giorni sia sempre più «suo» e non una parentesi alienata nella giornata, quello caratterizzato da quasi tre milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Per questa larga parte di Italia non esiste alcun articolo 18 da un bel pezzo, altro che dualismo insiders-outsiders. Il suo superamento è quindi un (tardivo) segnale di reale volontà di cambiamento, oltre i dogmatismi che ancora impregnano qualsiasi dibattito sui temi del lavoro. Si proceda allora.

Non si vive però di soli simboli: è necessario che dietro agli slogan che più interessano i media ci sia anche un disegno solido, cosciente e complessivo di riforma delle regole del lavoro in Italia. Un tentativo, quantomeno un’ipotesi, di lettura di un mercato del lavoro sempre più lontano dalle regole scritte sulla carta. È questo il contenuto degli altri cinque articoli della delega? Purtroppo no, ma di questo nessuno ne parla.