articolo 18

Articolo 18, le tante (facili) illusioni sugli altri modelli

Articolo 18, le tante (facili) illusioni sugli altri modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

In materia di articolo 18 il dibattito di questi giorni si sta focalizzando attorno al modello tedesco e in particolare sulla possibilità che ha il giudice del lavoro di ordinare il reintegro del dipendente licenziato. Questa disposizione della legge tedesca, come spesso accade in Italia, è diventata quasi simbolica: una sorta di diga politico-culturale eretta da ampi settori del mondo sindacale e da una parte della minoranza pd per stoppare i provvedimenti del governo. Ma proviamo a capirne il perché.

L’orientamento della magistratura tedesca è rimasto abbastanza coerente nel tempo e porta nella stragrande maggioranza dei casi a ordinare il risarcimento monetario del licenziamento. Solo in pochi casi di palese discriminazione i giudici del lavoro sanciscono il reintegro in azienda. In questo modo in Germania si concilia la presenza nella norma di un diritto in più e un’applicazione, quasi quotidiana, che favorisce la flessibilità (in uscita) del rapporto di lavoro.

Da noi, in base alle norme vigenti adesso e quindi non prendendo a riferimento le novità contenute nel Jobs act governativo, la prassi giurisprudenziale risulta molto difforme da tribunale a tribunale e si arriva per casi simili anche a sentenze molto diverse tra loro, se non opposte. La causa, secondo il parere dei giuslavoristi, risiede nel dispositivo introdotto dalla legge Fornero che produce massima incertezza e concede un’eccessiva discrezionalità al magistrato. Più in generale si può aggiungere che la cultura economica prevalente tra i magistrati del lavoro li porta a concepire il diritto come uno strumento di riequilibrio democratico rispetto al rapporto di forza asimmetrico tra datore di lavoro e dipendente. Per l’insieme di questi motivi i sindacalisti sono portati a sostenere la bontà del modello tedesco e sarà bene quindi scrivere bene la formulazione della nuova legge, o avremo una nuova Babele del diritto.

Quando la sinistra “rivoluzionaria” voleva licenziamenti più facili

Quando la sinistra “rivoluzionaria” voleva licenziamenti più facili

Carlantonio Solimene – Il Tempo

Una premessa è doverosa: cambiare idea non è un peccato mortale. Anzi, talvolta è sintomo di intelligenza e umiltà. Tuttavia, di fronte a giravolte clamorose come quelle di tanti leader della sinistra sulla riforma dello Statuto del lavoro, è fondato il sospetto che più che trattarsi di sincera convinzione ci si trovi di fronte a un mero calcolo di opportunità politica. Il tema è sempre lo stesso: l’ormai famigerato articolo 18. Che di volta in volta cambia natura. È il totem di una sinistra che vuole difenderlo a ogni costo se a metterlo in discussione è l’«altro». Oppure è il retaggio di un mondo del lavoro che non esiste più e va abolito quando si vuole trasmettere l’idea di una sinistra più moderna, «blairiana», e magari sfidare la vecchia guardia del partito.

La vendetta di Ichino
Della giravolta di D’Alema ha già reso conto Pietro De Leo su Il Tempo. Ma ad andare oltre ci ha pensato Pietro Ichino, il giuslavorista ex piddino che, proprio per le sue idee troppo «aperte» sul welfare, alla vigilia delle scorse elezioni fu costretto a traslocare sotto le insegne montiane. Ora, com’è ovvio che sia, Ichino ha sposato in toto il progetto di Matteo Renzi – anche se lui direbbe che è stato Renzi a ispirarsi alle sue idee – e dal suo sito internet si è divertito a stanare uno per uno i vari esponenti Democratici che, tra il 2005 e il 2010, invocavano una riforma decisa del mercato del lavoro in chiave più «flessibile». E che, guarda caso, sono gli stessi che ora vorrebbero osteggiare in ogni modo i progetti del premier. I primi a essere inchiodati sono Cesare Damiano e Tiziano Treu. La fonte è quanto di più autorevole ci possa essere per la sinistra: un articolo de l’Unità risalente al 2005: «È la Danimarca a essere depositaria del “modello vincente”. È questo il parere di Tiziano Treu, Cesare Damiano e Paolo Ferrero nei giorni scorsi a Copenhagen in una sorta di “missione studio”». Segue una dichiarazione di Damiano: «L’entrata e uscita dal mondo del lavoro in Danimarca non è un problema perché esiste una forte protezione sociale». «La mobilità del lavoro investe circa 800mila persone su 4 milioni “ma non fa paura – continua l’esponente diessino – perché l’accesso a un altro impiego è garantito, anche grazie al ruolo attivo del sindacato nella gestione del sistema di orientamento e formazione”».

Viva la Danimarca. Anzi no
Si parla di «flexsecurity». Quel modello, cioè, che prevede minori tutele per il lavoratore – che di fatto non è protetto in alcun modo dal licenziamento – accompagnate però da maggiore attenzione nel momento della disoccupazione. Con sussidi superiori e la quasi sicurezza di potersi ricollocare in breve nel mondo occupazionale. Un modello, quello che ha visto le migliori realizzazioni in Danimarca e Svezia, che sembra piacere anche all’ex segretario piddino Pier Luigi Bersani. Stavolta la fonte citata da Ichino è un’intervista al Sole 24 Ore rilasciata da Bersani nel giugno 2009: «Non va mica bene che c’è una parte di protetti e la metà che è senza tutele. Anche perché i “tutelati” stanno andando man mano in pensione e sul mercato ci resteranno solo gli altri». L’intervistare si stupisce: «Scusi ma lei propone quel contratto unico di cui parlano anche Pietro Ichino e Tito Boeri?». Bersani risponde deciso: «Non è che mi vada bene al cento per cento. Ma la direzione è quella. Questo doppio regime nel lavoro non funziona più. E sono pronto alla battaglia con i sindacati. Perché, pure loro, si dimostrano miopi. E quando tutti i protetti andranno in pensione? Cosa rimane? Rimane il far west». Come si può leggere, colui che sarebbe diventato segretario del Pd appena quattro mesi dopo, non aveva problemi a dichiarare guerra ai sindacati su un tema così delicato. Si nasce incendiari e si finisce pompieri, recita un antico adagio, che potrebbe valere anche per Vannino Chiti, un altro degli esponenti Pd che conducono contro Renzi una lotta senza quartiere. Sulla riforma del Senato così come su quella del Lavoro. Proprio con Chiti Ichino è particolarmente velenoso: «Oggi dichiara “Rivolgo un invito al presidente del Consiglio: sulla delega per il lavoro eviti forzature e diktat (…) È senza fondamento e non accettabile per la sinistra rimettere in discussione ciò che resta dell’articolo 18″. Ma è lo stesso che nel 2009 figurava come terzo firmatario, insieme a Emma Bonino e a me, del ddl n. 1873, contenente la I edizione del Codice semplificato del lavoro con la riscrittura integrale dello Statuto dei Lavoratori (e ovviamente anche dell’art. 18)».

Il sindacato renziano
Solo gli stupidi non cambiano mai idea, va ribadito. Anche perché la «flexsecurity» non è accolta come oro colato neanche nel mondo degli economisti. C’è chi, ad esempio, sostiene che in periodi di crisi il sistema dei licenziamenti facili fa impennare il tasso di disoccupazione e indebolire la catena che porta al ricollocamento. Causando una diminuzione dei consumi e innestando la spirale della recessione. Pareri diversi, come quelli espressi da Luigi Angeletti a distanza di soli quattro anni. È il segretario della Uil l’ultima vittima della velenosa antologia di Ichino: «Oggi si affianca a Susanna Camusso accusando Renzi di “togliere protezioni a chi ce le ha”, ma è lo stesso che sul Corriere della Sera del 9 febbraio 2010, dichiara di condividere il progetto flexsecurity, ritenendolo una “soluzione intelligente e praticabile” e un’idea “moderna, che rende più efficiente il mercato e difende sul serio le persone». Considerazioni che fanno il paio con una lettera del novembre 2011 spedita a tutti gli iscritti, in cui Angeletti approva l’impostazione della legge 1.873/2009 e invita il sindacato a sostenerla. Sembra un’altra era, un altro Paese. Invece sono passati meno di tre anni.

Il problema è un altro

Il problema è un altro

Il Foglio

Quello dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori “è un problema minore rispetto ai problemi drammatici di questo paese”. Lo ha detto due giorni fa il presidente dell’Espresso, Carlo De Benedetti, con discreta eco sulla carta stampata. D’altronde un imprenditore che dica che c’è “ben altro da fare”, proprio quando si vede all’orizzonte un governo finalmente pronto a cambiare una norma vecchia di 44 anni, in Italia lo troviamo sempre. Ieri, per esempio la Cgil rilanciava prontamente su Twitter l’intervista rilasciata a Ballarò da un “imprenditore” che sosteneva: “A noi dell’articolo 18 non interessa niente”. Lo stesso “imprenditore”, in realtà ai vertici di una cooperativa, che trenta secondi prima spiegava cosa s’attende dallo stato: “Meno tasse e più incentivi, più risorse”. Perché no? A Napoli hanno appena scoperto la più grande stamperia d’Europa di banconote false. Qualcuno ne metterà su un’altra e allora potremo realizzare l’originale proposta: meno entrate per lo stato e, allo stesso tempo, più uscite.

Ma De Benedetti non è un imprenditore qualunque. Eppure insiste: “L’articolo 18 è un problema minore”. Nell’articolo 18, per 44 anni, si è cristalizzata una legge dell’economia che vige soltanto in Italia: sui licenziamenti individuali, per ragioni economiche o disciplinari che sia, è più titolato a decidere un magistrato che un datore di lavoro. Problema minore, quello dei licenziamenti, per chi per esempio, come De Benedetti, si è dovuto sudare contratti e accordi con un carrozzone statale e politicizzato come l’Iri. Problema minore quando gli organici si tagliano in grandi quantità, come fu per Olivetti, e addirittura si è nella posizione di intavolare trattative (raccontate anche su Rep. degli anni 90) per paracadutare i licenziati nel settore pubblico. Problema minore, quello dell’articolo 18, se la Sorgenia può avvalersi di sussidi pubblici (per carità, in buona compagnia). Problema minore, quello dell’articolo 18, se tanto per i propri dipendenti c’è sempre la cassa integrazione e per l’indotto c’è perfino quella in deroga. Poco importa se il Welfare attuale, tutt’altro che universale, è figlio diretto della divisione dei lavoratori italiani tra insider garantiti e outsider senza protezioni. Poco importa se 90 assunti su 100, nel 2013, l’articolo 18 nemmeno l’hanno visto, spesso vittime di quella che il giuslavorista chiama “fuga dal diritto del lavoro”. La tessera numero uno del (vecchio) Pd vuole parlar d’altro. E purtroppo in Italia non è il solo.

I senza tutela lasciati fuori dal sindacato inossidabile

I senza tutela lasciati fuori dal sindacato inossidabile

Oscar Giannino – Il Messaggero

Raffaele Bonanni anticipa la sua successione alla guida della Cisl nel culmine della battaglia sull’articolo 18. E dà in questo un epilogo a una vita di passione sindacale che l’ha visto spesso impegnato in battaglie molto difficili. Se Pierre Carniti l’ha rimproverato di aver troppo rimarcato la “differenza” riformista della Cisl, rispetto all’antagonismo spesso risorgente nella Cgil e nella Fiom, al contrario è per il senso di responsabilità di Bonanni e di chi lha sostenuto alla Cisl su molti accordi innovativi – una per tutte la vicenda Fiat- che, ancora recentemente, purtroppo la confederazione si è trovata ad avere sedi vandalizzate e dirigenti minacciati.

Ora che l’addio di Bonanni è nelle cose, molti argomentano che il punto centrale è la distanza o la vicinanza del sindacato rispetto a questo o quel governo, a quelli Berlusconi un tempo, a quello Renzi oggi. Ma il nodo più essenziale non è il rapporto con la politica, se vogliamo interrogarci sul rilievo e sull’apporto che il sindacato può dare a un Paese che ha molto perduto – in termini di reddito, lavoro e prodotto – ma che al contempo sente di potersi battere per difendere il suo posto sui mercati mondiali.

È invece il suo rapporto con il mondo del lavoro, la sua vicinanza o distanza rispetto a come il lavoro è diventato concretamente in Italia. In Italia i fatti non sono andati come si poteva immaginare ai tempi di Carniti o di Lama. Non siamo diventati un Paese in cui la stragrande maggioranza degli occupati sarebbe stata ineluttabilmente a tempo indeterminato e in imprese sempre più grandi. Quelle attese erano maturate negli anni Cinquanta e Sessanta, scambiando il salto che l’Italia compiva, agganciando in soli 15 anni le economie industriali da una realtà postbellica che era ancora agro-pastorale, come un anticipo di una tendenza volta a confermarsi nei decenni.

Non è andata così. Contiamo nelle graduatorie internazionali meno grandi e grandissime imprese italiane di quante erano 20 anni fa. Restiamo un Paese in cui il tessuto d’impresa, anche nel settore manifatturiero, ha visto le piccole e piccolissime aziende resistere accanitamente. Tra i Paesi a forte componente di valore aggiunto manifatturiero sul Pil, siamo quelli con il più alto numero in milioni di lavoratori autonomi, artigiani e commercianti, partite Iva e freelance. E a tutto questo, negli ultimi 15 anni, abbiamo aggiunto un esercito di milioni di lavoratori più giovani a tempo determinato, a bassissimo e incerto reddito, estranei alle tutele immaginate solo ai tempi eroici per i dipendenti a tempo indeterminato delle aziende medio-grandi, a singhiozzante continuità contributiva, e ciò malgrado proprio coloro che più contribuiscono in positivo, oggi, a pagare le ricche pensioni retributive degli ipertutelati di un tempo, pensioni retributive che i più giovani non avranno.

È in questo mondo – un mondo maggioritario tra i 22,4 milioni di lavoratori italiani, cassintegrati compresi – che il sindacato oggi, anzi da un po’ di anni, semplicemente non c’è. Malgrado, per esempio, le intese degli anni più recenti sui criteri di rappresentanza sui posti di lavoro, è ancora più regola che eccezione che i precari non possano votare per le rappresentanze sindacali. Ma per il resto, e per fare un solo esempio, a favore di Daniela Fregosi che, da lavoratrice autonoma malata di cancro, ha coraggiosamente fatto del suo caso personale una battaglia pubblica, perché per il welfare italiano attuale un’autonoma malata non ha diritto alle tutele salariali e contributive dei dipendenti, si batte l’Acta, l’Associazione dei freelance del terziario avanzato, non certo il sindacato.

È questa la più grande lacuna della rappresentanza del mondo del lavoro italiano. E le risposte date in questi anni dalle confederazioni, la nascita di articolazioni come la Nidil (nuove identità di lavoro) in Cgil, o le analoghe rappresentanze dei lavori a tempo e in somministrazione da parte di Cisl e Uil, o gli inseguimenti tra confederali e molteplici sindacati di base nella rappresentanza dei precari della PA e in particolare della scuola, sono stati sin qui tentativi troppo parziali e insoddisfacenti. Volti a organizzare proteste per l’assunzione a tempo indeterminato nel pubblico come nel privato, non a cambiare identità, regole e struttura del sindacato. Accettando pienamente l’idea che i contratti a tempo esistono ed esisteranno comunque, qualunque sia la riforma o meno dell’articolo 18, perché assecondano esigenze dell’offerta di beni e servizi che devono rispondere a una domanda interna ed estera che muta in tempi rapidi, e perché l’esternalizzazione di funzioni e processi dall’unità d’impresa non è solo una furbata per star sotto la soglia dei 15 dipendenti, ma una necessità dovuta all’ottimizzazione dei risultati.

Per tutte questa ragioni, è ovvio che da una parte verrebbe da dire a Bonanni che se un compito dovrebbe avere il suo successore, è quello per esempio di lavorare a unificare Cisl e Uil, la cui persistenza in vita come confederazioni distinte assolve più alla ragione di tenere in piedi organi territoriali e nazionali e quadri e dirigenti doppi, che alla perdurante irriducibilità culturale di due ispirazioni, quella cattolica e quella socialdemocratica, che appartengono irrimediabilmente all’Ottocento e al Novecento.

Ma, dall’altra parte, l’appello vero da rivolgere alla Cisl, alla Uil e alla Cgil, è molto più ampio di una mera riconsiderazione delle proprie distinzioni, o dell’appello alla mitica “unità” delle confederazioni. Dovrebbero capire che è tempo di non maturare più successioni alla leadership a vantaggio di chi ha già passato decenni nelle segreterie nazionali di categoria e confederali, ma invece di chi viene dalla contrattazione decentrata che è il futuro. Si è appena sottoscritto l’ennesimo contratto aziendale – alla Ducati, del gruppo Volkswagen – fortemente innovativo su turni, festività, orari, salari, investimenti dell’azienda e nuove assunzioni. Ma ancora oggi, in Italia, noi non abbiamo neanche una banca dati centralizzata sulle intese aziendali, perché i sindacati temono che realizzarla significhi dare un colpo al sistema che continuano a difendere, quello dei contratti nazionali di lavoro che fissano oltre il 95% del salario: mentre solo accettando che quelli aziendali siano prevalenti su quello nazionale anche per i salari, davvero il sindacato riconquista il proprio ruolo di motore a difesa del lavoro e del suo reddito, a fianco dell’impresa e meglio potendo anche osservarne dall’interno andamenti e investimenti. E soprattutto compartecipando gli effetti positivi di quell’aumento di produttività in assenza del quale, dopo 15 anni di stagnazione, ci sarà sempre meno impresa e meno lavoro.

Non è un problema di età, e neanche di genere, anche se ovviamente più sindacaliste in posizioni di responsabilità è meno scandaloso di una rappresentanza maschile a senso unico. È un problema di testa: accettare l’idea che rappresentare gli autonomi significa sposare l’idea che è ingiusto che la contribuzione a carico degli iscritti al fondo speciale Inps sia maggiore di quella dei lavoratori dipendenti, battersi per un welfare che non è più incentrato sull’idea novecentesca della maggior tutela ai dipendenti, chiedere un fisco che non discrimini la percezione per reddito a seconda della fonte. Per lungo tempo, in Italia, il problema del sindacato è stato quello di non concepire l’impresa come nemica. Oggi, è diventato quello di non considerare milioni di lavoratori come estranei.

Non è un Paese per giovani

Non è un Paese per giovani

Elisabetta Gualmini – La Stampa

L’Italia non riesce a fare cose per i giovani. È un paese vecchio, fatto per i vecchi, e si compiace di esserlo. Il surreale dibattito sull’articolo 18 che si presenta puntuale ad ogni cambio di governo ne è l’ennesima dimostrazione. Sì certo, l’articolo 18 è già stato modificato due anni fa, e non saranno né la sua conservazione né il suo superamento (da soli) a spingere magicamente verso l’alto il tasso di occupazione italiano. Ma se la sua rimodulazione avviene dentro a una più ampia ipotesi di riforma che aumenti le probabilità di nuove assunzioni e ampli le tutele per la galassia da anni in espansione dei lavoratori precari, in gran parte giovani, non ci si può limitare a dire che i problemi sono «ben altri» o storcere il naso. Non si capisce perché dovremmo appassionarci vedendo erigere le solite barricate, da parte di chi protegge i già protetti.

Le riforme si fanno spesso grazie a compromessi tra le parti interessate. Il contratto a tutele crescenti che prevede maggiore flessibilità all’inizio della vita lavorativa (la sospensione dell’art. 18, esattamente come in Danimarca) in cambio di tutele che crescono nel tempo è una buona mediazione tra esigenze dei lavoratori e dell’impresa. Dovrebbe sostituire la lotteria delle controversie davanti ai giudici con vincoli stringenti ad assumere con contratti a tempo indeterminato, disincentivi economici a licenziare per gli imprenditori, risorse a vantaggio del lavoratore per l’eventuale ricerca di una nuova occupazione. Se questo compromesso serve a dimostrare all’Europa e agli investitori che le riforme si fanno, che il paese non è bloccato, che non è in mano ai conservatorismi, se serve a dare qualche garanzia in più a chi veleggia angosciato tra contratti intermittenti che ammazzano qualsiasi prospettiva di futuro, è bene andare avanti. Come ha peraltro suggerito – unico «giovane» tra vecchi e giovani-vecchi – il Capo dello Stato.

Non c’è dubbio che i giovani abbiano pagato più di tutti per la crisi degli ultimi 10 anni. Tra loro il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato (dal 17% nel 2004 al 45% del 2014). I giovani e le molte donne senza un’occupazione stabile non sanno nemmeno cosa sia l’articolo 18, né gli passa per la mente di iscriversi al sindacato. Presumo assistano comprensibilmente disillusi all’arzigogolata discussione tra legulei sulle conseguenze e le virtù di uno «Statuto» pensato alla fine degli Anni Sessanta con l’intenzione di trasferire nel settore privato il modello (di allora) del «posto fisso» nel settore pubblico. Per loro sono discorsi che arrivano da un’altra epoca, scritti in caratteri sconosciuti. Indecifrabili. Insomma, di cosa stiamo parlando? Della nostalgia per un mondo che non c’è più?

Una riforma per i nuovi assunti può essere una risposta se tuttavia si verificano due condizioni. Primo se si vuole andare fino in fondo il contratto a tutele crescenti dovrebbe assorbire un bel po’ di contratti atipici, in modo da vincolare gli imprenditori ad assumere con il nuovo contratto a tempo indeterminato abbandonando via via tutte le forme di maggiore precarizzazione (false collaborazioni e partite Iva, lavoro accessorio, etc.). La sfida più grossa infatti nel nostro paese è quella di stabilizzare le carriere lavorative, essendo ampiamente dimostrato che chi entra nel mercato del lavoro con il piede sbagliato, e cioè con contratti non standard, ha davanti a sé un percorso di lavoro decisamente accidentato, da cui è difficile divincolarsi. Secondo, occorre giocare a carte scoperte sul tema delle risorse. A quali categorie verranno estesi gli ammortizzatori, al posto di quali indennità e con quali costi? Questo va chiarito prima e non dopo la riforma. L’erogazione universale dei sussidi non sembra verosimile in un contesto di risorse scarse. Non si può sentir dire dentro allo stesso partito che la riforma costa 2 miliardi, poi 10 e poi 20. La vaghezza con cui si parla della sostenibilità tecnica della riforma è sconcertante. E soprattutto da dove verranno le risorse? Chi se ne occupa e ce lo spiega?

Aspettiamo risposte robuste. Gli slogan, le stilettate e gli attacchi alle tartine hanno francamente stufato. E se poi si riesce a rendere l’ambiente del mercato del lavoro meno ingessato e a offrire qualche brandello di protezione in più a chi non ne ha, è già molto. Per evitare che l’Italia continui a essere un bellissimo paese. Ma solo per i vecchi.

Una sfida ancora lunga

Una sfida ancora lunga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La bandiera dell’art. 18 e della riforma del lavoro sventola anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Il premier Renzi l’ha mostrata al Council on Foreign Relations e il messaggio politico è stato chiaro per tutti. Per gli americani la determinazione dell’ospite italiano e il suo inedito dinamismo sono di certo una piacevole sorpresa. Per chi invece vede le cose dalla vecchia Europa la bandiera renziana non ha segreti da tempo. È un metodo con una logica precisa. L’articolo 18 da abolire è un simbolo che ovviamente il presidente del Consiglio non può né vuole ammainare. E la connessa riforma del lavoro è anche una grande operazione di “marketing” volta a imporre all’estero l’immagine della “nuova Italia”.

In Italia infuria il dibattito sulla reale consistenza del personaggio Renzi, sulla sua capacità di trasformare le declamazioni in fatti concreti, e l’editoriale del direttore del “Corriere della Sera” ha fatto clamore. Ma intanto lui, il diretto interessato, gioca un’altra partita e in America usa il linguaggio ed evoca gli scenari che i suoi interlocutori d’oltreoceano apprezzano di più. È un altro aspetto dell’arabesco che egli sta ricamando con l’opinione pubblica interna e internazionale. Di conseguenza i suoi oppositori nel Pd, quelli che frenano sull’articolo 18, sembrano muoversi in un universo parallelo. E un po’ è vero. A Roma c’è chi ragiona ancora di vecchi partiti e di sindacati, di emendamenti e mediazioni. Ma dagli Stati Uniti la risposta è perentoria: sul piano formale non vengono evocati scenari elettorali, tuttavia le minacce politiche sono implicite e provengono da un uomo che quando è sotto pressione rilancia con spavalderia.

Ora è chiaro che il «gruppo Bersani» non ha interesse a spezzare il ramo su cui tutti sono seduti. In altri termini, i “conservatori” non puntano oggi alla crisi di governo. Però anch’essi, come Renzi, hanno un obiettivo politico: dimostrare che il premier si è spostato a destra ed è prigioniero di Berlusconi. Quei sette emendamenti che la minoranza ha presentato e che il premier respingerà per non apparire sconfitto servono a dimostrare che in un segmento del Pd sopravvive una diversa identità e un’altra idea della sinistra. È possibile che sia solo un’operazione di palazzo e che nel paese non esista sufficiente consenso per queste posizioni. Ma gli anti-Renzi lavorano su tempi medi senza pensare a scissioni.

Intanto lasciano a Renzi la responsabilità di spaccare lui il Pd. Nemmeno questo avverrà: forse, lontano dalle telecamere, si troverà persino un compromesso su qualche aspetto non centrale della legge. Ma il prossimo passaggio della contesa riguarderà la riforma elettorale. Se Renzi otterrà l'”Italicum” in tempi brevi, avrà vinto la sua partita. Se non lo otterrà, dovrà continuare a governare, a meno di non rischiare le urne con la legge proporzionale scaturita dalla Consulta. Facile capire che la minoranza del Pd aspetta il premier al varco quando si tratterà di eleggere il nuovo capo dello Stato, forse nella prossima primavera. Se sarà questo Parlamento a caricarsi della delicata incombenza, le armi di Renzi potrebbero rivelarsi spuntate. I casi di Violante e Bruno sono lì a dimostrare come le attuali assemblee siano difficilmente gestibili e non c’è patto del Nazareno che tenga.

Se si voterà il successore di Napolitano con queste Camere, e non con le prossime, la minoranza Pd, quella che si mantiene prudente, è in grado di impedire il successo del candidato di Renzi, chiunque egli sia. Ed è qui la vera partita. A meno che il premier non riesca a rivolgersi prima al corpo elettorale, il che oggi non sembra probabile.

Il merito di una riforma

Il merito di una riforma

Gianluigi Pellegrino – La Repubblica

Ma di quale articolo 18 stiamo parlando? Di quello vigente o di quello ormai superato due anni or sono? Per fortuna ieri il Jobs act è entrato nel vivo del percorso parlamentare e con la presentazione degli emendamenti, comunque la si pensi, il confronto deve finalmente entrare nel merito. C’è infatti qualcosa di vagamente surreale nella tempesta di questi giorni. Stiamo discutendo della norma vigente o, come monadi impazzite, di quella che la precedeva e che quindi già oggi semplicemente non c’è più? E pure quasi si spacca il Partito del premier. L’intero paese si anima con governo e sindacati per primi che sembrano l’uno attaccare e gli altri difendere, non già l’articolo 18 come è oggi, ma come era prima della riforma approvata 24 mesi fa.

Il punto è rilevante perché le modifiche sono state sostanziali e non a caso agitarono anche allora la resistenza sindacale che infine decise di fare sforzo di buona volontà e di accettarle. E però basta un piccolo sondaggio domestico per verificare che la bufera di queste ore è percepita come se in ballo ci sia il reintegro automatico in caso di licenziamento, che invece la riforma del 2012 ha già ampiamente superato. Fermo il mostro del licenziamento discriminatorio (se vengo messo alla porta perché biondo, ebreo, donna che non è stata carina col capo) sul quale vogliamo essere certi che anche Renzi non abbia dubbi a garantire la massima tutela, negli altri casi, il ripristino del rapporto di lavoro è già oggi tutt’altro che scontato. Subordinato a mille condizioni e altrettante variabili, il reintegro è ormai da due anni ipotesi del tutto residuale e niente affatto automatica.

Peraltro al paradosso sul punto di partenza della discussione si è aggiunta sino a ieri la clamorosa distonia tra il merito, in sé niente affatto minaccioso, della proposta del governo e i toni radicali che invece l’hanno accompagnata sia da parte dell’esecutivo che da parte dei sindacati. E infatti nella norma proposta dal governo non sono affatto citati né l’articolo 18 né il sistema di reintegro. Ci si limita a richiedere che il Parlamento deleghi l’esecutivo a stabilire un sistema di “tutele crescenti secondo l’anzianità di servizio”. Tutto qui. Un concetto laconico e di per sé anche confortante. E però nelle reciproche dichiarazioni si annunciano palingenesi e si risponde con minacce di guerra.

Trattandosi di norma di legge, le parole scritte sono pietre. Quelle che ci sono e quelle che mancano. Allora delle due l’una. O la norma così come proposta non incide affatto sull’articolo 18 per come del resto già ampiamente riformato (ed allora non si capisce di cosa stiamo parlando) oppure si pretende una delega in bianco che però non è ammissibile né sul versante costituzionale né su quello politico. “Tutele crescenti” infatti vuol dire solo che non devono essere decrescenti, e ci mancherebbe altro. Per il resto ancora oggi non è chiaro quale sia la tutela minima, né quella massima che si propone. Tanto meno quale sia la relativa progressività. Anche un deciso allungamento del periodo di prova (portandolo sino a tre-cinque anni), con tutela reintegratoria solo a valle di questo, è un ragionevole sistema a “tutele crescenti” su cui sarebbe ampio il consenso (come dimostrano gli emendamenti presentati ieri) in una logica di giusto riformismo, senza calpestare diritti.

Peraltro non bisogna dimenticare che non parliamo della possibilità o meno di licenziare a buon titolo. L’articolo 18 nemmeno nella sua precedente versione lo impediva. Il tema oggi è del tutto diverso e cioè quale tutela l’ordinamento appresta in caso di abusivo licenziamento. Di questo si parla. Il che dovrebbe suggerire prudenza come sempre quando si mette in discussione il diritto di giustizia in favore di chi ha subito un torto. Se è del tutto legittima la pretesa riformatrice non si può pensare che il Parlamento la approvi in bianco e poi si vedrà. Quanto più la scelta vuole essere innovativa e persino rivoluzionaria, tanto più deve essere chiara, alla luce del sole. Clare loqui, quindi da parte di tutti. Vecchia e nuova guardia, governo e sindacati. Altrimenti sul campo restano solo vessilli, utilizzati obliquamente per rispettive pur legittime finalità che però rischiano di costare troppo al paese. Già in termine di confusione, di cui davvero non sentiamo il bisogno. Né in Italia né in Europa.

Articolo 18, l’atto di fede nelle virtù del licenziamento

Articolo 18, l’atto di fede nelle virtù del licenziamento

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Il punto non è se è giusto abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma come decidiamo se è giusto o sbagliato. Le imprese non assumono perché temono di non poter licenziare? Restano nane, sotto i 15 dipendenti, per evitare la soglia che fa scattare l’obbligo di reintegro del lavoratore cacciato senza giusta causa? Ha ragione Renzi o la Cgil?

Per rispondere bisognerebbe avere dei dati che permettano di fare una scelta motivata e non ideologica. In teoria questa volta dovremmo averli. Perché a gennaio è stato pubblicato il monitoraggio della riforma Fornero del 2012 che ha modificato, tra l’altro, l’articolo 18: la novità è che in caso di licenziamento disciplinare o per ragioni economiche giudicato illegittimo (ma non discriminatorio, che è nullo), il giudice può decidere se applicare il reintegro del lavoratore o un risarcimento tra le 12 e le 24 mensilità. Qualcosa è cambiato: l’indice Ocse che misura la difficoltà dei licenziamenti in Italia è passato dal 4,5 del 2008 al 3,5 del 2013 e, come sottolinea il ministero del Lavoro nel documento, è la prima volta che la flessibilità del mercato aumenta grazie alla maggiore facilità di licenziamento di chi ha un contratto a tempo indeterminato (anche se il 75 per cento dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo avviene nelle aziende con meno di 15 dipendenti, e dunque senza articolo 18). Le assunzioni sono aumentate grazie alla modifica dell’articolo 18? La risposta, semplicemente, è che non lo sappiamo. Questo nel rapporto del ministero non c’è scritto. Sappiamo solo che forse un po’ di super precari (tipo lavoro a chiamata) hanno brevi contratti a tempo determinato, leggero miglioramento. Ma cambiare la disciplina del mercato del lavoro in piena recessione non permette di misurarne bene gli effetti.

Qualche economista vi dirà che licenziamenti un po’ più facili rendono anche le assunzioni un po’ più facili, altri sosterranno che o si cancella il reintegro dalle sanzioni o niente cambia, altri ancora vi spiegheranno che è irrilevante l’articolo 18. Ma di solito si tratta di convinzioni personali, viene richiesto un atto di fede più che di comprensione. Tutti i precari italiani scambierebbero il loro co.co.co., co.co.pro. o partita Iva con un contratto a tempo indeterminato e a tutele crescenti. Perché la loro condizione di sicuro non peggiorerebbe. Se invece chiedete loro: “Volete essere facilmente licenziabili il giorno (lontano) che sarete assunti?”, saranno meno entusiasti. Eppure il dibattito sul lavoro parte sempre dalla facilità di licenziamento, anche se non vi è proprio alcuna prova numerica che sia la variabile decisiva.

La battaglia a sinistra e lo spettro del nemico

La battaglia a sinistra e lo spettro del nemico

Alessandro Campi – Il Messaggero

Ora o mai più. La minoranza di sinistra del Pd, che era rimasta come tramortita dalla trionfale vittoria riportata da Renzi alle elezioni europee, dopo un periodo di smarrimento e confusione ha trovato nella difesa dell’articolo 18 e nell’opposizione al Jobs Act proposto dal governo la sua ultima ed estrema frontiera di lotta. Se vince, tornerà ad essere condizionante e potrà prendersi la rivincita su chi ne aveva auspicato l’estinzione. Se perde, sarà per sempre e in Italia, bene o male che sia, si imporrà una sinistra diversa da quella conosciuta per decenni. La battaglia che essa ha deciso di combattere presenta una valenza duplice: strategica e tattica. Lo scontro sul lavoro è culturale in senso nobile e politico-parlamentare nel suo significato più contingente. L’esito, fallimentare o vincente, sarà il frutto convergente di queste due linee d’azione.

Partiamo dal primo aspetto. All’inizio quella di Renzi è parsa una propaganda tutta giocata sul tema del ricambio generazionale fine a se stesso: dentro i giovani, fuori i politici di lungo corso. Ma presto si è capito che erano in ballo altre prospettive e tematiche. La rottura renziana rispetto alla sinistra che governava il Pd, di matrice post-comunista e post-democristiana, riguardava anche il linguaggio, l’estetica e la visione della società. Renzi è un rappresentante dell’era televiso-digitale, ha introiettato i valori dell’individualismo, vive la politica come scontro tra leadership, non sente il peso delle appartenenze ideologiche. Renzi è intellettualmente un semplificatore, ha una cultura di governo che inclina al pragmatismo, non considera la società come una realtà da disciplinare o da indirizzare secondo modelli pedagogici dall’alto, nutre un’istintiva insofferenza per tutto ciò che è apparato o burocrazia, coltiva il mito giovanilistico della velocità e dell’immediatezza. Tutto ciò lo ha messo in urto con la sinistra storica italiana, le sue strutture organizzative, i suoi schemi mentali e i suoi valori di riferimento: il partito come luogo di discussione e confronto tra anime, correnti e gruppi, ma anche come “casa comune” alla quale subordinare la propria personalità; l’ideologia di appartenenza come fattore identitario e strumento privilegiato di analisi della realtà; una tradizione culturale intrisa di pauperismo e avversione per la ricchezza; la subordinazione dell’individuo (e delle sue aspirazioni) alla dimensione collettiva del vivere associato; il moralismo portato al limite dell’intransigenza nel rapporto con gli avversari; una visione socialmente statica e stratificata della società; una relazione sentimentale-emotiva con la propria base elettorale di riferimento vissuta come strutturalmente stabile; la complessità dei ragionamenti e delle analisi sino a sconfinare nell’intellettualismo e nell’astrattezza.

Quella di Renzi, proprio per queste differenze, è stata spesso definita dai suoi critici interni una sinistra, per così dire, troppo di destra, aliena rispetto alla visione convenzionale che si ha di una politica orientata in senso progressista e riformistico. Ma a spazzare i dubbi sull’autenticità e, al tempo stesso, sulla novità della sua proposta ci hanno pensato prima i militanti dello stesso Pd, che lo hanno incoronato segretario attraverso le primarie, poi gli elettori, che gli hanno consegnato percentuali di consenso mai toccate prima da quel mondo e dai suoi rappresentanti. Ma sul nodo del lavoro – che rappresenta in effetti il dna storico-ideologico della sinistra in tutto il mondo, sin dalle origini – si è pensato di poter nuovamente riproporre l’idea che Renzi, con la sua ansia innovatrice, sia in realtà prigioniero di pregiudizi ideologici e di una visione dei rapporti sociali che lo imparenterebbero addirittura con la signora Thatcher, l’esponente del liberismo più nerboruto e aggressivo. Bloccare il Jobs Act, in Parlamento o addirittura ricorrendo ad un referendum tra gli iscritti al partito, è diventato a questo punto un modo – l’ultimo e definitivo – per dimostrare l’eccentricità di Renzi rispetto alla tradizione della sinistra su una tematica che per quest’ultima riveste un valore simbolico prima che politico. Facile vantarsi di essere riformisti quando si combattono gli sprechi della pubblica amministrazione. Ma il bluff ideologico viene a galla quando si tolgono ai lavoratori i loro diritti costituzionali.

Oltre quella identitaria e ideale, c’è poi la battaglia tattica e strumentale. Renzi pensava, dopo essersi impossessato del partito, di poter indirizzare anche il voto dei gruppi parlamentari: scelti quanto Bersani era segretario, ma tenuti per disciplina ad un atteggiamento di lealtà verso il nuovo leader. Si è scoperto che così non è. Per aver gruppi politicamente disciplinati e culturalmente allineati, Renzi dovrà aspettare le prossime elezioni. Nel frattempo deve accettare una guerriglia parlamentare che – alla luce di ciò che è successo ieri: quaranta senatori del Pd hanno firmato gli emendamenti che puntano a bloccare la riforma dell’articolo 18 – potrebbe costringerlo, se vuole tirare dritto sul suo progetto di riforma, ad accettare i voti in aula di Forza Italia. Nascerebbe a quel punto una nuova maggioranza de facto. Ciò autorizzerebbe i suoi avversari interni – che alle pulsioni antiberlusconiane non hanno mai rinunciato, essendosi politicamente formati col mito negativo del Cavaliere nero – a trarne le ovvie conseguenze: una crisi di governo che nei loro piani non dovrebbe però preludere ad elezioni anticipate (del resto esclude dallo stesso Capo dello Stato). L’obiettivo è quello di liberarsi di Renzi, da sostituire magari con l’ennesimo tecnico, non offrirgli l’occasione per un referendum sulla sua persona che, anche senza cambiare l’attuale legge elettorale, vincerebbe a mani basse.

Da un lato, sottraendogli in Parlamento i voti del suo partito, si vuole spingere Renzi tra le braccia di Berlusconi. Dall’altro – come sembra mostrare la vicenda delle votazioni a vuoto sui giudici costituzionali – si vuole fare saltare l’accordo politico tra i due, che la sinistra interna non ha mai digerito ritenendolo innaturale. Sembrano prospettive contrastanti, si tratta in realtà di due strade finalizzate allo stesso traguardo: porre fine al disegno egemonico di Renzi, impedire che un fenomeno politico-culturale che gode di largo credito nel Paese ma ancora in via di strutturazione possa radicarsi alla stregua di un progetto organico. Resta naturalmente da chiedersi quanto in questo disegno demolitore, che unisce spinte ideali a un manifesto cinismo, risponda ad un calcolo politico razionale, che gli elettori progressisti, una volta uscito Renzi di scena, potranno persino apprezzare, o più semplicemente ad una pulsione fratricida, suicida e nichilista, che è la vocazione più autentica della sinistra italiana.

L’articolo 18 sul piatto della bilancia

L’articolo 18 sul piatto della bilancia

Tiziano Treu – Europa

È da anni (troppi) che ci interroghiamo sulle regole del mercato del lavoro. Ho sempre sostenuto, che l’obiettivo da raggiungere, e indicato dall’Europa è una vera flexicurity. Quella attuata nei paesi più virtuosi implica, da una parte, una maggiore flessibilità nel lavoro per rispondere alle nuove realtà delle imprese e alle nuove esigenze delle persone, e dall’altra parte una maggiore sicurezza nel mercato del lavoro, per gestire le sue continue trasformazioni. Servono entrambe. Purtroppo in Italia si sono introdotte negli ultimi anni nuove flessibilità, sia in entrata, da ultimo facilitando il ricorso al contratto a termine, sia in uscita riducendo le rigidità delle regole sul licenziamento. Ma non si è prevista una adeguata rete di sicurezza.

Nonostante le modifiche da ultimo della legge 92/2012 sono ancora quasi un milione i dipendenti che sono privi di indennità di disoccupazione. Ne sono privi tutti i collaboratori e partite Iva, che inoltre non hanno quasi nessuna tutela propria dei lavoratori dipendenti. Anche le Cig e le Cigs lasciano fuori oggi oltre 5 milioni di lavoratori, che potrebbero scendere a 2,5 se ci fosse un grande sviluppo dei fondi di solidarietà (non facile). Questi ammortizzatori sono non solo squilibrati per entità e durata, ma anche privi di strumenti di sostegno e accompagnamento per disoccupati e cassaintegrati. Cosicché si traducono in misure assistenziali, costose e poco utili all’occupazione. Sono queste le vere e proprie ingiustizie che vanno corrette. Esse sono state troppo a lungo tollerate anche dai sindacati, preoccupati soprattutto di proteggere gli insider, cioè i lavoratori “storici”. È su questo che insiste Renzi, per cambiare.

È un impegno difficile, perché estendere gli ammortizzatori costa. Anche senza pensare di emulare quelli danesi o tedeschi servono almeno 2 miliardi secondo le stime iniziali. Inoltre, per correggere l’assistenzialismo degli ammortizzatori tradizionali, occorre uno sforzo organizzativo capace di far migliorare i servizi all’impiego pubblici e privati, mettendoli in concorrenza e dando ai lavoratori la possibilità di scegliere da chi farsi aiutare. A questo mira la delega, con indicazioni abbastanza chiare, se si vogliono prendere sul serio.

Mi auguro che sia la volta buona e che su tale fronte si impegnino tutti, con indicazioni abbastanza chiare, dai parlamentari che devono votarle, alle regioni, che finora sono andate troppo in ordine sparso, agli operatori dei servizi che vanno motivati e qualificati professionalmente e aumentati di numero (anche qui senza pensare di emulare i 110.000 addetti della Germania). Realizzare un sistema universale di sicurezze e di aiuti effettivi sul mercato del lavoro ed estendere le tutele a chi non ce le ha, compresi i lavoratori atipici, dovrebbe sdrammatizzare la questione dell’articolo 18 e dei rimedi contro i licenziamenti ingiusti, come avviene nei paesi della vera flexicurity. Sostengo questa tesi da anni, ma senza esito, anche perché è mancata la verifica, cioè una vera sicurezza sul mercato del lavoro, nonché una crescita sufficiente a sostenere l’occupazione.

L’offerta del governo di attuare finalmente un sistema di sicurezze sul mercato del lavoro è importante. Può servire a milioni di giovani e di lavoratori disoccupati e inattivi. E questo va messo sul piatto della bilancia nel valutare le proposte di modifica dell’art. 18 (che riguarderebbero peraltro solo i nuovi assunti) e nel ridimensionarne la portata. Le modifiche della legge Fornero, pur avendo modificato l’art. 18, con l’intento di ridurre l’ambito della possibile reintegra, non hanno dato certezze perché scritte in modo troppo complicato, aperto a interpretazioni diverse da parte dei giudici. La mancanza di certezze circa la decisione del giudice continua a pesare non solo su questo aspetto del nostro mercato del lavoro.

In altri paesi non è così, sia in quelli in cui la reintegra non è prevista dalla legge, (Spagna, Portogallo, UK, ma anche Danimarca), sia dove è prevista, ma di fatto è usata come extrema ratio (salvo naturalmente i casi di discriminazione). Anche per questo in tali paesi il problema non è stato oggetto di discussioni così estremizzate come da noi, e si è potuto risolvere con soluzioni condivise, più semplici e con maggiore discrezionalità dei giudici. Io stesso avevo proposto nel 2001 un ddl con indicazioni simili; che sono state scartate per un contesto politico e sindacale ostile.

Si poteva non arrivare a questo punto? Forse. Ma occorreva un’altra lungimiranza riformatrice, da parte di tutti, partiti e sindacati. Al punto in cui siamo l’incertezza non può continuare. Anche per questo Renzi ha chiesto di voltare pagina. Ma la nuova pagina va letta tutta. Può essere più europea e più equa, anche cambiando l’art. 18, purché si attui tutto il disegno della legge delega e si varino efficaci misure per la crescita e per l’occupazione, anche forzando l’Europa.