articolo 18

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’economia vive di aspettative razionali. Robert Lucas nel 1995 ricevette il premio Nobel per aver dimostrato con sofisticati modelli come individui e imprese usino in modo efficiente le informazioni che hanno a disposizione per orientare consumi e investimenti senza commettere errori frequenti. Il governo Renzi nel portare avanti la riforma del mercato del lavoro non appare, invece, eccessivamente preoccupato delle distorsioni che gli annunci ripetuti non seguiti dai fatti possono provocare nel regolare svolgimento di un mercato. Il Jobs Act doveva prendere forma in G.U. dopo un mese, forse due dall’insediamento dell’attuale esecutivo. Ad oggi siamo ancora ai prolegomeni della nuova riforma che nel frattempo è stata data per fatta almeno una ventina di volte tra Tweet e passaggi parlamentari o interviste varie di vari esponenti del governo. Si abolisce l’art. 18 come chiede senza se e senza ma Angelino Alfano. L’art. 18 non si tocca per parte importante del Pd, perché non è al centro del programma. Solo per i neoassunti l’art. 18 sparirà. O ancora diventerà un art. 18 a tutele crescenti con il passare del tempo ma senza obbligo di reintegro per le imprese in caso di licenziamento. Eppoi ancora promesse di bonus fiscali per i neoassunti o di esenzioni Irap per i nuovi posti creati in favore delle aziende.

Passano le settimane e del Jobs Act restano solo gli annunci e le proposte che, in ordine sparso, si candidano a riformare il mercato del lavoro. Risultato? Le imprese hanno smesso di assumere con contratti a tempo indeterminato, restano alla finestra e cercano di capire dove si fermerà il pendolo di questa logorrea riformista. Nel frattempo solo contratti a termine o occasionali vengono conclusi. È la legge delle aspettative razionali applicata alla follia della politica economica italica modellizzata da Lucas tanti anni fa. Razionalmente le imprese, non sapendo cosa succederà nell’immediato futuro, smettono di prendere posizioni contrattuali definitive rispetto al fattore di produzione lavoro. Così agendo, evitano di incorrere in un maggior potenziale costo da minor flessibilità o di perdere potenziali incentivi. Tutto perfettamente razionale, talmente razionale che resta un mistero su come l’esecutivo possa tenere aperto per così tanti mesi un dossier tanto critico come il Jobs Act. Soprattutto perché l’Italia è un paese in deflazione, in recessione da tre anni consecutivi e che vanta una disoccupazione superiore al 12,6%, quindi interessato a inviare ben altri segnali agli investitori potenzialmente capaci di creare nuova occupazione. Morale: crescerà il 52,9% di under 25 già oggi occupati con contratti precari.

Articolo 18, chi vince e chi no

Articolo 18, chi vince e chi no

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Diciamoci la verità sul Jobs Act n. 2. Nell’emendamento presentato dal governo in sostituzione dell’art.4, ci si possono riconoscere tutti: da Maurizio Sacconi a Cesare Damiano, passando per Pietro Ichino. La norma di delega emendata è certamente meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, anche se, a mio avviso, resta inadeguata rispetto a quanto dispone l’articolo 75 della Costituzione. Ma la politica ha le sue esigenze che finiscono sempre per prevalere. E in questo caso occorreva fare in modo che avessero vinto tutti e perso nessuno. Poi si vedrà nel corso dell’iter legislativo e soprattutto al momento della predisposizione degli schemi dei decreti legislativi che dovranno raccogliere i pareri di Commissioni validamente presieduto da due dei protagonisti della mediazione di ieri: Sacconi e Damiano, appunto.

Analizziamo gli aspetti più importanti del nuovo testo. Innanzi tutto, le parole che mancano. Non si parla mai di Statuto dei lavoratori né tanto meno di articolo 18 e di disciplina del licenziamento individuale. Vengono però indicate delle materie che necessariamente richiederanno delle modifiche ad ambedue i santuari della gauche: le norme riguardanti il cosiddetto demansionamento (ovvero la possibilità – ora preclusa – di inquadrare i lavoratori in mansioni inferiori se ciò comporta la salvaguardia del posto di lavoro) e il controllo a distanza, essendo le disposizioni assunte nel 1970 completamente superate dalle nuove tecnologie.

Oddio: non è che i criteri di intervento siano ben definiti, dal momento che essi si limitano a raccomandare al legislatore delegato di tener presenti sia gli interessi dei datori che quelli dei lavoratori. Poi si arriva alla ciliegina sulla torta: «la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Alcune questioni rimangono indefinite. Innanzi tutto, non è detto che dal novero delle tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio sia da escludere la sanzione della reintegra per lasciare il posto soltanto al risarcimento economico. In secondo luogo, noi interpretiamo che i nuovi assunti non coincidano obbligatoriamente con i nuovi occupati, ma che il contratto di nuovo conio si applichi anche a chi cambi lavoro e venga assunto ex novo da un altro datore. Se tali soggetti conservassero, infatti, una sorta di status ad personam (una disciplina del licenziamento “d’annata”), una volta usciti da un impiego stenterebbero a rientrare nel mercato del lavoro per ovvi motivi. Ma avverrà davvero così?

In ogni caso, pare indubbio che dovrà esserci un cambiamento importante: quanto meno la tutela reale – anche se continuerà a essere contemplata e non solo come sanzione del licenziamento nullo o discriminatorio – interverrà a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Per capire, dunque, come finirà questa vicenda bisogna aspettare.

Nel frattempo però sarebbe consigliabile non cantare anticipatamente vittoria. E fare tesoro della prima riforma Poletti. Il contratto a termine ”liberalizzato” rimane ancora la modalità di assunzione più conveniente. E, a nostro avviso, lo rimarrà anche in seguito. La delega emendata prevede, poi, un giro di vite sui contratti flessibili (non era così nell’emendamento Ichino). Questo è certamente un successo di principio della sinistra. Al centro destra è già capitato – ai tempi della legge Fornero – di sopravvalutare qualche giro di valzer (poi rivelatosi inadeguato) intorno al totem dell’articolo 18 e di non accorgersi che gli stavano sottraendo la cosiddetta flessibilità in entrata.

Al centro le persone

Al centro le persone

Francesco Riccardi – Avvernire

Premessa essenziale: stiamo discutendo di un emendamento alla legge delega di riforma del mercato del lavoro. I giochi politici sono ancora aperti e le indicazioni in parte generiche. Passerà almeno un anno prima di poter ragionare su un testo di legge effettivo, sul quale sviluppare delle valutazioni che non siano impressionistiche. Chiarito questo, se realmente alla fine dell’iter legislativo si sarà messo mano all’intera normativa sul lavoro – compreso il tema delle tutele in caso di licenziamento, con il reintegro sostituito da un indennizzo monetario di valore crescente – ci troveremo di fronte a un cambiamento fondamentale, culturale assai prima che economico.

L’idea alla base dell’emendamento di arrivare a un nuovo Codice unico semplificato del lavoro è infatti anzitutto la presa d’atto che il mondo è cambiato e il sistema economico-produttivo è ormai lontano anni luce da quello ford-taylorista su cui era stato disegnato, quasi 45 anni fa, lo Statuto dei lavoratori. Soprattutto, segna la fine di un’idea, quella che studiosi come Pietro Ichino definiscono la concezione “proprietaria” del lavoro, secondo la quale quando un lavoratore riesce a conquistare un posto, quello in sostanza gli appartiene. A vita. Con la conseguenza che da noi si è sempre difeso non tanto il lavoratore, quanto il legame tra il singolo occupato e quell’impiego. Con il reintegro obbligatorio nel caso di un licenziamento che il giudice ritiene senza giusta causa (spesso solo perché, in quella zona, per il licenziato sarebbe difficile trovarne uno nuovo). Ma non di meno costruendo un sistema di ammortizzatori sociali che ha relegato centinaia di migliaia di lavoratori nel limbo della cassa integrazione per anni, anziché favorirne l’aggiornamento e il ricollocamento in altre aziende. L’intero nostro sistema produttivo – già schiacciato dall’eccessivo carico fiscale e dalla burocrazia – ha risentito di questa rigidità, cercando ogni possibile via di fuga, fosse essa il restare al di sotto della soglia dimensionale dei 15 dipendenti o il ricorrere a contratti senza tutele. Determinando così un graduale degrado del nostro mercato del lavoro, a danno anzitutto dei lavoratori stessi, dei giovani più di tutti.

Il nuovo Codice semplificato che dovrebbe essere emanato ha dunque l’ambizione di disegnare un sistema di regole generali e flessibili meglio rispondenti al nuovo scenario globale. Ma deve portare con sé anche un altro cambiamento: porre davvero al centro la persona, il nuovo soggetto intorno al quale costruire tutele reali e universali, politiche attive, in grado di rendere il lavoratore più forte sul mercato, maggiormente capace di reagire ai mutamenti di scenario, più “padrone” del proprio destino che non mero dipendente. Per farlo occorre che la delega porti a compimento davvero tutto ciò che promette in termini normativi, ma soprattutto di più efficaci ammortizzatori sociali e servizi per l’impiego. Su questo – il mezzo disastro della Garanzia giovani purtroppo lo dimostra – siamo all’anno zero.

Nessuno si illuda, però: il superamento delle rigidità del passato, articolo 18 compreso, rappresenta solo la precondizione di un cambiamento necessario più profondo. Il lavoro del futuro sarà sempre meno somigliante a quello dipendente delle fabbriche manifatturiere che abbiamo conosciuto finora e sempre più simile all’interagire di soggetti diversi, in luoghi differenti, di volta in volta impegnati per un progetto da realizzare (un prodotto che magari sarà sfornato da una stampante 3D senza bisogno di essere “assemblato” da operai o un servizio offerto in Rete). Se non si assume finalmente una diversa idea di fare impresa, di cooperazione tra i soggetti coinvolti, di interazione con la società esterna, di partecipazione, allora, non avremo dato che una risposta per l’ennesima volta parziale a un mutamento, quello del lavoro e dell’economia, oggettivamente epocale.

P.S. È fondamentale che nel dibattito politico e sociale sulla riforma non si ripetano i tragici errori del passato. Tutte le posizioni sono legittime e hanno diritto di venire rappresentate. Ma nessuno si azzardi a indicare l’una o l’altra persona come “nemico del popolo” o “traditore dei lavoratori”. Il prezzo di sangue pagato da studiosi come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi all’impegno per il cambiamento del nostro Paese, è già stato troppo alto, insopportabilmente alto.

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

È stato un Matteo Renzi più misurato del solito. Non il guascone che alcuni annunciavano. Ma un presidente del Consiglio consapevole del momento, che ha rinunciato – forse ben consigliato – ai toni spavaldi verso l’Europa e ha illustrato con inedito ordine il suo piano di riforme per trasformare – come è necessario – l’Italia. Sarà stata la presa d’atto del drammatico stallo dell’economia, con una crescita che il Centro studi Confindustria ieri ha confermato ben sotto lo zero; sarà stato il pressing dell’Europa, che considera scaduto il tempo delle promesse: fatto sta che Renzi ha dimostrato nel suo discorso alle Camere di avere una nuova cognizione del cambio di fase necessario e dell’obbligo di affrontare con maggior sistematicità i nodi cruciali di un rilancio economico che continua drammaticamente a slittare.

Ci si poteva aspettare di più sui tempi delle singole riforme e sul merito dei nodi politici che vanno sciolti per trasformare il riformismo d’impeto in riformismo dei fatti. Troppe poche parole, poi, sono state dedicate alla legge di stabilità. Ma la vera novità della giornata si chiama articolo 18, ovvero superamento della reintegra obbligatoria del lavoratore. Renzi ieri ha rotto gli indugi sull’ultimo dei tabù della sinistra e del mondo del lavoro. Il premier sa che su questo, su una maggiore flessibilità in uscita per i contratti a tempo indeterminato, si gioca una partita decisiva per la credibilità in Europa del suo governo e, sul fronte interno, per archiviare definitivamente ogni conservatorismo nel suo Pd.

Una partita difficile. Tutta ancora da giocare. Ma con i tempi stretti che l’emergenza lavoro, oltre che le attese dell’Europa, impone. Perciò ieri Renzi ha scelto di portare il suo affondo proprio sul Jobs Act, evocando anche la possibilità di un decreto. Sulla questione cruciale dell’articolo 18, però, in Parlamento si è tenuto ancora al di qua delle colonne d’Ercole. Ha incalzato sulla necessità di superare il dualismo nel mondo del lavoro, ma non ha parlato, ancora, di superamento della reintegra obbligatoria. Il dado però era lanciato. Così in serata alla direzione del partito il superamento dell’articolo 18 è stato evocato direttamente. Renzi illustrerà il suo piano a una direzione appositamente convocata per fine mese. Ma ieri sera raccontava così il progetto: «Lo Statuto del lavoro va riscritto e il dualismo tra “garantiti e non” va superato anche con una maggiore flessibilità nei contratti a tempo indeterminato, cioè con il superamento della reintegra obbligatoria prevista dall’articolo 18». Ovviamente questo deve avvenire, nel piano di Renzi, con un contestuale rafforzamento delle tutele economiche per chi perde il posto di lavoro. E qui il premier inserisce l’altra parte del discorso: «Con la legge di stabilità metteremo le risorse necessarie a rafforzare gli ammortizzatori, in questo modo anche i più scettici potranno convincersi sull’abolizione della reintegra obbligatoria».

È evidente che a questo punto un passaggio decisivo sarà proprio quello delle coperture da trovare nella legge di stabilità. Una “finanziaria” che diventa sempre più complessa, per la quantità di risorse che dovrà mobilitare. Eppure Renzi ieri alle Camere ha sorprendentemente eluso il tema della manovra di bilancio e dei tagli da 20 miliardi che serviranno in gran parte (16 miliardi) a coprire misure esistenti. Tra queste il sempre più contestato bonus da 80 euro, che da solo vale 10 miliardi. Il premier ha ribadito che non tornerà indietro. Comprensibile. Per il governo, come ha ammesso lo stesso ministro Padoan, è «una priorità politica» prima che una scelta economica. Ma con questa zavorra si riuscirà a liberare le risorse necessarie a ridurre le imposte sulle imprese e sul lavoro, vera priorità riconosciuta anche dall’Eurogruppo a Milano la settimana scorsa? E ora anche a trovare i fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali?

Nessuno può credere seriamente che si potranno risparmiare 20 miliardi senza incidere sui grandi capitoli del bilancio pubblico, che sono le pensioni (254 miliardi, il 35% della spesa al netto degli interessi), la sanità (110 miliardi, il 14%), il pubblico impiego (164 miliardi, il 22,9%). Ma di tutto questo nel discorso di Renzi non c’è traccia. È vero che il tema dell’intervento alle Camere era il cosiddetto “piano dei mille giorni”. Ma è possibile parlare di un piano dei mille giorni senza entrare nella carne viva delle risorse necessarie a sostenere quelle riforme? È credibile un progetto di rilancio dell’economia senza delineare l’infrastruttura finanziaria necessaria a sostenerlo? Tanto più che si avvicinano le scadenze che contano. Quella della legge di stabilità, appunto, prevista tra il 10 e il 15 ottobre, ma anche quella del Consiglio europeo di fine ottobre. Per quella data l’Italia, se vorrà davvero accedere a una maggiore flessibilità sui conti pubblici, dovrà aver dimostrato di aver fatto passi avanti molto concreti sulle riforme. E su una in particolare, proprio quella del lavoro.

Perciò è davvero venuto il momento per Renzi di rompere l’ultimo dei tabù. Un’ennesima riforma del mercato del lavoro annacquata dalle tante resistenze conservatrici non serve a nessuno. Non serve certamente per dare il segnale di credibilità necessario in Europa, ma soprattutto non serve a dare all’Italia un mercato del lavoro più efficiente e più giusto. La svolta del riformismo dei fatti deve passare anche da qui.

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Se, anziché pasticciare, Renzi avesse abolito l’Irap e l’art. 18 avrebbe rilanciato l’economia e cambiato il volto dell’Italia

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Il Global Competitiveness Report, pubblicato al World Economic Forum, mette a confronto 144 paesi nel mondo e mostra che quanto a efficienza del mercato del lavoro l’Italia è al 136° posto, ultima degli Stati europei e un gradino sopra lo Zimbabwe. Se poi guardiamo alla facilità d’ingresso e di uscita dal mercato stesso, ci spetta addirittura la posizione 141. Sempre meglio del solito Zimbabwe, del Sudafrica e del Venezuela. È questa l’area di confronti che oggi ci tocca: nei due dati c’è una inappellabile condanna del nostro Paese e della sua classe dirigente, vecchia e nuova.

Con perfetta sincronia, il premier ha appena dichiarato che la riforma del lavoro si farà (ma il job act è di gennaio), ma che non si toccherà l’art. 18. Rivediamolo questo articolo che si intitola «Reintegrazione nel posto di lavoro». Ecco il testo: «Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento (…) ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti (…)». Poiché il fulcro del problema, quindi, è proprio l’art. 18 che dà a un’autorità giudiziaria fortemente ideologizzata (portatrice di una visione che considera il capitalismo, la libertà economica e gli imprenditori nemici del popolo) il potere di rimettere in azienda i lavoratori che ne sono stati estromessi, l’annuncio di Renzi significa che non ci sarà alcuna cambiamento significativo nel situazione mercato del lavoro. Comunque la si rigiri, questo è il senso delle ultime esternazioni.

Volgiamo leggermente il capo e constatiamo (una banale constatazione) che in Italia gli strumenti della produzione sono tassati. Sono tassati i capannoni industriali, i terreni agricoli, tutti i beni che servono a mettere insieme un qualsiasi processo produttivo. Non basta: è tassato pure il lavoro. Infatti, l’impostaregionale sulle attività produttive, Irap, è stata istituita con il decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e colpisce il valore della produzione netto delle imprese, cioè il reddito prodotto al lordo dei costi per il personale e degli oneri e dei proventi di natura finanziaria. Ciò significa che lo Stato, da un lato ti impedisce di licenziare (i licenziamenti avvengono per due motivi: problemi aziendali; mancanze del lavoratore. Non c’è un imprenditore al mondo che voglia privarsi di un bravo lavoratore) e dall’altro ti tassa per la tua forza lavoro. Autori di questa bella pensata sono stati Romano Prodi e Vincenzo Visco (era Prodi il primo ministro della legge di delega) : basterebbe questa innovazione per iscriverli nel libro nero della Repubblica italiana, se mai sarà prodotto.

Nell’Irap, un’imposta demenziale, c’è il livore di un bel pezzo di mondo cattolico e di mondo comunista, non a caso andati a nozze nel compromesso storico. Sarebbe bastato che l’innovatore Renzi, invece di trastullarsi con gli 80 euro in busta paga a un’ampia platea di non indigenti, avesse abolito l’Irap e abrogato l’art. 18 perché l’Italia cambiasse verso e si rilanciasse l’economia. Invece, prigioniero e secondino di un sistema che viene da lontano, gestore di un’area che, marginalmente, coltiva ancora l’illusione della propria superiorità morale (vedi Monte Paschi e, ora, Regione Emilia-Romagna) e culturale, e la speranza di una rivoluzione proletar-clericale, Matteo Renzi si è cimentato su questioni che costituiscono un vero e proprio «cambiar discorso», una elusione quotidiana dei problemi del Paese, mediante l’accensione di dossier di secondaria importanza, rispetto ai due nodisostanziali.

Idee pasticciate come la riforma del Senato che nelle prossime settimane sarà riscritta dalla Camera dei deputati (annullando il lavoro fatto, giacché la quattro letture debbono essere celebrate su un medesimo testo) portate al voto nonostante le osservazioni fondate di esperti costituzionalisti e di politici di lungo corso. Lo pseudogiovanilismo dell’allegra brigata di gitanti a Roma non ha ammesso riflessioni e consulti, esaurendo la discussione all’interno di un «giglio magico» dalle competenze insondate e insondabili. L’altra tecnica usata è quella di rilegiferare sul legiferato, vendendo agli italiani (e soprattutto ai media completamente privi di vis critica; o di conoscenza dei fatti?) per innovazioni, decisioni come quelle sulle autocertificazioni e sulle divisioni interne degli immobili che risalgono ad anni passati. Anche se il consenso sembra crescere, Giorgio Napolitano non si illuda. Quest’ultima sua creatura ha il respiro corto e, difficilmente, potrà sopravvivere con le parole. I numeri non sono più falsificabili. Li sanno leggere tutti, soprattutto a Francoforte, a Berlino e a Bruxelles.

I rebus della politica industriale

I rebus della politica industriale

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Per riformare «non basta dire no» ai no – a eliminare l’articolo 18, a ridimensionare l’obbligatorietà dell’azione penale, a privatizzare i servizi dei comuni. Bisogna ottenere il sì di chi chiede interventi che valgano a farci uscire dalla stagnazione. E per il riformatore può perfino essere più facile isolare i no che prospettano i disastri che altrimenti si produrrebbero, che rispondere ai sì, e ottenere i miracolosi risultati che ci si aspetta dall’adozione di certe politiche. Tra queste una delle favorite è la «politica industriale».

In passato, si dice, siamo riusciti ad agganciare i paradigmi industriali: la macchina a vapore applicata da Sommeiler alle pompe per far passare treni sotto i monti, il motore asincrono con Ferraris, quello a scoppio con la Fiat, la radio con Marconi, il polipropilene con Natta. In questa carrellata non manca mai il richiamo all’Olivetti, ed è perlopiù sbagliato: il culmine del successo l’Olivetti lo raggiunse con la Divisumma che, con un primo costo variabile sotto le 30.000 lire, veniva venduta a un prezzo vicino a quello di una 500. Tanti si arrovellano sulle ragioni per cui il mainframe Elea non riuscì a battere IBM, ma pochi ricordano che non ci riuscì nessuno in Europa, né ICL, né Philips, né Bull, né Siemens: tutti errori di «politica industriale»? In Germania c’è un leader mondiale del software (la SAP) e in Italia no: nessuno lo ricorda ma ha i suoi perché, e hanno a che fare anch’essi con la «politica industriale».

Essa si regge su un presupposto teorico: che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo. Una contraddizione in termini, perché è proprio dall’imprevedibilità che viene la spinta a innovare, dall’aleatorietà quella a investire, dalla molteplicità dei modi per organizzare la produzione quella di sperimentarne di nuovi. Non c’è neppure un modo unico di scoprire ex post le ragioni dei successi, e di generalizzare le regole che li favoriscono: come dimostra l’esistenza di molte società di consulenza, in concorrenza tra loro.

Tolto dalla scena l’imprenditore schumpeteriano, diventa però necessario sostituirlo con qualcuno che abbia (innate?) le conoscenze e la preveggenza per identificare i settori che potranno contribuire allo sviluppo del Paese. Nessuno vi ha investito in modo adeguato? «Fallimento di mercato», è evidente, a cui rimediare con sovvenzioni dello Stato e protezione dalla concorrenza «selvaggia». D’altra parte l’innovazione la può fare solo lo Stato, in tutto il mondo è sempre stato così, se non c’era lo Stato, l’iPhone Steve Jobs manco se lo sognava, parola di Mariana Mazzucato – come? non avete ancora letto «Lo stato innovatore»? C’è un’inevitabile consequenzialità nel succedersi dei passaggi, tutto discende dalla decisione iniziale, di identificare i settori. Che poi, a ben vedere, prima non è: infatti chi avrà il potere di identificare l’identificatore? La «politica industriale» presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica.

Molti pensano che Mario Draghi a Jackson Hole avesse in mente il surplus di bilancio tedesco quando ha proposto di usare tutta la flessibilità consentita dai trattati. Se pure Angela Merkel lo vorrà leggere in tal modo, c’è da scommettere che anche in Germania si alzerà la voce di chi quel surplus vorrà spenderlo non, ad esempio, riducendo le imposte, ma mostrando i muscoli della «politica industriale». Anche il piano di investimenti infrastrutturali da 300 mld di euro enunciato dal presidente Jean-Claude Juncker, ha lo scopo dichiarato di stimolare la domanda aggregata, ma di fatto è anch’esso un piano «politica industriale». Come tale soggetto alle inevitabili contraddizioni: come stimolare il mercato senza lasciare spazio alla sua capacità di scoperta, come farlo crescere senza le virtù e i difetti dell’imprenditore, come selezionare senza la concorrenza; nel caso specifico poi, come districare il groviglio di problemi di ripartizione e di coordinamento tra Paesi.

Nell’attesa del grande stimolo europeo, il governo Renzi cerca di stimolare la nostra economia con il decreto sblocca Italia. Sarà perché non siamo abbastanza keynesiani, come dice Krugman (che evidentemente di italiano legge solo il blog dell’Istituto Bruno Leoni), sarà perché 140 caratteri sono pochi per complessi progetti costruttivisti, in ogni caso si tratta di provvedimenti sparsi, senza neppure il tentativo di venderli come «politica industriale». Ma hanno lo stesso presupposto ideologico: che «loro» sappiano meglio di «noi» a che fine e come spendere i nostri soldi. Che si tratti di posa di cavi per la banda larga, di porti, di ecobonus o sisma-bonus, di acquistare e affittare immobili ristrutturati, ogni «semplificazione» ha come target il suo interesse rilevante. Non è una nuova «politica industriale»: è la vecchia che non è mai finita.

Ci vuole bilancio mentale

Ci vuole bilancio mentale

Il Foglio

L’articolo 81 della Costituzione è una piccola biografia d’Italia. Nella sua versione originaria, voluta da Luigi Einaudi, la norma imponeva una disciplina fiscale persino più rigorosa del principio del pareggio di bilancio oggi in vigore. In questa direzione si mosse la legislazione di bilancio fino al 1965, gli anni della grande crescita, della lira stabile e della tassazione moderata. Nel 1966 ci fu purtroppo il cambio di rotta, quando la Corte costituzionale ammise il ricorso all’indebitamento come forma di copertura finanziaria delle nuove spese: si aprì la voragine della politica lassista, il deficit allegro e il debito incontrollato, la cui coda è giunta fino ai giorni nostri.

Le forti tensioni subite dai debiti sovrani negli anni scorsi sono state all’origine della decisione dei paesi membri dell’Unione europea di includere negli ordinamenti nazionali il famigerato Fiscal compact. Il quale sarà pure una camicia di forza, ma solo fino a un certo punto: le spese devono pareggiare le entrate, ma il ricorso all’indebitamento è ancora consentito, con una votazione delle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e al verificarsi di eventi eccezionali come una forte recessione (ad aprile scorso, il Parlamento italiano ha fatto ricorso a questi margini di flessibilità, rinviando il conseguimento del pareggio di bilancio al 2016).

In questo contesto, appare poco comprensibile l’iniziativa di alcuni deputati del Partito democratico – tra cui Stefano Fassina – che con un emendamento alla riforma costituzionale sul Senato chiedono al governo Renzi il superamento del Fiscal compact. I “bersaniani” rivendicano una politica di bilancio anticiclica e misure di stimolo per la dOmanda aggregata. Nessuno nega che un problema di domanda interna esiste, in Italia e persino in Germania. Ma uno stimolo keynesiano ha forse senso con una decisione di scala europea, non con un messaggio nazionale di maggior spesa purchessia. La Banca centrale europea sta adottando una politica monetaria coraggiosa e poco convenzionale, ma ciò è possibile solo e soltanto in virtù della disciplina fiscale, anche di rango costituzionale, che l’Italia e gli altri paesi sI sono imposti. Riaprire oggi una discussione sull’articolo 81 della Costituzione – non in un contesto di ragionati investimenti comuni, ma soltanto per riaprire alla possibilità di rigagnoli di spesa pubblica clientelare – sarebbe un errore fatale: il deficit di oggi è la tassazione di domani e nessuno scommetterebbe su un paese che riprende a firmare cambiali per il futuro. Per di più nel momento in cui, su un altro fronte, annuncia finalmente tagli quantificati (seppur lievi) in sede di revisione della spesa pubblica.

L’art. 18 è come un pallone di pezza per i bambini la sera d’estate

L’art. 18 è come un pallone di pezza per i bambini la sera d’estate

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

L’articolo 18 (che garantisce l’inamovibilità dal posto di lavoro di qualsiasi dipendente privato che non sia dirigente) risale allo Statuto dei lavoratori che, concepito in pieno ’68, venne poi approvato il 20 maggio 1970. Esso quindi rappresenta un mondo che, piaccia o no, non esiste più. Per dare, sinteticamente, l’idea di che mondo era, basti ricordare che, allora, era proibito importare in Italia persino un’auto giapponese. I confini nazionali erano impermeabili e le guardie di frontiera li vigilavano in armi. L’euro era ancora da venire. La Cina era un paese dove la gente moriva di fame a milioni. Il Medio Oriente (salvo periodiche tensioni con Israele) era presidiato stabilmente da feroci satrapie ossequienti al potere delle multinazionali anglo-americane del petrolio. Il mondo, nel suo complesso, era poi diviso a mezzadria fra gli Stati Uniti e l’Urss che si neutralizzavano a vicenda con l’equilibrio del terrore.

Oggi l’articolo 18, espressivo di quel mondo, è sopravvissuto a quel mondo che non c’è più. È rimasto un tabù. Che infatti raggiunge un doppio obiettivo negativo. Da una parte non difende i lavoratori e, dall’altra, allontana gli investimenti. Se l’articolo 18 difendesse i lavoratori ma, nel contempo, tenesse lontani gli investimenti, ci potrebbe essere un dibattito fra i vantaggi e gli svantaggi della sua sopravvivenza. Ma, visto che non difende i posti di lavoro esistenti, e, nel contempo, con il suo puro valore simbolico di carattere dissuasivo, compromette quegli investimenti che potrebbero contribuire a creare nuovi posti di lavoro, si capisce che il dibattito sulla sopravvivenza o meno dell’articolo 18 è puramente ideologico e non è più basato sull’analisi del dare e dell’avere.

Perché l’art.18 non difende il posto di lavoro? Primo, perché quasi metà degli occupati nel settore privato, lavorando in società che hanno meno di 15 dipendenti, non godono dalla sua protezione. Questi ultimi infatti (nell’indifferenza di tutti, sindacati in primis) sono licenziabili immediatamente, senza sostanziose indennità e senza giusta causa. Poi ci sono i dipendenti delle aziende più grosse, nei quali l’art. 18 dovrebbe operare ma che, a causa della crisi, hanno delocalizzato in altri paesi la produzione oppure hanno semplicemente chiuso l’azienda. Anche questi dipendenti, che sono centinaia di migliaia, art. 18 o no, hanno perso il posto di lavoro. Poi ci sono i giovani al di sotto dei 40 anni per i quali l’art.18 non opera perché essi sono stati assunti in base a forme contrattuali contorte che hanno salvato le capre dei sindacati con i cavoli degli imprenditori. Infatti queste assunzioni sono avvenute solo a condizione che si accettasse, per questa categorie di persone, la non copertura dell’art.18, confermando così che sindacati e parte della sinistra, che fingono di essere stretti in difesa dell’art.18, sono disposti, nei fatti, pur di tenere in vita il tabù dell’art. 18 (e sperando che i giovani non se ne accorgano), a far pagare le conseguenze della flessibilità più estrema solo alle classe giovanili per le quali, sempre per lo stesso motivo, si sta preparando anche un avvenire pensionistico miserrimo.

La difesa ad oltranza dell’art. 18 è quindi puramente formale perché la sua protezione, come si è visto, agisce solo su una larga minoranza dei dipendenti privati. Una minoranza, inoltre, che si sta restringendo a vista d’occhio con il passare del tempo, creando disparità di trattamento socialmente e politicamente inaccettabili. In compenso, l’art.18 è diventato come il pallone di pezza che i bambini di un tempo si contendevano nelle partite nel cortile durante le sere d’estate. Viene periodicamente gettato in campo, e politici, sindacalisti, opinionisti, incapaci di risolvere i problemi, si accapigliano fra di loro secondo schemi e ragionamenti arrugginiti perché sono di mezzo secolo fa. L’art. 18 infatti non è più un problema da analizzare lucidamente nei pro e nei contro ma solo una bandiera da strappare all’avversario.

Visto che l’art. 18 tutela oggi solo una minoranza di lavoratori privati (perchè la mondializzazione non consente di ingessare nessuna impresa) bisognerebbe pensare di garantire, a tutti, il diritto di essere indennizzati automaticamente, con somme e parametri contrattualmente prestabiliti, in caso di perdita del posto di lavoro. In tal modo, da una parte, il lavoratore dispone di una somma per far fronte alle necessità insorgenti fra un’occupazione e la successiva e, dall’altra, si rende costosa per gli imprenditori la decisione di interrompere un rapporto di lavoro, introducendo, a loro danno, un’onerosità che penalizza l’eventuale soggettività che, non bisogna nascondercelo, è sempre possibile. Non solo, per evitare di fare un salto nel buio (anche se non è questo il problema) si potrebbe introdurre questa nuova normativa in un’area abbastanza ampia (chessò l’Italia settentrionale) e per un periodo di tempo significativo (tre anni). Dopo, a esperimento concluso, si potrebbe decidere definitivamente, con ragione di causa. Purtroppo nessuno degli attuali difensori (putativi) dell’art. 18, vuol rischiare di vedere come andrebbe a finire. Perché, se si scoprisse che l’art. 18 punisce, più che avvantaggiare, tutti i lavoratori privati, verrebbe meno una bandiera che, fin che c’è, si può agitare con più risultati demagogici che non con un ragionamento.

Vecchie ricette

Vecchie ricette

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Nonostante l’aggiustatina che droga e mignotte potranno dare al pil, il governo rimane a caccia di 20-25 miliardi. La legge di stabilità puntava sul contenimento della spesa, ma dalla spending review non sono arrivati, né arriveranno, i risparmi desiderati, per cui ecco che dal cilindro di ferragosto escono, more solito, tagli ai salari e alla previdenza per tenere il deficit sotto la soglia del 3 per cento. Il tutto condito con l’ennesima puntata – temo non l’ultima – della fiction intitolata “articolo 18” e il solito balletto di dichiarazioni contrastanti tra diversi esponenti del medesimo governo. Non so se andrà davvero cosi, ma se fosse si tratterebbe di una grande delusione e di un grave errore di politica economica. Delusione perché non c’era bisogno del rottamatore armato di inedito vigore giovanilista per mettere in campo pratiche vecchie e già rese obsolete da chi le ha praticate in precedenza non cavando un ragno dal buco, anzi. Ma, soprattutto, ci troveremmo di fronte al gravissimo errore – economico, sociale, politico, di psicologia collettiva – di tornare a spremere il ceto medio che, come ha notato con efficacia Dario Di Vico sul Corriere, ha invece bisogno di continuare a credere di potercela fare a uscire dal pantano recessivo e deflattivo in cui siamo, pena il ritorno di quella depressione che fin qui si è mangiata i consumi e ha azzerato gli investimenti. E saremmo di fronte a una “spremitura” non solo insensata – non si esce dalla crisi punendo il ceto produttivo, sia esso lavoratore dipendente, professionista o imprenditore – ma anche contraddittoria, perché tutti i proclami della politica negli ultimi mesi sono andati in direzione opposta.

Non è un caso che il governo Renzi, primariamente, abbia voluto caratterizzarsi con la manovra degli “80 euro”. Dunque, e assurdo dare con una mano – senza neppure avere la copertura di spesa – nella speranza, peraltro poco fondata, di rimettere in moto la domanda interna, e poi prendere con l‘altra. E questo vale sia per l’eventuale intervento sugli stipendi della pubblica amministrazione, sia per il cosiddetto prelievo sulle pensioni d’oro. Nel primo caso, il tema non e quello di togliere (0 non dare più) un po’ a tutti – secondo la deleteria logica dei tagli lineari, ancor più devastanti laddove c’e maggior bisogno di meritocrazia – ma di rendere efficienti le amministrazioni riparametrando il numero degli addetti. Questo significa trasferire dipendenti da un’amministrazione a un’altra? Ottima cosa. Questo significa mandare a casa un po’ di persone? Spiacevole, ma necessario. E se poi ciò dovesse avvenire sia trasferendo al privato funzioni non strategiche ora nel pubblico (e ce ne sono tante), restringendo così il perimetro funzionale dello stato centrale e periferico, sia per via di una coraggiosa semplificazione del nostro elefantiaco e fallimentare decentramento amministrativo, ancor meglio.

Quanto alla previdenza, pensare di considerare “ricchi”, e quindi da spremere, i pensionati che stanno sopra i 2 mila euro lordi (ma anche con l’altra cifra che circola, 3.500 euro, sempre lordi, il discorso non cambierebbe), è stupido, prima ancora che profondamente sbagliato. E lo sarebbe, sbagliato, anche se l’asticella che individua l’area di prelievo si alzasse di molto. Non solo perché in quest’ultimo caso si rastrellerebbero risorse infinitesimali, ma perché non è dai redditi, per quanto alti, che si deve provare a ricavare ciò che serve a risistemare – specie se lo si vuole fare una volta per tutte – la baracca dei conti pubblici. No, l’obiettivo deve essere, e senza intenti punitivi, il patrimonio. Prima di tutto quello pubblico, sul quale occorre costruire una modalita di “sfruttamento” – cui chiamare a concorrere quello privato, con l’obbligo di acquisto di nuovi titoli e non con prelievi patrimoniali – con ‘intento di ridurre sotto il cento per cento del pil il debito pubblico (e relativi oneri) e ricavare risorse per investimenti in conto capitale. Bini Smaghi dice che si trattercbbe di una manovra pericolosa? Rispetto molto il suo parere, ma non lo condivido. Intanto perché egli critica allo stesso modo tutte le ipotesi di intervento sul debito, dal consolidamento alla patrimoniale, ma io non propongo né l’una né l’altra. E poi perché pecca di conservatorismo in un fronte che a furia di prudenze ci ha portato ad accumulare 2.168 miliardi di debito, di cui cento solo nel primo semestre di quest’anno. E non è certo con il mestolo degli avanzi primari che si svuota questo enorme pentolone.

Dunque, Renzi – che ha mostrato apprezzabile prudenza verso le ipotesi adombrate da alcuni suoi ministri – nel rimettersi in marcia tralasci questo pericoloso itinerario. Che è anche l’unico modo per uscire vivo dallo scontro sull’articolo 18. Il quale è un tabù che sarebbe meglio cancellare, ma è anche uno strumento, specie dopo la riforma Poletti del contratto a termine, dagli effetti decisamente limitati. Abolirlo sarebbe politicamente efficace, economicamente poco significativo. Ora, delle due l’una: o Renzi ha un piano di rilancio dell’economia vero, e allora può anche fregarsene di toccare l’articolo 18, oppure non ha carte in mano e quello diventa il suo jolly. Io preferisco la prima ipotesi.

Rassegnamoci, moriremo di articolo 18

Rassegnamoci, moriremo di articolo 18

Vittorio Feltri – Il Giornale

Da almeno vent’anni si parla della necessità di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma nessuno è mai riuscito a scalfirlo. Perché non è una norma, bensì una divinità e come tale non si discute: si accetta, anzi va adorata.

Matteo Renzi, che non è stato in grado di riformare alcunché tranne le insegne di alcune botteghe istituzionali (Province e Senato), ha però favorito il cambiamento del linguaggio politico, e ha definito il suddetto articolo 18 «un totem».

Giuliano Poletti, comunistone di vecchia data, ministro del governo in carica, si è affrettato a dire che la cancellazione della regola – totem o dogma che sia – non è in programma e che pertanto essa rimarrà in vigore. Per sempre? Probabilmente sì. Abbiamo la tentazione di dare ragione al responsabile del dicastero del Lavoro. Il problema infatti non è l’eliminazione di un articolo dello Statuto dei lavoratori, ma dello statuto stesso, visto che i lavoratori sono già stati eliminati. Una volta si diceva: moriremo democristiani. Oggi abbiamo un’altra certezza: saremo sepolti in base ai criteri fissati dell’articolo 18. Il quale articolo 18 è il paradigma della stupidità italiota. Esso infatti, come ben sanno gli imprenditori, è applicabile soltanto nelle aziende con più di 15 dipendenti. In quelle piccole – con meno di 15 dipendenti – il padrone licenzia a proprio piacimento. In teoria. In pratica non è così.

L’imprenditore fa il proprio interesse, per cui non caccia uno perché gli è antipatico, semmai uno che non rende. Chissà perché le cose ovvie non sono persuasive. È un fatto comunque che il comandamento numero 18 discrimina. Esattamente come discrimina la cassa integrazione, riservata al personale delle grandi imprese e inaccessibile a quello delle piccole. Davanti a questo sistema iniquo non c’è politico o sindacalista che osi fiatare, salvo strillare e stracciarsi le vesti se qualcuno minaccia di cancellare il totem. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello corrente, i radicali proposero un referendum per spazzarlo via. Non passò. Anche perché Silvio Berlusconi, che si accingeva a vincere le elezioni (2001), disse a Marco Pannella che il plebiscito era inutile in quanto, non appena rientrato a Palazzo Chigi, egli avrebbe provveduto a depennare la discussa norma.

Il Cavaliere in effetti ci provò in ogni modo, ma fallì: tutti gli andarono contro con forza e gli impedirono di muovere un dito. Se lo avesse mosso, glielo avrebbero immantinente amputato. Cosicché, Fornero o non Fornero, siamo ancora qui a litigare sull’articolo 18. Che fu elaborato da Giacomo Brodolini, socialista, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, promotore dell’intero Statuto dei lavoratori (varato nel 1970) che, con rispetto parlando, sembra scritto da Stalin dopo essersi scolato una bottiglia di vodka.

Non è un caso che le difficoltà dell’economia italiana siano cominciate con l’approvazione di quella legge dall’acido sapore sovietico. Nonostante ciò, a quasi mezzo secolo dall’introduzione della storica schifezza, mentre la crisi nazionale e internazionale galoppa e la disoccupazione avanza speditamente, c’è ancora chi – la sinistra nostalgica, politica e sindacale – difende il capolavoro di Brodolini, una brava persona morta giovane (50 anni) dopo aver vissuto con la testa nelle nuvole rosse dell’Urss e dintorni.

Se c’era qualcosa da fare con urgenza per modernizzare il Paese, questa era proprio la riforma radicale del pluricitato statuto. Invece non è stato toccato. Ciò dimostra che gli slogan dei riformisti sono frasi vuote, spot elettoralistici e nulla più. La conferma viene dal ministro Poletti, il quale, intervistato un giorno sì e l’altro pure dalla stampa compiacente, ammette che bisogna ridurre al minimo la conflittualità nei rapporti fra impresa e lavoro, tuttavia non intende abrogare né lo statuto né l’articolo 18. Domanda: e allora come si fa a creare collaborazione fra datori di lavoro e prestatori d’opera? Si chiama il parroco affinché benedica gli opifici?

Questo è ancora poco. Poletti aggiunge: per sciogliere la grana degli esodati dobbiamo recuperare risorse. Giusto. Recuperarle dove? Dalle pensioni alte, che vanno tagliate e/o ricalcolate su base contributiva, in barba a un patto sociale pregresso. Lo Stato si rimangerebbe così gli impegni presi a suo tempo con gli attuali pensionati, ignorando che sugli assegni più ricchi (si fa per dire) esiste già un cospicuo prelievo a titolo di obolo di solidarietà.

Pur di non segare le spese superflue, magari quelle identificate da Carlo Cottarelli (all’uopo ben pagato), questo simpatico governo è pronto a recidere ulteriormente le pensioni dopo aver già reciso il medesimo Cottarelli, reo di aver svolto il proprio dovere. Non ce l’abbiamo con Renzi, per carità, ma ci rendiamo conto che, stante la situazione, chiunque al suo posto, anche i predecessori e gli aspiranti successori, potrebbe far peggio ma non meglio di lui. La politica italiana è abilitata a usare le forbici solo per tranciare le palle ai cittadini.