Avvenire

Un’altra tegola incombe: a rischio il ‘contributo’ chiesto dal governo Letta

Un’altra tegola incombe: a rischio il ‘contributo’ chiesto dal governo Letta

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Quando a dicembre 2011 era in preparazione il ‘Salva-Italia’, con relativo blocco della perequazione sulle pensioni, furono non pochi esperti ad avvertire che si rischiava una sentenza (totale o parziale) negativa da parte della Corte Costituzionale, che già ben due volte in passato ha censurato i ‘contributi di solidarietà’ sugli assegni previdenziali, a partire da quello deciso dal governo Berlusconi. Ora che la bocciatura è arrivata, ecco che già all’orizzonte se ne profila una seconda. E nel mirino c’è di nuovo un contributo di solidarietà, quello ‘riproposto’ nel 2013 da Letta. Il verdetto starebbe per arrivare in giugno e produrrebbe un ulteriore costo aggiuntivo, per circa 2-3 miliardi. Anche se una tesi (peraltro condivisa da pochi giuristi) sostiene che, al contrario, questa volta il contributo sarebbe giudicato ‘legittimo’, in quanto i fondi resterebbero dentro il pianeta Inps (gli incassi sono destinati a favorire le pensioni dei più deboli).

Ad essersi espresse, in punto di diritto, sono le Corti dei Conti della Calabria, del Lazio, dell’Emilia-Romagna, del Veneto (nonché di altre Regioni). A fronte di ricorsi a loro rivolti da associazioni di pensionati, hanno replicato che si tratta di misure già dichiarate incostituzionali da parte della Consulta: violerebbero ben 8 articoli (3, 4, 35, 38, 53, 81, 96 e 137) della Costituzione. Non solo, la Corte dei Conti aggiunge che le misure contrastano anche con 5 articoli della Convenzione europea sui Diritti dell’uomo e che in materia la Corte di Strasburgo ha già ‘sentenziato’ nel 2013. Il nodo di fondo è che un’’imposta’ – perché tale è da fatto un contributo – sui soli pensionati è discriminatoria. In caso di difficoltà a far quadrare i conti, sarebbe logica e legittima soltanto un’addizionale, temporanea e progressiva, che colpisse tutti i redditi. Come fatto in numerosi Paesi Ocse. Peraltro il tema della previdenza si va sempre più ‘europeizzando’. Nella Ue è infatti in fase di avanzata redazione una ‘direttiva’ per uniformare in qualche modo i sistemi previdenziali e rendere più agevole la libera circolazione dei lavoratori (ora la totalizzazione dei versamenti in vari Paesi Ue è basata su una rete di accordi bilaterali). Una nuova condanna dalla Consulta renderebbe ancor più difficile, per l’Italia, incidere ‘politicamente’ sui contenuti di questa direttiva.

Ricchi ed evasori schivano l’austerità (anzi, ci guadagnano)

Ricchi ed evasori schivano l’austerità (anzi, ci guadagnano)

Giuseppe Pennisi – Avvenire

La saga greca che da cinque anni si dipana sotto i nostri occhi non vuole dire ‘lacrime e sangue’ per tutti coloro in essa coinvolti. In primo luogo, all’interno della Repubblica Ellenica, se la godono i ceti a reddito alto ed i grandi evasori (spesso le stesse persone). Uno studio della Banque de France documenta che il forte aumento tributario attuato nel 2010, il secondo ‘salvataggio’, non ha comportato che un lievissimo aumento del gettito; è, quindi, cresciuta alla grande l’evasione. Esaminando i dati dell’agenzia delle entrate della Grecia, risulta che un terzo dell’aumento tributario è stato perso in quanto è aumentata la proporzione di reddito non dichiarato dalle piccole e medie imprese e dal ‘popolo delle partite Iva’ (le imprese individuali). Numerosi greci, e non solo greci, hanno scommesso soprattutto nel 2012 sul salvataggio; quindi hanno acquistato, sul mercato secondario, titoli pubblici a prezzi stracciati (tra un terzo e la metà del valore nominale) con un rendimento del 15-20% e, dopo il salvataggio quando il valore di mercato dei titoli si è riavvicinato al valore nominale, hanno guadagnato sul conto capitale, incassando al tempo stesso un lauto dividendo.

Oggi, per chi ama il rischio ( e crede in Mamma Europa) la situazione è ancora più favorevole. Sul secondario i titoli greci sono considerati spazzatura; per attirare acquirenti i buoni del Tesoro a tre anni rendono il 27% (l’anno) , mentre i decennali (prima o poi la fune si spezzerà) il 20%. In queste condizioni, le occasioni di guadagno non mancano, sia per i greci (specialmente per chi ha portato capitali all’estero) sia per gli altri (specialmente se hanno buone imbeccate sull’esito del negoziato).

Tutto ciò è molto più grave della dilazione, in 80 -100 rate, su 60 miliardi di arretrati con il fisco che il Governo Tsipras- Varoufakis , pur dichiarandosi ‘di sinistra’ ha esteso a tutti i contribuenti, anche ai più ricchi.

Tsipras ha ancora una via d’uscita. Ma lui e Varoufakis hanno bruciato l’iniziale patrimonio di  simpatia

Tsipras ha ancora una via d’uscita. Ma lui e Varoufakis hanno bruciato l’iniziale patrimonio di simpatia

Giuseppe Pennisi – Avvenire

In un’unione monetaria che non è quella che gli economisti chiamano ‘un area valutaria ottimale’ (con perfetta ed effettiva mobilità di fattori di produzione, di beni e di servizi), la Grecia potrebbe ancora salvarsi, nonostante un debito pubblico pari al 175% del Pil e conti da considerare ‘poco chiari’ (a voler essere gentili). L’80% del debito dello Stato è, in conseguenza di varie ristrutturazioni e salvataggi, dovuto a istituzione pubbliche che non ammettono insolvenze o sconti (ma in certi casi accettano dilazioni). Atene dovrebbe attuare speditamente una strategia caratterizzata da tre mosse: ripagare subito i debiti con il Fondo Monetario (perché sono i più cari in termini di interessi ed ammortamento); pagare, al più presto le obbligazioni della Banca centrale europea (sia perché costose sia soprattutto per avere accesso a nuovi finanziamenti quali quelli del Quantitative easing); rinegoziare le scadenze di quanto deve ai Governi della zona euro (circa 30 miliardi di euro solo all’Italia).

In tal modo secondo calcoli effettuati il 13 aprile dal Peterson Institute of International Economics, il tasso effettivo medio d’interesse sul debito scenderebbe al 2%, una frazione di quello che gravava i greci nel 2009 quando la crisi è scoppiata. Unitamente a serie riforme interne, nel giro di un paio di anni la Grecia riprenderebbe a crescere, come mostra l’esperienza di una novantina di paesi censiti da Banca mondiale e Fondo monetario. Tuttavia, è difficile che questa strada venga seguita da Tsipras e Varoufakis ed accettata dagli altri principali protagonisti. Nel giro di tre settimane, infatti, Tsipras e Varoufakis hanno dilapidato il capitale maggiore che avevano a disposizione nei giorni successivi alla creazione del nuovo Governo: il capitale di simpatia creato con il loro modo di fare un po’ guascone (e molto poco pericleo) in un ambiente dove si veste in grisaglia e si portano cravatte scure. Lo hanno letteralmente buttato a mare prima prendendo impegni (di presentare programmi concreti e specifici per questa o quella data) mai mantenuti, ritirando fuori, poi, il contenzioso dei danni di guerra con la Germania, facendo, infine, intendere che sarebbero andati a flirtare con un Putin, il quale li ha degnati di tè e sorrisi senza neanche far loro gustare vodka e caviale. Principalmente, però, non sono stati in grado di giocare a due livelli trovando un equilibrio tra ‘reputazione’ con i loro creditori e ‘popolarità’ con i loro elettori. Ora contano quasi esclusivamente sul timore che i loro creditori avrebbero degli effetti dell’uscita delle Grecia dall’eurozona sul resto dell’area.

È una partita ad alto rischio: da un lato, una ‘Grexit’ non piace a nessuno, da un altro, nei piani alti dell’eurozona, ci si sente presi in giro da chi pratica il gioco delle tre carte con uno stile più levantino che dell’Atene classica.

L’Unione bancaria compie un anno, ora deve crescere

L’Unione bancaria compie un anno, ora deve crescere

Giuseppe Pennisi – Avvenire

L’Unione bancaria europea (Ube) ha circa un anno. Prendiamo come data convenzionale della sua nascita il 14 aprile 2014, quando il Meccanismo unico di risoluzione – ossia il sistema per gestire ordinatamente le crisi di banche di maggiori dimensioni (e a maggior rischio di contagio) – ha preso definitivamente forma; la nomina dei componenti dell’apposito Consiglio di risoluzione è avvenuta pochi mesi dopo.

Secondo le proposte approvate dai Capi di Stato e di governo Ue, l’Ube sarebbe dovuto essere uno sgabello a tre gambe diretto a prevenire crisi come quella iniziata nel 2008 (o a trovare vie d’uscita appropriate) e a facilitare l’integrazione del mercato finanziario e bancario europeo. La prima gamba è un sistema unico di vigilanza (per 5.500 banche dell’area dell’euro) affidato alla Banca centrale europea, che ha aumentato il proprio organico e costruito una nuova sede; per gli istituti di piccole dimensioni, la vigilanza resta nazionale ma segue regole uniformi. La seconda gamba è il Meccanismo unico di risoluzione: regole nazionali uniformi per gli istituti a rischio di dissesto e un apposito strumento europeo (dotato di un fondo ad hoc) per i dissesti tali da poter mettere a repentaglio la stabilità finanziaria dell’unione monetaria. La terza gamba sarebbe dovuta essere uno Schema europeo di Garanzia dei depositi. Alcuni ritengono che non sia necessario, in quanto le regole dei gran parte degli Stati dell’euro prevedono garanzie simili (100mila euro) per i singoli conti correnti.

A mio avviso, non solo uno sgabello a tre gambe è più resistente di uno a due, ma una Garanzia europea sarebbe stata un vero sigillo di solidarietà e avrebbe impedito corse agli sportelli come quelle viste a Cipro e in Grecia. Sarebbe bene riprendere una trattativa ora su un binario morto. Alcuni saggi recenti contengono valutazioni positive dei primi passi che sta facendo il sistema di vigilanza: essenzialmente si sta andando verso il nuovo sistema senza le scosse traumatiche che alcuni avevano temuto. È difficile esprimere un giudizio sul Meccanismo unico di risoluzione. Le analisi dei suoi regolamenti esprimono perplessità e li giudicano troppo complessi per raggiungere l’obiettivo di risolvere i nodi di una grande banca in dissesto nell’arco di un fine settimana (per operare a mercati chiusi). Soprattutto, non c’è stato modo di metterli alla prova. Un caso possibile – si badi bene – sarebbe potuto essere il dissesto (o il timore di un dissesto) del Monte dei Paschi di Siena, ma si è preferita una soluzione nazionale. Gli stessi schemi di un’eventuale bad bank per alleggerire da sofferenze istituti di credito italiani sono puramente nazionali.

Dove sinora lo sgabello a due gambe sembra non avere inciso è nell’obiettivo più alto di integrazione dei mercati bancari e finanziari dell’eurozona. Lo mostra un lavoro freschissimo dell’Economist Intelligence Unit: negli ultimi 12 mesi c’è una febbre di fusioni e concentrazioni bancarie ma quasi interamente nazionali, oppure – quella della Sadabell con quattro banche britanniche – per avere teste di ponte al di fuori dell’euro. Forse, però, proprio in questo campo è troppo presto per giungere a conclusioni.

Una burocrazia troppo lenta e inefficace. Così il «grimaldello» europeo rischia  di lasciare il nostro Paese a bocca asciutta

Una burocrazia troppo lenta e inefficace. Così il «grimaldello» europeo rischia di lasciare il nostro Paese a bocca asciutta

Giuseppe Pennisi – Avvenire

I documenti ufficiali sul “Piano Juncker” – essenzialmente i quelli all’esame del parlamento europeo – affermano che il programma, ancora in costruzione, è un grimaldello: attivare con una leva di 21 miliardi di “garanzie” (non di finanziamenti diretti) di Commissione europea (Ce) e Banca europea per gli investimenti (Bei) un totale di 315 miliardi di euro. Come tutti i grimaldelli, ha virtù o opportunità – apre le 28 scatole dei piani d’investimento degli Stati Ue – ma anche vizi o rischi: mostra quali scatole sono piene e quali vuote e quali potrebbero essere piene se i vincoli del Fiscal Compact non mettessero a repentaglio fondi di contropartita, a valere sui conti dei singoli Stati per arrivare la finanza privata.

Per l’Italia, da un lato, il “grimaldello” minaccia di mostrare che quasi nessuna amministrazione ha ottemperato ai decreti legislativi 102 e 228 del 2011 di adeguamento alla normativa europea, con i quali si richiedeva una programmazione pluriennale per progetti esecutivi  corredati da analisi economica e finanziaria. Di conseguenza, in una gara in cui i progetti non sono allocati per Paese ma scelti da un comitato di investimenti in base alla loro qualità e cantierabilità, rischiamo di restare a bocca asciutta. O quasi. Al tempo stesso, però, il “grimaldello” all’esame del parlamento si pone sul solco di una maggiore “flessibilità” nella lettura dei trattati europei e di accordi intergovernativi quali il Fiscal Compact.

Già a dicembre – a causa del periodo natalizio pochi se ne sono accorti – una comunicazione della commissione chiariva che per investimenti di rilevanza europea i contributi diretti dei paesi al Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (il fulcro del Piano Juncker) non saranno “computati” ai fini della procedura per deficit eccessivo e che la commissione terrà conto dei cofinanziamenti nazionali ai programmi europei nel valutare i progressi verso il pareggio strutturale, consentendo “deviazioni temporanee”, ma solo se l’economia è in recessione e sia rispettato il tetto massimo del 3% nel rapporto deficit/Pil. Una nuova “comunicazione” ha iniziato il proprio percorso; potrebbe essere emanata prima dell’estate. È possibile un ulteriore ampliamento dell’interpretazione nell’ambito di un approccio coordinato di Bei (al centro del sistema) e banche nazionale di sviluppo e di promozione degli investimenti. In particolare, le “deviazioni” potrebbero diventare pluriennali (dato che tali sono gli investimenti), il tetto del 3% ammorbidito e con esso anche la clausola che ora richiede un “economia in recessione”. È un’opportunità importante per l’Italia, sempre che si sia in grado di allestire un adeguata platea di progetti. Altrimenti l’opportunità verrà colta principalmente da Germania ed Austria che hanno disperato bisogno di infrastrutture (principalmente nel comparto dei trasporti) e progetti pronti. Come ben sa chi si avventura sulle loro autobahn e sui loro treni.

Con criteri di contabilità diversi il debito pubblico della Grecia potrebbe risultare ben più basso

Con criteri di contabilità diversi il debito pubblico della Grecia potrebbe risultare ben più basso

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Nel gioco a due livelli in cui è impegnata Atene, le misure previste riguardano da un lato un maggiore impegno nella lotta all’evasione e nella produttività dell’amministrazione (‘credibilità’ rispetto ai partner dell’eurogruppo), dall’altro nell’aumento delle pensioni più basse (‘popolarità’ di fronte ai propri elettori). Un vero e proprio esercizio di equilibrio giacché Tsipras aveva fatto ben altre promesse in campagna elettorale.

Tuttavia, un supporto importante (per Tsipras) potrebbe venire da nuove stime sulla consistenza del debito. Secondo l’economista e finanziarie Paul B. Kazarian, che ha lavorato a lungo per Goldman Sachs prima di creare una propria finanziaria con la quale ha acquistato alla grande titoli del debito pubblico greco, se si applicano criteri di contabilità aziendale (gli International Accountin Standards) e non quelli della contabilità economica nazionale il debito ‘netto’ della Grecia risulta notevolmente inferiore ai computi correnti. Pur non condividendo molti punti del documento di Kazarian, occorre ammettere che i numerosi riassetti effettuati dal 2010 fanno sì che il valore attuale del debito sia inferiore al valore nominale: ciò è confermato indirettamente dal fatto che il servizio del debito incide sul Pil greco meno di quanto non incidano i servizi del debito di Italia, Spagna e Portogallo sui relativi prodotti nazionali. A spanne, si può dire che il peso del debito greco sul Pil scende da 318 miliardi di euro a circa 290 dando maggior spazio a tempi per l’aggiustamento strutturale.

Occorre però chiedersi se le misure contemplate nel documento della Grecia sono tali da favorire quella crescita accelerata che rimane l’unico rimedio per risolvere nel lungo periodo i nodi del Paese. Oggi viene pubblicato un documento del centro studi ImpresaLavoro che ha coordinato dieci pensatoi economici europei (ma non ce n’è alcuno greco) secondo cui l’ingrediente essenziale consiste nell’ampliare la libertà d’impresa. A conclusioni analoghe giunge un documento, diramato il 23 febbraio, in cui le banche nazionali di Belgio, Francia, Finlandia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, e la stessa Bce commentano (unitariamente) i primi due anni di applicazione di nuove regole del Fondo monetario sulla vigilanza e analisi economica in Europa.

Un «conto» da 15 miliardi al mese che affonderebbe le finanze europee

Un «conto» da 15 miliardi al mese che affonderebbe le finanze europee

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Le guerre si possono vincere o perdere. Anche se va fatto ogni sforzo perché non si combattano. Quale che sia l’esito, è comunque certo che comportano pesanti costi sia in termini di vittime sia economici. Quanto costerebbe un’eventuale guerra nel Mediterraneo? Gli avvenimenti sono stati così rapidi e convulsi che nessuno, sinora, ha predisposto stime – come accadde, invece, per le due guerre del Golfo, che ebbero una lunga premessa di lavorio democratico. Inoltre, mentre alcuni centri studi americani – come la Rand Corp in California e la Rac a Washington – sono specializzati in questa tipologia di analisi, in Europa solo alcune università britanniche dedicano risorse a ricerche del genere, ponendo attenzione particolare, però, agli studi sull’economia del terrorismo piuttosto che sull’economia della guerra – tema che da 70 anni appare desueto e privo di interesse.

Occorre chiedersi quali sarebbero le implicazioni di politica economica per i Paesi maggiormente coinvolti nel conflitto in generale, e per quelli dell’Ue mediterranea in particolare. Alcuni parametri ci sono e possono essere utilizzati. Ai tempi della seconda guerra del Golfo, le prime stime di fonte americana (elaborate dell’ormai defunta banca d’affari Lehman Brothers) parlavano di un costo  finanziario” in senso stretto di 5,4 miliardi al mese. Tali stime riguardavano esclusivamente l’onere “finanziario”  del dispiego delle forze Nato, e non comprendevano né le spese, sempre “finanziarie”, per il sostentamento dei profughi, né quelle per riparare e rimettere in funzione strutture danneggiate. Non comprendevano né i costi umani (in termini di perdite di vite, di mutilazioni, di dislocazioni) né i costi “economici” (in termini di effetti sulla produzione, sul reddito e sull’occupazione dei Paesi coinvolti).

Non solo, dopo pochi mesi si rivelarono errate del 300%, su base mensile, ma il conflitto che sarebbe dovuto durare poche settimane è ancora in corso. Allora, gli Usa esponevano un tasso di aumento del Pil tra il 2,75% ed il 3,5% l’anno, e un saggio di disoccupazione pari a solo il 4,2% della forza di lavoro. E gran parte del costo finanziario era sul loro bilancio. Prendendo come base minima (molto prudenziale) 15 miliardi di euro al mese, e ipotizzando che gran parte dell’onere graverebbe sull’eurozona (che tra l’altro dovrebbe noleggiare parte degli armamenti), è legittimo chiedersi quali sarebbero le implicazioni in termini sia di finanza pubblica sia d’economia reale. Specialmente in una fase in cui l’area dell’euro sta faticando ad uscire da una lunga e pesante recessione che ha sfiancato il sistema manifatturiero di numerosi Paesi e portato al 12% il tasso medio di disoccupazione.

La guerra sarebbe indubbiamente “una circostanza eccezionale e straordinaria” per rivedere in modo marcato il Fiscal Compact (o la sua interpretazione) in quanto tutti gli Stati dell’area dovrebbero aumentare spesa pubblica sia di parte corrente che in conto capitale. Potrebbe anche diventare il grimaldello per consentire l’applicazione di quella golden rule in base alla quale l’investimento viene esentato dal computo di alcuni parametri. Al tempo stesso, comporrebbe un forte storno di risorse dal civile al militare. Non solamente salterebbe il già traballante Piano Juncker ma si porrebbero seri problemi di valutazione della spesa per assicurare che vengano adottati principi di efficienza, efficacia ed economicità. Tentativi in questo senso vennero effettuati circa 23 anni fa (nel 1991-92) ma i risultatati non sono mai stati pubblicati e non si sa se il gruppo di studio esista ancora. Sarebbe l’occasione giusta per riattivarlo.

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti.  Anche da Cottarelli

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti. Anche da Cottarelli

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Rispunta Carlo Cottarelli. Questa volta ad Atene. Non nella veste di autore di spending review secretate, quindi, ma di “avvocato difensore”  della Grecia alle dirette dipendenze di Alexis Tsipras, in quanto rappresentante della Repubblica ellenica («oltre che dell’Italia e di un’altra mezza dozzina di Stati») nel consiglio del Fmi, il partner senior della troika se non altro per l’esperienza e le risorse professionali di cui dispone.

Cottarelli è avvezzo a trattare di debito pubblico. Per di più trova il terreno pronto. Nel novembre 2014 – a Washington, Bruxelles ed Atene è il “segreto di Pulcinella”, anche se a Francoforte si afferma di non saperne nulla – il presidente del Consiglio greco allora in carica Antonis Samaras aveva concluso un patto top secret con i partner europei che contano. Atene avrebbe dovuto rientrare quanto il dovuto nei loro confronti – quasi 190 miliardi su 300 – entro il 2057. Non si possono toccare i crediti privilegiati targati Fmi e Bce, perché salterebbe l’intero sistema. Ma la Grecia avrebbe forse avuto un periodo di grazia (senza pagare nulla ai maggiori creditori) fino al 2020. Da quella data avrebbe poi rimborsato a tassi di interesse “calmierati”, pari a solo lo 0,53% annuo in aggiunta al tasso armonizzato d’aumento dei prezzi pubblicato nel Bollettino Mensile della Banca centrale europea. Tsipras è ovviamente perfettamente al corrente.

Su questa base è anche facile non solo fare il gioco delle tra carte, ma mostrare risultati differenti a seconda dell’uditorio. Mediamente il debito greco ha scadenze di 16 anni, oltre il doppio di quelle di Francia, Germania ed Italia. Ad un tasso d’attualizzazione nominale (l’inverso del tasso d’interesse) medio del 2,5% (il 2% definito come “obiettivo d’inflazione” della Bce più lo 0,53%) il prolungamento delle scadenze comporta una riduzione di un terzo di quanto dovuto – e un taglio ancor maggiore se nel pacchetto rientra anche il “periodo di grazia”.

Mediaticamente sarebbero tutti contenti. Tsipras sottolineerebbe ai suoi che ha ottenuto un bel taglio. La troika che si è trattato di un allungamento “tecnico” per meglio consentire alla Grecia il rientro del debito e l’avvio dello sviluppo. Ai contribuenti italiani l’operazione costerebbe circa 15 miliardi. Spalmati, però, su una ventina d’anni.

Un documento che divide le anime di Francoforte

Un documento che divide le anime di Francoforte

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Il documento dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia europea che verrà probabilmente recepito tale e quale dal massimo organico giurisprudenziale Ue è quello che si potrebbe chiamare, in senso colloquiale, “pilatesco”. Lavandosi le mani dal nocciolo del problema, mira a fare contenti sia coloro che vogliono una Bce più attiva (in politiche di ripresa) sia da coloro che invece la considerano il garante supremo della stabilità monetaria. In breve, ad un ricorso alla Corte suprema tedesca fatto da un gruppo nutrito di economisti e giuristi tedeschi secondo cui le Outright monetary transactions (Omt) proposte dal presidente Bce nel giugno 2012 avrebbero trasgredito vari trattati e la Carta fondamentale della Repubblica Federale, il massimo tribunale della Germania ha risposto chiedendo il parere della Corte Ue. È un parere – si badi – non vincolante, ma è altamente probabile che la Corte Tedesca vi si atterrà. Se non altro per non restare con il cerino acceso in quel di Karslruhe (dove i giudici rosso togati hanno sede).

L’Avvocato generale Pedro Cruz Villalon afferma che la Bce deve avere «ampia discrezionalità» in materia di politica della moneta. In questo contesto, le operazioni Omt (di cui peraltro non è stato ancora approvato il regolamento) possono essere contemplate purché siano uno strumento di politica monetaria e non aiuto finanziario a uno Stato membro. In effetti, nelle intenzioni del direttivo, la Bce con lo «scudo» dovrebbe poter acquistare obbligazioni di Stati in difficoltà (ad esempio, titoli del debito italiano per ridurne il fardello) sulla base di un programma economico concordato con le autorità Ue. Il documento Villalon chiede che le circostanze per tale intervento eccezionale vengono precisate meglio perché il programma definito venga attuato. In effetti, il parere suggerisce di dare il nulla osta alle Omt, ma con vincoli tali che ne rendono ardua l’applicazione agli Stati che potrebbero trarne maggior beneficio.

Il documento sta suscitando un acceso dibattito in attesa del Consiglio Bce del 22 gennaio, che dovrebbe varare forme di Quantitative Easing QE tramite l’acquisto di obbligazioni degli Stati membri. In effetti, a seconda di come viene interpretato il documento, si porrebbe un “tetto” più o meno alto agli interventi, si favorirebbero o meno le obbligazioni giudicate (dalle agenzie di rating) di maggior qualità, si condividerebbe in vari modi in rischio tra le Banche centrali nazionali e si deciderebbe in che misura la Bce debba essere considerata «creditore privilegiato» (nei cui confronti non si possono effettuare ristrutturazioni del debito) come Fmi e Banca mondiale. Invece di contribuire ad un accordo, il documento sta rendendo più accesa la lotta tra le varie anime che albergano nella Bce.

Rimandati e declassati

Rimandati e declassati

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Ci è stato chiesto dai “poteri costituiti” di prendere con “spirito sportivo” la decisione dell’Unione europea di “rimandarci” alla “stagion dei fiori” (invero con Francia e Belgio) per un nuovo esame dei conti pubblici e dei progressi effettivi delle riforme. Quando il 5 dicembre Standard & Poor’s ha declassato a BBB- i nostri titoli di Stato (il gradino appena superiore a quello dei “titoli spazzatura”) ci è stato detto da compiacenti mezzi busto televisivi che le agenzie di rating sono una cricca che comunque ormai conta poco.

Purtroppo, proprio il 5 dicembre, un saggio di Iftekhar Hasan della Fordham University di New York, di Suk-Joong Kim della University of Sydney e di Eliza Wu dell’University of Technology di Sidney veniva pubblicato dalla Bank of Finland (Discussion Paper n. 25/2014): in esso si afferma che le agenzie pesano molto, specialmente nella valutazione che gli operatori danno al rischio di debito sovrano (che in Italia marcia verso il 135% del Pil).

Sempre il 5 dicembre, in quella Villa Lubin tanto agognata dalla Corte dei Conti che si è posto un articolo ad hoc nella riforma della Costituzione tra breve all’esame della Camera, veniva presentata la quarantottesima edizione del Rapporto Censis il cui tema di fondo è il capitale inagito di un’Italia dove famiglie, banche e imprese sono molto liquide, ma non investono per timore del futuro (nonostante i “road show” del volenteroso Presidente del Consiglio per infondere fiducia).

Ancora il 5 dicembre, nella Sala Emeroteca della Banca d’Italia, si è svolto dalle 9 alle 18 il consueto convegno annuale di fine anno della Banca d’Italia (solo per inviti): sono stati discussi dieci lavori scientifici sul tema “l’impatto della crisi sul potenziale produttivo e sulla spesa delle famiglie” – i lavori, come spesso avviene, saranno oggetto di un volume in primavera.

C’è un forte nesso tra queste notizie: il declassamento deciso da Standard & Poor’s è la punta di un complesso iceberg denso di implicazioni (come ci ricorda la Banca centrale finlandese), il lavoro Censis ne sviscera gli aspetti sociologi, gli studi della Banca d’Italia ne esaminano quelli economici.

Non è questa la sede per analizzare il Rapporto Censis o i documenti (a volte molto tecnici) presentati al convegno della Banca d’Italia. Tuttavia, il lavoro Censis mostra un’Italia delusa che si appresta a celebrare un Natale mesto. Gli studi della Banca d’Italia rappresentano un importante blocco di lavori per definire politiche a lungo termine non necessariamente in linea con quelle annunciate da Palazzo Chigi. Auguriamoci che Piazza di Priscilla (sede del Censis) e Via Nazionale (sede della Banca d’Italia) non vengano additati come covi di gufi. Invece, il Natale dovrebbe essere l’occasione per studiare e fare contrizione nei confronti del peccato capitale dell’orgoglio.

In sintesi che lezione si trae? Mutuando dal titolo di un libro di successo di Carmen Reinhart “This Time is Different”. Questa crisi (che riguarda una piccola parte dell’economia mondiale, l’eurozona, mentre il resto è in buona salute) è differente da quelle degli ultimi ottocento anni perché nella sua prima parte (2008-2010) ha sconvolto la finanza mondiale e nelle seconda (2012-2014) ha messo a nudo i danni, sulle strutture economiche, di un debito sovrano fuori controllo.

La lezione principale è che è urgente affrontare (specialmente in alcuni paesi europei, tra cui l’Italia è in prima fila) il debito sovrano non tanto per le risorse che assorbe in interessi passivi, ma perché blocca le politiche essenziali per tornare a crescere. O almeno per non distruggere ulteriormente l’industria manifatturiera, non aggravare la situazione delle giovani generazioni, non comprimere ancora i consumi delle famiglie a più basso reddito, non continuare ad aumentare la pressione fiscale e parafiscale complessiva (inclusa quella degli enti locali).

Dai lavori esce un messaggio forte: cambiare strada. Se si è ancora in tempo.