Avvenire

Al bivio del futuro

Al bivio del futuro

Francesco Riccardi – Avvenire

«Ammetto di non essermi mai trovato in una situazione in cui le rappresentanze sindacali fossero tanto poco considerate», ha detto Raffaele Bonanni lasciando la guida della Cisl. E in effetti, se si guarda alle vicende politico-sociali degli ultimi mesi ci si rende conto di come le confederazioni, pur calcando ancora la scena mediatica e sociale, siano state del tutto marginalizzate da quella politica. Non si tratta solo di un episodio quanto di un cambiamento di scenario, che investe in pieno il sindacato fino a metterne in discussione l`esistenza, quantomeno nelle forme in cui l’abbiamo conosciuto negli ultimi 50 anni.

La prova che qualcosa sia cambiato per sempre è facilmente individuabile nell’iter della riforma del lavoro. Mai era accaduto che il progetto di un tale cambiamento non venisse discusso prima con le confederazioni. Non venisse almeno presentato alle “parti sociali”. E invece oggi sui testi del cosiddetto Jobs Act arrivati al voto del Senato non si è svolto neppure un incontro. Né al massimo livello con il presidente del Consiglio né con il ministro del Lavoro (che peraltro non sembra avere margini di iniziativa autonoma). Una scelta consapevole, quella del premier, che non solo ha superato l’ormai comatosa “concertazione “, ma ha pervicacemente perseguito una linea di azzeramento del “dialogo sociale” inteso come prioritario e determinante confronto con le organizzazioni sindacali. Un chiaro disconoscimento del ruolo di Cgil, Cisl e Uil. Di fatto la “rottamazione” – dopo quella della “generazione che ha fatto il ’68” – anche di tutta l’eredità sindacal-politica del 1969. Un'”asfaltatura” più potente di quella della “marcia dei 40mila”, perché nel 1980 la Fiat coi sindacati subito dopo firmò un’intesa, mentre oggi il governo snobba persino le parziali aperture di Cisl e Uil.

Certo, il sindacato non è morto. Le confederazioni contano ancora su milioni di iscritti, per quanto concentrati in 4 aree: pensionati, pubblico impiego, parte della grande industria e del terziario non avanzato, utenti di servizi come i caf e i patronati. Quanto basta, potendo contare ancora su notevoli mezzi finanziari, per portare in piazza centinaia di migliaia di iscritti, fiaccati da crisi e cassa integrazione, imbufaliti per il blocco della contrattazione e le minacce alla sicurezza del posto di lavoro. Ma la prova muscolare, quand’anche ci fosse, quand’anche le confederazioni riuscissero a bloccare i servizi pubblici (non le industrie private), sarebbe sterile e non sposterebbe di molto i rapporti di forza. Perché – al di là del risultato tecnico sull’articolo 18 – Renzi ha ormai sorpassato i sindacati a destra e a sinistra, da un lato affermando la primazia assoluta della politica nelle scelte e nella rappresentanza dei bisogni dei cittadini, dall’altro prendendosi di slancio (e, dopo le elezioni europee, a furor di voti) il maggiore partito di riferimento. Facendo leva sulla scarsa considerazione di cui i sindacati “istituzione” godono fra i giovani – finora poco considerati e mal difesi – ha stretto Cgil, Cisl e Uil in una morsa dalla quale difficilmente potranno divincolarsi.

Così oggi ai sindacati restano due strade. La prima è catalizzare attorno a sé la (vasta) protesta, trasformandosi sempre più in un movimento essenzialmente parapolitico, che rappresenti una parte del disagio e verticalizzi il conflitto. La seconda è ripensarsi in chiave quasi esclusivamente sociale e produttiva, puntando a essere anzitutto rete orizzontale di inclusione e partecipazione attiva. Nelle fabbriche e nei (non) luoghi del lavoro diffuso, favorendo la formazione dei lavoratori (senza affarismo!) e gestendo i nuovi orari, puntando sulla costante crescita della produttività e con essa di salari e compensi legati agli utili dei lavoratori. Protagonisti anzitutto nelle imprese, nei territori, accanto ai nuovi lavoratori intraprendenti.

Verso la prima strada sembrano orientarsi la Fiom e probabilmente la Cgil. La seconda via potrebbe invece essere lo sbocco naturale di una Cisl capace di rielaborare il proprio patrimonio ideale (la contrattazione aziendale è una intuizione di quella confederazione del 1952!) nel nuovo scenario postindustriale. In parte (assai in parte) la Cisl di Bonanni aveva cominciato questa trasformazione con una riorganizzazione delle categorie. Ma nell’era digitale i processi sono avvertiti solo se accadono in tempo reale. In una società ridisegnata dalle tecnologie e dalla globalizzazione, sempre più polarizzata tra élite della conoscenza e manodopera dei servizi di base, di un nuovo sindacato c’è bisogno perfino più che di una nuova politica. Ripensarsi non sarebbe né una ritirata né un passo indietro, ma un salto nel futuro.

Al centro le persone

Al centro le persone

Francesco Riccardi – Avvernire

Premessa essenziale: stiamo discutendo di un emendamento alla legge delega di riforma del mercato del lavoro. I giochi politici sono ancora aperti e le indicazioni in parte generiche. Passerà almeno un anno prima di poter ragionare su un testo di legge effettivo, sul quale sviluppare delle valutazioni che non siano impressionistiche. Chiarito questo, se realmente alla fine dell’iter legislativo si sarà messo mano all’intera normativa sul lavoro – compreso il tema delle tutele in caso di licenziamento, con il reintegro sostituito da un indennizzo monetario di valore crescente – ci troveremo di fronte a un cambiamento fondamentale, culturale assai prima che economico.

L’idea alla base dell’emendamento di arrivare a un nuovo Codice unico semplificato del lavoro è infatti anzitutto la presa d’atto che il mondo è cambiato e il sistema economico-produttivo è ormai lontano anni luce da quello ford-taylorista su cui era stato disegnato, quasi 45 anni fa, lo Statuto dei lavoratori. Soprattutto, segna la fine di un’idea, quella che studiosi come Pietro Ichino definiscono la concezione “proprietaria” del lavoro, secondo la quale quando un lavoratore riesce a conquistare un posto, quello in sostanza gli appartiene. A vita. Con la conseguenza che da noi si è sempre difeso non tanto il lavoratore, quanto il legame tra il singolo occupato e quell’impiego. Con il reintegro obbligatorio nel caso di un licenziamento che il giudice ritiene senza giusta causa (spesso solo perché, in quella zona, per il licenziato sarebbe difficile trovarne uno nuovo). Ma non di meno costruendo un sistema di ammortizzatori sociali che ha relegato centinaia di migliaia di lavoratori nel limbo della cassa integrazione per anni, anziché favorirne l’aggiornamento e il ricollocamento in altre aziende. L’intero nostro sistema produttivo – già schiacciato dall’eccessivo carico fiscale e dalla burocrazia – ha risentito di questa rigidità, cercando ogni possibile via di fuga, fosse essa il restare al di sotto della soglia dimensionale dei 15 dipendenti o il ricorrere a contratti senza tutele. Determinando così un graduale degrado del nostro mercato del lavoro, a danno anzitutto dei lavoratori stessi, dei giovani più di tutti.

Il nuovo Codice semplificato che dovrebbe essere emanato ha dunque l’ambizione di disegnare un sistema di regole generali e flessibili meglio rispondenti al nuovo scenario globale. Ma deve portare con sé anche un altro cambiamento: porre davvero al centro la persona, il nuovo soggetto intorno al quale costruire tutele reali e universali, politiche attive, in grado di rendere il lavoratore più forte sul mercato, maggiormente capace di reagire ai mutamenti di scenario, più “padrone” del proprio destino che non mero dipendente. Per farlo occorre che la delega porti a compimento davvero tutto ciò che promette in termini normativi, ma soprattutto di più efficaci ammortizzatori sociali e servizi per l’impiego. Su questo – il mezzo disastro della Garanzia giovani purtroppo lo dimostra – siamo all’anno zero.

Nessuno si illuda, però: il superamento delle rigidità del passato, articolo 18 compreso, rappresenta solo la precondizione di un cambiamento necessario più profondo. Il lavoro del futuro sarà sempre meno somigliante a quello dipendente delle fabbriche manifatturiere che abbiamo conosciuto finora e sempre più simile all’interagire di soggetti diversi, in luoghi differenti, di volta in volta impegnati per un progetto da realizzare (un prodotto che magari sarà sfornato da una stampante 3D senza bisogno di essere “assemblato” da operai o un servizio offerto in Rete). Se non si assume finalmente una diversa idea di fare impresa, di cooperazione tra i soggetti coinvolti, di interazione con la società esterna, di partecipazione, allora, non avremo dato che una risposta per l’ennesima volta parziale a un mutamento, quello del lavoro e dell’economia, oggettivamente epocale.

P.S. È fondamentale che nel dibattito politico e sociale sulla riforma non si ripetano i tragici errori del passato. Tutte le posizioni sono legittime e hanno diritto di venire rappresentate. Ma nessuno si azzardi a indicare l’una o l’altra persona come “nemico del popolo” o “traditore dei lavoratori”. Il prezzo di sangue pagato da studiosi come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi all’impegno per il cambiamento del nostro Paese, è già stato troppo alto, insopportabilmente alto.

Il «bazooka» di Draghi deve essere utilizzato anche per le infrastrutture

Il «bazooka» di Draghi deve essere utilizzato anche per le infrastrutture

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Oggi la Banca centrale europea lancerà la prima asta di quello che è stato chiamato il bazooka di Mario Draghi: i T-ltro ( Targeted Long Term Refinancing Operations). È un acronimo difficile da pronunciare ma che, se lo strumento funziona, dovremo imparare a memorizzare. Lo strumento, infatti, rappresenta una vera svolta nella politica della Bce: è un modo originale (e sino ad ora mai provato in nessun Paese) per fare sì che la liquidità creata dall’istituto di emissione non finisca, come spesso avvenuto in passato, in una ‘trappola’ e non venga tesorizzata dalle banche per ‘ripulire’ i loro portafogli. La liquidità è, invece, targeted, ‘mirata’ al rifinanziamento di operazioni (investimenti) a lungo termine.
Le aspettative sono grandi in tutta Europa. E non solo. Se lo strumento darà i risultati attesi potrebbe essere replicato in Paesi (ad esempio il Giappone) che hanno sofferto e soffrono di trappole della liquidità. L’asta ha un plafond di 400 miliardi di euro, ma non è detto che si giunga ad utilizzarlo interamente. Le stime parlano di una capacità di ‘assorbimento’ per l’insieme dell’eurozona di 270 di euro (di cui 115-120 alla prima asta ed il resto alla seconda programmata per dicembre). La spiegazione è che dal 2008, inizio della recessione, ad oggi le imprese hanno tentato di fare funzionare (e fruttare) la dotazione di capitale fisso a loro disposizione e non hanno programmato investimenti a lungo termine.
Guardiamo con maggiore attenzione quelle che possiamo chiamare ‘le cose di casa nostra’. Secondo stime della Bce, 75 dei 400 miliardi sarebbero la ‘quota’ potenziale dell’Italia. Pier Carlo Padoan, ministro del Tesoro, ha detto di aspettarsi una richiesta da 37 miliardi da parte delle banche. Altre stime indicano cifre appena inferiori. Occorre chiedersi se le associazioni di categoria (in primo luogo la Confindustria) ed il Ministero per lo sviluppo economico hanno nei loro cassetti ‘progetti pronti’ che il sistema bancario non ha finanziato e potrebbero decollare grazie al T-ltro, quali sono le tipologie, quali i costi ed i finanziamenti necessari. Sarebbe nell’interesse di tutti avere questi dati. In primo luogo, del Presidente del Consiglio. Non per curiosità. Ma per un’esigenza molto pratica. Ove l’Italia mancasse di progetti pronti nei comparti T-ltro, non sarebbe il caso di chiedere alla Bce di ampliare la platea alle infrastrutture, molte delle quali rimaste al palo (anche se cantierabili ) pure dopo lo Sblocca Italia? Auspichiamo di avere presto risposte e se del caso un’azione politica spedita. Non è tempo di piagnistei, come amava ripetere il sindaco di Firenze Piero Bargellini.
Pil con le attività illegali? Meglio il benessere equo

Pil con le attività illegali? Meglio il benessere equo

Antonio Marzano – Avvenire

La decisione dell’Istat d’inserire nel calcolo del Pil le attività illegali corrisponde a un indirizzo formulato dall’Eurostat e può essere considerato un tentativo più completo di rappresentare il volume dell’attività, misurato appunto dal Pil, che si svolge nel Paese. Ho tuttavia alcune pacate perplessità per quanto riguarda tali inclusioni.

Dal mio punto di vista, se proprio la si vuole considerare ai fini statistici, bisognerebbe tener conto che questa attività nuoce ai protagonisti dell’economia legale e andrebbe quindi valutata al netto del danno. Se così si facesse, dubito che il valore “netto” delle attività illegali sarebbe, non dico positivo, ma veramente significativo. La seconda considerazione è che piuttosto nel Pil bisognerebbe avere più considerazione del Terzo Settore che interessa all’incirca 11 milioni di persone in Europa. Avrei anche una terza considerazione da fare. Il Pil viene normalmente considerato a prezzi costanti. Questo viene fatto affinché l’inflazione, appunto l’aumento dei prezzi, gonfi apparentemente il Pil medesimo. Ma nel caso di un Paese come l’Italia che si sforza di essere competitiva attraverso la migliore qualità del prodotto, l’aumento dei prezzi non è solo di natura inflazionistica, ma spesso riflette proprio la qualità del prodotto. Calcolare tutto a prezzi costanti potrebbe significare ignorare il miglioramento della qualità del prodotto. Dal punto di vista metodologico non è facile la distinzione, ma uno sforzo in questo senso migliorerebbe la rappresentazione della realtà produttiva del nostro Paese.

Un’ultima considerazione. Da tempo si sostiene che il Pil, per quanto importante, non sia un adeguato misuratore della qualità della vita. Per questo il Cnel, congiuntamente all’Istat, ha proposto d’integrare il Pil con gli indicatori della qualità della vita, approntando il BES (benessere equo e sostenibile). Questa è la strada da percorrere, infatti le attività illegali non migliorano certo la qualità della nostra vita.

Debiti PA tutti pagati entro il 21 settembre? Una promessa a metà

Debiti PA tutti pagati entro il 21 settembre? Una promessa a metà

Eugenio Fatigante – Avvenire

I crediti “certificati” delle imprese con le amministrazioni dello Stato «possono essere saldati subito». L’ha detto a più riprese Matteo Renzi l’altra sera in tv, a Porta a porta, nel minuetto inscenato con Bruno Vespa sull’escursione a piedi sul monte Senario, sopra Firenze, oggetto della “scommessa di San Matteo”: entro il 21 settembre, aveva promesso a marzo il capo del governo sempre in tv, il governo avrebbe sbloccato tutti i debiti maturati entro line 2013, pena appunto l’insolita passeggiata del premier (in caso di promessa non mantenuta) o del conduttore.

Renzi l’ha “messa facile”, insistendo molto sulla procedura, capace – a suo dire – di consentire agli imprenditori interessati di presentarsi l’indomani in una banca per ottenere (finalmente) il dovuto, attraverso la “cessione del credito” che comporta però un costo pari all’1,6% fino a 50mila euro e all’1.9% al di sopra. Le cose sono davvero così semplici? Il premier ha dato a intendere che la promessa sarà onorata. A oggi, tuttavia, il “contatore” presente sul sito del Tesoro è malinconicamente fermo a 26,1 miliardi rimborsati ai creditori, alla data del 21 luglio (cifra aggiornata in tv l’altra sera a 31 miliardi a fine agosto); in ogni caso, stiamo ben al di sotto di quell’importo quantificato come minimo (una stima definitiva su quanti siano questi crediti non c’è mai stata) in 45-50 miliardi dall’ex ministro (nel governo Letta) Saccomanni, contro la cifra-monstre di 90 miliardi ipotizzata in un primo tempo da Bankitalia.

Una premessa è doverosa, e viene riconosciuta anche da un po’ tutte le associazioni d`impresa: la normativa messa in campo da Renzi è sicuramente un passo in avanti rispetto a quelle, più “balbettanti”, dei governi Monti (il primo a muoversi per affrontare questo problema, col decreto 35 d’inizio 2013) e Letta. Quest’ultimo, per dire, aveva disposto che entro settembre 2013 tutte le amministrazioni dovessero fornire l’elenco dei propri debiti. Nessuno l’ha fatto. Per questo Renzi «ha invertito il processo, e questo è il suo pregio», ricorda Mario Pagani, capo del dipartimento politiche industriali della Cna: «Ora sono le imprese che dichiarano quanto spetta loro». Quel che Renzi ha omesso di dire è che c’è un passaggio-chiave, fra l’autocertificazione sull’apposito sito e il pagamento: bisogna comunque aspettare 30 giorni perché l’amministrazione coinvolta ha questo margine di tempo per rispondere, attestando che quel credito esiste e, pertanto, è “esigibile”. Se lo fa, in effetti l’imprenditore può – subito dopo aver ricevuto questo attestato – andare in banca per farsi anticipare da questa i soldi spettanti, con la garanzia pubblica della Cdp. Ma – attenzione – non vale il “silenzio-assenso”: se non arriva nessuna risposta, l’impresa ha 10 giomi per segnalare l’inconveniente sulla piattaforma on-line, dopodiché viene nominato un commissario ad acta che ha altri 50 giorni per accertare la “verità” su questo credito. Insomma, in aggiunta ai 30 giorni iniziali, rischiano di passare altri 2 mesi. Peraltro, stando al report sul sito del Tesoro, ai primi di agosto c`è stata una “fiammata” nella consegna delle istanze di certificazione; e in questi giomi, quindi, che stanno arrivando le risposte.

A oggi, le imprese registrate sono 15.613, per un numero di istanze di 56.189 e un controvalore di oltre 6 miliardi (non è chiaro se aggiuntivi o no rispetto ai 31 detti in tv), ma la scadenza è stata da poco prorogata al 31 ottobre. Resta un «mistero», sottolinea ancora Pagani, capire perché il governo abbia escluso la via della compensazione fra crediti e debiti fiscali, «singolarmente concessa invece a chi ha ricevuto una cartella esattoriale», insomma alle imprese “meno oneste” nei rapporti col Fisco. Fra 10 giorni, al di là di Renzi o Vespa ”marciatore”, si farà il punto finale.

Mille e non più di mille, i giorni per dare un giudizio

Mille e non più di mille, i giorni per dare un giudizio

Tiziano Resca – Avvenire

Ma secondo voi mille giorni sono tanti o pochi per riaggiustare un Paese, o almeno avviarne il cambiamento? Tenendo conto che quel Paese è il nostro, da decenni sprofondato in una gestione della cosa pubblica da moviola, in una politica e in rapporti sociali che fanno di risse e colpi bassi e denigrazione del “nemico” il principale – a volte l’unico – motivo di esistere.

A parole, il premier Renzi pare molto sicuro del futuro di tutti noi: ha detto e twittato – ormai sembra più convincente twittare che dire – che entro domenica 28 maggio 2017 (mille giorni, appunto) «l’Italia la cambiamo». Facendo ancora una volta balenare un po’ di tutto. Pur senza approfondire molto. «Alla fine saremo giudicati», ha aggiunto. A dire il vero il momento dei giudizi è già cominciato, visto che tempo non ce n’è tanto, soprattutto per chi – sempre di più – si trova oppresso dalla mancanza di lavoro o dall’impossibilità di offrirlo, quel lavoro. Non che si potesse chiedere a questo governo di raddrizzare un malandato Paese nel giro di sei-sette mesi. Quell’impossibile pretesa lasciamola a qualche partito o movimento che cerca spazio cavalcando non idee ma malessere sociale e qualunquismo. A creare un po’ troppe attese era stato però lo stesso premier, fissando all’inizio del suo mandato un tour de force di riforme a scadenza mensile degno di un imbattibile record mondiale. Adesso, approdato a più ragionevoli e miti ambizioni, ha dilatato i tempi, rendendoli maggiormente credibili.

Mille giorni, dunque. Tanti o pochi? Cerchiamo un termine di paragone, torniamo indietro nel tempo, mille giorni fa… fine novembre inizio dicembre del 2011. Uno dei periodi più arroventati della recente politica italiana. Tre settimane prima – era la sera del 12 novembre – Silvio Berlusconi, travolto da tutto, aveva chiuso la sua carriera da premier rassegnando le dimissioni. Nell’arco degli ultimi 17 anni, a partire dal 1994, aveva governato a periodi alterni per 3.340 giorni. Il famigerato spread in quei momenti era a livelli pazzeschi (550 e oltre), il tasso di disoccupazione giovanile già drammatico ma più basso di oggi, al 30,1%, quello complessivo pure, all’8,6. Ma l’immancabile Europa ci considerava dei rovina-famiglia e il Paese pareva sgretolarsi sotto le botte della crisi, anche se l’allora premier tentava di convincere il mondo che «l’Italia è benestante, i ristoranti sono pieni, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto». Quell’ottimismo non bastò per restare a Palazzo Chigi. Arrivò Mario Monti. Supertecnico – allora era doverosamente visto come tale, poi in realtà fondò un partito – legatissimo all’idea di Europa, riscuoteva grande stima e suscitava enormi speranze. Ma non resse a lungo, un anno 5 mesi e 12 giorni. E poi, dopo il suicidio elettorale di Pierluigi Bersani, toccò a Enrico Letta. Neanche dieci mesi, travolto dal dilagare dell’incalzante Renzi. Il quale, oggi, fissa la data del giudizio: mille giorni. I precedenti mille non hanno portato molto bene. Ora sta a lui dimostrare che, se usati coi fatti e non con soli annunci e promesse, i prossimi mille possono anche funzionare. E non essere troppi.  

Quello spread fra politica ed economia reale

Quello spread fra politica ed economia reale

Giuseppe Matarazzo – Avvenire

Ricordate i titoloni dell’autunno nero del 2011, quando il Paese sembrava al collasso e lo spread (il differenziale tra i rendimenti dei Bund tedeschi e i nostri Btp) sfiorava i 600 punti? A fare le spese di quelle montagne russe dei mercati fu l’ultimo governo Berlusconi, spinto alle dimissioni dal pressing nazionale e internazionale. Archiviata la stagione azzurra, lo spread, nel giro dei tre governi (Monti, Letta e Renzi) che si sono succeduti, è tornato sotto controllo a livelli minimi (ieri a 153). I mercati internazionali ora ci vedono con meno sfavore: l’Italia è un Paese più afidabile. Ma è anche salvo dal baratro? Davvero è lo spread a misurare lo stato di salute di un Paese?

La risposta è no. Lo spread è importante ai fini della fiducia dei mercati: se c’è una differenza fra due titoli con la stessa scadenza, la ragione è nella diversa fiducia che si nutre nel debitore. Se i mercati domandano all’Italia di pagare un tasso di interesse più alto è perché hanno più fiducia nella Germania rispetto all’Italia nel rimborso del debito. Questa differenza è importante, per questioni di fiducia e di soldi. Per il debito dello Stato e per gli interessi che pagano le imprese. Detto questo, lo spread non è un indicatore economico. E soprattutto non è «libero». Se non è un «imbroglio››, come accusò Berlusconi, è perlomeno manipolabile dalla speculazione di chi – come le grandi banche d’affari – ha interesse a tenerlo basso o a farlo alzare. E non certo per il bene comune. Con lo spread che potrebbe scendere addirittura sotto i 100 punti dovremmo essere tranquilli e sorridenti. E invece… il Paese non vive di (solo) spread. Dopo tre anni di esecutivi “emergenziali” abbiamo salvato il differenziale sui rendimenti. Ma non il Paese. Non gli altri spread che separano l’Italia dal resto del mondo. Anzi.

Se il sentiment degli investitori migliora, il Paese reale non sta meglio di tre anni fa. Lo dicono i numeri degli indicatori, questi sì economici. La carrellata di dati dei giorni scorsi è impietosa: siamo di nuovo in recessione, con il Pil in calo anche nel secondo trimestre (-0,2%) che lascia intravedere un segno meno per il 2014, lontano dalle stime ottimistiche del governo (mentre gli Usa da cui la crisi è cominciata viaggiano con un +4,2%); il debito pubblico continua a crescere, toccando a giugno il nuovo massimo di 2.168 per la prima volta dal 1959 l’Italia è in deflazione, con i prezzi in territorio negativo, segno di un mercato interno dei consumi depresso, nonostante il bonus da 80 euro; la disoccupazione è salita al 12,6% (nel 2011 era al 9%), mentre in Germania è al 4,9%; e la fiducia delle imprese diminuisce al pari della produzione industriale. Un Paese, per dirla con Sergio Marchionne, «inerte, incapace di reagire». Nonostante i tecnici e le annunciate rottamazioni. E non è una consolazione (mal comune mezzo gaudio) se anche Berlino comincia a intravvedere qualche segno meno su Pil o produzione industriale. La Germania resta una locomotiva. L’Italia rischia di restare ferma in stazione.

L’inganno dei costi bassi. Ecco perché una buona notizia diventa negativa

L’inganno dei costi bassi. Ecco perché una buona notizia diventa negativa

Eugenio Fatigante – Avvenire

Finalmente una buona notizia, Così potrebbe pensare l’ignaro lettore, poco esperto di cose economiche, nel leggere che dopo 55 anni l’Italia è in deflazione (e l’Europa ci si avvicina). Bene, i prezzi scendono, quindi il conto nei negozi e nei supermercati diventa più basso (pur ricordando che si tratta, come sempre, di un indice, quindi di una media, e che ci possono essere anche prodotti i cui prezzi salgono ancora): non capirebbe allora – sempre il nostro ignaro lettore -il perché dei toni tanto preoccupati che si leggono nei commenti davanti a questo fenomeno. 

Cosa c’è che non va nel livello dei prezzi entrato in territorio negativo, e comunque lontano da quel 2% “ideale” che è l’obiettivo fissato dalla Bce di Francoforte? La questione va vista sotto due punti di vista: quello strettamente legato al costo della vita e i suoi riflessi sui conti pubblici. Nel primo campo, come spiegano tutti i manuali di economia la dinamica dei prezzi “versione 2014” diventa negativa perché, in questo caso, non è la conseguenza di un aumento di produttività delle industrie, bensì della bassa domanda di beni e servizi e del calo globale dei consumi. Va poi considerato che, secondo diversi economisti, la presenza di prezzi al ribasso e l’aspettativa di un’ulteriore discesa finiscono per spingere i consumatori, soprattutto per i beni più costosi, a rinviare ancora gli eventuali acquisti nella speranza che il prezzo di quel bene cali ancora. Ma questo è il minimo. L’aspetto più grave è che gli scontrini più bassi (per i consumatori) hanno un rovescio della medaglia; si riducono pure i margini di ricavo di supermercati e negozi e, con essi, quelli delle imprese produttrici. Di conseguenza si hanno meno investimenti, meno posti di lavoro e  salari ridotti. Ecco, allora, che il portafoglio in cui restano più soldi per la spesa, allo stesso tempo si “alleggerisce” – in via generale – per i problemi occupazionali e salariali. Rischiando di innescare una vera spirale deflattiva, che porta a prezzi ancor più bassi. Insomma, il vantaggio della deflazione c’è solo per chi ha l’assoluta certezza del posto di lavoro e anche di un reddito medio-alto.

C’è poi l’altro versante per cui l’inflazione negativa diventa deleteria, anche per la vita delle famiglie: gli effetti sul bilancio dello Stato. Per far comprendere questo “passaggio” basti pensare a 10mila euro chiesti in prestito a un amico, da restituire dopo 2 anni senza interessi. In condizioni normali, con prezzi e salari che salgono, il valore di quei 10mila euro diventa inferiore per chi li rimborsa perché, pur restando sempre 10mila, con quella somma – trascorsi 24 mesi – si possono in realtà comprare meno beni e servizi. Grosso modo lo stesso avviene per gli Stati che hanno un alto debito pubblico (come l’Italia), con la “complicazione” degli interessi. Per questo si afferma che una delle armi per contenere il debito è, oltre al ritorno alla crescita, un “certo livello” d’inflazione, non troppo basso. 

Cerchiamo di farci capire anche qui con un esempio. Ai livelli massimi toccati dai tassi di interesse sui titoli italiani contribuiva anche un alto livello di inflazione: nel pieno della tempesta che ci colpì, nel novembre 201 1, il rendimento del Btp decennale aveva toccato il 7,5%, ma l’inflazione veleggiava al 3% e questo dava una “spinta” anche alle voci in entrata del bilancio. Il rendimento reale (e quindi il costo “vero”del rimborso del debito per lo Stato) era attorno al 4%. Oggi, pur essendo sceso il Brp sotto il 3%, con l’inflazione sottozero il costo resta quasi uguale per il Tesoro. Solo se l’inflazione fosse rimasta attorno al 2%, il costo del servizio del debito si sarebbe tramutato in un reale beneficio per le casse pubbliche (quello “vero”, difatti, si sarebbe ridotto a un 1%). Questo spiega perché la deflazione finisce col penalizzarci ancor più nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica concordati con la Ue. E la cosiddetta “sostenibilità “del debito diventa un problema ancor più grave.

La prova del trapezio

La prova del trapezio

Leonardo Becchetti – Avvenire

I dati Istat sui consumi nel primo mese del bonus degli 80 euro indicano calma piatta, e questo proprio mentre l’Italia entra in deflazione. Il vero difetto del bonus è stato parlarne così tanto, quando lo stesso Governo Renzi attribuiva a tale misura un effetto marginale sui consumi dello 0,1%. Ora che l’opinione pubblica comincia a capire i guasti del “rigorismo”, il timore è che i nostri governanti (e chi li consiglia) non siano ancora del tutto liberi da quell’errore di prospettiva.

Nel novembre 2012, su queste colonne, abbiamo cominciato a scrivere del «dividendo monetario della globalizzazione». I Paesi ad alto reddito sottoposti a una concorrenza feroce di Paesi poveri ed emergenti potevano e dovevano difendersi con politiche monetarie molto espansive che controbilanciassero il calo della domanda aggregata. Agendo così, l’inflazione non sarebbe decollata come negli anni 80, perché il vento della concorrenza globale è un vento deflattivo che limita le possibilità di rialzo dei prezzi. Prova ne sia che l’Italia è entrata ufficialmente in deflazione, per la prima volta dopo il 1959, con i dati di ieri sui prezzi di agosto (vale la pena di ricordare che il governatore della Bce Mario Draghi, ancora nel febbraio scorso, gettava acqua sul fuoco escludendo il rischio di un calo dei prezzi). Stati Uniti, Regno Unito e Giappone hanno deciso di sfruttare pragmaticamente il “dividendo monetario”. I risultati si sono visti, sono stati riconosciuti da tutti e l’inflazione non è ripartita in nessuno dei tre Paesi nonostante le massicce iniezioni di moneta effettuate dalle rispettive Banche centrali. La Ue è invece rimasta al palo, perché Draghi, aristotelicamente parlando, è stato abilissimo in potenza (quando ha sconfitto la speculazione contro l’euro avvertendo che la Bce sarebbe intervenuta con qualunque misura possibile), ma non in atto (per attuare una politica monetaria espansiva avrebbe dovuto varare due anni fa una strategia di acquisto dei titoli pubblici dei 18 Paesi dell’area euro).

Il premier italiano Matteo Renzi e Draghi si sono incontrati quest’estate per cercare di dare risposte alla crisi nella quale continuiamo a esser immersi, e ne è uscito quello che i mass media definiscono un «nuovo accordo». In cambio delle riforme strutturali italiane la Ue varerà le attese politiche fiscali (Juncker e i suoi famosi 300 miliardi di investimenti) e monetarie espansive. Il rischio insito nell’accordo è quello di un’interpretazione rigorista delle nostre riforme strutturali che le riduca al taglio dei salari e della spesa pubblica. Ovvero a due interventi che deprimeranno ulteriormente la domanda aggregata e che saranno drammaticamente controproducenti se non bilanciati effettivamente da europolitiche espansive. In questo passaggio, Renzi è simile al trapezista che si lancia nel vuoto sperando che il suo partner che si dondola sull’altalena dal lato opposto tenda la mano per afferrarlo. Il partner Draghi lo farà con solerzia o si fermerà al primo ostacolo interno affidandosi alla rete di protezione sotto il trapezio che lui stesso ha steso? In quel caso, la brutta figura sarebbe solo del trapezista Renzi.

Si dice che dobbiamo continuare nella spending review per ridurre tasse su lavoro e imprese, e l’obiettivo è sacrosanto. Ma un Paese come il nostro che ha un’imposizione di quasi 20 punti percentuali superiore all’Irlanda quanta produzione effettiva e contabile pensa di poter recuperare con gli interventi di uno o pochi punti consentiti dai tagli di spesa e dai vincoli del pareggio in bilancio? Se in Italia le Marche abbassassero di 20 punti le imposte sulle imprese tutti correrebbero a fissare lì la propria sede legale. Il problema dell’armonizzazione fiscale nella Ue (e non solo) è il problema del momento e il governo deve sostenere lo sforzo che le istituzioni internazionali e le ong (Ocse e Transparency in primis) stanno facendo per porre fine a una corsa al ribasso che rende concreto lo spettro di una ricchezza senza nazioni e di nazioni senza ricchezza.

I sostenitori della versione rigorista e semplificata delle riforme strutturali fanno spesso l’esempio della Spagna, che ha registrato nell’ultimo trimestre una variazione positiva del Pil. Ma la Spagna è uno dei casi peggiori di sostenibilità del debito con un rapporto corrente deficit/Pil al 6.6% e un debito che è esploso dal 37% del 2007, all’inizio della crisi finanziaria, fino al 94% dell’ultimo dato ufficiale del 2013. E la sua crescita dell’ultimo trimestre è drogata da deflazione e crollo dell’import. Se noi italiani avessimo seguito il “miracolo spagnolo” nella dinamica del debito, saremmo oggi già in bancarotta. Per tutti questi motivi, ripetiamolo ancora una volta, il nostro futuro si gioca in Italia e (soprattutto) in Europa. Abbiamo bisogno di un governo che superi il bias rigorista (qualcuno ha ancora dubbi sul fatto che si tratti di un errore sistematico?) e che dimostri coi fatti che le riforme davvero strutturali sono la riduzione dei tempi della giustizia civile (bene, nonostante alcune tutt’altro che marginali questioni, l’insieme della riforma), una scuola e un’università moderne che ci consentano di ridurre il gap di anni di scolarizzazione con i maggiori Paesi europei, investimenti sulla banda larga che ci tolgano dalle ultime posizioni nella classifica Ue, riduzione dei costi della burocrazia pubblica e dei tempi di avviamento di attività d’impresa. E che faccia capire che per fare queste riforme (che neanche la Germania ha operato senza allentare temporaneamente i vincoli di spesa) la camicia di forza del Fiscal Compact e il pareggio di bilancio (che un referendum per il quale si stanno raccogliendo le firme in questi giorni vuole abolire) sono anticaglie del passato e residui della sbornia rigorista.

Il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil è una misura prudenziale che basta e avanza, ma senza la mano del trapezista Draghi sarà difficile uscire dalla crisi economica. L’economia è come una macchina da guidare artigianalmente con perizia sui terreni sempre nuovi ed accidentati della congiuntura mondiale. Per di più, nella Ue, alcuni comandi della macchina (tasso di cambio, politica monetaria) non li azionano i singoli Paesi. Pensare di farcela da soli, senza un serio impegno in Europa per far prevalere riforme sensate che correggano le asimmetrie tra gli Stati membri, sarebbe un grave errore.

Compiti per tutti

Compiti per tutti

Leonardo Becchetti – Avvenire

Come purtroppo previsto, il dato sul Pil del secondo semestre (meno 0,2%) conferma che l’Italia continua a essere in recessione o, più ottimisticamente, a camminare su un sentiero di crescita zero che, sommato alla dinamica dell’inflazione anch’essa prossima allo zero, ci allontana da quel 4% (crescita più inflazione) che renderebbe teoricamente possibile il rispetto del Fiscal Compact nei prossimi anni. Con il cappello in mano chiederemo alla Ue altra flessibilità che ci verrà concessa per non far saltare il banco dell’euro, ma saremo tenuti in perenne condizione di inferiorità negoziale.

Pur non dimenticando gli interventi preziosi in materia di cooperazione e di Terzo settore, in questi primi mesi di azione il governo ha ottenuto la fiducia degli elettori promettendo attivismo e moto perpetuo in economia, dedicando però poi la parte preponderante delle sue notevoli energie ad un obiettivo: la riforma del Senato. Venivamo da 20 anni di inazione ed era dunque necessario intervenire per riportare il nostro sistema istituzionale fuori dalle secche dell’inefficienza, ma è chiaro che i dossier chiave per far ripartire il Sistema Italia sono altri: la riforma della giustizia civile (la durata abnorme dei procedimenti è la prima causa che allontana le imprese dal nostro Paese); la lotta all’evasione ed elusione destinando i proventi alla riduzione dell’enorme pressione fiscale su cittadini e imprese; l’incremento della capacità del sistema delle imprese di godere dei benefici dello sviluppo delle reti informatiche. Finisce per servire a poco il bonus di 80 euro nel rilanciare la domanda se lo stesso viene compensato dall’aumento di altre imposte che, sommate al quadro d’incertezza, spingono i beneficiari al risparmio e non al consumo. Farne una bandiera può rivelarsi poi un boomerang se i risultati non tornano. Dovremmo inoltre ridurre le imposte sulle imprese, ma è irragionevole pensare di poter trovare le risorse per farlo con il pareggio di bilancio anche operando drastici tagli alla spesa che peraltro deprimerebbero ulteriormente la domanda.
Il dovere morale della nostra classe dirigente è dunque mettere la stessa decisione e dedicare le stesse energie profuse per la riforma del Senato nella riduzione dei famosi 50 spread di economia reale tra l’Italia e la Germania (oltre a quelli descritti sopra, inefficienza della burocrazia, costo dell’energia e molti altri). Ma dobbiamo essere consapevoli che neppure fare nel modo migliore possibile i “compiti a casa” è sufficiente. Se lo scalatore Nibali (recente vincitore del Tour de France) e un passista decidono di fare una passeggiata in bicicletta, per tenere insieme il gruppo è ragionevole trovare un terreno intermedio piuttosto che fare la scalata dello Stelvio. E se il passista (l’Italia) con l’ottimismo della volontà pensa di poter fare rapidamente un po’ di gamba e recuperare il gap con Nibali (la Germania) allora la colpa del sicuro fallimento è solo sua.

Il sistema dell’euro appare oggi profondamente squilibrato, costruito ad hoc per portare benefici per i Paesi del Nord e deve essere urgentemente riformato per evitare una deriva sempre più grave. La moneta unica in Paesi a diversa velocità genera asimmetrie commerciali tra nazioni in surplus e nazioni in deficit consentendo a questi ultime di aggiustare la situazione unicamente con riduzioni salariali che deprimono ulteriormente la domanda interna. Tra i fattori che possono aiutare a trovare una soluzione ci sono una politica monetaria della Bce più espansiva, una maggiore armonizzazione delle politiche fiscali, penalità simmetriche per i deficit e i surplus commerciali. Infine, l’introduzione graduale di un sussidio europeo di disoccupazione, che sarebbe un importante stabilizzatore automatico in grado di rilanciare la domanda nei Paesi in crisi.

Se ne è cominciato a discutere, grazie all’iniziativa italiana, all’ultimo incontro informale dei ministri del lavoro della Ue a Milano ma siamo ancora lontani da una possibile attuazione. Approfittando di questo momento particolare, in cui l’abbondante liquidità mantiene bassi i tassi, si dovrebbe poi aprire subito un dibattito sulla ristrutturazione morbida dei debiti pubblici dei Paesi Ue attraverso uno dei tanti meccanismi proposti negli ultimi tempi.

La qualità della nostra classe dirigente e il giudizio degli elettori sul governo si misurerà nei prossimi anni sulla capacità di progredire efficacemente nelle direzioni sopra indicate in Italia e in Europa. Se, come è purtroppo prevedibile, nessuno avrà interesse ad alzare il tono dell’allarme e della sfida fino alla prossima crisi finanziaria, dovremo aspettarla per poter vedere forse, una volta messi con le spalle al muro, la realizzazione di alcuni di questi punti.