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L’Ue: nel 2015 servono 6 miliardi in più

L’Ue: nel 2015 servono 6 miliardi in più

Marco Zatterin – La Stampa

Nessuna sorpresa, a Palazzo Chigi, quando il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble è arrivato ieri mattina all’Eurogruppo e ha espresso apprezzamento per lo sforzo italiano per le riforme, ricordando fra l’altro che da noi «è passata una riforma rilevante del mercato del lavoro». Era il segnale di distensione atteso sulle rive del Tevere, un gesto maturato nella seconda parte della domenica quando Matteo Renzi e Angela Merkel si sono sentiti in una telefonata di messa punto, resa necessaria dal rimbalzare delle polemiche sull’intervista della cancelliera alla Welt am Sonntag. Risulta che i toni di Berlino siano stati accomodanti, che Frau Merkel abbia ridimensionato la questione, e annunciato che Schaeuble sarebbe arrivato a Bruxelles con un ramoscello d’olivo. Così è stato. Messa giù la cornetta, il premier che le cronache davano in precedenza parecchio irritato, si confessava convinto che l’incidente fosse rientrato e il caso potessi dirsi chiuso.

Le interpretazioni contano parecchio di questi tempi, specie perché economia e assetti politici instabili in tutto il continente alzano il livello di sensibilità dei governi europei. Il clima si riflette bene nei toni delle pagelle delle leggi di Stabilità europee riesaminate dall’Eurogruppo, esercizio in cui i ministri economici dell’Eurozona si sono concessi una dose ricca di cerchiobottismo, originando un comunicato che lascia aperte molte letture. Soprattutto sui paesi rimandati a marzo, Francia, Belgio e Italia. E in particolare su quest’ultima. Il dato politico nostrano è che l’Eurogruppo è d’accordo con il rinvio a marzo del giudizio sulla legge di Stabilità e approva l’«ampia agenda di riforme» del governo Renzi. Quello tecnico è che i ministri di Eurolandia condividono l’analisi secondo cui Roma «rischia di non rispettare il Patto di Stabilità», misurano la differenza fra la correzione dei conti richiesta e quella promessa in 0,4 punti, quindi ricordano che «misure efficaci sarebbero necessarie per un miglioramento dello sforzo strutturale».

Il numero è preciso, la strategia no. «Il divario va colmato – spiega il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem -. Lo si può fare con nuove misure o attraverso la valutazione di quelle già prese, o ancora la Commissione può dire che lo 0,1 è lo 0,2…». Basta il risultato. E allora? Facciamo bene e poi vedremo. Ci sono oltre tre mesi per negoziare. Le parole scritte sono più insidiose di quelle pronunciate dagli alfieri dell’Eurozona. In linea con la Commissione Ue – mossiere nel processo di coordinamento economico e finanziario del semestre europeo -, l’Eurogruppo ammette il rischio di sforamento dell’Italia rispetto agli obiettivi di medio termine e, «mentre riconosce che le sfavorevoli circostanze economiche e l’inflazione molto bassa hanno complicato la riduzione del debito», ribadisce che «l’alto debito rimane una ragione di preoccupazione». E’ qui che si rimarca il «gap» di 0,4 punti di pil (6 miliardi abbondanti) sul deficit strutturale e si auspica efficacia nelle misure. «Nessuna richiesta aggiuntiva: legge di stabilità 2015 attuata in modo efficace rilancerà economia italiana», twitta il ministro Padoan. Il testo, in effetti, non ne parla.

Ciò non toglie che lo stesso Dijsselbloem ricordi che ogni paese a rischio di non rispettare l’europercorso «dovrebbe prendere nel momento opportuno le misure appropriate». Bruxelles attenderà marzo e l’olandese – alla stregua di Pierre Moscovici, commissario per l’Economia e pure Wolfgang Schaeuble – ribadisce che «il tempo a disposizioni deve essere utilizzato per colmare il divario». Risponde il ministro Padoan: «Siamo molto determinati a mettere in pratica il programma come l’approvazione della riforma del lavoro ha dimostrato». Pertanto, aggiunge con riferimento alla polemica innescata con la Merkel, «non condividiamo riserve del genere».

Ai piani alti della Commissione le contese bilaterali paiono un elemento di disturbo, ma nessuno lo dice. Moscovici sembra pensare all’Italia quando afferma che «rispettare le regole è assicurarne la credibilità», ma anche alla Germania con il suo «dobbiamo tenere conto di quello che è possibile fare». E se qualcuno non ci riesce? «Non ci mettiamo in questa logica – risponde il francese -. Noi lavoriamo perché le cose vadano secondo i programmi».

Senza riforme lo scudo Bce non ci salverà

Senza riforme lo scudo Bce non ci salverà

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

La tenuta dello spread BTp-Bund, dopo il declassamento di Standard & Poor’s, non deve ingannare. L’Italia si giova in questa fase dell’attesa del Quantitative easing, dato ormai sui mercati come un’opzione più che concreta. E questa fiducia fa premio su qualunque altra considerazione. Perdere di vista, però, che il nostro Paese resta fortemente a rischio nei giudizi degli investitori internazionali sarebbe un errore madornale. Era la seconda metà del 2010, quando in un’intervista al Sole 24 ore l’allora ministro dell’Economia osservava: «La curva dei tassi italiani è da tempo nella media europea. Oggi è a un tranquillo 127. Detto per inciso i debiti sovrani non sono più tanto di moda sui mercati finanziari». Dopo meno di un anno i tassi italiani avrebbero cominciato la loro corsa fino a portare lo spread al drammatico 575 dell’autunno 2011.

Ieri i decennali hanno chiuso con uno spread a 122, molto vicino a quel 127 che dava tranquillità a Giulio Tremonti, ma oggi come allora non c’è alcuno spazio franco su cui poter contare. C’è il possibile scudo del Qe, ma comprare titoli italiani a dieci anni con un rendimento sotto il 2 per cento resta una scelta tutt’altro che scontata. Perché non scontata è la sostenibilità del nostro debito, senza crescita economica e con una deflazione divenuta ormai realtà. Al di là della scarsa credibilità delle agenzie di rating, che ormai non muovono più i mercati come una volta, il declassamento da parte di S&P’s ha evidenziato un tema che è ormai sulla bocca di tutti nel mondo finanziario: la mancata crescita rischia di rendere davvero il debito pubblico italiano poco sostenibile, malgrado gli avanzi primari e gli esercizi di rigore. Sarebbe un grave errore se, in questa situazione, la politica italiana si adagiasse sotto lo scudo del possibile Qe. Si adagiasse e pensasse di potersi permettere di girare a vuoto per mesi tra tatticismi e agguati parlamentari sui temi del Quirinale e delle riforme istituzionali.

Al contrario vanno fatti subito e bene i decreti attuativi del Jobs act. Tenendo molto presente che l’obiettivo di creare posti di lavoro si centra se si rende davvero più agevole alle imprese assumere, in termini di costi e di regole. Allo stesso modo non va sprecata l’attuazione della delega fiscale per rendere, se non più amico, almeno meno persecutorio il fisco italiano. Vanno portate a casa le modifiche alla manovra con un pacchetto di misure in favore degli investimenti e dell’economia reale, a cominciare dal trattamento fiscale dei grandi macchinari imbullonati (presse, forni…) che solo la irragionevolezza del fisco italiano (e soprattutto locale) può equiparare a beni immobili.

Piuttosto che organizzare manipoli di guastatori pronti ad affossare candidati al Colle, sarebbe un grande messaggio verso il Paese se ogni forza politica contribuisse ad affrontare il nodo delle 8mila società partecipate intorno alle quali ogni giorno si alimenta il malaffare e muore un pezzo di economia italiana. È il buco nero della spending review, tocca interessi trasversali, anche vicini al governo dei sindaci, ma come dimostra l’inchiesta romana è un cancro di cui non può non occuparsi la politica prima che debba farlo la magistratura. Se Renzi davvero non vuole «lasciare Roma – e non solo Roma – ai ladri», sarebbe ora di passare ai fatti sulla dismissione, l’accorpamento e il risanamento di queste società.

Se però la politica italiana è chiamata oggi più che mai a dimostrare responsabilità, c’è davvero da domandarsi sulla ragionevolezza di chi ci guarda da Bruxelles. La rigidità con cui ieri l’Italia è stata richiamata alla correzione dello 0,5% del rapporto deficit/Pil per il prossimo anno è un’offesa al buon senso. Tanto più stridente nel momento in cui è la stessa Banca centrale europea ad aprire a una politica più espansiva. Non basta, dice la Commissione, la correzione prevista dello 0,1%, e già portata un mese fa allo 0,3%: bisogna centrare lo 0,5%. Come dire che va tolta un’altra manciata di miliardi dal rilancio della crescita. E poco importa se alla fine in questo modo si finirà per danneggiare lo stesso obiettivo della sostenibilità dei conti pubblici. Ottusità, che sono ancora più gravi proprio nel momento in cui può aprirsi per l’Europa e per l’Italia una finestra di opportunità. Il rilancio della crescita americana, lo stesso quantitative easing, i margini di competitività offerti da un’opportuna svalutazione dell’euro, i bassi prezzi del petrolio sono tutti fattori che potrebbero dare una spinta all’Europa nei prossimi mesi. Tocca alla politica, europea e italiana, cogliere quei segnali e accompagnarli con politiche e azioni utili a ricreare quell’ambiente di fiducia senza il quale non ci sarà né crescita né stabilità finanziaria.

Quello che la Bce non dice

Quello che la Bce non dice

Francesco Daveri – Corriere della Sera

Con la riunione di dicembre del comitato esecutivo della Banca centrale europea si è chiusa un’epoca: quella delle garanzie verbali del suo presidente sulla tenuta dell’eurozona. Negli ultimi due anni, solo con parole di rassicurazione, la Bce di Mario Draghi aveva ridato fiducia alla moneta unica e, nello stesso momento, garantito tempo all’eurozona. Ai politici serviva un periodo per avviare l’attuazione delle riforme promesse e alle banche per adeguare le loro procedure interne alla supervisione di Francoforte.

Quella delle garanzie verbali incondizionate di Francoforte è stata una stagione di grande successo che ha riportato il capitale in Europa dopo la crisi del 2011. Ieri però, dopo le consuete frasi di Draghi che annunciava con parole scarne ma significative il passaggio alla fase due della sua strategia (l’intenzione di attuare rapidamente il piano di acquisto di titoli compresi quelli di Stato), sui mercati è partita un’ondata di vendite che ha spinto le Borse in territorio negativo.

A pesare sui mercati c’è l’economia. Le parole non bastano più se accompagnate da dati che mostrano l’anemia dell’eurozona, incapace di andare oltre l’uno per cento di crescita nel 2014-15, malgrado la recessione del biennio precedente C’è l’inflazione che pesa anch’essa essendo in viaggio verso lo zero e ormai lontana dall’obiettivo del 2% che la Bce dovrebbe realizzare per mandato. L’azzeramento dell’inflazione è spiegata per più dell’80% dalla rapida discesa dei prezzi delle materie prime, il che potrebbe non durare. Ma con prezzi in calo i debitori pubblici e privati rischiano di veder salire il costo reale del loro debito e l’Europa di dire addio a nuovi investimenti e quindi alla crescita.

Con sviluppo e inflazione vicini allo zero oggi e in prospettiva, si riducono i margini per altri rinvii. Draghi non dispone di un mandato politico forte come quello della Federal Reserve americana. E si trova di fronte economie fiaccate da anni di crisi e quindi meno ricettive agli stimoli. Ma, in presenza di passi troppo timidi della politica europea (per la quale la montagna «sperata» dei 300 miliardi di investimenti si è tradotta per il momento nella «certezza» del topolino di 21 miliardi garantiti del piano Juncker) la richiesta di fare di più non può che rimbalzare al presidente della Bce. E il fare di più per un banchiere centrale si misura con un solo numero: la dimensione del bilancio della banca che presiede, cioè il volume di titoli e altre attività che può acquistare sui mercati in cambio di liquidità. Volume che crescerà e tanto.

Dopo la fine dell’epoca delle parole, nei primi mesi del 2015 arriverà dunque il test più importante per la Bce. Mercati e cittadini europei cominceranno a misurare l’efficacia delle politiche di supporto al credito messe in cantiere dallo scorso giugno e in via di attuazione oggi e in futuro. Misureranno se la Bce sarà davvero in grado di acquistare tanti titoli da aumentare il suo bilancio di mille miliardi, su fino ai livelli della fine del 2012. Ma da oggi quella di Draghi non è più solo una promessa o un’aspettativa, è un’intenzione di attuazione. C’è da stare certi però che senza quello che Draghi chiede da tempo ai governi in termini di riforme e sostegno alla ripresa , difficilmente le mosse della Bce potranno essere sufficienti a favorire la crescita.

Ecco le tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa

Ecco le tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa

Giuseppe Pennisi – Formiche

Un seminario di studi organizzato da Febaf e da Economia Reale, le proposte per uscire dalla crisi e un paio di perplessità… Il 3 dicembre, proprio mentre il disegno di legge di stabilità approvato (ricorrendo al voto di fiducia) dalla Camera approda in Senato, la Federazione Banche Assicurazioni e Finanza (FeBaF) presieduta da Luigi Abete e l’Associazione Economia Reale hanno organizzato una riflessione sulla strategia di politica economica.

Riflessione tra economisti
Ad essa hanno preso parte, tra gli altri, il Presidente ed il Segretario Generale della FeBaf (Luigi Abate e Paolo Garonna), il Presidente dell’Associazione Economia Reale (Mario Baldassarri), Emilio Rossi della Oxford Economics, nonché Sergio de Nardi (Nomisma), Stefania Tomasini (Prometeia), Pierluigi Ciocca (Accademia dei Lincei), Marco Simoni (London School of Economics), Marco Fortis (Fondazione Edison), Marcello Messori (Luiss), Paolo Savona (Emerito Luiss) e molti altri. Una riflessione, quindi, tra economisti qualificati.

Il Rapporto
Il documento di base presentato è stato un libro curato da Mario Baldassarri Scacco Matto alla Crisi: Tre mosse per salvare l’Italia e l’Europa e un aggiornamento per tenere conto degli ultimi sviluppi e delle misure di politica economica all’esame del Parlamento. Non è certo questa la sede per riassumere le 370 pagine del volume e le 80 dell’aggiornamento, oppure diverse ore dibattito. L’analisi del volume e dell’aggiornamento è pienamente condivisibile: l’Italia sembra essere su una china sempre più in discesa – tanto da considerare preoccupanti gli “esami di riparazione” che l’Unione Europea ci ha chiesto di fare in marzo-aprile – e la legge di stabilità non è tale da mordere e fare cambiare marcia.

I 3 consigli
Le tre mosse suggerite nel libro e reiterate nell’aggiornamento sono le seguenti:
a) Un ritorno graduale del rapporto di cambio 1 a 1 tra euro e dollaro.
b) Una politica di bilancio espansionista (tagliando però le spese improduttive delle amministrazioni pubbliche dello Stato e delle autonomie locali, valutate in almeno 40 miliardi di euro l’anno) a supporto, complemento ed integrazione di una politica espansionista della moneta.
c) Una riduzione del fardello del debito pubblico tramite emissioni di titoli di un fondo garantito dal patrimonio immobiliare dello Stato e delle autonomie.
In tal modo, non solo si uscirebbe dalla recessione e deflazione ma si potrebbe progressivamente tornare a tassi di crescita del 3% l’anno e non solo risolvere il problema del debito ma anche e soprattutto rilanciare produzione, produttività ed occupazione. Questa è, senza dubbio, una sintesi di documenti molto articolati e molto ricchi di analisi econometriche.

Le perplessità
Tuttavia, ho perplessità sull’obiettivo (un ritorno ad un tasso di crescita del 3% l’anno) sia sugli strumenti. L’obiettivo non tiene conto che prima della crisi del 2006 la Banca mondiale, la Banca Centrale Europea, la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE ponevano all’1,3% il tasso potenziale di crescita dell’economia italiana a ragione dell’invecchiamento della popolazione, delle dimensioni medie aziendali e dell’obsolescenza degli impianti, Già nei piani triennali del 1981 e del 1982, per le medesime determinanti la crescita potenziale dell’Italia veniva stimata tra il 2% ed il 2,5%. Nel più recente documento Bce viene posta allo 0% a ragione degli effetti devastanti della crisi sull’apparato produttivo nonché dell’ulteriore invecchiamento. Quindi sarebbe più realistico puntare ad un tasso potenziale di crescita pre-crisi (1.3-1.5% per cento).

La questione del cambio
In secondo luogo, il cambio euro-dollaro dipende più dalla politica monetaria americana che da quella europea; se gli Usa continuano sulla strada del benign neglect, è difficile pensare di poter raggiungere, nel breve termine, l’obiettivo della parità tra dollaro ed euro. E’ da condividersi una politica di bilancio espansionista, ma l’attuale Governo non intende né uscire dai binari europei né entrare in aree di spesa di competenza delle autonomie locali (dove c’è molto grasso).

Il nodo del fondo
In terzo luogo, io stesso propongo da anni un fondo (non solo immobiliare) e tale da ridurre il fardello del debito. E’ stato effettuato un esame tra le varie proposte in una giornata seminariale al Cnel ed l’associazione di ricerca Astrid ha presentato un dettagliato documento. Ma a più riprese il presidente del Consiglio ed il ministro dell’Economia e delle Finanze hanno affermato di non considerare quello del debito un argomento prioritario.

Il dibattito è aperto.

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Su cosa verte la differenza di punti di vista tra Italia ed Unione Europa sulle circostanze eccezionali del Fiscal Compact che consentirebbero una deviazione dalle regole sull’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni (ossia il deficit), oltre al rinvio del pareggio di bilancio? Il nodo del problema è quello che in lessico economico viene chiamato l’output gap (letteralmente ‘divario produttivo’), ossia il differenziale tra Pil potenziale e Pil effettivo. Prima della crisi, nel 2008, la Commissione Europea, il Fondo monetario, e l’Ocse stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Prodotto interno lordo dell’Italia. Per avere un paragone, i ‘piani triennali’ dell’inizio degli Anni Ottanta la ponevano sul 22,5%, spiegando che è quello che già allora ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche, ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché dal peso del debito che incide comunque sulla crescita.

Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato uno studio che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia gli anni che hanno preceduto la crisi) e poneva l’output gap del nostro paese tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva quindi attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%. Mentre di recente, l’Ocse ha stimato l’output gap dell’Italia a -5 punti percentuali del Pil. Una chiara giustificazione di ‘circostanze eccezionali’.

La Banca centrale europea ha reso pubblico sul suo sito da meno di una settimana uno studio firmato da un gruppo di economisti. Non sono stati pubblicati lavori della Commissione Europea, ma si intende che le stime di Bruxelles coincidono con quelle di Francoforte. Il lavoro analizza gli effetti della crisi economica sui tassi di crescita potenziali, utilizzando una vasta gamma di modelli econometrici, e confronta l’eurozona con gli Stati Uniti ed il Giappone. Per l’Italia il Prodotto interno lordo potenziale sarebbe attorno al livello zero per l’anno 2013, proprio in quanto non sono state fatte le riforme sulle strutture dell’economia (essenzialmente miglioramento delle infrastrutture e delle reti, liberalizzazioni in tutti i settori, dalle professioni, alle banche ed assicurazioni, ai servizi pubblici locali, ai taxi, e via discorrendo) e in campo di privatizzazioni siamo riusciti a portare a casa solo quella dell’ente degli ufficiali in congedo. Quindi, non si possono invocare circostanze eccezionali. Non siamo, però, condannati alla ‘crescita zero’. A pagina 118 di quello studio, infatti, si dice chiaramente che tutto dipende dalle riforme strutturali, e cioè quelle sulla struttura economica del sistema nazionale, che non coincidono – lo ricordiamo – con quelle istituzionali. A questo punto Palazzo Chigi e Via Venti Settembre farebbero bene a mostrare le loro carte.

Il bazooka di Draghi rischia di restare scarico

Il bazooka di Draghi rischia di restare scarico

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Il consiglio della Bce che si riunisce oggi non dovrà solo decidere se lasciare il tasso d’interesse di riferimento allo 0,05% l’anno (come appare scontato), ma anche se e in che modo verranno adottate le ‘misure non convenzionali’ (principalmente gli Abs, in quanto gli Omt appaiono accantonati, mentre una seconda asta per gli T-ltro è in calendario a fine anno). In effetti, Draghi spera di avere creato, con pazienza e perseveranza, il consenso perché nel ‘bazooka’ monetario, come lui stesso lo ha chiamato, venga messa polvere da sparo e – soprattutto – ne venga autorizzato l’uso. In una recente conversazione a Roma, Fabrizio Saccomanni, che ha lavorato a lungo su questi temi sia come direttore generale della Banca d’Italia sia come ministro dell’Economia e delle Finanze, ha sostenuto che la Germania e altri Paesi non consentiranno mai e poi mai al presidente della Bce di acquistare le munizioni e ancor meno di sparare. Quindi il ‘bazooka’ è scarico e potrebbe restare tale.

Ma riuscirebbe una manovra monetaria ‘non convenzionale’ a rivitalizzare un’economia europea stagnante (più in Italia che altrove) e travagliata da uno spread di malessere sociale uguale (se non peggiore) rispetto a quello monetario dell’estate-autunno 2011? Il recente stress test al sistema bancario ha documentato casi di cattiva gestione (e di carente vigilanza da parte delle autorità nazionali), ma non di mancanza di liquidità. Che a fare difetto sia la domanda di impieghi lo confermano conversazioni con alti dirigenti e amministratori anche di banche stressate: vorrebbero aumentare gli impieghi alla grande (è la loro ragion d’essere), ma trovano solo piccoli e medi clienti. Lo ribadiscono studi recenti: un lavoro (inedito) di Cinzia Balzan e Francesco Zen (ambedue dell’ateneo di Padova) e di Enrico Geretto (Università di Udine) propone un modello del sistema bancario italiano basato sull’’appetito di rischio’.

La conclusione è che le banche italiane sono sottoesposte, ossia hanno poco ‘appetito di rischio’ anche in quanto dopo sette anni di crisi, le imprese hanno ragionevolmente dato la priorità al sopravvivere e non alla progettazione di nuovi investimenti. In parallelo, un lavoro (anch’esso inedito) dell’Università di Leicester studia 141 banche dell’Unione europea nel 2004-2010 e conclude che la crisi finanziaria internazionale ha reso gli istituti meno efficienti e, quindi, meno pronti ad aiutare clienti nell’allestimento di piani finanziari. Infine, c’è lo spettro del ‘contagio’ che rende tutti più prudenti, come confermano studi del Cepr. Come si spiegano allora i successi della politica monetaria americana? Gli Stati Uniti non hanno solo la freccia monetaria nel loro arco, ma utilizzano pure il bilancio e il cambio.

Consigli utili per uscire dalla crisi europea

Consigli utili per uscire dalla crisi europea

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Si cominciano a delineare proposte nuove per uscire dalla crisi che l’Italia potrebbe presentare ai tavoli europei prima del termine di un “semestre”, i cui esiti, sino ad ora, sono stati tutt’altro che esaltanti. Mentre ieri la Bce nel suo bollettino ha tagliato le stime di crescita dell’Eurozona: nel 2014 più 0,8%, invece di più 1%. In questo quadro, assume grande rilievo il percorso tracciato il pomeriggio del 12 novembre ad un seminario di presentazione dello studio In Search of a New Equilibrium: Economic Imbalances in the Eurozone, commissionato dall’Istituto Affari Internazionali, con il supporto della Compagnia di San Paolo, alla Luiss School of European Political Economy. Il documento, ancora in bozza – il seminario aveva lo scopo di raccogliere commenti prima della stesura definitiva – sarà disponibile entro la fine del mese e potrebbe essere un elemento importante della strategia da presentare prima del Consiglio Europeo del 18-19 dicembre oppure al Consiglio medesimo.

La bozza dell’Executive Summary del documento è stata illustrata dal Direttore della Luiss School of European Political Economy, Marcello Messori. Discussant Veronica De Romanis, Paolo Guerrieri, Beniamino Quintieri e Fabrizio Saccomanni, oltre ad alcuni interventi dalla sala. A questo stadio sarebbe poco utile, oltre che poco corretto, discutere in dettaglio di un documento ancora non finalizzato, pur se giunto ad uno stadio molto avanzato di redazione. Appare più significativo, recepire i punti essenziali del documento (quale presentato) ed i commenti formulati il 12 novembre e vedere quale potrebbe essere la strategia. Occorre premettere che l’analisi del documento integra, con stime econometriche, quella che fu l’intuizione centrale dell’ultimo lavoro di Luigi Spaventa: ossia che gli squilibri delle partite correnti all’interno di un’unione monetaria “contano” e, soprattutto, “rilevano” più di quanto non sembri ad un esame superficiale. Il documento, quindi, apporta un contributo scientifico di indubbio valore. Ciò non vuole dire che si è necessariamente d’accordo con tutte le implicazioni di strategia economica che il documento, nell’attuale stesura, trae dall’analisi. In molti aspetti le osservazioni al seminario hanno utilmente integrato il documento.

Veniamo le tre principali componenti di quella che potrebbe essere la strategia. In primo luogo, far comprendere a tutti i partner europei che gli squilibri non si risolvono con politiche che implicano “svalutazioni interne” (ossia riduzioni dei salari, dei poteri d’acquisto ed ora anche dei prezzi) dei soci del club in disavanzo strutturale delle loro partite correnti. Ciò può richiedere espansioniste da parte dei soci in surplus strutturale; a riguardo, però, occorre ricordare che solo un terzo del surplus commerciale della Repubblica Federale Tedesca è con il resto dell’eurozona. Berlino ha già iniziato una politica più espansionista ma è difficile (per ragioni storico-culturali) convincere il Governo e l’opinione pubblica tedesca che il pareggio di bilancio non è la virtù principale di ciascuna generazione nei confronti di figli e nipoti.

In secondo luogo, rilanciare il Growth Pact o l’Industrial Compact. Ciò comporta un forte aumento dell’investimento pubblico in infrastrutture che agisca sulla più piena utilizzazione dei fattori produttivi nel breve periodo e sull’aumento della produttività nel medio. In attesa che si materializzi il programma Juncker di investimenti addizionali di 300 miliardi di euro (peraltro, un programma sempre più evanescente), il documento propone un meccanismo macchinoso di interventi dell’European Stability Mechanism per facilitare emissioni di project bonds per investimenti a beneficio di Paesi che concludano contractual arrangements per il loro riassetto strutturale. Probabilmente si può trovare un sistema più semplice facendo perno sulla Banca Europea per gli Investimenti (BEI). Tuttavia, occorre sollevare il nodo di fondo: ci sono progetti “pronti” nel senso di immediatamente canteriabili? Dopo anni di recessione, le imprese hanno combattuto per sopravvivere più che per ampliarsi e modernizzarsi. In materia di infrastrutture, vale la pena ricordare che il “fondo per la progettazione” è stato utilizzato molto poco.

In terzo luogo, le misure dal lato della domanda avranno poco effetto se non accompagnate da stimoli alla produttività dal lato dell’offerta: ciò implica liberalizzazioni e privatizzazioni (soprattutto a livello locale). Riuscirà un Governo in cui gli ex-amministratori locali hanno una forte rappresentanza ed un peso considerevole a proporre misure specifiche in questo campo?

Dragare i conti

Dragare i conti

Davide Giacalone – Libero

È in atto una doppia perversione: lo scontro politico più interessante e serio si svolge fra le mura della Banca centrale europea, che non ha, né deve o potrebbe avere, legittimità democratica; come se non bastasse, e in modo grottesco, a rendere più difficile la politica espansiva della Bce sono proprio i paesi che ne avrebbero più bisogno. La cancelliera tedesca non ostacola la Bce, ma neanche muove un dito per fermare la Bundesbank, che ha organizzato un drappello di governatori centrali (Lussemburgo, Olanda, Estonia e Lettonia) in modo da gestire la guerriglia contro Mario Draghi. I capi dei governi francese e italiano, che per primi dovrebbero sostenere i programmi della Bce, s’industriano, invece, per trovare buoni argomenti da fornire alla Bundesbank. Questa è la doppia perversione. Ieri affrontata al meglio, ma che non smette di proiettarsi nel futuro.

L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), nel suo Economic Outlook (previsioni economiche), preparato per il G-20 del prossimo 15 novembre, porta acqua al mulino di Draghi e di quanti ritengono necessaria una politica monetaria espansionistica: senza quella e senza riforme la crescita europea si fermerà, creando un problema globale. Il board della Bce, dal canto suo, come illustrato dal presidente in una conferenza stampa, è stato unanime nel vedere nero.

Intendiamoci: siamo i soli, nell’Unione europea, a essere ancora in recessione e in deflazione, talché le previsioni Ocse sulla nostra crescita sono ferme all’asfissia: +0,2 nel 2015, contro il +0,6 su cui si reggono (si fa per dire) i conti del governo. Ma Germania, Francia e Italia sono la parte largamente preponderante della ricchezza e della produzione europee, e, sommate, non corrono proprio per niente. A fronte di ciò Draghi ha detto e ridetto che non basta la politica monetaria, per sentire nuovamente il rombo dei motori, ma è necessario che quella sia accompagnata da riforme interne, che aumentino la competitività, la produttività e l’elasticità economica di ciascuno. Tradotto in modo brutale: meno garanzie e più opportunità; meno pensioni sicure e più rispetto per il risparmio; meno spesa pubblica corrente e più investimenti; meno pressione fiscale, senza nessun “più” ad accompagnarla.

Francia e Italia, inchiodate dall’incapacità delle loro classi dirigenti, rese tremule dal crescere di movimenti politici di rifiuto e di protesta (alimentati dall’incapacità di cui sopra), indebolite da una crisi che si allunga anche per i ritardi nel contrastarla, altro non hanno saputo fare che il contrario del necessario, reclamando maggiore deficit e maggiore debito pubblico. Come un dogato che reclami più droga, supponendo sia la migliore ricetta per disintossicarsi. Nell’anno in cui si sarebbe dovuto porre come ineludibile il tema del debito federale, restiamo appiccicati all’incapacità di gestire quello nazionale.

Accanto a questi grandi paesi, che la paura rende miniature, ci sono quelli cui la crisi è stata fatta pagare con il sangue (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda) e che ora, magari dimenticando che la loro crescita è frutto dei soldi ricevuti (e che noi italiani abbiamo dato), sono alfieri del rigore perché non vogliono che ad altri sia evitato quel che a loro è stato imposto. Oltre la Manica c’è un Regno che ha seriamente rischiato d’essere disunito e la cui guida politica non solo non sa spiegare i danni dell’allontanamento dall’Ue, ma neanche sa presentare i conti dell’immigrazione interna europea: dalla quale guadagnano supponendo di perderci. In questo caos la Germania ancora approfitta d’essersi trovata nella posizione di chi trae vantaggio dalla difesa letterale dei trattati, accrescendo un ruolo egemonico che non ha mai portato fortuna a lei e men che meno all’Europa.

Il solo contrappeso comparso sulla scena è la Bce. Chi sa come e perché il mercato economico comune figliò la moneta unica sa anche il perché: possono esserci paesi forti, non possono esserci paesi che esercitano guida politica. La tragedia è che s’è trasferito dentro la Bce uno scontro politico che doveva trovarsi al Consiglio dei capi di Stato e di governo. Ieri l’esposizione della linea che si seguirà, positiva, ma per tutti impegnativa. La riassumo in cinque punti: 1. restano fermi, al minimo possibile, i tassi d’interesse; 2. il bilancio della Bce crescerà fino ai limiti della sua massima espansione, raggiunti nel 2012, il che significa che circa mille miliardi saranno pompati nel mercato; 3. sono allo studio tutte le possibili misure non convenzionali, compreso l’acquisto di titoli dal mercato (ai riluttanti è stato concesso il concetto di “studio” e l’uso del modo futuro nel coniugare i verbi); 4. i paesi membri devono curare il risanamento dei loro conti pubblici; 5. il patto di stabilità resta la credenziale di credibilità. Inutile sperare nei primi tre punti facendo i furbi sugli ultimi due. Ciò comporta che la legge di stabilità o la riscriviamo subito, o la riscriviamo, in emergenza e debolezza, fra sei mesi.

La terapia di Francoforte non basta senza riforme

La terapia di Francoforte non basta senza riforme

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Anche se ha deciso di mantenere invariati i tassi di interesse, il Consiglio direttivo della Bce di ieri può segnare una svolta importante. In primo luogo, perché fa piazza pulita delle voci secondo cui la leadership di Mario Draghi si era indebolita, perché alcuni (di cui è facile indovinare il passaporto) non condividevano sue recenti posizioni sui rischi di deflazione che l’Europa sta correndo. Nella conferenza stampa (e nel testo scritto, si badi) Draghi ha detto due cose fondamentali: che la Bce riporterà la dimensione del proprio bilancio ai livelli dell’inizio 2012 e che il Consiglio direttivo è unanimemente disposto a prendere in considerazione ulteriori interventi «se necessario».

Sul primo versante, questo significa un’espansione rispetto alle dimensioni attuali di circa 1000 miliardi di euro, quindi un’ulteriore iniezione di liquidità particolarmente significativa e che può sembrare inadeguata solo a chi ritiene che lo spettro della deflazione possa essere scongiurato solo con terapie monetarie, purché non si guardi alle dosi. Un’interpretazione che, guarda caso, fa piacere ai mercati che possono sperare in ulteriori giri di una giostra che ha già raggiunto in molti settori livelli di guardia.

Non meno importante è il messaggio contenuto nel riferimento ad ulteriori possibili misure, da realizzare «se necessario». È un chiaro segnale che a Francoforte si è ben lungi dal ritenere di aver già utilizzato tutte le munizioni possibili. I problemi caso mai scaturiscono dal riferimento al mandato della Bce, che continua ad essere la vera camicia di Nesso della nostra banca centrale e non a caso è l’ostacolo principale ad una politica di quantitative easing pura e semplice. Tempi eccezionali richiedono invece soluzioni eccezionali, come dimostra la recente decisione della Bank of Japan di acquistare Etf su azioni giapponesi, facendo cadere così un ulteriore tabù dell’ortodossia della cosiddetta arte del banchiere centrale. Ma la fantasia tecnica a Francoforte non manca, come si è abbondantemente dimostrato dal culmine della crisi europea ad oggi.

Del resto, lo stesso Draghi in un recente discorso ha esplicitamente detto che la Bce «è pronta a modificare la dimensione e la composizione dei nostri interventi non convenzionali». Ciò significa che il riferimento di Draghi all’ulteriore allentamento della politica monetaria «se necessario» può segnare una svolta non meno importante di quando, con parole assai simili, egli annunciò che la Bce era pronta a fare «tutto il necessario» per salvare l’euro. I mercati ormai sanno che se la Bce annuncia misure indispensabili, poi mantiene le promesse.

Il vero problema, come la Bce non si stanca di ripetere, sono le misure di riforma e di rilancio dell’economia, che spettano ai governi e non alle banche centrali e che sono l’altro grande pilastro insieme alla politica monetaria della lotta alla recessione. Non a caso in un recente intervento tenuto alla Brookings Institution di Washington, Mario Draghi ha rievocato le posizioni di Roosevelt e Keynes nel pieno della Grande Depressione e ha affermato che il problema fondamentale è far aumentare il prodotto potenziale dei Paesi europei, caduto ai minimi storici e che nessuna politica monetaria può da sola risollevare, perché il problema dell’Europa è strutturale, non ciclico.

Oggi il prodotto potenziale dell’Europa nel suo insieme e di ciascun paese, Italia in testa, è troppo basso per assorbire la disoccupazione e per rendere sostenibile gli eccessi di debito accumulati in passato, nel settore pubblico e in quello privato. Nel nostro caso, il problema non è confinato (si fa per dire) al primo. Ormai, larghi strati di imprese, soprattutto di piccole e medie dimensioni, fanno fatica a fronteggiare con gli attuali livelli di redditività il debito accumulato negli anni, come continua a ripetere il Fondo monetario internazionale e come dimostra l’emorragia di crediti bancari di dubbia esigibilità.

Sempre a Washington Mario Draghi ha ammonito contro il rischio di un allentamento della guardia sugli impegni di bilancio dei singoli Paesi europei, che potrebbe far ripartire le tensioni del 2011. Ma ha anche detto che esistono spazi per politiche più espansive: i Paesi in regola dovrebbero usare gli spazi disponibili nel bilancio pubblico (e si spera che il messaggio non si sia perso nel tortuoso cammino fra Francoforte e Berlino) mentre quelli sotto osservazione dovrebbero tagliare parallelamente tasse e spese non produttive.

E non basta, perché Draghi ha aggiunto che i governi europei non hanno bisogno che si ricordi loro quali riforme si devono fare, perché lo sanno benissimo. In realtà, un brillante esempio di litote, cioè della figura retorica con cui si afferma qualcosa negandolo. E infatti, si fa riferimento a un altro recente intervento di un membro del Comitato direttivo della Bce, in cui si elencano puntigliosamente le riforme necessarie per aumentare la produttività e dunque il prodotto potenziale. Che non riguardano solo il mercato del lavoro, come forse qualcuno crede, ma spaziano in molti campi che vanno dagli strumenti per la ristrutturazione del debito delle imprese, alla loro ricapitalizzazione, all’aumento della concorrenza nei settori protetti.

Insomma, se occorre una terapia d’urto, questa non riguarda tanto la moneta quanto le condizioni che incidono sulla produttività delle imprese. Misure analoghe nell’intensità, certo non nel dettaglio tecnico, a quelle prese negli anni Trenta. Ma forse il problema è che dovremmo avere, non solo in Europa, più governanti che abbiano la statura politica di Franklin D. Roosevelt.

Perché Draghi non è amato in Germania

Perché Draghi non è amato in Germania

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Non sono sorpreso dell’aria di fronda – molto diplomaticamentc ricomposta ieri – che spira attorno a Mario Draghi: il presidente della Bce cammina su un filo sospeso. Ma il problema non è il modo poco consensuale con il quale il banchiere italiano guida l’Istituto, come è stato scritto da taluni. Il punto è che il conflitto interno all’Eurozona si sta disvelando. E il simbolo di questo conflitto è il valore da dare alla moneta unica, in un sistema dei prezzi ormai sovranazionale e non più governato dalle vecchie sovranità statuali. Mi aveva colpito l’ondata di critiche venuta dalla Germania in occasione del drastico abbassamento dei tassi di interesse che solo a maggioranza la Bce aveva deciso alcune settimane fa. Tutta la Germania, che è istituzionalmente costruita su una possente architettura di società intermedie (associazioni di risparmiatori, di consumatori, di assicurati e di assicuratori, di piccoli e grandi banchieri, di forti e deboli risparmiatori, eccetera), tutta la possente Germania costruita sul sistema glorificato da Friedrich Hegel nei suoi scritti sulla Costituzione tedesca, tutta la Germania era insorta. La ragione di ciò è profonda e va oltre l’immediato danno materiale che sottoscrittori di titoli di Stato tedeschi possono subire per le manovre della Bce; la ragione si trova, forse non mai così magnificamente esplicitata, nel recente saggio di Michael Hüther, “Die Junge Nation”.

La tesi è quasi disarmante. Il brillante autore ci ricorda che i tedeschi sono una nazione non giovane, giovanissima. Si sono unificati non nel 1870 dopo aver schiacciato sotto il tallone degli Junker la Francia e aver incoronato il loro Kaiser Guglielmo nella Reggia di Versailles: una violenza inaudita di fronte a uno Stato sconfitto che generò un rancore infinito. No, i tedeschi si sono unificati solo nel 1989, con il crollo del Muro e con l’insediamento di 80 milioni di anime nel cuore dell’Europa. Ma queste anime sono così giovani e hanno tanto sofferto da non volersi e potersi assumere nessun ruolo in Europa rispetto all’Europa medesima. Possono e debbono pensare solo a se stesse e alla loro giovane nazione. Del resto, era ben questo che erano riusciti a fare quegli 80 milioni guidati da un capo eccezionale come Helmut Kohl che mise in scacco i Mitterrand e gli Andreotti prima parificando il marco tra Germania Est e Germania Ovest, poi imponendo il marco come modello archetipale al nuovo euro, plasmando lo statuto della Bce non in forma transatlantica (la Federal Reserve americana), ma nella forma dell’ordoliberalismo di Walter Eucken e della sua Nationale Ökonomie. Ossia pensando solo a battere l’inflazione perché la crescita di una nazione così giovane e con un’architettura cetuale sarebbe stata automatica. Chi non l’avesse seguita, quella crescita, sarebbe stato perduto. Ma questo non era e non è un problema dei tedeschi. Gli inglesi capirono subito che qualcosa non funzionava e quindi aderirono solo all’Unione per non lasciare sola la Francia, secondo una vecchia logica diplomatica che affonda le sue radici nel Congresso di Vienna. Tanto per farci capire quanto possa la storia, e quanto diversa sia la saggezza e lo spirito civilizzatore dei popoli. Gli inglesi condannarono sì Napoleone Bonaparte a una precoce morte in esilio ma salvarono la Francia una volta che il mostro era stato sconfitto. Ecco una lezione storico-generale tra ciò che è una politica di equilibrio internazionale e una politica, invece, di dominio internazionale. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Adesso per la politica di dominio è giunto il redde rationem, ossia l’ora della verità. È giunta la recessione, che lo squilibrio strutturale tra Paesi a dominanza teutonica e Paesi a dominanza mediterranea si fa preclara. Il problema, però, è che il plesso dei Paesi mediterranei o del Sud Europa, cui disgraziatamente si va sempre più assimilando la gloriosa Francia, non ha una vera leadership: si cammina in ordine sparso. Per questo da anni insisto nel dire che la solitudine di Draghi non è economica, ma politica. Ha come nemici organici i risparmiatori, gli investitori, le massaie tedesche e come reali amici in Europa inventa non ha nessuno. Una prova di ciò? Si guardi la composizione del nuovo governo europeo del signor Jean-Claude Juncker: domina la giovane nazione tedesca e gli altrettanto suoi giovani vassalli, a cominciare dalla Polonia per finire con gli stati baltici. L’Italia e la Francia sono in un angolo, la Spagna e il Portogallo non si può dire che abbiano dei leader nella Commissione. Del resto, basta pensare ai dieci anni di Manuel Barroso per capire quanto sia diverso il luogo di nascita dal modello culturale che si adotta, quando si assume una carica che sovranazionale e condivisa dovrebbe esserlo per sua stessa natura.

Non vi è dunque speranza? La forbice delle utilità tra le due Europa e dunque destinata ad allargarsi sino al punto da mandare in frantumi l’Europa stessa? Rimane un`ultima speranza: come sempre gli Stati Uniti d’America, oggi come ieri. Mi ha colpito la dichiarazione di Mitch Mc Connell, appena eletto senatore del Kentucky e capo dei repubblicani nell’Alta Camera che ha dedicato la sua prima dichiarazione alla politica commerciale di Obama. L’ha definita troppo timida, priva di risultati, tanto sul versante del Pacifico quanto su quello dell’Atlantico, che a noi europei interessa. Ecco che torna già in gioco il Trattato Transatlantico tra Ue e Usa ed è chiaro che quel trattato non si potrà mai siglare con un’Europa che va verso la deflazione e quindi la recessione. Le conseguenze delle elezioni nordamericane giungono così in Europa e sono l’unica vera speranza che può sorreggere sia Draghi – il solo che può disporre della leva capace di restituire vitalità all’Euroza, purché lo lascino fare – sia l’Europa. Die Junge Nation dovrà rapidamente invecchiare e giungere a una maggiore saggezza. E la saggezza, lo sappiamo, porta con sé l’equilibrio, non il dominio.