bilancio

Verso la Legge di Bilancio

Verso la Legge di Bilancio

di Giuseppe Pennisi – Formiche

Quest’anno la Legge di stabilità, che ha sostituito la quella finanziaria ma ha avuto vita relativamente breve, sparisce e viene assorbita dalle Leggi di bilancio. Un ottimo fascicolo tecnico predisposto dai servizi di bilancio della Camera e del Senato illustra gli aspetti tecnico-contabili del cambiamento. Da un lato, il cambiamento amplia la flessibilità del bilancio in fase sia di formazione sia di esecuzione dello stesso. In particolare, introducendo la tassonomia delle spese rimodulabili e non rimodulabili, prevede per le prime la possibilità di variazione degli stanziamenti, nell’ambito di limiti relativi alla natura economica della spesa e all’invarianza complessiva dei saldi. Dall’altro, rende più rigorosa l’applicazione di serie coperture delle spese proposte nel documento.

Come tutti i cambiamenti, anche questo comporta l’approfondimento e l’apprendimento di nuove procedure. Se – come ogni anno – il negoziato tra le parti politiche (e con le forze sociali) sui contenuti del bilancio inizia in giugno, entra nel vivo in luglio e, dopo una pausa in agosto, diventa frenetico in settembre, quest’anno, nella premessa della trattativa, c’è il risultato delle elezioni amministrative e, nella prospettiva a breve termine, c’è il referendum sulla riforma istituzionale, in cui il presidente del Consiglio è impegnato in prima persona. Lasciamo da parte l’esito delle elezioni amministrative (già commentato ampiamente) e soffermiamoci sulle date essenziali. Il disegno di legge di bilancio deve essere varato dal Consiglio dei ministri entro il 30 settembre e presentato alle Camere. In occasione delle celebrazioni dei settant’anni dalla nascita della Repubblica, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha anticipato che il referendum si terrà il 2 ottobre, san Francesco Patrono d’Italia.

L’accavallarsi (quasi) di disegno di Legge di bilancio e di una riforma istituzionale su cui il governo ha impegnato il proprio futuro ha implicazioni che meritano delle riflessioni. Da un canto, il disegno di Legge di bilancio è l’occasione – forse la sola – per il governo di accontentare aspettative, anche le più legittime, di un elettorato sempre più anziano e di far prospettare che ciò avverrà tramite emendamenti – supportati dall’esecutivo – durante l’iter parlamentare. Da un altro, il maggior rigore nella copertura delle spese (e la situazione di finanza pubblica e del debito pubblico del Paese) rendono tutto ciò più difficile che nel passato. Inoltre, in un contesto in cui la crescita economica non prende vigore e la disoccupazione non flette, scontentare le attese che l’elettorato ritiene legittime può avere effetti molto significativi quando gli stessi elettori andranno a votare a un referendum che ha comunque assunto colori plebiscitari. Non è un caso che in giugno siano state riprese trattative sul riassetto delle pensioni e si è ventilato un programma di rilancio delle infrastrutture tale da includere pure il ponte sullo stretto di Messina. Due temi a cui parti differenti – e anche divergenti – dell’elettorato sono molto sensibili.

L’anno scorso la Legge di stabilità è stata presentata all’insegna di una forte richiesta di flessibilità alle autorità europee. Questo sarà molto più difficile. Tra l’altro, lo spiega bene il lavoro di Paul De Grauwe e Yuemei Ji Flexibility versus stability: a difficult trade-off in the eurozone (Ceps working paper No 422, 2016), non solo per quanto detto a maggio dalla Commissione europea, ma perché la flessibilità di un Paese altamente indebitato rischia di mettere a repentaglio l’intera costruzione dell’area dell’euro. Parimenti, in una fase in cui pare si scivoli in recessione, un rilancio degli investimenti pubblici è senza dubbio necessario, purché vengano scrutate con attenzione le priorità relative, come ribadito nel recente documento della Banca mondiale (No 7674) Priorítizing infrastructure investment. A framework for government decision making.

Inps, sui conti pesano i crediti non riscossi

Inps, sui conti pesano i crediti non riscossi

Raffaella Cantone – L’Occidentale

Brutte notizie per INPS. Secondo uno studio di ImpresaLavoro, la perdita di bilancio di INPS dal 2012 ammonterebbe a oltre 11 miliardi l’anno, da quando cioè l’istituto ha incorporato l’Enpals e Inpdap, perdita che secondo le stime dovrebbe registrarsi anche al termine del 2016. Il patrimonio netto di INPS, che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro, si sta quindi erodendo progressivamente, compresi i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite fatto negli anni scorsi.

Secondo il Centro studi ImpresaLavoro, a fine 2016 i conti dell’Istituto potrebbero essere ancora peggiori: negli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e, sempre secondo gli esperti di ImpresaLavoro, in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, comportando quindi un nuovo intervento di ripiano da parte dello Stato. Un costo che INPS continuerebbe a sottostimare è quello della svalutazione dei crediti, quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa.

Non si tratta solo di evasione, ma anche di debitori falliti o liquidati oppure deceduti senza eredi, o ancora crediti caduti in prescrizione o per i quali ne viene accertata l’insussistenza. La massa dei contributi non incassati, secondo le stime, dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei 100 miliardi, crescendo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese. Al momento i crediti non incassati corrisponderebbero a 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione. Due i parametri su cui si calcolano questi crediti, l’anno di riferimento e la gestione specifica a cui si riferisce.

ImpresaLavoro ha scoperto che proprio negli ultimi bilanci questi criteri sono stati rivisti al ribasso. Quelli risalenti fino al 2009, vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici. Per il triennio successivo la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

Secondo ImpresaLavoro le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

Leggi l’articolo sul sito de “L’Occidentale”

Inps, rischio che sia necessario nuovo ripiano dallo Stato

Inps, rischio che sia necessario nuovo ripiano dallo Stato

Il Fatto Quotidiano – 3 aprile 2016

Dal 2012 l’Inps registra regolarmente una perdita di bilancio di oltre 11 miliardi l’anno che si attende sarà confermata anche per il 2016. Il suo patrimonio netto, che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro, è ormai diretto verso la completa erosione e con esso i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite risalente a due anni fa. Il dato emerge da una analisi del Centro studi ImpresaLavoro. A fine anno i conti dell’Istituto potrebbero essere ancora peggiori, innanzitutto perché per gli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Anche se i dati per una volta risultassero in linea con le attese, il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, con la sostanziale imminente necessità di un ulteriore ripiano da parte dello Stato.

Uno degli aspetti più delicati, rileva Impresa Lavoro, è proprio la stima di quanti crediti verranno effettivamente incassati e su quanti invece l’Inps dovrà inevitabilmente gettare la spugna. Ad oggi le svalutazioni previste o effettuate si basano essenzialmente su due parametri ben definiti: il primo è l’anno di riferimento del credito (più lontano è nel tempo e minore è la probabilità di recuperarlo); il secondo è la gestione specifica a cui si riferisce (per alcune gestioni il recupero è più difficile che in altre). Impresa Lavoro ha scoperto che proprio negli ultimi bilanci questi criteri sono stati rivisti al ribasso. Quelli risalenti fino al 2009, indipendentemente dalla gestione cui si riferiscono (42,8 miliardi secondo gli ultimi dati disponibili), vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici. Per il triennio successivo la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

La gravità delle stime è in aumento sia per i parametri utilizzati (ben più pessimistici rispetto all’ultimo consuntivo), sia per il fatto che materialmente il recupero crediti non sembra sinora riuscito a sostenerle: di anno in anno il volume di contributi non incassati cresce e nel contempo cresce pure la quota che l’Inps deve accantonare al rispettivo fondo di svalutazione. Impresa Lavoro osserva infatti che le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

In particolare, c’è un costo che l’Inps ha finora sempre regolarmente sottostimato nei suoi bilanci preventivi: quello derivante dalla svalutazione dei crediti, ovvero di quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa. Il fenomeno – si legge nello studio – è dovuto a cause diverse: a parte gli evasori, si va dal caso di debitori falliti o liquidati oppure deceduti senza eredi che ne abbiano accettato l’eredità a quello di crediti caduti in prescrizione o per i quali ne viene accertata l’insussistenza. Per dare un’idea delle dimensioni del problema, la massa dei contributi non incassati dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei 100 miliardi, crescendo nel frattempo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese (una tendenza ormai consolidata). Il loro ammontare esatto supererebbe quindi i 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione.

Sul fronte dei dati previdenziali, in Italia ci sono oltre 474.000 pensioni liquidate prima del 1980, quindi in vigore da oltre 36 anni. Il dato emerge dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia (comprese le anzianità) e ai superstiti del settore privato, esclusi quindi sia gli assegni di invalidità previdenziale, sia quelli agli invalidi civili sia le pensioni sociali oltre naturalmente ai trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Per le pensioni di vecchiaia l’età media alla decorrenza era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti l’età media era di 41,3 anni. In questi dati non sono compresi i baby pensionati del pubblico impiego che sono riusciti a uscire dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi se donne sposate con figli. L’Inps infatti al momento non diffonde statistiche anche sugli anni di decorrenza delle pensioni del settore pubblico.

Guardando solo al settore privato sono in pensione di vecchiaia da oltre 30 anni (pensioni con decorrenza antecedente al 1986) oltre 800.000 persone mentre altri 527.000 assegni sono ai superstiti. Una parte dei trattamenti potrebbe riferirsi alla stessa persona (nel caso abbia già prima di trent’anni fa avuto diritto alla pensione di vecchiaia e essendo anche superstite di assicurato). L’età media alla decorrenza era molto inferiore all’attuale perché ci si ritirava per vecchiaia a 55 anni se donne e a 60 se uomini. Se si guarda solo alle pensioni antecedenti al 1980 (quindi in vigore da almeno 36 anni) erogate per ragioni diverse dalla vecchiaia e dall’essere superstiti, le invalidità previdenziali sono 439.718 (44,5 l’età alla decorrenza) le pensioni sociali 24.308 (33 anni l’età media alla decorrenza) e 96.973 le pensioni agli invalidi civili (23,21 anni l’età alla decorrenza). Nel 2015 le pensioni liquidate per anzianità sono state 238.400 con un età media alla decorrenza di 62,55 anni mentre quelle ai superstiti sono state 173.378 con un’età media alla decorrenza di 73,89 anni.

La finestra (stretta) per la flessibilità europea

La finestra (stretta) per la flessibilità europea

Enzo Moavero Milanesi – Corriere della Sera

In Europa, i governi degli Stati dell’Eurozona hanno inviato, entro la data prevista del 15 ottobre, il progetto del rispettivo bilancio (la «legge di Stabilità»). Si è aperto un periodo cruciale, durante il quale ne saranno valutate sostenibilità e prospettive. La Commissione europea ha il compito di effettuare un’analisi approfondita e di emettere un parere di cui Governi e Parlamenti nazionali dovranno tener conto. Un parere motivato e pubblico; molto atteso nei mercati finanziari, da chi decide se acquistare, e a quale tasso d’interesse, i titoli dei debiti pubblici dei vari Paesi. È opportuno che, insieme agli investitori, si allertino anche i cittadini, facendosi sentire dai loro rappresentanti nelle istituzioni democratiche. Infatti, nel caso di «bocciatura» europea di un progetto di bilancio o di inosservanza delle indicazioni contenute nel parere, gli inevitabili effetti sui mercati si ripercuoterebbero velocemente anche su di noi cittadini, in termini di costi sociali e maggiori tasse. Non dobbiamo cadere in errore: il vero snodo è la reazione, l’atteggiamento dei mercati, ben più della posizione di questo o quel Paese dell’Unione europea.

Considerato l’elevato livello del debito pubblico accumulato dall’Italia e il peso sul bilancio dello Stato degli interessi passivi che paghiamo per sostenerlo, la fase di esame, iniziata da qualche giorno, merita tutta la nostra attenzione. Il meccanismo di esame europeo – come spesso succede con l’Ue – sembra comprensibile solo agli addetti ai lavori; d’istinto, lo percepiamo troppo «tecnocratico», probabilmente influenzato da interessi a noi estranei, magari ostili. Provo a illustrarlo, in estrema sintesi. L’obiettivo è di permettere la valutazione dei bilanci nazionali, quanto prima possibile, per individuare gli eventuali problemi e i relativi rimedi. Il sistema è stato introdotto nel 2013, quale difesa contro il rischio di conti pubblici divergenti fra Stati che condividono la stessa moneta. Un rischio che la crisi globale ha mostrato essere concreto: tale da pregiudicare stabilità e integrità dell’Eurozona, con grave danno, in particolare, per le economie meno salde. Le caratteristiche base del meccanismo sono tre. La prima è la sua natura preventiva: evitare disavanzi eccessivi nei bilanci nazionali che determinerebbero procedure d’infrazione e sanzioni, previste sin dagli inizi dell’euro per proteggerne la solidità. La seconda è la tutela dell’interesse generale e della trasparenza: è la Commissione europea (indipendente dagli Stati e controllata dal Parlamento europeo – eletto dai cittadini – nonché dalla Corte di giustizia Ue) che svolge la verifica e le sue risultanze sono pubbliche (già ora, i progetti di tutti i governi si trovano sul sito della Commissione). La terza sono i tempi (posto che le leggi di bilancio vanno approvate per il 31 dicembre): la Commissione, ricevuti i progetti (15 ottobre), se ravvisa «un’inosservanza particolarmente grave degli obblighi», pubblica il suo parere, entro due settimane (29 ottobre), dopo aver sentito lo Stato in causa; quest’ultimo ha, poi, tre settimane (19 novembre) per presentare un nuovo progetto, che sarà oggetto di un ulteriore parere entro altre tre settimane (10 dicembre); qualora, invece, non rilevi una tale patologia, la Commissione diffonde, entro il 30 novembre, i pareri per ciascun Paese e una valutazione delle prospettive d’insieme dell’Eurozona; il tutto è presentato all’Eurogruppo, ai ministri economici dei vari Paesi, il cui avviso è reso pubblico «ove appropriato»; anche il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali possono richiedere una presentazione.

Dunque, le due settimane in corso sono nodali, al fine di comprendere se qualche progetto di bilancio sarà «bocciato» e di sapere cosa andrà modificato per scongiurare procedure d’infrazione, sanzioni e turbolenze sui mercati. Le regole base hanno un’intrinseca flessibilità, così spesso invocata a livello politico. Tuttavia, poiché si tratta di conti che devono quadrare e di precisi obiettivi di prospettiva, l’esame è prevalentemente tecnico: occorre che i risultati siano credibili e verificabili. L’interdipendenza delle economie nell’Eurozona, amplificata dalla crisi, ci condiziona: tutti gli Stati hanno un interesse diretto alla diligenza degli altri. I mercati e gli investitori attendono, osservano e reagiranno. C’è apprensione per la Francia e l’Italia, data l’importanza delle loro economie. È fondamentale che teniamo un costante, intenso, ben preparato e argomentato contatto con le istanze Ue e con gli altri Paesi. Come cittadini possiamo vigilare, affinché Governo e Parlamento operino al meglio, in sede interna ed europea, con efficace dialettica democratica. Dovremmo farlo: per tutelare – anche noi! – i nostri interessi.

La causa delle cause

La causa delle cause

Enrico Cisnetto – Il Foglio

L’Europa non sta collassando. Non ancora, quantomeno, e comunque non perché Francia e Italia non rispettano i vincoli di bilancio. Lo deduco non dall’esito del vertice Ue sul lavoro, del tutto inutile, ma da un’analisi sulla vera origine dei problemi dell’eurosistema. Che non risiedono nei vincoli di bilancio imposti dai trattati, o nelle politiche di austerità volute dai tedeschi e neppure in quelle opposte predicate dai paesi mediterranei, o nei limiti statutari della Bce, e in tutti quegli errori che con faciloneria disarmante vengono dati in pasto a opinioni pubbliche che, di conseguenza, sollecitano atteggiamenti sempre più nazionalistici alle proprie classi politiche. O meglio, tutti questi sono sì errori, ma nessuno è quello decisivo. L’errore epocale, da cui tutto discende, è aver preteso di dare una moneta unica a paesi che non avevano e tuttora non hanno una governance democratica comune. E senza mettere rimedio a questa tara genetica, poco importa se prevale la linea del rigore o quella espansiva: l’eurosistema è comunque destinato a non funzionare. Anzi, più si discetta intorno alla presunta dicotomia, risalendo fino allo scontro Hayek-Keynes, e più si stende un velo omertoso sulla causa della cause della crisi europea.

Prendete la scelta della Francia di far slittare il contenimento del deficit. Il grave non sta nell’aver violato patti che in quanto “stupidi” meritano questo e altro, ma di non avere il coraggio di metterli apertamente in discussione, ponendo il problema politico nei vertici Ue.E sapete perché non lo fanno? Perché sanno che la risposta sarebbe quella di andare oltre i trattati, ed essendo autolesionistico farlo tornando indietro alle monete nazionali, l’unico modo sarebbe andare oltre, cedendo definitivamente sovranità politica e istituzionale a un governo eletto direttamente dai cittadini che hanno la stessa moneta in tasca. Ma per i francesi esistono solo gli interessi nazionali. E pazienza se debito federale, Bce leader of last resort e così via, vanno a farsi benedire. D’altra parte, è falsa la convinzione secondo cui la loro sarebbe una prova di forza muscolare contro la Germania e la Ue a trazione tedesca. No, si tratta solo di una mossa di politica interna nel tentativo (utile ma un po’ disperato) di tagliare la strada all’ascesa della Le Pen all’Eliseo. Per carità, bene che riesca, meglio un po’ di deficit in più di quella funesta eventualità – così come meglio gli inutili (dal punto di vista economico) 80 euro di Renzi piuttosto che Grillo a Palazzo Chigi – ma se la destra populista e nazionalista è arrivata a insidiare socialisti e gollisti è colpa di una politica che, tanto con Sarkozy quanto con Hollande, è stata fallimentare. La Germania si è solo limitata a farsi i suoi interessi, e meglio di quanto gli altri non abbiano fatto i propri.

E veniamo a noi. Il semestre europeo a guida italiana ha superato la metà della sua durata senza aver lasciato alcun segno, nonostante si fossero alimentate grandi aspettative. Né s’intravede all’orizzonte nulla che possa far pensare che nella seconda parte la musica cambi. Inoltre, sul deficit stiamo facendo persino peggio della Francia: sforiamo rispetto agli impegni presi, ma facciamo tinta che non sia così. Invece, ora si affaccia un’opportunità straordinaria, che Renzi dovrebbe cogliere al volo: partire dall’inevitabile processo che in Commissione si aprirà nei confronti di Italia e Francia, per lanciare la proposta di una riforma strutturale dei trattati europei, una riscrittura finalizzata a rimettere in moto l’arenato – ma sarebbe più giusto dire, mai partito – processo di integrazione politico istituzionale ed economico-finanziaria dell’area euro.

Attenzione, non si tratta di costituire improbabili cartelli mediterranei “espansivi” contro i maledetti “rigoristi” del nord. Anche perché entrambe le politiche hanno buone ragioni, e sono necessarie entrambe in un mix che non sarà mai ottimale se ciascuno stato rimane pienamente sovrano. Chi mi segue sa che la mia e una posizione “liberal-keynesiana” – e non è un ossimoro, se si evita un approccio dogmatico – ma sa anche che ho sempre sostenuto che non si poteva uscire con nuovi surplus di spesa corrente dalla crisi causata da un eccesso di debito privato (la bolla scoppiata nel 2007 negli Usa e trasferitasi immediatamente al sistema bancario mondiale) è tamponata con una moltiplicazione di debito pubblico (quello servito a immettere liquidità ed evitare il default creditizio). Spesa sì, ma solo in conto capitale (investimenti pubblici), e non senza mettere in gioco il patrimonio degli stati, sottoponendoli così a un sano dimagrimento (senza per questo sposare le tesi ultra dello “stato minimo”). Dunque, evitiamo la puerile polemica anti tedesca e non illudiamoci che domattina possa nascere l’asse Parigi-Roma. Invece, Renzi prenda un’iniziativa forte: convochi a Roma, nella sua veste di presidente di turno dell’Unione, i leader continentali che pesano e sparigli un gioco in cui rischiano di finire stritolati prima di tutto gli italiani, ma con noi l’euro e l’Europa intera. La Merkel è una ragioniera? Bene, si dimostri di saper fare di meglio.

Quel difficile confronto con l’Europa sulla legge di bilancio

Quel difficile confronto con l’Europa sulla legge di bilancio

Ricardo Franco Levi – Corriere della Sera

Nelle intenzioni e nelle speranze dell’Italia che l’aveva proposta a fine agosto, la Conferenza dell’Unione europea sul lavoro che si terrà domani a Milano avrebbe dovuto essere il grande appuntamento per affrontare con proposte concrete e condivise la piaga della disoccupazione, a partire da quella giovanile, vera emergenza dell’Europa. Purtroppo non sarà così. Vista l’opposizione soprattutto tedesca e, personalmente, del cancelliere Angela Merkel a un’enfasi sulla disoccupazione che avrebbe potuto portare a un indebolimento della linea dell’austerità sui conti pubblici, non sarà un vero e proprio vertice ma (e non è poco, visto il rischio che l’appuntamento fosse addirittura cancellato) solo un «dibattito aperto e libero», prima tra ministri del Lavoro e poi tra capi di Stato e di governo.

Questo passo indietro è un segnale indicativo del vento gelido che soffia sull’Europa e segna per l’Italia l’avvio di un difficile slalom sulla pista ghiacciata e tra le porte strette del calendario europeo. Il 15 ottobre il governo italiano presenterà la bozza della legge di bilancio alla Commissione europea che, da quel momento, avrà due settimane di tempo per approvarla o rimandarla al mittente per una riscrittura. Il 23 ottobre ci saranno un Consiglio europeo (l’istituzione che riunisce i capi di Stato e di governo dei Paesi membri dell’Unione) dedicato a un esame della situazione economica dell’Unione accompagnato da un «summit» della zona euro. Il primo di novembre, sempre che le audizioni di fronte al Parlamento europeo non portino alla bocciatura di uno o più commissari e quindi a uno slittamento della data, s’insedierà la nuova Commissione europea presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker. Il 4 di novembre la Commissione presenterà le proprie previsioni d’autunno che varranno a dare il quadro di riferimento aggiornato per l’evoluzione dell’economia europea. Entro il 30 di novembre, ma con buona probabilità attorno al 12, la Commissione renderà nota la propria opinione sulla bozza di bilancio presentata dal governo italiano. Un vero e proprio slalom, dunque. E in condizioni molto, ma molto impegnative. La settimana scorsa, a fronte di una crisi che continua a far sentire il proprio morso e che sconsiglia di gettare altra acqua gelata su economie già depresse, tanto l’Italia quanto la Francia hanno annunciato programmi di finanza pubblica che non rispettano gli impegni presi con l’Unione europea. L’Italia, pur impegnandosi a mantenere il disavanzo sotto il limite del 3 per cento del prodotto interno lordo, ha rimandato dal 2015 al 2017 il pareggio di bilancio strutturale (un traguardo che, al di là del dettaglio tecnico, segna il raggiunto equilibrio dei conti pubblici). La Francia è andata anche oltre, annunciando che fino al 2017 resterà sopra, e abbondantemente sopra, pure al limite del 3 per cento. Possiamo sperare, affiancandoci alla Francia, di godere di un occhio di riguardo da parte degli altri Paesi membri e delle autorità dell’Unione europea?

La risposta, è bene non farsi illusioni, è «no». No, perché il fronte dell’austerità si è ormai esteso a comprendere quasi tutti i Paesi, non più solo la Germania e i suoi alleati più tradizionali (Austria, Repubblica Ceca, Olanda, Finlandia, Paesi baltici) ma anche Paesi «periferici» come la Spagna e addirittura il Portogallo che nelle ultime riunioni si è segnalato ed espresso come «il più duro tra i duri». In queste condizioni, cosa può fare e cosa può aspettarsi l’Italia?

Stante le regole attuali – regole, è bene ricordarlo sempre, volute e approvate dai governi – una bocciatura della bozza di bilancio approvata martedì scorso dal governo con la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (il cosiddetto Def) di aprile è da mettere nel conto delle cose possibili. Appellandoci al grado di flessibilità, invero importante, previsto dalle regole comuni e facendo valere la clausola sulla «severa recessione» nella zona dell’euro o dell’intera Unione potremmo cercare di negoziare un allungamento dei tempi concordati per il raggiungimento del pareggio di bilancio o una temporanea sospensione delle eventuali procedure di infrazione. Ma l’aria che tira non sembra particolarmente favorevole a questa via d’uscita. A meno che… A meno che il governo italiano non sia in grado di mettere sul piatto un pacchetto di riforme così rilevante nella sua portata e così credibile nella sua realizzazione (attenti però! brucia ancora il ricordo di quando la Francia ottenne due anni in più per mettersi in regola, salvo poi non mantenere alcun impegno) da mutare i termini della situazione. Termini – è chiaro -, non tecnici, ma chiaramente ed esplicitamente politici.

La più difficile delle curve che lo slalom potrà presentare sarà quella che potrebbe seguire a un’eventuale bocciatura della bozza di legge di bilancio. In quel caso, potrebbe essere forte la tentazione di rilanciare con una sfida, di rispondere contestando apertamente ogni disciplina e minacciando di seguire la Francia sulla strada di bilanci con disavanzi non più diligentemente sotto il 3 per cento ma volutamente e abbondantemente sopra quel limite. Per l’Europa dell’euro potrebbe essere un momento di rottura. Per l’Italia, appesantita da un enorme debito pubblico, si potrebbe aprire una partita molto dolorosa con i mercati finanziari.