burocrazia

Quei burocrati che vogliono costare come gioielli

Quei burocrati che vogliono costare come gioielli

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

Una Porsche! Com’è venuto in mente a una delegata dei dipendenti di Montecitorio, per spiegare i mugugni contro i tagli, di paragonare la «macchina» burocratica della Camera a un’auto di lusso che «come tutte le cose pregiate» è giustamente costosissima? Quel tetto di 240 mila euro di stipendio massimo che dovrebbe essere imposto è di 9 mila superiore alla busta paga di Angela Merkel: la cancelliera tedesca ha forse una «professionalità» più bassa dei nostri funzionari? Di più: quel tetto, dopo anni di crisi, consumi in calo, disoccupazione crescente, equivale al Pil pro capite di 9 friulani, 14 sardi, 16 pugliesi o 17 calabresi… Chi lo spiegherà, ai cittadini, che si tratta di «diritti acquisiti» e intoccabili? La signora Anna Danzi, che si riconosce in una delle undici (undici!) sigle sindacali di Montecitorio, non poteva scegliere giorno peggiore per schiaffeggiare gli italiani. Proprio nelle ore in cui l’Istat comunicava che siamo ancora in recessione e che l’uscita dalla crisi si allontana di nuovo, ha spiegato a Tommaso Ciriaco di Repubblica : «Il nostro lavoro richiede una elevata professionalità. Come tutte le cose pregiate, come una Porsche, ha un costo. Nessuno si stupisce se costa di più un diamante di una pietra di scarso pregio».

Ma come: abbiamo una squadra di fuoriclasse nel cuore dello Stato eppure siamo l’unico paese dell’Europa e dell’Ocse ad avere avuto negli ultimi anni un crollo del reddito pro capite? Le cose vanno male solo per colpa dei governi, dei premier, dei ministri, dei deputati e senatori che non approfittano della fortuna di avere in tasca quei purissimi «diamanti»?

Al di là delle ironie, che la progressiva decadenza di una classe politica sempre più mediocre abbia spalancato spazi enormi agli apparati di supporto è indiscutibile. Che questi apparati siano spesso chiamati a rimediare alle carenze di questo o quell’altro eletto del popolo è altrettanto vero. E gli italiani devono essere grati a tanti funzionari e dirigenti perbene e preparatissimi che in questi anni hanno accudito uomini di governo talora incapaci, arginandone gli errori. Chapeau. E grazie.

Detto questo, va ricordato anche che in troppi si sono impossessati di un potere immenso dando ragione a Max Weber: «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Al punto che mesi fa Pietro Ichino si levò in Senato sventolando una legge in votazione: «Questo è un testo letteralmente illeggibile. Non è solo incomprensibile per i milioni e milioni di cittadini chiamati ad applicarlo, ma illeggibile anche per gli addetti ai lavori, per gli esperti di diritto del lavoro e di diritto amministrativo. È illeggibile per noi stessi legislatori che lo stiamo discutendo (…) Credo che in Aula, in questo momento, non ci sia una sola persona in grado di dirci cosa voglia dire». Risultato: il burocrate estensore di quella legge è l’unico in grado di interpretarla. Di quella legge è dunque il padrone. Non va così, in una democrazia sana.

Ha spiegato mesi fa il commissario alla spending review Carlo Cottarelli che i dirigenti pubblici di prima fascia sono pagati mediamente il 4,27% più del reddito pro capite dei propri concittadini in Germania, il 5,21% in Francia, il 5,59% in Gran Bretagna, il 10,17% in Italia. I cittadini sono o no autorizzati a chiedere perché mai i nostri dovrebbero essere pagati più del doppio dei tedeschi nonostante il loro Stato, il loro sistema sociale, la loro economia vadano molto meglio? È accettabile che, come spiegano i dati messi online dalla Camera per una scelta di trasparenza, un consigliere parlamentare possa arrivare a prendere 421.219 euro lordi e cioè quasi duecentomila più di Ban Ki-moon, che come segretario dell’Onu di euro ne guadagna 222 mila?

Di più, mentre altri sindacalisti di Montecitorio come Claudio Capone della Cgil sostenevano il rifiuto del tetto perché «dà l’idea che un datore di lavoro può decidere che un dipendente guadagni troppo e togliergli parte dello stipendio», la signora Danzi ha aggiunto che per carità, nessun tabù nelle trattative, «ma da dieci anni sigliamo accordi a perdere. Siamo stanchi di vedere peggiorare il nostro status giuridico ed economico senza una riforma organica».

Sicura? Stando ai bilanci della Camera è vero che, dopo tante polemiche sui costi, il monte-stipendi e le retribuzioni medie hanno preso a calare. Soprattutto grazie agli esodi di chi si è affrettato ad andare in pensione appena possibile, s’intende, col risultato che i trattamenti di quiescenza pesano sempre di più. Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare e a Laura Boldrini quel che è di Laura Boldrini, dei grillini e degli altri deputati che hanno appoggiato i primi tagli: nel 2012 un dipendente della Camera costava in media 152.531 euro, l’anno dopo 150.403 e oggi, con i dipendenti ridotti a 1.417, «solo» 149.047 euro. Bene.

Da qui a dire che da anni i «mon-tecitorini», scusate il neologismo, prendono di meno, però, ce ne corre. Il costo medio di un dipendente nel 2006, prima della crisi, era di 112.071 euro. Da allora, se le retribuzioni fossero state semplicemente aggiornate con l’inflazione (cosa che gli altri dipendenti, comunque, se la sognano dopo l’abolizione della scala mobile), il costo unitario sarebbe salito nel 2013 secondo i parametri Istat a 128.881. Invece, come dicevamo, è stato di 21.522 euro superiore: più 34% (nominale) in otto anni. Un incremento stratosferico, offensivo in anni di vacche magrissime. Nel frattempo, secondo l’Ocse, il reddito medio italiano perdeva dal 2007 al 2012 (e poi è calato ancora…) il 12,9% subendo «una diminuzione di circa 2.400 euro rispetto al 2007, arrivando a un livello di 16.200». Tutti italiani che la Porsche o i diamanti non possono permetterseli di sicuro…

Lavoro, giustizia e competitività. Senza le riforme non ci sarà crescita

Lavoro, giustizia e competitività. Senza le riforme non ci sarà crescita

Alan Friedman – Corriere della Sera

Ora che l’Italia è ufficialmente di nuovo in recessione, per la terza volta in soli sei anni, sarebbe utile capire perché il nostro Paese sia il fanalino di coda in Europa per quanto riguarda la crescita.

A mio avviso la causa di questa situazione non è la moneta unica, e nemmeno il ciclo della congiuntura dell’economia europea. Non è neppure soltanto il fatto che la Germania cresca meno e acquisti in maniera meno massiccia le nostre merci, anche se questo è certamente vero.

Il motivo principale per cui l’economia italiana continua a essere così anemica è la mancanza di modernizzazione attraverso le riforme – del mercato del lavoro, del fisco, della burocrazia e del welfare. In altre parole, l’Italia non crescerà finché non avrà fatto le stesse riforme che altri Paesi hanno fatto dieci o venti anni fa.

Finché non saremo competitivi nei confronti dei nostri partner principali in Europa – in termini di una giustizia con delle regole chiare, di un costo del lavoro ragionevole, di una vera flessibilità del mercato dell’occupazione e di una migliorata produttività, equiparabile ad altri Paesi – l’Italia non potrà progredire. Le riforme non sono un optional. Sono necessarie. Servono a farci uscire dalla crisi. Sono una base per la crescita, non la soluzione magica.

Per un politico è difficile ammettere che l’impatto forte, salutare e visibile delle riforme non si otterrà in sei o dodici mesi, ma piuttosto in un periodo di almeno due o tre anni. Ma è così. Fare le riforme economiche in modo che il mercato italiano sia paragonabile a quelli tedesco, inglese o olandese significa intraprendere un percorso molto – ma molto! – ambizioso, e tutto questo in un Parlamento non proprio di leoni. Eppure il gioco varrebbe la candela, perché renderebbe l’Italia più forte.

La realtà è che viviamo da tempo in un Paese a crescita più o meno zero. Siamo da tempo in una fase di stagnazione nazionale, in cui l’economia non genera posti di lavoro, mancano investimenti pubblici e privati, manca una politica industriale, il tasso di disoccupazione aumenta, la burocrazia ci strangola, il denaro non gira, e la classe dirigente (compresa la politica) non sembra in grado di esercitare una leadership o una visione adeguata a portarci fuori dalla crisi. Ora c’è Renzi, che prova a spingere l’acceleratore sulle riforme ma inciampa ogni tanto a causa dei gattopardi della sinistra del suo partito, o delle resistenze da parte di Sel o dei cinquestelle. Renzi ha un consenso elettorale che non deve sprecare: deve spenderlo per fare una riforma coraggiosa dell’economia italiana. Deve, se necessario, «battere la testa contro il muro» per insistere su questo punto, e proporre anche qualche cambiamento strutturale che non farà piacere a Susanna Camusso.

La mia preoccupazione, in sintesi, è questa: se si facessero davvero tutte le riforme necessarie per rimettere l’Italia sul binario della crescita e dell’occupazione, i franchi tiratori sarebbero sempre lì, pronti ad affossare ogni singola proposta? La guerra potrebbe essere lunga. Ora Renzi ha bisogno di Berlusconi per portare a termine alcune modifiche istituzionali e la nuova legge elettorale. Bene. Ma si può fare in Italia una riforma radicale del mercato del lavoro, come hanno fatto i governi di centrosinistra in America durante l’Amministrazione Clinton, in Germania negli anni di Schröder o in Gran Bretagna con Blair? Laddove quelle modifiche sono state fatte, laddove c’è più flessibilità nel mercato, il tasso di disoccupazione è la metà di quello italiano.

È inutile girare intorno al problema. L’Italia non avrà nessun futuro di crescita ragionevole nel medio e lungo periodo se non fa subito le riforme strutturali che altri Paesi hanno già portato a termine. È ovvio. Questi cambiamenti devono rappresentare un vero e autentico ammodernamento di una macchina che non funziona più, di un sistema sclerotico e vecchio. Se l’Italia riesce a fare ora, nei prossimi mesi, quelle riforme che altri Paesi hanno già fatto dieci anni fa, ci potrebbe essere la speranza di una ripresa ragionevole verso la fine del 2015. Se invece vengono bloccate nel sottobosco romano, in Parlamento e dintorni, saremo qui a scrivere di un’economia senza crescita.

La nostra burocrazia è già fallita

La nostra burocrazia è già fallita

Edoardo Narduzzi – Il Foglio

Le recessioni non vanno mai sprecate perché sono una formidabile occasione per riformare. Ma le recessioni sono anche uno choc che mette a nudo le debolezze di un sistema. Nelle situazioni normali o tranquille, quando la barca galleggia, debolezze e criticità restano nascoste. Poi, quando il ciclo economico volge al brutto, tutto viene a galla. È quanto è successo al sistema Italia con la peggiore recessione dal secondo Dopoguerra. Una crisi profonda che ha fatto sparire il 10 per cento del Pil e azzerato le capacità di crescita di un Paese incatenato alle politiche economiche di sempre: più tasse, più imposte, più tributi. Perché non si vuole vedere negli occhi la verità della crisi italiana. E la verità è, invece, chiarissima: è bastata una recessione con la erre maiuscola per certificare quello che tutti sapevano della Pubblica amministrazione italiana. Che è un postificio costruito con decenni di lottizzazione a vantagio dei partiti e dei sindacati, sulla pelle delle imprese e dei cittadini che competono nel mercato globale. Una macchina senza alcuna produttività che è stata messa facilmente knock out dal iù lungo ciclo negativo dal 1929.

Sarebbero circa 800 le norme varate dagli esecutivi Monti e Letta ancora in attesa di attuazione da parte della Pa. Norme pensate per attirare politiche antcicliche, quindi pro sviluppo, che una amministrazione terzomondista, del tutto irresponsabile per quello che non fa e per i danni che arreca al Paese, ha lasciato marcire nei suoi cassetti ministeriali. Si possono fare decine di esempi di norme abbandonate sulla Gazzetta ufficiale e mai diventate operative. Mancano i decreti amministrativi di attuazioni o le circolari ministeriali. Le recessione vera ha messo alle corde la burocrazia italiana, il vero spread con il resto dell’Eurozona che condanna il Pil alla stagnazione. Il monopolio di una cultura giuridica formale totalmente sganciata dalla logica del risultato da conseguire è alla base di questo autentico default sistemico. Del resto, come poteva essere altrimenti. Per decenni la Pa è stata militarmente occupata dalla non-meritocrazia. Monopolizzata dalle assunzioni familiari, sindacali, politiche, particolari, così è diventata un abnorme strumento para-keynesiano per dare finta occupazione agli amici e ai protetti. I processi sono diventati una eventualità e la qualità dei servizi da erogare a cittadini e imprese un’estrazione del lotto.

Il sistema burocratico italiano era già fallito negli anni Novanta, ma la capacità dell’economia di produrre un minimo di crescita nascondeva questa realtà. L’ultima recessione ha tolto la maschera alla Pa: una truppa di giuristi fanatici dei bollini, dei timbri, delle firme e della carta. Una realtà migliaia di chilometri distante dalla Googleconomics, 45 giorni a far diventare operativa una piattaforma informatica che è stata partorita ben 26 mesi dopo la norma che la concepiva, il dl “Cresci Italia” del giugno 2012. Così nulla è salvabile, non esiste nessun eccezionalismo imprenditoriale italiano che può farsi carico di un tale fardello.

Cosa fare? In tempi non sospetti, negli ani Sessanta del boom economico, uno dei più formidabili matematici che l’Italia del Novecento ha avuto, Bruno de Finetti, proponeva di fare una bad company della Pubblica amministrazione per riformarla ex novo. Ed erano anni nei quali la burocrazia italiana, rispetto a quella contemporanea, era un gioiello. Nel suo scritto del 1962 intitolato “Sull’opportunità di perfezionamenti e di estensione di funzioni dei servizi anagrafici”, il padre delle tavole di mortalità ancora oggi utilizzate dall’Istat invitava a utilizzare le nuove tecnologie dell’epoca per rivoluzionare i processi burocratici.

«Gioverebbe ben poco dotare di mezzi migliori il servizio anagrafico se esso continuasse a essere concepito come fine a se stesso, capace di comunicare con altri solo tramite la fabbricazione di tonnellate di certificati, di cui ogni mentecatto burocrate o legislatore può obbligare i concittadini a munirsi per ogni futile motivo», e invitava a realizzare quella che oggi chiameremmo una Pubblica amministrazione orientata a erogare servizi in maniera univoca e da un unico punto per tutti.

Rottamare in toto la Pa direbbe Renzi oggi, per rifondarne una nuova su nuove regole e con una nuova cultura. Ora, inevitabilmente, servono decisioni mai viste prima. Il premier David Cameron nel Regno Unito ha avuto il coraggio di licenziare 500mila dipendenti pubblici e ora il suo Pil corre al più 3,1 per cento. In Italia nulla si taglia, nulla si riforma e il Pil resta fermo a zero. Del resto alternative non ce ne sono: o si rivoluziona la Pa oppure la burocrazia ci porta al default.

Non farsene una ragione

Non farsene una ragione

Giuseppe De Rita – Corriere della Sera

Tempo fa per andare oltre chi dissentiva o si allontanava da lui, Matteo Renzi usò un orgoglioso e definitivo «ce ne faremo una ragione». Sapeva che avrebbe ripetuto altre volte quella frase, ma certo non si aspettava che essa sarebbe diventata una ricorrente litania nazionale.
Se la ripresa, l’occupazione e i consumi non tornano a crescere, ce ne faremo una ragione; se crescono il «nero», l’economia sommersa e l’evasione fiscale, ce ne faremo una ragione; se non riusciremo a comprimere il nostro debito pubblico, ce ne faremo una ragione; se la tecnoburocrazia europea ci prospetterà una qualche forma di rigoroso commissariamento, ce ne faremo una ragione; se dovremo accettare l’influenza di poteri forti e trasversali (europei e globalizzati, cinesi e tedeschi, bancari e telematici, ecc.), ce ne faremo una ragione; se la classe dirigente risulterà sempre più inadeguata, ce ne faremo una ragione; se per effetto di alcune riforme non avremo più Camere di commercio, Province, Comunità montane, Prefetture, ce ne faremo una ragione; se vinceranno le riforme di verticalizzazione del potere, ce ne faremo una ragione; se la questione meridionale uscirà dall’agenda del Paese, ce ne faremo una ragione; se qualche nostra impresa storica prescinde dall’Italia, ce ne faremo una ragione; se aumenta l’entità delle immigrazioni (un lago ormai, non un flusso) ce ne faremo una ragione; se il nostro sistema continua a occupare gli ultimi posti nelle graduatorie internazionali di modernità ed efficienza, ce ne faremo una ragione.
Chiunque frequenti giornali e televisione potrebbe aggiungere altre situazioni esemplari, magari con qualche nobile negazione o correzione; ma nel complesso resta l’impressione di una società ironicamente apatica, quasi che le cose che ci capitano siano più grandi di noi, non contrastabili dalla nostra cultura, per cui rifuggiamo da un atteggiamento proattivo ed esprimiamo un realistico adattamento.
Si può quindi arrivare alla ipotesi che la frase di Renzi citata all’inizio non sia l’avvio di un’onda di moda, ma piuttosto la messa in circuito di un diffuso impotente disincanto. Forse il declino della lunga cavalcata del «fai da te» (che ha per decenni fatto da base allo sviluppo italiano) ha lasciato il campo a una forma sbiadita ed estenuata di soggettività individuale, che diventa un rinserramento in se stessi e un’apatica indifferenza, molto lontana da quell’orgoglio di essere artefici del proprio destino che ci ha supportato nel recente passato.
C’è spazio per invertire questa tendenza e riproporre quell’orgogliosa catena di impegni che ci ha fatto grandi nella seconda metà del secolo scorso? Non c’è dubbio che la giovinezza orgogliosa di un premier e la sua voglia di essere artefice solitario dei comuni destini sono un input giusto per far capire cosa si voglia anche dal sentire della gente. Ma di solito la gente non vede come proprio obbligato paradigma l’impeto di chi comanda, preferisce delegare, stare a guardare, aspettare, sommergersi in una moltitudine adattativa e deresponsabilizzata. È una prospettiva forse più grave degli avvisi di calamità che si rincorrono in queste settimane. E sarà anche più difficile farsene una ragione.

Il futuro dell’Europa e il dilemma di Thomas Mann

Il futuro dell’Europa e il dilemma di Thomas Mann

Giovanni Scanagatta – Il Sole 24 Ore

Il Terzo Rapporto UCID 2013/2014 “La coscienza imprenditoriale nella costruzione del bene comune” (Libreria Editrice Vaticana, 2014) afferma che per il nostro futuro abbiamo bisogno di più Europa e non di meno Europa, ma di una Europa diversa. È più che mai valido il vecchio dilemma di Thomas Mann: si riuscirà ad abbandonare l’idea di «un’Europa tedesca» per sviluppare invece una «Germania europea», più aperta alle esigenze degli altri popoli?

I destini dell’Italia e della Germania sono incrociati e i tedeschi sono il nostro primo partner commerciale. Ma un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro più vicino a 1,50 che a 1,00, risponde certamente molto di più agli interessi della Germania che a quelli dell’Italia.

Nonostante queste condizioni ed altre fortemente penalizzanti come il fisco e la burocrazia asfissiante, le nostre imprese riescono ad esportare circa il 30% del prodotto interno lordo, una percentuale simile a quella della Cina.
Dal 2000, la nostra competitività rispetto alla Germania in termini di costo del lavoro per unità di prodotto (clup) è molto penalizzata, in relazione ad una dinamica della produttività molto bassa.

Migliora invece in modo notevole la nostra competitività rispetto alla Germania, se misurata rispetto ai prezzi alla produzione, mediante la contrazione dei margini di profitto che però non è sostenibile nel medio-lungo periodo perché viene intaccato il risparmio di impresa e le possibilità di accumulazione e sviluppo.
Un ruolo cruciale, ai fini della competitività, gioca la qualità delle esportazioni italiane decisamente superiore a quella delle esportazioni tedesche. In questi ultimi anni, il contributo delle nostre esportazioni nette alla crescita del prodotto interno lordo è stato largamente positivo, a fronte di un contributo negativo della domanda interna per consumi e investimenti. Senza il contributo delle esportazioni, la crescita della nostra economia sarebbe precipitata su valori negativi pericolosi.
Di fronte a questo quadro e a quello altrettanto difficile dei paesi del Sud dell’Unione europea, la Germania deve essere più europea e meno rigida sulla moneta e sui parametri di Maastricht, soprattutto quelli fiscali (deficit e debito pubblico rispetto al Pil), per favorire la crescita e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Nel nostro paese il tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 40 % e nel Sud il 60 per cento.

Un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro vicino alla parità, darebbe una forte spinta alle nostre esportazioni e alla crescita, senza temere per i prezzi perché ora siamo in deflazione. Per il futuro dell’Europa abbiamo bisogno di leader, come è avvenuto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, con la nascita della Ceca e poi del Mercato Comune, ad opera di statisti illuminati dal cristianesimo come Adenauer, De Gasperi e Schuman. Altrimenti, come stiamo vedendo, prevalgono i burocrati della Commissione europea che ingessano e soffocano tutto con un eccesso di regole e direttive.

Dicevamo prima che i destini dell’Italia e della Germania sono incrociati, anche se gli italiani non amano i tedeschi ma ammirano la Germania, mentre i tedeschi non ammirano gli italiani ma amano l’Italia, come è avvenuto per Goethe e oggi per Angela Merkel che sceglie Ischia per le proprie vacanze. La Germania ha veramente una grandissima responsabilità verso l’Europa. Molti sono coloro che non la ritengono all’altezza del compito: a cominciare dal filosofo tedesco Habermas. Volenti o nolenti, dobbiamo riporre le nostre speranze nella Germania. Se poi la Germania non volesse o non potesse realizzarle, sarebbe un disastro per tutti, a cominciare dai tedeschi destinati a soccombere, ancora una volta, ai sogni di grandezza.

Semplificare a metà non serve allo sviluppo

Semplificare a metà non serve allo sviluppo

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Nel suo ultimo rapporto «Going for growth», l’Ocse invita il nostro paese a migliorare l’efficienza della struttura del fisco semplificando le norme e combattendo l’evasione. E al tema delle semplificazioni è dedicato proprio il primo decreto attuativo della delega fiscale, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri lo scorso 20 giugno e attualmente all’esame delle competenti commissioni parlamentari. Apprezzabile l’intento, poiché è del tutto evidente che un fisco più semplice e a «misura di contribuente» è la precondizione per accrescere quella che i tecnici definiscono la «tax compliance», vale a dire l’adesione spontanea all’obbligo tributario. Potente antidoto antievasione, al tempo stesso, almeno di quella fetta di evasione che sicuramente va imputata a un sistema fiscale complesso e caratterizzato da un eccesso di adempimenti. Se l’obbligo tributario si trasforma in una corsa a ostacoli per i contribuenti onesti, in un confuso e contraddittorio rincorrersi di norme, accresce la propensione ad evadere.
La semplificazione fiscale è in effetti la madre delle riforme fiscali. Presuppone in primo luogo che i relativi decreti legislativi vengano attuati pienamente, ed è questa – come del resto per gran parte della legislazione primaria – l’incognita maggiore. Senza un’attenta vigilanza, senza un monitoraggio costante dell’intero processo attuativo (a partire dai regolamenti), anche i più apprezzabili intenti di snellimento di adempimenti e procedure rischiano di non produrre gli effetti sperati. Pare quindi quanto mai opportuno l’invito, rivolto ieri da Andrea Bolla, presidente del Comitato tecnico per il Fisco di Confindustria, in un passaggio dell’audizione davanti alla Commissione Finanze del Senato: per semplificare il sistema fiscale non basta eliminare adempimenti inutili o razionalizzare quelli onerosi, occorre una normativa lineare, coerente e di facile interpretazione. In questa direzione dovranno muoversi gli ulteriori decreti delegati, a partire da quelli sui temi della stabilità e certezza del diritto relativi, in particolare, alla revisione del sistema sanzionatorio e alla necessità di introdurre una norma generale che definisca l’abuso di diritto.
Se – come ha documentato il Sole 24Ore – la mancata attuazione delle riforme costa almeno 5 miliardi, di certo le semplificazioni fiscali consentirebbero di accrescere la base imponibile, sia per effetto dell’accresciuta tax compliance che grazie al recupero implicito di evasione. L’intera partita delle semplificazioni amministrative, se effettivamente si traducesse nell’eliminazione dei vincoli che soffocano l’intero sistema imprenditoriale, di certo immetterebbe linfa finale nel motore inceppato della crescita. È lo stesso Governo, nel «Programma nazionale di riforma» presentato a Bruxelles lo scorso aprile, a indicare nello 0,8% l’effetto sul Pil delle misure di semplificazione e liberalizzazioni nel 2015, che salirebbero al 2,2% nel 2020 e al 4,5% nelle stime di «lungo periodo».
All’interno di questo percorso, le semplificazioni fiscali giocano un ruolo determinante. Rendere meno complessi gli adempimenti fiscali per famiglie e imprese – si legge nel «Pnr» – «è la precondizione per un riavvicinamento del fisco ai cittadini». Nel 2015 partirà in via sperimentale la trasmissione diretta del 730 precompilati, che di certo semplificherà la vita a milioni di contribuenti persone fisiche, ma che rischia – come ha rilevato Bolla – di complicare quella delle persone giuridiche («occhio che queste norme non implichino maggiori oneri per i sostituti d’imposta»). Un motivo in più per vigilare attentamente su tutti gli aspetti e le implicazioni delle novità in arrivo.
Perché le semplificazioni producano pienamente i propri effetti, occorre un’amministrazione pronta ed efficiente. Non a caso fin dal 1965, in vista del varo della «grande riforma» del 1973, un personaggio del calibro di Cesare Cosciani ammoniva: «Rimontare la corrente che ha portato gli uffici in tale delicata situazione è opera difficile, paziente, lunga e ingrata per il ministro che deve attuarla. Ma è il presupposto per ogni riforma». Come dire che reiterati interventi legislativi possono anche naufragare, se non sostenuti da una profonda riorganizzazione della macchina fiscale. Strada imboccata alla fine degli anni Novanta con la nascita delle Agenzie, e che ora va ulteriormente rafforzata.

Troppa burocrazia blocca l’economia

Troppa burocrazia blocca l’economia

Stefano Micossi – Affari & Finanza

L’economia resta piatta come una tavola e metà dell’anno è andata: la crescita quest’anno può collocarsi tra lo zero e lo 0,3 per cento, l’inflazione viaggia anche lei intorno allo 0,3 per cento l’anno. In questo quadro, incomincia a serpeggiare qualche dubbio (anche in Europa) sulla determinazione del premier a portare avanti le riforme economiche necessarie. La cartina di tornasole saranno le decisioni sull’articolo 4 della legge delega sul lavoro – il famoso Jobs Act – ora ferme al Senato in attesa del voto sulle riforme istituzionali. Si tratta di vedere se sarà finalmente superato il contratto nazionale cum statuto dei lavoratori degli anni settanta del secolo scorso, gran distruttore di posti di lavoro e vero padre del precariato a vita dei nostri figli. Ma c’è molto altro da fare; più che provvedimenti bandiera, serve un’azione costante e determinata per rimuovere i blocchi e le rigidità che impediscono l’avvio di nuove attività, gli aggiustamenti industriali, le dissipazioni nelle società in mano pubblica. Faccio due esempi.

So di un giovane che decise due anni fa di aprire un bar gelateria in una località balneare del Lazio; l’iniziativa, che comportava un investimento non trascurabile, fu accolta con favore dall’amministrazione locale, che voleva favorire gli investimenti. Ci vollero sei mesi per ottenere un’autorizzazione preliminare della ASL sul progetto del locale, quella definitiva non è mai arrivata. Mesi di lavoro infaticabile furono necessari anche per le certificazioni sanitarie, di sicurezza, acustiche, sull’aerazione e antincendio; la complicazione delle pratiche consigliò di rivolgersi a consulenti-facilitatori, al costo di qualche migliaio di euro. Alla fine fu pronta la SCIA, segnalazione certificata d’inizio attività, che venne inviata per via telematica al SUAP, lo sportello unico attività produttive del Comune – che di unico non ha nulla, dato che tutte le attività preparatorie devono essere svolte dall’interessato prima di poter inviare la SCIA. Emerse allora che, trattandosi di zona artigianale, un oscuro allegato tecnico del regolamento urbanistico prevedeva che l’attività dovesse essere limitata solamente alla vendita di prodotti da asporto; niente somministrazione di bevande, niente servizio ai tavoli. In mancanza di ogni motivazione di interesse pubblico, la restrizione era chiaramente in contrasto con la direttiva europea sui servizi e vari decreti di liberalizzazione emanati dal governo Monti; su iniziativa del sindaco, il consiglio comunale deliberò di rimuovere la restrizione e inviò la delibera per l’approvazione alla Regione – la quale ha impiegato un anno ad approvarla, perché nel frattempo non era stato nominato l’apposito comitato tecnico. Simili restrizioni sono presenti in molti piani urbanistici comunali, con finalità protettive dell’esistente; l’autorità antitrust può solo avviare un ricorso al tribunale amministrativo, le regioni collaborano malvolentieri. Come si vede, la concreta realizzazione della libertà d’iniziativa sul territorio non ha semplici soluzioni, richiede interventi molteplici a vari livelli del sistema amministrativo; di questa azione minuta, continua e determinata per l’attuazione della direttiva europea dei servizi ancora non si scorge traccia.

Il secondo esempio riguarda gli aggiustamenti industriali, che l’Italia tende a rinviare il più a lungo possibile. Gli strumenti hanno cambiato nome nel tempo: mobilità lunga, cassa integrazione straordinaria, cassa integrazione in deroga e, naturalmente amministrazione straordinaria, il cuore pulsante del sistema. Questa è un lebbrosario di imprese in ristrutturazione presso il ministero dello sviluppo economico: originariamente costituito per assistere grandi imprese in crisi, l’intervento è stato esteso nel tempo anche a imprese di minore dimensione e ora – come rivelato da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – anche a ospedali ed enti sindacali. Le imprese mantenute nel lebbrosario a spese dei contribuenti sono quasi 500, alcune da molti anni. Si sa che intorno al meccanismo si affollano migliaia di professionisti; la nomina a commissario è una sinecura, dato che non c’è fretta di concludere. Il sindacato la fa da padrone. Il sistema è completamente opaco: non si sa quanto costa, non sono pubblicati rapporti regolari sull’esito delle procedure, non vi sono termini per il completamento degli interventi. Fa da contorno più largo il sistema dei crediti in sofferenza e delle moratorie bancarie nei confronti di imprese in difficoltà finanziarie: a seconda delle definizioni, stiamo parlando di qualcosa tra il 15 e il 20 per cento degli attivi bancari, difficile da smobilizzare anche per una legislazione fiscale penalizzante sul trattamento delle perdite e l’insufficiente sviluppo di veicoli di cartolarizzazione dei prestiti di dubbia qualità. Nel frattempo, il nostro paese si è dotato di una moderna legislazione per le crisi d’impresa, secondo i principi del Chapter 11 americano; ha anche introdotto il seme di meccanismi moderni per la gestione attiva dei lavoratori che perdono il lavoro, l’ASPI della legge Fornero, ma il sindacato lo vede come il fumo negli occhi. Dunque, di quegli strumenti non ci serviamo abbastanza, perché implicano di riconoscere quando un posto di lavoro non esiste più e di procedere alle ristrutturazioni, con connesso riconoscimento delle perdite. Emerge distinto il quadro di un paese che non vuole fare i conti con i suoi problemi e preferisce rinviare. Non ci si può stupire se l’economia resta piatta.

Semplificazioni, meno fisco vuol dire più capitale

Semplificazioni, meno fisco vuol dire più capitale

Isidoro Trovato – Corriere economia

Tanto tuonò che non piovve. La riforma del regime fiscale per le imprese è uno di quegli argomenti “evergreen” nel dibattito politico economico italiano. Stavolta però il traguardo potrebbe persino essere alla portata anche se la tanto attesa legge dell’11 marzo 2014 sulla semplificazione, pur contenendo indirizzi importanti, costituisce un’opera di «manutenzione straordinaria» dell’attuale sistema e risponde, secondo il mondo produttivo, solo in parte alla necessità di una riforma realmente sistematica e organica. Serve qualcosa di più specifico e una riforma fiscale davvero incisiva per il futuro delle imprese.

Da un’elaborazione dell’ufficio studi e della direzione politiche fiscali di Confartigianato, infatti, emerge che nell’arco delle ultime due legislature, tra il 29 aprile 2008 e il 28 marzo 2014, sono state approvate 629 norme fiscali, di cui 72 semplificano (11,4% del totale), 168 sono potenzialmente neutre dal punto di vista dell’impatto burocratico (26,7%) e 389 presentano un impatto burocratico sulle imprese (61,8%): ogni tre norme fiscali promulgate, due aumentano i costi burocratici per le imprese. La politica di semplificazione appare come una tela di Penelope se per una norma che semplifica ne vengono emanate 5,4 che hanno un impatto burocratico negativo sulle imprese. È del tutto evidente la necessità di procedere speditamente a una radicale semplificazione degli adempimenti tributari che gravano sulle imprese e sui cittadini. Per una reale semplificazione, però, è necessario non solo incidere sui singoli adempimenti ma anche rivedere le modalità con cui si giunge alla determinazione del reddito da tassare. Occorrono altri interventi, secondo gli artigiani, ma soprattutto bisogna metter mano ai regimi contabili delle imprese minori che sono la stragrande maggioranza del mondo produttivo: basti pensare che il 57,1% delle aziende applica un regime di contabilità semplificata mentre il 42,9% è in contabilità ordinaria. Circa 9 persone fisiche su 10 e 6 società di persone su 10 applicano la contabilità semplificata mentre le società di capitali sono interamente comprese nella contabilità ordinaria (obbligatoria).

Obiettivo primario, dunque, per le aziende è quello di armonizzare le aliquote. Ma con obiettivi e gradualità diverse. «In ordine di priorità – spiega Cesare Fumagalli, segretario generale di Confartigianato – bisogna introdurre un regime forfetario da riservare alle aziende di ridotte dimensioni (quelle che hanno ricavi tra 30 e 40mila euro) e con limitata struttura imprenditoriale che preveda pochissimi adempimenti contabili (solo conservazione dei documenti). Servirà poi modificare l’attuale regime semplificato per permettere la determinazione del reddito secondo il criterio della cassa. Tel regime favorirebbe anche quello dell’Iva per cassa, oggi poco utilizzato, in quanto i contribuenti per determinare il reddito restano costretti al rispetto del criterio di competenza economica. Avevamo salutato con grande entusiasmo quel provvedimento ma i legacci burocratici lo hanno reso impraticabile e solo così tornerebbe a essere utile. Altro provvedimento di grande efficacia è quello che prevede una specifica azione per favorire le start-up d’impresa riducendo il carico fiscale per i primi anni dell’avvio dell’attività». Ulteriore obiettivo è quello di uniformare il reddito d’imposta e favorire la capitalizzazione delle aziende. «La nostra proposta – spiega Fumagalli – prevede di mantenere l’imposta stabile per chi lascia il reddito nella sua impresa. In pratica, chi reinveste in azienda non sconterà più la tassazione progressiva bensì quella proporzionale nella misura del 27,5%. Si uniformerebbero le imprese indipendentemente dalla forma giuridica e si favorirebbe la capitalizzazione di imprese individuali e società di persone».

L’Italia è un Paese tossico per le multinazionali di successo

L’Italia è un Paese tossico per le multinazionali di successo

Edoardo Narduzzi – Il Foglio

E se l’Italia fosse già diventata un semplice mercato, una country, una semplice linea di affari nel bilancio consolidato di una multinazionale di successo nel mercato globale? Mentre proseguono le inutili polemiche post acquisizione della Indesit da parte della Whirlpool con le solite grida «Al lupo! Al lupo!» per segnalare il pericolo di un made in Italy sotto attacco da parte dei predatori internazionali, si registrano altre fughe dal Belpaese di multinazionali macina utili. L’italianissima Gtech, un tempo Lottomatica, ha appena concluso l’offerta sull’americana Igt, leader mondiale dei casinò e nel social gaming, per 4,6 miliardi. Ne nasce il gruppo più importante del pianeta nel settore del gioco, anche di quello digitale. Contestualmente all’acquisto Gtech ha annunciato che sposterà la sede fiscale del gruppo dall’Italia a Londra e che procederà al delisting del titolo da Piazza Affari. Qualche mese prima era stata la Fiat di Sergio Marchionne a muovere la sede fiscale del nuovo gruppo nato dalla fusione con Chrysler, Fca, a Londra e quella legale in Olanda.

I commentatori banali si fermerebbero a evidenziare il solo shopping fiscale come ragione prevalente, se non unica, della fuga dall’Italia. La realtà, purtroppo, è ben più negativa per l’Italia e il motivo fiscale è solo uno dei tanti. Certo, l’Irap che esiste e si paga solo in Italia e che è incomprensibile alla totalità dei manager internazionali nelle sue logiche di calcolo e nella sua peculiare base imponibile, che ne fa una patrimoniale sulle imprese, non aiuta a trattenere le multinazionali. Certo, il tax rate fino a 10 punti più alto di quello che offre il Regno Unito di Dabid Cameron, che ha per ben due volte ridotto l’aliquota sugli utili societari, è una sirena alla quale è difficile resistere. Certo, il cuneo fiscale più alto perfino di quello tedesco non può non fare da acceleratore della fuga. Ma, se l’Italia avesse una Pubblica amministrazione degna nella sua qualità media e nei suoi meccanismi di funzionamento dell’Eurozona, gran parte dei problemi fiscali potrebbero essere gestiti. Le multinazionali di successo scappano da un paese con una giustizia civile da quinto mondo e con una macchina burocratica pensata per essere un postificio, un atipico strumento di politica occupazionale keynesiana capace solo di scavare buche laddove strade e ponti non saranno mai costruiti. La Pa italiana non garantisce i servizi essenziali per le multinazionali contemporanee in termini di qualità media e tempi di lavorazione e le nostre multinazionali fanno shopping burocratico all’interno della Ue. Eppoi, le multinazionali italiane di successo scappano anche da un mercato dei capitali periferico e da un sistema bancario nel quale il credito è non solo rarefatto ma anche senza grandi protagonisti internazionali in grado di accompagnare il business dall’America alla Cina, dalla Russia al Canada.

Gtech in qualche modo è l’idealtipo del made in Italy di successo nell’high tech. Apparentemente è una società che fa business con lotterie e gratta&vinci, nella realtà una formidabile Amazon del gioco digitale capace di anticipare i megatrend mondiali del settore. In parte grazie alla deregolamentazione del comparto dei giochi adottata nel passato dall’Italia (liberalizzare fa sempre bene e produce crescita e sviluppo), in parte grazie a un management di ottima qualità, negli anni Lottomatica ha saputo costruire delle piattaforme proprietarie per gestire i suoi tanti giochi e capire che le stesse potevano facilmente diventare degli erogatori di servizi nei vari mercati della globalizzazione. L’evoluzione della tecnologia nella direzione del cloud e delle app ha consacrato questa visione di business.

Gtech e Fca che fanno rotta all’estero segnalano quanto sia concretamente difficile fare business per una multinazionale che oggi si presenta sui mercati internazionali a raccogliere capitali con base in Italia e strategia operativa a livello globale. Gli azionisti, in primis quelli istituzionali operativi nei vari continenti, non amano avere in portafoglio titoli o azioni made in Italy. Su questi titoli, stante la comprovata atipicità italica, chiedono un premio per il rischio aggiuntivo per investire. Premio che non ha senso pagare e che nessuna multinazionale che vuole essere davvero competitiva si può permettere di pagare.

Ecco spiegato perché, mentre a Palazzo Chigi vengono presentate e illustrate le dettagliate slide che spiegano le molte riforme di cui l’Italia ha bisogno, i ritardi accumulati nel passato spingono alla delocalizzazione le nostre migliori multinazionali. Ovviamente, la colpa non è del bravo e determinato premier che è arrivato al governo da soli quattro mesi. Ma è altrettanto ovvio che di tempo Matteo Renzi non ne può più guadagnare: o riforma per davvero e rapidamente oppure si ritrova a governare un paese condannato a crescere dello zero virgola ogni anno.

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Fabrizio Ravoni – Il Giornale

Un mese di lavoro per correre dietro alle scartoffie. Per rispettare gli impegni burocratici e fiscali, una piccola e media impresa dedica 30 giorni lavorativi all’anno. Ed una spesa media che oscilla fra i 7mila e i 12mila euro. E chi paga di più sono proprio le aziende di più piccole dimensioni: quelle sotto i 50 dipendenti. Per questo tipo di aziende il costo è cresciuto del 19% negli ultimi 7 anni. Per quelle con meno di 250 occupati la spesa stimata è di 7mila euro. Nel complesso, la “mano morta” della burocrazia comporta un costo complessivo a carico delle piccole e medie imprese calcolato in 31 miliardi di euro. Rispetto al 2007 la crescita del tempo dedicato a sbrigare il carico burocratico è aumentato del 26,4%. Le stime vengono dalla Cgia di Mestre. «Si pensi – spiega Giuseppe Bortolussi – che, secondo l’indagine annuale Promo Pa Fondazione, l’81% delle imprese con meno di 50 addetti è costretto a rincorrere a consulenti esterni per fronteggiare questo nemico invisibile: ovvero la cattiva burocrazia». Il 70% delle imprese deve ricorrere a professionalità esterne ad integrazione degli uffici amministrativi, e l’11% affida a terzi tutte le incombenze. «È evidente – commenta il presidente della Cgia di Mestre – che se non si mette immediatamente mano a quel labirinto di leggi, decreti e circolari varie che rendono la vita impossibile a milioni di piccoli imprenditori, corriamo il pericolo di soffocare la parte più importante della nostra economia».

La burocrazia, comunque, non colpisce soltanto le aziende ma anche i cittadini che, quotidianamente devono affrontare la fila allo sportello. Sempre la Cgia di Mestre segnala che negli ultimi 10 anni il numero di persone che attendono più di 20 minuti agli sportelli dell’ufficio anagrafe è cresciuto del 43,7%. Infatti, nel 2003 12,6 persone su 100 lamentavano tempi di attesa superiori ai 20 minuti: 10 anni dopo la coda all’anagrafe è arrivata a durare più di 20 minuti per ben 18,1 persone su 100. La soglia dei venti minuti, poi, colpisce anche il pianeta della Sanità. Se nel 2003 ben 41 persone su 100 avevano riscontrato un’attesa allo sportello dell’Asl superiore ai venti minuti, dieci anni dopo la fila si è idealmente “allungata” di 8 persone. In altre persone, nel 2013 ben 49,7 persone su 100 hanno denunciato di aver atteso più di 20 minuti di fronte agli sportelli delle aziende sanitarie locali. Condizione drammatica nel Centro Sud. La Calabria guida la graduatoria dei cittadini che restano più tempo davanti a uno sportello della Asl. Il 70% dichiara di aver atteso oltre i 20 minuti. Così come il 66,6 per cento dei siciliani e il 62,5 per cento degli abitanti del Lazio. Per le code all’anagrafe, invece, la graduatoria si ribalta. E i laziali guidano la non certo invidiabile classifica. Il 38,5% dichiara di aver atteso più di 20 minuti per un certificato. Seguono i toscani con il 22,3%. Al terzo posto i sardi. Negli ultimi dieci anni la situazione, ancorché migliorare (grazie a una più diffusa informatizzazione della pubblica amministrazione) è peggiorata. Tant’é che la percentuale di chi segnala lunghe file allo sportello è più che raddoppiata (+112;4%). «I cittadini e le piccole imprese per ottenere un certificato sono ormai sottoposti ad una vera e propria Via Crucis» commenta Bortolussi. «Per colpa – sottolinea – di leggi, decreti e circolari scriteriate e spesso in contraddizioni tra loro è aumentata la burocrazia; complicando la vita dei cittadini e, in molti casi, anche quella dei dipendenti pubblici».