busta paga

Il Tfr è mio e lo gestisco io, o no?

Il Tfr è mio e lo gestisco io, o no?

Il Foglio

A chi fa paura il tfr in busta paga? Non ai lavoratori, naturalmente, trattandosi di soldi loro che, sulla base delle intenzioni renziane, finirebbero in busta paga (non tutti, e peraltro in via facoltativa). Logica vorrebbe, quindi, che anche i sindacati si dicessero favorevoli. E per osmosi anche la sinistra old labour dovrebbe mostrare simpatia per un provvedimento che mette gli assunti in condizione di decidere in libertà se congelare o spendere oppure tesaurizzare a piacimento la quota annuale della così detta liquidazione. Invece no, c’e qualcosa di misteriosamente ostile alla proposta del premier Matteo Renzi, un rigagnolo limaccioso e trasversale nel quale scorre una diffidenza sospetta.

Da Confindustria alla Cgil, dai reduci inconsolabili del governo di Enrico Letta (Francesco Boccia del Pd: “Solo chi in un’azienda non ci è mai entrato può pensare che quella del tfr sia una soluzione”) agli avanzi del sindacalismo post fascista (Renata Polverini di Forza Italia), fino ad alcune molecole del mondo accademico che si pretende liberista (Cesare Pozzi della Luiss, per esempio): è tutto un coro stonato ma potente. Ma per quale ragione? Si può capire che a Giorgio Squinzi e alla sua lobby confìndustriale faccia comodo difendere il capitalismo pigro e paraculo grazie ai risparmi del lavoro dipendente ben sigillati nel proprio retrobottega. Si comprende meno come faccia Susanna Camusso ad assecondare lo stesso punto di vista, quando il suo collega/avversario Maurizio Landini della Fiom la pensa invece all’opposto.

Non si comprendono affatto le ragioni degli altri. Quelli che urlano all’attentato statale contro la vecchiaia dei prossimi pensionati; quelli che assicurano che il governo vuole finanziare la domanda attraverso il risparmio privato, o che Renzi sbloccherà i tfr per taglieggiarli meglio con altre tasse; quelli che fanno l’elogio del Bismarck inventore del Welfare prussiano, coatto e a prova d’infrazioni private. È un modo gentile per disprezzare i lavoratori, come fossero minorenni strabici, cicale pronte a rovinarsi l’ultima stagione della vita, o forse solo potenziali simpatizzanti di un governo sgradito.

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Dopo la casa, il tfr: Renzi ora stritola le imprese

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Qualsiasi intervento sul Tfr sarà volontario e a costo zero per le imprese. Parola del governo. Alla vigilia dell’incontro con i sindacati ai quali il premier Matteo Renzi vuol far digerire il Jobs Act mettendo sul tavolo come compensazione l’anticipo delle liquidazioni sugli stipendi, si moltiplicano i messaggi rassicuranti soprattutto alle imprese che rischiano di più da questa operazione. Così prima il ministro dell’Interno Alfano e poi il viceministro all’Economia, Enrico Morando, hanno ribadito che se l’intervento andrà in porto, verrà «fatto in modo che per la liquidità delle imprese risulti neutrale e per i lavoratori non aumenti il prelievo Irpef. E comunque sarà volontario». Tra le opzioni sul tavolo anche quella di dare una compensazione alle imprese attraverso i nuovi prestiti della Bce alle banche.

Ma al di là delle rassicurazioni, resta il sospetto che il governo voglia acquisire al fisco maggiori risorse per finanziare gli 80 euro e renderli stabili. L’esperienza della Tasi che non avrebbe dovuto portare maggior onere fiscale rispetto alla vecchia Imu e che invece si è tradotta nell’ennesima batosta, è un precedente che induce a guardare con sospetto alle promesse del governo. Dai calcoli dei Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro emerge che mettere nelle buste paga il Tfr significa per i lavoratori un maggior reddito pari a circa 40 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 50%), circa 62 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 75%) e circa 82 euro al mese (in caso di Tfr erogato al 100%). Il Tfr maturato ogni anno è circa 21,451 miliardi di euro. Non c’è solo il problema di privare le aziende di liquidità ma anche di asciugare la fonte principale della previdenza integrativa a cui ogni anno vengono destinati 6 miliardi del Tfr. Il dibattito si è scatenato. «La soluzione dell’anticipo del Tfr a costo zero per le aziende, paventata dal governo, è tutta da verificare» afferma il deputato di Forza Italia Luca Squeri. Per Stefania Prestigiacomo sempre di FI, «darebbe solo un colpo di grazia al Paese». Michele Perini, presidente della Fiera di Milano, lancia l’allarme: «Sarebbe un guaio grandissimo per le finanze imprenditoriali che utilizzano quella liquidità anche per far funzionare il sistema». E lancia l’alternativa: «Si può semmai discutere di Tfr futuro ma con un accesso al credito al 2,75%».

La retribuzione e la carica (doppia) del fisco

La retribuzione e la carica (doppia) del fisco

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

L’anticipo del Tfr in busta paga potrebbe valere un incasso annuo per lo Stato che va da 1,7 a 5,6 miliardi a seconda del tasso di adesione dei lavoratori alla proposta lanciata dal premier Matteo Renzi. I calcoli sono stati fatti dall’economista Stefano Patriarca per il sito la voce.info. Nell’ipotesi di un’adesione media, il gettito si posizionerebbe intorno ai 3 miliardi.

L’ipotesi è che il Tfr, anche se aggiunto in busta paga, venga tassato separatamente, non si sommi, quindi, agli stipendi ai fini delle trattenute mensili, e con l’applicazione di un’aliquota del 23%, la minima prevista ai fini Irpef. Si tratterebbe, ovviamente, di un anticipo di tassazione perché lo Stato incasserebbe oggi quello che, mantenendo l’istituto della liquidazione, incamererebbe tra 20 o 30 anni. Attualmente sul Tfr si paga anche un’imposta dell’11% sui rendimenti annui. Sulla sorte di questo prelievo non si hanno notizie. I progetti del governo non sono stati svelati completamente, ma guardando queste cifre viene il sospetto che l’obiettivo non sia solo quello di rilanciare i consumi. Certo, questo è l’obiettivo più importante. Ma con l’effetto non secondario di garantire all’Erario un tesoretto non indifferente. Se poi mettiamo in conto l’Iva sui maggiori consumi, il gettito si arrotonderebbe di un altro miliardo, forse di più.

Con il Tfr in busta paga i lavoratori vedrebbero aumentare il loro reddito e il loro potere d’acquisto, anticiperebbero ora le imposte sul Tfr, e lo Stato incasserebbe dai 3 ai 6/7 miliardi. Niente male. Senza contare che la rivalutazione potrebbe essere a rischio. Più consumi, incassando più tasse. Un piccolo miracolo all’italiana. Sarebbe importante chiarire da subito quale potrebbe essere il trattamento fiscale perché l’operazione non sembri finalizzata soprattutto ad aumentare le entrate. I sindacati chiedono che l’anticipo del Tfr sia a tassazione zero, difficile crederlo. Altrettanto importante è chiarire come andare incontro alle esigenze finanziarie delle piccole imprese. Le banche, questa volta, risponderanno presente?

Fuori tempo massimo per interventi sulle liquidazioni

Fuori tempo massimo per interventi sulle liquidazioni

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

L’idea dimettere in busta paga una parte o l’intera quota del Tfr è spuntata come un fungo settembrino nel bel mezzo del dibattito sull’articolo 18 e nell’attesa di capire come la legge di stabilità riuscirà a rendere strutturale il taglio Irpef da 80 euro per 11 milioni di lavoratori. Diciamolo subito, non è il migliore dei contesti. Come spesso accade, la nostra politica procede per tentativi, aggiunge temi, provocazioni, accavalla proposte quando sembra non arrivare mai la svolta promessa sulla “vera riforma” in cantiere.

Il governo ha presentato lo scorso aprile in Senato un ddl delega di riforma del mercato del lavoro e sei mesi dopo ancora non sappiamo immaginare se entro l’autunno avremo quel testo in Gazzetta. Lì non si parla di rinnovamento della struttura dei contratti e di Tfr, si parla di sperimentazione sul salario minimo, di razionalizzazione delle forme contrattuali ma non di quel che c’è in busta, oggetto tipicamente affidato alla negoziazione tra le parti sociali. Aggiungere ora il tema del Tfr quando l’attesa è, appunto, su ben altro, appare incongruo. Soprattutto se il ragionamento che si fa sulla cancellazione della vecchia liquidazione non è legato a un rilancio della previdenza integrativa.

Si immagina invece di dare il Tfr ai lavoratori per rafforzarne il potere d’acquisto. Ecco, se è questo il piano è un piano sbagliato c pericoloso. Per le aziende, che stanno vivendo una delle peggiori crisi di liquidità dal Dopoguerra. E per gli stessi lavoratori, cui si affiderebbe improvvisamente un plus monetario stipendiale senza averli, appunto, informati bene di che cosa si tratta. Il Governo porti a casa il Jobs act senza ulteriori perdite di tempo e si dedichi di buona lena ai decreti delegati. Solo dopo si può parlare di Tfr in busta, senza ansie e improvvisazioni. Anche perché il superamento di quel residuo archeologico di epoca fascista poteva esser fatto vent’anni fa, quando siamo passati al sistema contributivo per il calcolo delle pensioni. Oggi siamo fuori tempo massimo e in piena recessione con deflazione, dunque non c’è fretta.

L’incoscienza di fare cassa mettendo a rischio le pensioni future

L’incoscienza di fare cassa mettendo a rischio le pensioni future

Giuliano Cazzola – Il Garantista

A quanto pare non si farà l’operazione per trasferire il trattamento di fine rapporto (Tfr) in busta paga. allo scopo di incentivare i consumi rimasti “in sonno” anche dopo l’erogazione del bonus di 80 euro. Non è la prima volta che qualcuno si alza al mattino e si vanta di aver inventato l’acqua calda, salvo poi arretrare una volta verificate le controindicazioni che una misura si fatta comporterebbe.

Chi scrive ha sempre nutrito seri dubbi su proposte di tale natura, anche se i loro sostenitori presentavano, in via di principio, argomenti non privi di senso. È vero, il Tfr è un istituto vigente solo nel nostro Paese al punto che, nei consessi europei e internazionali, i rappresentanti italiani stentano a spiegarne la funzione ai propri interlocutori. Così, il relativo ammontare nei monitoraggi della spesa sociale finisce per essere conteggiato o in quella pensionistica oppure alla voce disoccupazione. Inoltre, c’è sempre il rischio di essere paternalisti e di voler insegnare ai lavoratori che cosa è più conveniente, anche nell’utilizzare le risorse loro spettanti. Il diritto del lavoro, infatti, è sovraccaricato di inderogabili e indisponibili per il dipendente che ne è titolare, come se fosse un minus habens, perennemente sottoposto ad un tutore, sia esso il legislatore, il giudice o il sindacato. Certo – si dirà – il prestatore d’opera è capace di intendere e di volere e di scegliere ciò che è meglio per lui e la sua famiglia. È il caso, però, di orientare le politiche retributive e del lavoro verso obiettivi prioritari e non abbandonarsi ad una visione moderna del lavoratore-buon selvaggio traviato dagli ordinamenti politici e sociali.

Se, per esempio, tutti gli Stati hanno ritenuto loro dovere, in una certa fase dell’evoluzione storica, di predisporre strumenti di welfare pubblici ed obbligatori (pesanti o leggeri che siano), rifiutando l’idea del «ecco le risorse, arrangiati!», una ragione dovrà pur esserci: il lavoratore non è libero di rinunciare a uno zoccolo di diritti che l’ordinamento gli riconosce per qualificarsi come “Stato sociale”, una definizione in cui l’aggettivo diventa un modo di essere del sostantivo. Io credo, allora, che il Tfr sia una risorsa troppo importante per l’autofinanziamento delle imprese e per le esigenze dei lavoratori per essere gettato nella mischia della vita quotidiana, nell’intento disperato di raschiare il fondo del barile. Il Tfr è la principale fonte di finanziamento della previdenza privata, che ha una funzione strategica nel garantire una maggiore adeguatezza per i trattamenti pensionistici. Inoltre sono consentite significative anticipazioni degli accantonamenti (anche di quelli detenuti nelle posizioni individuali dei fondi pensione) allo scopo di affrontare spese cruciali nella vita, come le cure sanitarie o l’acquisto di un’abitazione. Poi, davvero, le somme del trattamento di fine rapporto, finite a incrementare le buste paga, sarebbero indirizzate ai consumi? Il fatto che la liquidità e i depositi bancari degli italiani siano aumentati di 234 miliardi avrà pure un significato. Insomma, se vogliamo parlar chiaro, mettere il Tfr in busta paga sarebbe stato come usare banconote da 100 euro al posto della carta igienica.

Vi è un altro aspetto da considerare: gli accantonamenti annui del Tfr hanno già una loro destinazione. Rimanendo soltanto nell’ambito del settore privato (nel pubblico impiego la normativa è più complicata, poi a pagare dovrebbero essere le amministrazioni, quindi aumenterebbe la spesa pubblica. che ha già tanti problemi di suo) le quote sono così ripartite: 5,5 miliardi alle forme di previdenza complementare; 6 miliardi al Fondo Tesoro gestito dall’Inps (corrispondenti alla parte che i lavoratori, occupati nelle aziende con 50 e più dipendenti, non utilizzano come finanziamento della previdenza complementare e che i datori devono versare nel Fondo suddetto); tra gli 11 e i 14 miliardi (a seconda delle valutazioni) detenuti nelle aziende fino a 49 dipendenti in conseguenza dell’opzione dei lavoratori di restare nel regime del Tfr. Queste ingenti risorse sono scritte a bilancio e costituiscono un’importante forma di autofinanziamento. Sembrava evidente che il governo del “Sòla” intendesse mettere le mani, prioritariamente, su quest’ultimo malloppo. In primo luogo perché è l’unica quota che non abbia una specifica destinazione, come le altre citate. Del resto, quale altra funzione avrebbe avuto l’idea di un patto con l’Abi per destinare alle Pmi – come compensazione – gli stanziamenti derivanti dalla Bce, se non che fosse proprio quello il settore da colpire con il nuovo intervento? Ma come si fa a chiedere a un’impresa di inserire nella busta paga dei lavoratori che lo chiedono, la metà del flusso della liquidazione, per poi passare in banca a riscuotere, come se essa dovesse erogare credito a prescindere dalle garanzie fornite, diventando così, nei fatti, lo sportello erogatore del Tfr altrui?

Liquidazione in busta, critiche bipartisan

Liquidazione in busta, critiche bipartisan

Stefano Re – Libero

Sindacati, imprenditori, minoranza del Pd, Forza Italia: il fronte che si oppone all’idea del governo di far trovare ai lavoratori una parte di Tfr in busta paga per rilanciare i consumi è ampio e agguerrito. I sindacati sono in rivolta, con Susanna Camusso, segretaria Cgil, preoccupata che la nuova voce in busta paga finisca per essere tassata come le altre. «Nessuno dica che si stanno aumentando i salari dei lavoratori. Quelli sono soldi dei lavoratori, frutto dei contratti e delle contrattazioni e non una elargizione di nessun governo», avverte la leader del sindacato di Corso Italia. Luigi Angeletti è d’accordo: «Capisco l’intenzione di dire che bisogna avere più soldi in tasca», sostiene il capo della Uil, ma la strada giusta consiste nel «continuare a ridurre le tasse sul lavoro». Pure Pier Luigi Bersani, che pure ieri ha assicurato che non sarà da lui che arriveranno colpi bassi al governo, si dice contrario alla proposta. «Sono soldi dei lavoratori», sottolinea l’ex segretario, «e con i lavoratori il governo dovrà parlare se vorrà toccarli».

Considerazioni simili a quelle che fanno molti forzisti. Per Maurizio Gasparri «Renzi finge di non capire che solo abbassando le tasse si rilancia l’economia. Gli 80 euro in busta paga dati ad alcuni non sono serviti a nulla. Lo stesso varrebbe per il Tfr, che anzi rischia di essere tassato come lo stipendio». Maria Stella Gelmini sottolinea invece che le Pmi «vedrebbero ulteriormente stressata la loro liquidità, a fronte di un accesso al credito bancario bloccato». Anche Beppe Grillo, leader del M55, punta il dito sui costi che il provvedimento avrebbe perle aziende: «Togliere il Tfr alle imprese vuol dire metterle in mutande e costringerle a rivolgersi al credito bancario per finanziarsi», scrive sul proprio blog. Ed è proprio sul rapporto con gli istituti di credito che si concentra l’attenzione delle imprese.

Secondo il centro studi Impresalavoro, la manovra sul Tfr prospettata da Renzi colpirebbe oltre 4 milioni di aziende, quelle da 1 a 49 dipendenti, costando loro la cifra complessiva di 876 milioni di euro sotto forma di interessi passivi per l’anticipazione in banca delle risorse necessarie. A meno che, s’intende, non intervenga un eventuale accordo tra governo e Abi, la cui percorribilità però «è ancora tutta da dimostrare». I conti sono presto fatti: i dati Banca d’Italia, spiega il centro studi, dicono che il tasso effettivo globale medio per il quarto tiirnestre 2014 per operazioni relative al finanziamento di capitale circolante è pari all’8,94% annuo. Questo significa che, se il sistema delle Pmi fosse costretto a recuperare risorse per 9,8 miliardi di euro, cioè la cifra complessiva dei Tfr attualmente accantonati in queste aziende, le imprese finirebbero per sostenere oneri finanziari pari a 876 milioni di euro su base annua. Vi è inoltre da considerare, aggiunge Impresalavoro, il caso delle aziende che, per motivi diversi, possono ritrovarsi ad avere uno scoperto di conto corrente senza afidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca. In questi casi, decisamente più gravi, il costo del finanziamento sarebbe nettamente superiore.

Preoccupato anche il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, per il quale «l’ipotesi di mettere il 50% del Tfr in busta paga, almeno per come sembra formulata sulla base delle indiscrezioni circolate, finirebbe per indebolire ulteriormente il nostro sistema produttivo, accentuando il processo di riduzione occupazionale».

Il governo pare spiazzato dinanzi a queste obiezioni. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, assicura che non saranno presi provvedimenti vincolanti nei confronti delle banche, e questo ovviamente non può tranquillizzare le aziende. «Siamo pienamente consapevoli del fatto che le imprese, in particolare le piccole, soffrono dal punto di vista della liquidità», ha detto il ministro intervistato da Porta ci Porta. «Non possiamo obbligare le banche», ha avvisato, «ma lavoriamo a fronte del fatto che anche nelle banche, come in tutti gli operatori e gli italiani, ci sia l’interesse a rendere dinamica l’economia italiana». L’esecutivo pare insomma intenzionato a esercitare una sorta di moral suasíon nei confronti delle banche, la cui efficacia è tutta da dimostrare.

E sul Tfr in busta paga scoppia la rivolta bipartisan

E sul Tfr in busta paga scoppia la rivolta bipartisan

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Il Tfr in busta paga? È la «politica dell’uovo oggi» mentre «la gallina sta morendo a causa della crisi». Il copyright è di Renata Polverini, deputata di Forza Italia ed ex segretario dell’Ugl. Toni forti ma che spiegano come il nuovo fronte aperto dal premier Matteo Renzi rischi di trasformarsi in un boomerang. La paura di finire politicamente stritolati dalla crisi è tanta. Lo dimostra la premessa alla Nota di aggiornamento del Def del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. «In termini cumulati, la caduta del Pil in Italia è superiore rispetto a quella verificatasi durante la Grande depressione del ’29», scrive.

Il fine giustifica i mezzi, quindi? Per ora, l’unica certezza è che, dopo lo scontro sull’articolo 18, gli avversari di Renzi, come Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani, hanno trovato altre munizioni da sparargli contro. In più, il presidente del Consiglio potrebbe alienarsi le simpatie di coloro che lo hanno sponsorizzato o che, per lo meno, non gli sono pregiudizialmente ostili. È il caso dell’Alleanza delle Cooperative, formata da LegaCoop (la «patria» del ministro Poletti), Confcooperative e Agci. «Così indeboliamo ancora di più le imprese», ha detto Mauro Lusetti, numero uno delle cooperative rosse. I numeri li ha snocciolati il leader di Confcooperative, Maurizio Gardini. «Sono interessate – ha chiosato – oltre il 90% delle imprese cooperative e il 30% delle persone occupate, circa 400mila, perciò parliamo di risorse importanti: 160 milioni». Occorre ricordare che il progetto mirato allo sblocco delle «liquidazioni» è ancora in fase embrionale. Non ci sono certezze sulle modalità e, soprattutto, sulla tassazione che sarà applicata. Né, tantomeno, si sa se gli istituti di credito utilizzeranno i prestiti Tltro della Bce per finanziare le imprese che perderanno questi preziosi accantonamenti. Si sa, però, che per queste ultime sarebbe comunque una tragedia.

Fidarsi di un governo che non rispetta gli impegni, infatti, è molto difficile. «Le cooperative a fine 2013 vantavano un credito verso la Pa di 12 miliardi di euro e ne risulta pagato circa il 40%», ha concluso Gardini evidenziando come manchino ancora 7,5 miliardi circa. L’Alleanza delle Coop ha inoltre ricordato come il 10% delle associate nel secondo quadrimestre abbia ricevuto richieste di rientro sui fidi da parte delle banche. E i prestiti continuano a costare parecchio. Secondo il Centro studi ImpresaLavoro, l’erogazione del Tfr costerebbe alle pmi 9,8 miliardi di euro. Per recuperare queste risorse, ovviamente, ci si dovrebbe rivolgere al mondo del credito che applica tassi medi dell’8,94% annuo con un aggravio di costi di 876 milioni di maggiore spesa per interessi. Insomma, per dare ai lavoratoti al massimo 100 euro in più ogni mese senza confermare il bonusda 80 euro al superamento della soglia di reddito massimo (26 mila euro annui lordi), si può correre il rischio di affossare definitivamente il sistema imprenditoriale come denunciato dal presidente di Confcommercio Carlo Sangalli.

La mossa, infine, non migliora i rapporti del premier con la sinistra. «Sono soldi dei lavoratori», dicono all’unisono Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani puntualizzando che il Tfr non è un regalo. La leader della Cgil ha messo l’accento sulla libertà di scelta per i lavoratori, anche quella di destinare le risorse alla previdenza integrativa. L’ex segretario Pd, in perenne polemica con Renzi, ha rilevato che «bisogna sempre esser cauti quando ci si mangia oggi le risorse di domani», alludendo alla possibilità di detassare ulteriormente i versamenti ai fondi pensione complementari. Il fatto che non si tratti di pretesti ideologici, ma di problemi concreti rende l’idea di quanto impervia sia la strada di Renzi.

La spinta che serve per costruire la fiducia

La spinta che serve per costruire la fiducia

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Non è irrealistico pensare che anche la quota di Tfr destinata alla busta paga rischi di non finire ai consumi, così come sono rimasti “sotto il materasso” gli 80 euro. Complessità fiscali e previdenziali a parte, basta leggere le mail che arrivano al giornale o i messaggi indirizzati a Radio24 per capire come gli italiani abbiano un’idea “sacra” della liquidazione. È un unicum nel panorama dei Paesi occidentali e proprio per questo ha un valore a sé di paracadute per l’imponderabile futuro. Ma ha anche un retrogusto da fine Ottocento, quando i socialisti venivano chiamati “ciucia liter” perché dediti alle riunioni in osteria, politicamente accese e alcolicamente generose. Era il tempo in cui veniva concordato il salario settimanale proprio per evitare che quello giornaliero finisse “scolato” nottetempo tra bicchieri e intemerate rivoluzionarie. Questa idea “di sinistra” del salario – o di una parte di esso – come risparmio differito si è evoluta fino alla famosa “liquidazione”.

Ma il vero rischio di un possibile flop per questa ulteriore iniezione di quasi-salario è nella confusione delle ipotesi diagnostiche: la crisi di domanda è crisi di fiducia, e non sono la stessa cosa. Per rilanciare la fiducia non servono solo più disponibilità per chi già ne abbia (l’operazione Tfr non riguarda naturalmente il grande mondo degli esclusi: disoccupati, poveri, precari) ma condizioni di sistema che modifichino la percezione della realtà e l’idea stessa del futuro. Insomma, non bisogna più avere paura del domani. Ma non bastano 80 o 100 euro a comprare buonumore. L’ottimismo non è in vendita. Nemmeno quello che il premier sparge a piene mani – e con retorica efficace – in ogni contesto, dalla direzione Pd all’assemblea dell’Onu. È uno sforzo comunque lodevole e necessario. Guai ad avere leader piagnoni e disfattisti. Ma non è sufficiente, perché non basta il verbo dell’uomo solo al comando per far cambiare verso a un intero Paese, complesso, stratificato, percorso e pervaso da interessi spesso contrapposti e conflittuali.

Il programma strategico di Renzi dell’operazione fiducia confligge e si sfarina con il programma strategico di Renzi dell’ideologia della disintermediazione. Non è vero – o non è ancora vero – che i social network possono sostituire le tante articolazioni sociali. Né è sufficiente, per la storia del Paese, confidare solo nella composizione delle posizioni dei partiti (anche perché, magari, si rischiano mediazioni pasticciate come sembra essere diventata quella sull’articolo 18). Certo, c’è molto da modernizzare anche nei cosiddetti corpi intermedi ed è tempo di ridurne il tasso di corporativismo in nome di un superiore interesse generale. Nè servono liturgie stantie o bizantinismi solo formali se non ci sono contenuti e significati veri. La società italiana è piena di incrostazioni, ma serve un lavoro di fino e paziente per pulire la chiglia, non la scorciatoia di gettare via tutta la barca.

I contenuti esistono e rimangono: la mediazione sociale dà trama e ordito forte alla democrazia partecipativa. E, come dimostra anche la storia del nostro Paese, dà la robustezza necessaria a quella tela per poter reggere anche i peggiori rovesci dell’economia. Perchè tutti, alla fine – come cittadini prima ancora che come capitalisti, imprenditori, lavoratori, professionisti, volontari – condividono l’obiettivo e remano nella stessa direzione. E a muoversi è l’intero Paese. Soprattutto è semplicistico pensare che il valore del consenso sociale sia una commodity, come lo è la musica da scaricare con i-Tunes o come lo è l’attività di trasporto urbano al centro della guerra tra Uber e i tassisti tradizionali. Né è pensabile che la mediazione del consenso sia spazzabile da una App digitale così come è stata spazzata l’epopea delle guide turistiche o quella delle agenzie di viaggio. Certo, oggi si comprano libri senza librerie, vestiti senza boutique, si ordinano cibi, si prenotano babysitter, dogsitter, badanti con un click. Ma non c’è ancora la democrazia on demand. Non ha funzionato (o ha funzionato in minima parte) l’idea – anni ’90 – che un candidato politico fosse “vendibile” come un detersivo; è stato utile introdurre elementi di marketing nella politica, non ridurla a politica-spettacolo.

E così, anche oggi, si rischia di confondere lo strumento con lo scopo. Saranno le rappresentanze, certo riformate, snellite, modernizzate, a usare i social network e le comunità digitali per gestire le loro posizioni di interesse. Alla politica governante spetta la composizione di quegli interessi, la mediazione di alto profilo organizzata sulla rotta del bisogno generale. Che non sempre è quello di un uomo solo al comando che tweetta a 60 milioni di follower. Soprattutto in un Paese che rischia di avere 60 milioni di interessi singoli, tutti diversi e tutti confliggenti. Anche perchè, se così fosse, basterebbe un flash mob innescato con uno dei tanti tweet da Palazzo Chigi: il giorno x spendiamo 50-60-100 euro tutti insieme, la domanda avrà un sussulto, il Pil pure. Può valere, forse, per il Paese virtuale, quello reale ha bisogno di altri stimoli a cominciare da una vera, radicale riforma fiscale.

Con il Tfr pagato immediatamente si tolgono ulteriori risorse ad aziende già salassate

Con il Tfr pagato immediatamente si tolgono ulteriori risorse ad aziende già salassate

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Probabilmente Adam Smith approverebbe l’idea di smobilizzare una parte del tfr, restituendolo in busta paga ai lavoratori cui compete. Si tratterebbe, infatti, di un fatto coerente con l’Illuminismo settecentesco e con la dottrina liberale che considera l’uomo (libero) degno di fiducia, molto più che lo Stato. Le osservazioni che si leggono in giro (l’accantonamento in vista di spese importanti a fine lavoro o il definitivo crollo della previdenza integrativa) rientrano nel pensiero dominante, che incrocia la dottrina sociale (soccorrevole) della Chiesa al credo comunista dello Stato «governatore» degli uomini, e non convincono. Ogni operazione messa in piedi sulla via della liberazione dell’individuo è eticamente superiore ed economicamente opportuna.

Tuttavia, «hic et nunc» (qui e ora), l’uso del tfr suggerisce una constatazione e apre un problema. La prima è che, viste le difficoltà di trovare quattrini nel bilancio dello Stato, è facile governare con i soldi degli altri. Il problema è che l’accantonamento del tfr è una risorsa aziendale, l’unica rimasta a causa di un erario dedito al saccheggio dei profitti generati da ciò che resta dell’economia privata. E questo non è un frutto di un destino avverso che ci perseguita da almeno vent’anni. È il frutto avvelenato (il maggiore protagonista Vincenzo Visco, inventore dell’Irap) della convinzione che il cittadino è un incapace incosciente, pericoloso evasore che occorre porre sotto stretto controllo (fiscale) in modo che non abbia i mai i quattrini per vivere la vita che preferisce. L’ideale, il massimo della felicità per i sadici che propugnano la posizione è il cittadino dipendente dello Stato, seguito e diretto dalla nascita alla morte. L’esempio più evidente l’Unione sovietica.

In Italia, gran parte del personale politico (quasi tutto d’accatto, nel senso che è composto da gente che non ha saputo affrontare ed esercitare una qualsiasi attività lavorativa), anche di centro-destra, visti i risultati, non s’è reso conto che il capitalismo ha vinto e governa il mondo. E che alle sue regole occorre adeguarsi. E non pare proprio che il nostro giovane presidente del consiglio sappia bene cos’è successo: basti il fatto che cita, nel suo Pantheon personale, gente come La Pira e don Milani che rappresentano la negazione della contemporaneità.

Quindi, ordinando alle imprese di erogare, in busta paga, una parte del tfr, si costringe il sistema produttivo a privarsi di risorse reali o di accantonamenti virtuali che non possono essere utilizzati senza «svaccare» conti economici, investimenti per ricerche, riserve fisiologiche. Certo, quest’operazione non è farina del sacco di Renzi, ma dovrebbe discendere dal suo «staff» di consulenti. Sarà bene che ci si pensi su in modo approfondito, tralasciando il contributo di organizzazioni virtuali come la Confindustria, per puntare sulle opinioni del mondo finanziario, a partire proprio da Mario Draghi, che, il «premier» ha difficoltà ad accettare come riferimento, visto il gap culturale e, in sostanza, politico.

Il semestre italiano di presidenza dell’Unione entra nella fase conclusiva senza fatti o iniziative degne d’essere ricordate, a parte la riunione dei ministri della cultura a Torino, promossa dal nostro Franceschini. Né per i prossimi mesi si vedono proposte degne di catalizzare l’attenzione dei nostri «partner». Non è però il momento della rassegnazione. È il momento di agitare le acque rilanciando una posizione italiana sulle sanzioni alla Russia, sui problemi energetici, sul «dumping» fiscale, sul programma di infrastrutture europee, immaginato negli anni 80 da Delors e mai attuato. Se la fiducia è una componente essenziale della guerra alla recessione, è il momento di sollecitarla, con decise iniziative in Europa, a Bruxelles, a Berlino e a Francoforte. E se il bottiglione (non fiasco) Renzi contiene vino buono, è il momento di versarlo.

Anticipazione Tfr: gli interessi passivi costerebbero alle PMI 876 milioni di euro l’anno

Anticipazione Tfr: gli interessi passivi costerebbero alle PMI 876 milioni di euro l’anno

NOTA

I 100 euro in più al mese in busta paga prospettati dal presidente del Consiglio Matteo Renzi rappresenterebbero per le piccole e medie imprese italiane l’erogazione ai loro dipendenti del 100% del Tfr, dal momento che nel 2013 lo stipendio mensile medio percepito nelle Pmi è stato di 1.327 euro (dati del Rapporto sui salari dell’Isrf Lab/Cgil).
Se deliberata, questa disposizione colpirebbe oltre 4 milioni di imprese italiane (quelle da 1 a 49 dipendenti), costando loro la cifra complessiva di 876 milioni di euro: in assenza di un’eventuale accordo tra Governo e Abi (la cui percorribilità è ancora tutta da dimostrare), a tanto ammonterebbe infatti il costo degli interessi passivi per l’anticipazione in banca delle risorse necessarie.
Come si arriva a questa cifra? L’assorbimento di capitale comporta un costo che corrisponde al prezzo del reperimento delle risorse finanziarie corrispondenti: tale è definito in finanza come “costo del capitale”, e viene espresso attraverso un tasso di rendimento annuo. I dati Banca d’Italia ci dicono che il tasso effettivo globale medio per il quarto trimestre 2014 per operazioni relative al finanziamento di capitale circolante è pari all’8.94% annuo. Questo significa che, se il sistema delle Pmi fosse costretto a recuperare risorse per 9,8 miliardi di euro (la cifra complessiva dei Tfr attualmente accantonati in queste aziende, dati Covip-Istat), le aziende finirebbero per sostenere oneri finanziari per appunto 876 milioni di euro su base annua.
Vi è inoltre da considerare il caso delle imprese che, per motivi diversi, possono ritrovarsi ad avere uno scoperto di conto corrente senza affidamento, ovvero senza l’autorizzazione della banca. In questi casi, decisamente più gravi, il costo del finanziamento sarebbe nettamente superiore. Non va infine dimenticato come l’anticipazione del Tfr in busta paga comporterebbe per le piccole e medie imprese un’ulteriore riduzione della loro capacità di accesso al credito per la gestione ordinaria e per nuovi investimenti.
«Un sistema già stremato dall’alta tassazione e molto spesso dal ritardo con cui la Pubblica Amministrazione paga i suoi debiti commerciali e fiscali – commenta il presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – si troverebbe a dover finanziare con proprie risorse la redistribuzione fiscale immaginata dal Governo. Per mettere più soldi nelle buste paga dei lavoratori c’è una sola soluzione: quella di ridurre sensibilmente il cuneo fiscale e contributivo, evitando di utilizzare le nostre piccole imprese come un bancomat».
Rassegna Stampa:
Il Giornale
Libero