carlo cottarelli

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Maurizio Belpietro – Libero

Ci sono voluti pochi giorni per capire chi avesse ragione tra Carlo Cottarelli e Matteo Renzi. Il dubbio che il commissario alla spending review avesse esagerato nel descrivere lo stato di salute dei conti pubblici è stato dissipato ieri da due notizie. La prima è la marcia indietro del governo sul prepensionamento di 4 mila insegnanti e sul tetto dell’età pensionabile per i primari, ossia sull’emendamento che proprio Cottarelli aveva dichiarato senza alcuna copertura, sostenendo che fosse stato finanziato con un generico quanto inesistente taglio di prossime spese.

La precedente settimana, quando il Parlamento aveva votato il provvedimento, il ministro della Pubblica amministrazione era stato zitto, lasciando intendere di essere favorevole alla misura. Ma poi, vista la denuncia del super commissario il quale ha di fatto dato le dimissioni beccandosi pure un poco gratificante saluto dal premier, ecco la retromarcia di Palazzo Chigi e di Marianna Madia. Segno evidente che le critiche erano fondate, altrimenti il presidente del Consiglio avrebbe tirato dritto. E allo stesso tempo prova concreta che la spending review è diventata la madre di tutte le spese, in quanto annunciando futuri tagli si dà via libera a costi immediati che prossimamente graveranno sullo stato di salute della contabilità nazionale e dunque sulle spalle dei contribuenti.

Tuttavia non c’è solo l’episodio di ieri a confermare che Cottarelli ha ragione e Renzi torto. E dunque che i tanto sospirati risparmi sulle uscite dello Stato sono solo sospirati ma non destinati a tradursi in realtà. L’altra notizia della giornata è che la sanità pugliese si prepara ad assumere 2.500 persone. Ad annunciarlo è stato il governatore della Regione che poi è pure il numero uno di Sinistra ecologia e libertà. Evidentemente, non contento di essere a capo di un sistema sanitario tra i più costosi d’Italia, tanto da dover approfittare della solidarietà del fondo sanitario da cui incassa 487 euro pro capite, Nichi Vendola vuole pure assumere. E poco importa che – come segnalava ieri il Sole 24 Ore – dal 2007 al 2013 il disavanzo della regione sia stato di 1 miliardo e 312 milioni, cioè uno dei più pesanti tra quelli registrati in Italia: il governatore prima di ritirarsi dalla politica preferisce fare un’altra infornata di medici e infermieri. Pazienza se questo si tradurrà in un aumento del ticket, che, sempre come segnalava il quotidiano confindustriale, sarà presto preso in esame con una revisione del contributo richiesto agli ammalati in base al reddito. Di questo passo altro che servizio sanitario nazionale, presto avremo il servizio sanitario fiscale, nel senso che per essere curati bisognerà presentare la dichiarazione dei redditi insieme con la carta di credito, mentre gli indigenti – e dunque la maggior parte degli immigrati – avranno cure gratis: tanto il ticket lo paga chi guadagna e versa le tasse.

È questo il fantastico mondo della spending review, che dopo le parole di Cottarelli è stata ribattezzata Spending di più. Del resto, l’operazione di rimettere in equilibrio i conti del welfare, facendo sparire il fondo sanitario che grava sulle regioni virtuose (Lombardia tra le prime) a favore di quelle che invece sono spendaccione, ha poche speranze di successo. La chiusura del rubinetto che ogni anno toglie alle Regioni meritevoli per dare a quelle che non meritano avrebbe dovuto avvenire nel 2013 e invece con i ritmi adottati da diversi governatori l’addio al sistema di finanziamenti a fondo perduto alle sanità colabrodo arriverà nel 2066. Sì, avete capito bene: fra cinquant’anni, parola della bibbia salmonata diretta da Roberto Napoletano. C’è da stupirsi dunque se in Italia continuano ad aumentare le tasse? Ovvio che no. La logica conclusione dei tagli alla spesa non fatti è il Fisco che diventa sempre più vorace.

E a proposito di imposte si segnala che è in dirittura d’arrivo un nuovo siluro: la riforma del catasto, ovvero la revisione degli estimi che venerdì scorso ha ricevuto il via libera dalla commissione Finanze del Senato. Sempre secondo il solito Sole 24 Ore in molte città si registreranno rincari d’imposta, in quanto tra i valori catastali attuali e quelli di mercato che si vorrebbero adottare c’è una differenza che in qualche caso sfiora il 300 per cento. Ma a rischiare di più a quanto pare non sono i proprietari di attici, ma chi possiede un’abitazione di categoria A3, cioè quelle considerate economico popolari. Essendosi queste case rivalutate di molto nel corso degli anni, l’Agenzia delle entrate si prepara a battere cassa. E ovviamente con i soliti metodi molto gentili, dato che nonostante il cambio al vertice nulla è cambiato. Insomma, Cottarelli ha ragione. Governo, Parlamento e Regioni spendono senza tagliare e ai soliti noti tocca pagare. Ma almeno ora è chiaro chi devono ringraziare.

Contarelli

Contarelli

Davide Giacalone – Libero

I soldi non ancora risparmiati sono stati già impegnati e spesi. Lo sapevamo e lo scrivevamo prima che lo ricordasse il commissario alla revisione della spesa, Carlo Cottarelli. I soldi per onorare le promesse già fatte non ci sono. In autunno servirà una correzione dei conti per un minimo di 15 o 20 miliardi, ma che nessuno osi chiamarla manovra o stangata. Chiamiamola rottamazione delle assicurazioni date, così si continua il viaggio verso l’avvenire. Tutto questo è il meno, anche perché scontato, mi preoccupano ancora di più i soldi che non sono ancora stati incassati, derivanti dall’equivoco capitolo delle “privatizzazioni”. Come si pensa di utilizzarli? Perché se andranno a equilibrare le partite correnti, a finanziare la spesa, anziché ad abbattere il debito, avremo assicurato la rovina d’Italia. Quella che dovrebbe essere un’arma vincente rischiamo di puntarcela alla tempia, inebetiti dal suo fugace effetto stupefacente.

Nel novembre dell’anno scorso scrivevamo che se il lavoro di Cottarelli fosse andato a buon fine (e ce lo auguravamo), avrebbe inevitabilmente comportato scelte politiche. Al tecnico si chiede la conoscenza, al politico spetta la decisione. Quello di cui finge d’accorgersi Matteo Renzi, quindi, ci era chiaro e lo chiarivamo fin dall’inizio. Scegliere significa discernere fra interessi contrapposti e rompere con le costose e improduttive retoriche in voga. Fin qui, invece, i tagli alla spesa pubblica si sono applicati seguendo due scuole: a. i tagli lineari (il copyright è di Gordon Brown), ciechi e deprecati, ma funzionanti; b. i risparmi dovuti a maggiore efficienza. Nessuno dei due approcci sfiora il problema italiano: troppa spesa, per troppe cose, cui si aggiungono mostruosi interessi sul debito. Noi non dobbiamo (solo) risparmiare, dobbiamo sopprimere funzioni pubbliche disfunzionali. Invece si pensa di rendere pubbliche e rette da spesa pubblica anche le banche del seme. Che la sinistra insegua lo statalismo, cullante e sepolcrale, è frutto di una cultura. Sbagliata. Che faccia lo stesso la destra è frutto di vuoto culturale.

Per questo mi fanno paura quelle privatizzazioni che, per altro verso, auspico. Già è capitato: noi chiediamo vendite e ci ritroviamo con svendite; noi chiediamo più mercato e ci ritroviamo con più mercanti. Se si vendono altre azioni Eni, o una quota della società delle reti, se si punta alla quotazione di Poste o di RaiWay, e così via, dove finiscono i proventi e che si fa del resto? Perché quella roba è patrimonio pubblico, pagato dai contribuenti, ed è bene che sia ben valorizzata e, se venduta, che il ricavo vada massicciamente ad abbattere il debito pubblico, che grava sui contribuenti. Semmai una parte agli investimenti. Neanche un centesimo alla spesa corrente. Ma se, giusto per retare a un esempio, la Rai pensa di usare l’incasso per finanziare un baraccone che andrebbe sbaraccato e venduto nel suo insieme, allora occhio, perché si prepara una gigantesca opera di depredazione e dilapidazione. Al termine della quale saremo più poveri e più indebitati, salvo avere goduto una breve parentesi d’equilibrio nei conti pubblici.

Per evitare che tutti i conti finiscano in contarelli, per evitare che ci si accorga dell’ovvio con mesi e anni di ritardo, direi che non si vende nulla se prima non sono disponibili: 1. il piano generale delle dismissioni; 2. il metodo che si intende seguire (pezzo a pezzo, società di partecipazioni, mandato unico a vendere, etc.); 3. l’impegno non derogabile su come usare i soldi incassati. Si aggiunga che vendere non deve servire solo a far cassa, ma anche mercato. Attirando capitali per investire nella creazione di ricchezza. Da questo punto di vista il decreto “competitività”, che modifica il diritto societario e trasforma la capacità di voto delle azioni, per le società quotate, introducendo il “voto plurimo”, serve a blindare gli assetti esistenti, quindi va in direzione opposta. Con quel meccanismo dall’estero investiranno solo in rendite, portandoci via ricchezza, ma non lo faranno in produzione. E’ un tema tecnico e noioso, ma se chi mette soldi non conta per quanti soldi ci mette semplicemente li mette altrove.

Comprare il consenso elettorale con la spesa pubblica è costume deprecabile e non nuovo. Comprare l’omertà sulle reali condizioni dei conti pubblici e sulle conseguenze del loro mancato risanamento, usando soldi derivanti da patrimonio per occultarle, è costume altrettanto immondo. E disperato. Una grossa parte degli italiani amano essere ingannati, sperando che nulla cambi. Ma a pagare il conto è solo l’altra parte, quella che ancora ci consente d’essere la seconda potenza industriale d’Europa. Sono italiani in minoranza e in crescente difficoltà. Fregarli ancora significa suicidare la nostra sovranità economica. Dopo di che quella politica sarà solo la pacchiana rappresentazione di un Parlamento combattente e irrilevante.

Le ragioni (rivelate) di un licenziamento: Cottarelli non risulta legato alle lobby ma è preparato e autorevole. Forse troppo

Le ragioni (rivelate) di un licenziamento: Cottarelli non risulta legato alle lobby ma è preparato e autorevole. Forse troppo

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Carlo Cottarelli possiede tre caratteristiche apprezzabili in qualunque Paese impegnato a tirarsi fuori dai guai di una spesa pubblica non soltanto abnorme ma anche per molti aspetti insensata. Ha autorevolezza, che gli deriva dall’essere stato uno dei massimi dirigenti del Fondo monetario internazionale. Ha esperienza, grazie a più di un quarto di secolo trascorso a fare i conti con i conti. Ha soprattutto indipendenza: di tornare da Washington per dare una mano al Paese non gliel’ha ordinato il dottore e non risulta che sia legato a un partito, un singolo politico, una cordata o una lobby. Per giunta, è anche pensionato con un assegno più che dignitoso. E non vorremmo che fosse proprio questa sua terza caratteristica la causa dell’isolamento da lui sperimentato negli ultimi mesi. Progressivo e inesorabile al punto da fargli maturare la decisione estrema, quella di lasciare l’incarico.

È possibile che fra il commissario della spending review, nominato da Enrico Letta, e il premier Matteo Renzi non sia scoppiata la scintilla. Forse i due si stanno semplicemente antipatici. Non stupirebbe. Nelle vicende degli uomini la componente, appunto, umana è sempre fondamentale. Ma guai se quello che è successo fosse il segnale che in un compito delicato quale quello affidato a Cottarelli l’indipendenza rappresenta un handicap anziché una qualità. A un medico che deve fare una diagnosi accurata per una persona che presenta sintomi gravi non si chiede (fortunatamente) per chi vota, se è seguace di una particolare fede religiosa o preferisce il cibo vegetariano. Da lui tutto ci si aspetta, tranne che si mostri pietoso: deve soltanto scoprire la malattia e indicare il modo migliore per curarla. Ecco, il commissario alla spending review non è altro che questo: lo specialista incaricato di individuare gli sprechi, le inefficienze e anche le iniquità della spesa pubblica. Come un medico bravo e responsabile, senza farsi impietosire. E lo è tanto più in una situazione come quella italiana, dove le assurdità di una spesa cresciuta a ritmi frenetici a partire dal 2001, in concomitanza con l’approvazione del nuovo Titolo V della Costituzione che ha fatto esplodere le uscite regionali senza frenare quelle dello Stato centrale, rimanda a precise responsabilità della politica e dei partiti. Che dunque non sarebbero assolutamente credibili nell’indicare come, dove e quando tagliare.

L’indipendenza è quindi un elemento fondamentale, se dalla spending review ci aspettiamo risultati concreti e non soltanto pirotecnici. Perché mette al riparo da condizionamenti esterni che obbediscono a logiche spesso refrattarie a misure dolorose quanto necessarie. Non è un caso che il primo ad avviare nel nostro Paese la revisione della spesa sia stato, da ministro dell’Economia, l’ex direttore generale della Banca d’Italia Tommaso Padoa-Schioppa. Il quale, pur essendo una figura di primo piano nel secondo breve governo di Romano Prodi, non ha mai voluto rinunciare alla propria indipendenza: rifiutando per esempio la candidatura e un seggio sicuro alle elezioni politiche del 2008. La stessa scelta che aveva fatto dodici anni prima, guarda caso, l’ex governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Allo stesso modo non è un caso che il predecessore di Letta a Palazzo Chigi, l’ex rettore dell’Università Bocconi Mario Monti, avesse scelto per il ruolo successivamente ricoperto da Cottarelli un personaggio de calibro di Piero Giarda. Del quale certo non si può dire che fosse legato a qualche carro o carretto.

Al di là dell’esito della vicenda Cottarelli non è una questione che Renzi possa prendere alla leggera. Magari affidandosi a surrogati del commissario più fedeli e sensibili alle esigenze politiche. Per l’anno prossimo si prevede che la revisione della spesa contribuisca alle coperture con la cifra monstre di 17 miliardi di euro. D’obbligo ricordare che al 2015 mancano appena cinque mesi. E per come si sono messe le cose questa faccenda, già non facile, si presenta seria. Ameno che non ci sia un altro disegno, nel quale la spending review non ha più un posto, oppure è una cosa diversa. Ma in questo caso sarebbe doveroso saperlo. In fretta.

Per risparmiare non serve il commissario

Per risparmiare non serve il commissario

Francesco Forte – Il Giornale

Le dimissioni annunciate di Carlo Cottarelli e pubblicizzate da autorevoli quotidiani non credo creeranno grandi problemi a Renzi. Il compito affidato al commissario era estraneo al suo curriculum di esperto di alto livello di Economia monetaria. Il governo Letta aveva inventato questo incarico privo di precedenti per dilazionare la riduzione selettiva delle spese. Non era in grado di farla perché non voleva toccare le oltre 8mila tra aziende ed enti pubblici in buona parte in perdita o senza utili, in cui i sindacato contano moltissimo, anche perché portano voti per vincere le elezioni. Il governo letta non aveva chiamato a questo compito inedito, che spetterebbe ai ministeri, né un esperto di bilanci e di spese dello Stato, come alla Corte dei Conti, né un economista che avesse vissuto in Italia almeno negli ultimi dieci anni bensì Carlo Cottarelli, che aveva lasciato Bankitalia nel 1988 dopo 10 mesi all’Eni. È di alta caratura ma in un campo diverso, ed è prossimo alla pensione al Fmi. E gli poteva far piacere tornare in Italia. La tesi allora corrente era che non bisognava fare i “tagli lineari” delle spese o degli esoneri fiscali regalati a gruppi di interesse influenti ma uno sfoltimento selettivo di spese chiamata spending review, non “rassegna delle spese” perché il latino è stato sostituito dall’inglese quando si vuole incantare il pubblico.

Cottarelli, a quanto risulta, non ha proposto tagli selettivi negli 8mila enti e imprese. Si è focalizzato su sanità e pensioni, suggerendo per la sanità dei tagli mentre si tratta di adottare i costi standard, procedura che richiede tempo e compete agli specialisti del settore. Per le pensioni ha avuto l’idea di modificare la legge vigente, toccando a quanto pare le pensioni già maturate, il che è contrario ai princìpi dello Stato di diritto. La questione degli “esodati”, invece, sarebbe suscettibile di una analisi selettiva, per accertare quanti contratti di pensionamento anticipato andrebbero annullati perché fatti mente la nuova legge Fornero sulle pensioni veniva approvata e si voleva creare un artificioso diritto a una deroga. Anche le pensioni di invalidità ed altri benefici previdenziali sono suscettibili di “analisi delle spese”. E così pure gli investimenti pubblici in edifici che i governi possono acquistare in leasing con le spese correnti e quelli per cui si potrebbe fare un contratto misto pubblico-privato. La spesa di investimento finanziata dal governo può essere eliminata quotando in Borsa l’impresa pubblica.

Se Cottarelli ha dei dossier sul taglio delle spese oltre a quelle di 7 miliardi giù presentate al governo è bene che lo faccia sapere prima. È agli italiani e agli organi democratici che deve spiegare le sue dimissioni, non è una questione riservata su cui si possa mettere il segreto di Stato. Per ridurre le spese senza bisogno di un alto commissario, il governo può riprendere la spending review del professor Giavazzi, rimasta nel cassetto perché non gradita al Pd e al capitalismo assistito. E può chiedere il sostegno del centrodestra alla riduzione spese su cui Cottarelli dice che c’è un veto della maggioranza attuale. Una riforma del mercato del lavoro fatta dando piena validità dei contratti aziendali e col ritorno alla legge Biagi consentirebbe più crescita, quindi più gettiti con minori tasse.

Tagli, dare più potere al commissario

Tagli, dare più potere al commissario

Franco Bruni – La Stampa

Il governo Renzi ha avuto finora molto appoggio dall’opinione pubblica. Ma ha almeno due debolezze, in parte nascoste da due corrispondenti forze. Nascosta dal gran successo alle europee è la prima debolezza: un supporto parlamentare ancora fragile. Nascosta dal chiaro impeto strategico del suo presidente è la seconda debolezza. L’insufficiente precisione tecnica, la fretta con cui sorvola sui dettagli dei disegni e delle procedure di riforma del Paese, soprattutto dell’economia. Il caso Cottarelli sembra all’incrocio fra le due debolezze: da un lato i tagli del commissario sono boicottati e sprecati da un Parlamento che offre ancora coperture alle lobby, dall’altro il suo lavoro soffre delle carenze, tecniche e procedurali, con cui ne sono stati decisi il mandato, i poteri, i supporti tecnici, e con cui viene curato il suo collegamento con le decisioni politiche. Un commissario alla revisione della spesa non è indispensabile: ma se c’è deve poter lavorare con efficacia.

Cominciamo dai problemi politici. In Italia gli sprechi della spesa pubblica sono talmente grandi che in parte si possono eliminare alla svelta anche senza progetti di riorganizzazione ben definiti. Quando si buttano i soldi dalle finestre basta chiudere le finestre. Occorre però almeno la forza politica per farlo: disboscare le imprese pubbliche e gli enti locali non è tecnicamente difficile, basta che, diversamente a quel che succede ai suggerimenti di Cottarelli, ci sia una maggioranza pronta a vincere le resistenze del bosco. Il terreno politico-burocratico-parlamentare non è pronto a digerire quella rivoluzione dell’economia che Renzi continua giustamente a promettere incontrando il favore dell’elettorato. Lo mostra la grossolanità con cui i risparmi individuati dal commissario vengono destinati alla spesa prima di essere realizzati, usando, oltretutto, la clausola di salvaguardia che dispone, qualora i risparmi non avvenissero, di procurarsi le risorse proprio con quei tagli lineari per evitare i quali è stato chiamato un commissario. Lo mostrano i passi indietro fatti dal Parlamento sulle pensioni, con gravi e costose deroghe alla riforma Fornero. C’è disordine, troppo: il fatto che sia colpa del Parlamento o anche del governo non cambia molto. Renzi non è sul pezzo, in altre importantissime faccende affaccendato, ha chiarito la sua strategia economica ma non pare in grado di presidiare la disciplina delle singole cose che servono per evitare che si cammini all’incontrario.

Veniamo ora ai problemi tecnico-procedurali. C’è una parte dell’eccesso di spesa pubblica che non si elimina tagliando sprechi clamorosi ma dettagliando bene certe riforme strutturali: sanità, scuola, lavoro, enti locali, ecc.. Il risparmio di spesa è parte della riforma. La quale comprende spesso anche la decisione circa l’impiego dei risparmi che consente. Perché è inutile insistere sul fatto che in Italia la spesa pubblica è eccessiva, senza riconoscere che, soprattutto sul fronte investimenti, ci sono tanti capitoli in cui la spesa è troppo scarsa. La giusta riduzione complessiva della spesa non basta per ridurre le tasse più dannose per la crescita. Per abbassare quelle tasse, come quelle sul lavoro, bisogna alzarne altre, riformare cioè l’insieme della tassazione e, soprattutto, ridurre drasticamente l’evasione. Perciò il lavoro di Cottarelli dovrebbe essere strettamente collegato al disegno e all’attuazione di piani di riforma generale dell’economia, pubblica e privata. Ciò richiede, in primo luogo, che i poteri e gli strumenti del commissario siano rafforzati e meglio definiti. È istruttivo il caso del commissario anticorruzione all’Expo: anche Cantone ha dovuto lamentarsi per evitare di essere scagliato allo sbaraglio senza chiarezza nel mandato e nei poteri. In secondo luogo serve che i piani di riforma generale dell’economia esistano davvero e siano tempificati e cifrati credibilmente, nelle spese, nelle entrate e nei risparmi che comportano. Il commissario alla revisione della spesa può anche contribuire ad accelerare la preparazione di questi piani: come semplice tagliatore di sprechi è sprecato.

Per far buone riforme occorre competenza tecnica, precisione e consapevolezza dell’importanza dei dettagli, abitudine non a improvvisare ma a elaborare e controllare procedure e regole da applicare con regolarità. Sono caratteristiche che non mancano a Carlo Cottarelli. E nemmeno gli manca la convinzione politica che deve firmare le scelte tecniche. Renzi ha ragione quando insiste che la politica e le sue scelte devono essere in prima fila. Ma sbaglia se presenta la scelta politica come un obiettivo privo di dettaglio tecnico, se esagera nel tenere politica e tecnica separate, se si circonda di tecnici ai quali non riconosce l’influenza politica che meritano. Cottarelli ha commissionato a gruppi di esperti diversi rapporti su singoli capitoli della revisione della spesa; non ha avuto l’autorizzazione a diffonderli: una mancata trasparenza che è anche mancanza di rispetto per chi ha lavorato, oltre che con competenza, con passione civile e convinzione politica.

È augurabile che Carlo Cottarelli rimanga e, soprattutto, che la revisione della spesa sia inserita con chiare responsabilità nell’apparato tecnico-politico dedito all’approntamento e all’avvio, concreto e ben contabilizzato, di un piano organico e pluriennale di riforme economiche che è l’unica cosa che l’Europa ci chiede per poter guardare al nostro debito pubblico con minor preoccupazione.

Chi ha svuotato la spending review

Chi ha svuotato la spending review

Tito Boeri – La Repubblica

In un Paese ad alto debito pubblico come il nostro, ogni realistico e sostenibile piano di riduzione delle tasse richiede di essere sostenuto da tagli della spesa pubblica di almeno pari importo. Se si vogliono ridurre le tasse di 30 miliardi, occorre tagliare la spesa di 30 miliardi. Bisogna anche tagliare bene, senza pregiudicare entrate future e senza limitarsi a spostare spese da un esercizio all’altro. È un’operazione politicamente costosa, piena di insidie, ma non ci sono altre strade percorribili. Nessuno sin qui vi è riuscito. Nonostante tanti proclami, la spesa corrente primaria continua a crescere, non solo in rapporto al Pil ma anche in cifre assolute: si avvicina sempre più, inesorabilmente, alla soglia dei 700 miliardi. Il compito affidato a Carlo Cottarelli, la cosiddetta spending review, è perciò in questo momento la priorità numero uno per l’azione politica economica di qualunque governo che voglia rilanciare l’economia italiana, un obiettivo non secondario in un Paese che manifesta a tutti i livelli crescenti segnali di un declino apparentemente inarrestabile. I precedenti di analoghe spending review condotte in Paesi con una struttura decisionale più decentrata della nostra (si pensi al Canada, ma anche alla Spagna che ha già attuato un terzo del suo programma) sono incoraggianti.

Il bonus di 80 euro introdotto nelle buste paga da maggio doveva servire a creare una constituency a favore della spending review, mostrando a tutti quali possano essere i suoi frutti: più si taglia, maggiori le riduzioni delle tasse, che non devono a loro volta essere sostituite da altre tasse. Così non è stato. Il Parlamento, complici ministri distratti o incompetenti e nonostante il parere contrario della Ragioneria dello Stato, ha ben quattro volte aumentato le spese invocando come coperture i risparmi futuri associati alla rassegna della spesa. Lo ha fatto con la Legge di Stabilità per il 2014, il decreto fiscale di gennaio, il decreto legge sulla Pa e, dulcis in fundo, la controriforma delle pensioni passata con il voto di fiducia della Camera l’altro ieri. In altre parole, la spending review è stata svuotata prima ancora che potesse cominciare a dare qualche frutto. I primi tagli serviranno a coprire altre spese anziché a ridurre le tasse. Siamo pienamente nel solco di governi che si limitano a cambiare marginalmente la composizione della spesa senza riuscire a ridurla e che modificano la denominazione delle tasse senza ridurre la pressione fiscale, magari aumentandola.

Vogliamo credere che Renzi capisca la centralità della spending review, sia consapevole dell’opportunità unica che gli è stata concessa dall’investitura popolare col voto alle europee e che, al di là di quelle che saranno le scelte personali di Carlo Cottarelli, voglia imparare dagli errori compiuti. In un Paese senza memoria storica è bene ricordare che ci sono stati, dal 2006 in poi, ben tre tentativi di passare in rassegna la spesa pubblica cercando di ridurla, migliorandone l’efficacia e l’efficienza. La spending review era stata il cavallo di battaglia del ministro Padoa-Schioppa, che l’affidò alla Commissione tecnica per la spesa pubblica (Ctfp) attiva presso il ministero dell’Economia e delle Finanze tra l’aprile 2007 e il maggio 2008. Purtroppo al cambiamento di governo, il lavoro della Commissione fu bloccato. Rimase solo un voluminoso rapporto, che dopo ripetute pressioni su queste colonne il ministro Tremonti si decise a rendere pubblico. Il secondo tentativo è stato compiuto con il governo Monti con l’affidamento a Enrico Bondi del ruolo di commissario alla spending review. C’è stato in quella stagione anche un provvedimento di legge, il d.l. n. 95 del 6 luglio 2012, che ha ereditato il nome di spending review. Ma si tratta, in realtà, di un provvedimento che ripropone la tecnica dei tagli lineari, dunque non ha nulla a che vedere con una rassegna della spesa che porti a tagli selettivi, incentrati sulle aree di spreco e inefficienza. Il terzo tentativo è quello tuttora in atto con la nomina di Cottarelli a commissario alla spending review da parte del governo Letta e la sua riconferma da parte dell’attuale presidente del Consiglio. Cottarelli, al contrario di Bondi, ha passato al setaccio in nove mesi tutta la spesa corrente primaria, sviluppando proposte su tutto. Un grande passo in avanti che rischia però, come si è detto, di essere svuotato del suo significato, mentre non possiamo più permetterci battute d’arresto.

Il tratto comune di tutti questi tentativi è stata l’idea che si possa affidare un’impresa titanica come la spending review a un uomo solo al comando, a un tecnico per quanto di grande valore o anche a un gruppo di tecnici, senza un forte supporto politico. Questo supporto è fondamentale non solo per vincere le resistenze delle amministrazioni coinvolte e delle lobby locali, ma anche perché solo una parte delle misure contemplate dalla rassegna della spesa è di carattere amministrativo. Molti interventi, quelli che fruttano i miliardi anziché i milioni di risparmi, richiedono misure legislative e alcuni anche modifiche costituzionali, come la revisione del Titolo V per riguadagnare controllo delle spese folli di alcune Regioni. E non si può lasciare fuori nulla, tanto meno comparti come pensioni e sanità, fortemente presidiati da rappresentanze di interesse, che contano per il 40 per cento della spesa complessiva. È un’operazione che richiede anche il coinvolgimento pieno della Ragioneria generale dello Stato e un sistema di incentivi e disincentivi per le amministrazioni decentrate, che penalizzi i dirigenti che non cooperano nell’operazione di contenimento della spesa.

Se oggi Renzi vuole essere preso sul serio quando dice di voler tagliare le tasse, andando ben oltre il finanziamento in modo strutturale degli 80 euro, bene che si assuma in prima persona, a tutti gli effetti, la responsabilità di condurre in porto la spending review. È il compito principale di un primo ministro in un Paese indebitato come il nostro. Deve essere lui a risponderne davanti al paese, non un commissario. Non ci interessa leggere i documenti tecnici dei tavoli di lavoro. Ci interessa leggere i provvedimenti che il governo adotterà sulla base di questi materiali. Il vuoto di democrazia è nelle leggi annunciate senza che ci sia un testo, non nei documenti dei tavoli non resi pubblici.

I tecnici servono e vanno scelti i migliori, come Cottarelli, ma solo l’impegno diretto del presidente del Consiglio e quello collegiale dell’esecutivo nel suo complesso può impedire che l’operazione fallisca come in passato. La rassegna della spesa è un’operazione politica, che comporta scelte difficili e dolorose, anche tagli delle retribuzioni nominali, come quelli decisi in Spagna per i professori universitari. Queste scelte competono solo a chi ha ricevuto la fiducia degli elettori.

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Senza tagli alla spesa, o in presenza di un drastico ridimensionamento, la prossima legge di stabilità perderebbe la sua principale fonte di finanziamento, rendendo di fatto impossibile onorare tutti gli impegni in lista di attesa. Si va dalla stabilizzazione del bonus Irpef, ai nuovi capitoli di spesa che sarà necessario affrontare (dal costo delle missioni internazionali al finanziamento di altre spese inderogabili), per finire con gli impegni già contenuti nella legislazione vigente. Dulcis in fundo, la necessità di garantire – come chiede Bruxelles – che il deficit strutturale venga ridotto già dal 2015 in modo da garantire il rispetto dell’obiettivo di medio termine, in sostanza il pareggio di bilancio. La somma dei diversi addendi fa salire l’importo complessivo della manovra d’autunno nei dintorni dei 20 miliardi. E sono almeno 14 miliardi i tagli strutturali alla spesa corrente da realizzare tutti con la prossima legge di stabilità, che salgono a 17 miliardi se si aggiungono gli impegni finanziari già assunti dal governo Letta, quando ancora devono essere realizzati i tagli da 2,6 miliardi inseriti sotto forma di copertura di parte del bonus Irpef per l’anno in corso. La mission che attende il Governo è questa, e la partita si annuncia a dir poco complessa, ora che i dissensi tra il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, Palazzo Chigi e parte del Parlamento sono emersi in tutta la loro evidenza.

Impensabile realizzare interventi di tale portata senza l’apporto decisivo dell’azione complessiva di razionalizzazione della spesa pubblica, che comunque dovrà garantire risparmi strutturali e a regime per non meno di 32 miliardi. Il punto di rottura e il vero banco di prova per la tenuta del governo è proprio qui, su questo terreno, perché va a investire frontalmente scelte politiche (non certo indolori, anche sul fronte del taglio delle agevolazioni fiscali), da adottare e difendere in Parlamento, quando in autunno Camera e Senato saranno chiamate ad approvare un così consistente piano di revisione dei meccanismi stessi che presiedono alla formazione della spesa. Il ruolo di Cottarelli, o di chi sarà chiamato a sostituirlo, è tutt’altro che secondario, e non si limita a un semplice esercizio ricognitivo.

Si tratta – ed è quello che lo stesso Cottarelli si accingeva a fare – di indicare con precisione dove e come far scattare il bisturi dei tagli selettivi. Così da creare di conseguenza gli spazi finanziari per ridurre le tasse sul lavoro. Ma se si esclude – per evidenti ragioni politiche e di consenso – di intervenire in settori nodali come la sanità (materia di intese bilateraili tra governo e Regioni all’interno del Patto della salute), la previdenza (argomento ad alta valenza politico-elettorale), se il disboscamento delle municipalizzate si riduce a una semplice azione di “manutenzione”, dove intervenire? Possibile ipotizzare che si agisca in via esclusiva sul fronte degli acquisti di beni e servizi, settore in cui magna pars è costituita proprio dalle spese sanitarie? Possibile intervenire senza riaprire il dossier dei costi e fabbisogni standard? Se poi – come ha denunciato lo stesso Cottarelli – si prenotano ex ante risparmi ancora da realizzare per finanziare nuova spesa corrente (la cosiddetta «quota 96» per 4mila insegnanti), il vero rischio è che la stessa mission della spending review venga vanificata, aprendo di fatto la strada alla vecchia, abusata prassi dei tagli lineari. Ecco perché il vero nodo è tutto politico, e non sarà agevole districarlo. Sono interrogativi che andranno sciolti in fretta, la cui soluzione va oltre la «questione personale» che sta dietro il caso Cottarelli, come definita ieri dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. L’impegno – fa sapere Delrio – è a continuare sulla spending review «senza nessun problema. È un obiettivo del governo e non dipende dalle persone che la conducono». E il premier Matteo Renzi aggiunge: la spending si farà anche senza Cottarelli.

Il punto è che dal lato del deficit non vi sono margini. In attesa che l’Istat renda noti, il prossimo 6 agosto, i dati relativi al Pil del secondo semestre, al ministero dell’Economia si stanno già facendo i conti con una previsione di crescita che – se andrà bene – risulterà almeno dimezzata rispetto alle stime del Def di aprile (0,8%). Ne consegue che il deficit nominale scivolerà di fatto verso il limite massimo del 3%, contro il 2,6% previsto in primavera. Ogni ulteriore sforamento imporrebbe il ricorso a una manovra correttiva dei saldi di finanza pubblica, che a ottobre con ogni probabilità dovrebbe concretizzarsi in aumenti d’imposta. Ipotesi da scongiurare, per non aggravare ulteriormente gli andamenti attuali dell’economia reale. Scenari che impongono massima vigilanza e determinazione, anche nel caso in cui possa venire in soccorso una minore spesa per interessi grazie al calo dello spread.

Meglio tardi che mai. Non è Cottarelli ad aver sbagliato, è fallimentare l’idea stessa di un commissario alla spesa pubblica

Meglio tardi che mai. Non è Cottarelli ad aver sbagliato, è fallimentare l’idea stessa di un commissario alla spesa pubblica

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non ne sentiremo la mancanza. Se è vero che “mister spending review”, alias Carlo Cottarelli, lascerà l’incarico per riapprodare al Fondo monetario, da dove proveniva prima che qualcuno avesse la fessa idea di chiamarlo a sforbiciare la nostra spesa pubblica, inefficiente prima ancora che eccessiva, trattasi di una buona notizia. Anzi, potrei dire meglio tardi che mai, visto che a marzo in questo stesso spazio scrissi una sorta di lettera aperta a Renzi suggerendogli di “rottamare” il commissario alla revisione della spesa come primo costo da tagliare. Ma non per Cottarelli, che non conosco personalmente e nei confronti del quale non ho alcuna riserva tranne quella derivante dal fatto che a suo tempo avesse accettato un siffatto incarico. Anche perché non fu Renzi ad aver avuto la cervellotica pensata di nominare un commissario che con un lanternino si mettesse a cercare eccessi di spesa e di sprechi – sia chiaro, non per i 258mila euro del suo emolumento, che queste sono le miserie populiste cui si attaccano coloro che non hanno idee in zucca – e dunque decidere che a dover essere rottamato non è Carlo Cottarelli ma la figura stessa del commissario non rappresenterebbe per il presidente del Consiglio alcuna forma di autocritica (pratica cui non sembra avvezzo).

Il vero problema, infatti, sta nell’aver immaginato che il governo potesse delegare il compito di ridurre e riqualificare la spesa pubblica – perché di entrambe le cose c’è bisogno, in Italia – a un soggetto privo di rappresentanza e responsabilità politica. E non solo perché ciò denuncia la tendenza della politica a sfuggire ai propri obblighi, cosa che contribuisce in modo devastante al processo di delegittimazione delle istituzioni già in atto, ma anche e soprattutto perché non è così che si ottengono i risultati che si dice di voler perseguire. La spesa pubblica è stata per decenni ed è tuttora il perno intorno a cui ha ruotato buona parte dell’economia italiana e su cui si è retto l’equilibrio sociale del Paese. Ora, renzianamente parlando, il sistema va “rivoluzionato”, e ciò si ottiene solo con le riforme strutturali, non con la ricerca dello spreco qui e della corruzione là, importante nella comunicazione politica ma del tutto secondaria nella realtà macro dei fatti. La rivoluzione non si fa tagliando il numero di auto blu e mettendone qualcuna all’asta. Tantomeno si realizza con i tali lineari, che incidono carne morta e viva allo stesso modo. Anzi, l’obiettivo primario non è neppure la riduzione della spesa bensì le riforme di sistema. Nel senso che quei 7-8 punti di spesa sul Pil di cui dovremmo liberarci diventano conseguenza delle riforme stesse. Le quali non possono che essere concepite e realizzate da governo e Parlamento. Anche perché altrimenti si finisce con scrivere manovre di bilancio che prevedono riduzioni di spesa immaginarie. Come i 14 miliardi ipotizzati per il 2015, di cui non si vede neppure l’ombra.

Prendiamo la previdenza, che nella classifica della spesa è al primo posto. Non va bene che eventuali tagli alle pensioni siano immaginati per ridurre la spesa corrente in modo da far rientrare nei pagamenti il deficit, perché l’equilibrio della spesa previdenziale deve essere calcolato nel lungo periodo. Né tantomeno ha senso che interventi, anche piccoli e una tantum, siano oggetto di spending review – come quelli indicati nello stesso studio presentato da Cottarelli al governo – perché non possono e non devono essere concepiti al di fuori delle sedi istituzionali proprie.

Altro esempio: la sanità, che è al secondo posto in classifica. Ora il commissario può anche scoprire che il posto letto o la siringa in Calabria costano molto di più che in Lombardia, ma la questione va affrontata alla radice a monte. Ha senso che esistano venti sanità diverse? Ha funzionato il passaggio delle competenze alle Regioni, visto che ben sei sono commissariate e almeno altrettante dovrebbero esserlo? No. E allora si faccia la (contro)riforma del Titolo V avendo il coraggio di riportare in capo allo Stato centrale una spesa regionalizzata che in molti casi è del tutto fuori controllo. E già che ci siamo, semplifichiamo un decentramento amministrativo elefantiaco che produce burocrazia e corruzione. L’obiettivo è ridare efficienza alla macchina amministrativa e ripensare il fallimentare Sistema sanitario. Ma vedrete che, come conseguenza, avremm anche un risparmio di spesa, a regime, di almeno 100-120 miliardi. Un lavoro che non può essere affidato ad alcun commissario, neppure fosse il miglior tagliatore di costi del mondo e per di più lavorasse gratis.

Dunque, Renzi approfitti dell’addio di Cottarelli per cambiare strada. Anche perché, se non gli riuscirà di andare a elezioni in autunno – cosa difficile, anche se i maghi del filibustering ce la stanno mettendo tutta per dargli una mano – gli toccherà fare una manovra correttiva prima di fine anno che non potrà certo essere fatta di maggiori entrate fiscali da lotta all’evasione e minori spese da spending review. Non se le beve più nessuno.

Se il lavoro esclude gli «azionisti del futuro»

Se il lavoro esclude gli «azionisti del futuro»

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Chi il Jobs act lo ha fatto sul serio oggi confida in una crescita del Pil del 4 per cento. L’Italia del Jobs act per ora solo “parlato” fa i conti con i dati in chiaroscuro del mercato del lavoro. E supera di un punto il tasso medio di disoccupazione europeo (siamo al 12,3%) mentre la Germania si ferma al 5%, livello, come avrebbe detto Paolo Sylos Labini, «fisiologico» o addirittura frizionale.

Forse si è fermata l’emorragia di posti di lavoro, ma non c’è ancora una netta inversione di tendenza. Sono una goccia quei 50mila nuovi occupati registrati a giugno a fronte dei 31mila giovani in più che, invece, hanno perso il posto. E, in termini qualitativi, segnala un Paese non ancora in grado di dare risposte agli “azionisti del suo futuro”, i giovani appunto. Né vale la controdeduzione secondo cui il dato può essere in qualche modo “positivo” perché aumenta il numero di persone che si affacciano sul mercato avendo aspettative positive sul l’evoluzione dell’economia. Purtroppo la quota di inattivi tra i 15 e i 64 anni resta invariata, con un tasso monstre del 36,3 per cento (che diventa del 73,2% tra i giovani con un record di 4,3 milioni che non cercano nemmeno un’occupazione).
Ha detto bene ieri il ministro Pier Carlo Padoan. Serve uno sforzo in più per la crescita perché la situazione sta peggiorando. L’inflazione allo 0,1% conferma un’economia stagnante e congelata nella paura del futuro. Lo zerovirgola con cui il Pil chiuderà l’anno è preoccupante. I mercati si sa quanto siano rapidi nel “cambiare verso” e l’autunno potrebbe riservare sorprese. La risposta può venire dal l’Europa, come auspica il Governo italiano, se davvero al prossimo Ecofin verranno programmate azioni di investimento pubbliche e private. Ma non può non venire anche dall’Italia.

Lo sforzo fatto dal buonsenso del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha dato risposte utili sui contratti a termine e sull’apprendistato; ma non si può realisticamente confidare su poche misure spot e di tipo ordinamentale (seppur importantissime) per cambiare verso alla crescita dell’intera economia.
L’aver rinviato la discussione sulla delega-lavoro, già viziata dal peccato d’origine della genericità, non ha giovato all’azione di incisività della politica economica, soprattutto perché è stata travolta (e oscurata) dal dibattito estivo sulle riforme istituzionali, tanto rissoso quanto lontano per i cittadini. Gli sforzi di rilancio dell’azienda Italia passano per ora soltanto dalla tenacia delle imprese impegnate a conquistare mercati nel mondo. Ma non bastano a compensare le migliaia di casi di crisi aziendali finora tamponate con un sistema di ammortizzatori sociali tradizionali o in deroga, insostenibile, alla lunga, rispetto al sistema fiscale.

È come se si faticasse a prendere coscienza che servono azioni vere di politica industriale: non basta l’enunciazione affidata a poco più di un tweet sulla volontà di facilitare la rivoluzione digitale e di immettere forti misure di innovazione del modello produttivo. Servono investimenti mirati, scelte strategiche costose per le quali, tra l’altro, le risorse – come ha detto ancora ieri lo stesso Padoan – non sarebbero di difficile mobilitazione: come del resto è stato fatto negli Usa dove la “obamanomics” ha riscoperto e rilanciato, con dovizia di mezzi, la vocazione manifatturiera di un Paese immenso coniugandola con un colossale disegno di conversione alla sostenibilità e al rispetto ambientale. Puntare sul trasferimento tecnologico dal mondo dell’accademia (o della ricerca astratta) a quello dell’industria è vincente, così come sono stati vincenti provvedimenti settoriali come i bonus per ciò che ruota sul business della casa.

Tentativi, mezze-scelte, azioni contingenti: non si ha la sensazione di un disegno organico, di quella «visione» che invece Matteo Renzi rivendica (lo ha fatto anche ieri) spesso come dato acquisito. Tanto più che anche quei tasselli finiscono per essere sparigliati dalle scelte “vecchio stile” operate dal Parlamento, come è accaduto per il parziale smontaggio della riforma Fornero e per le moltissime micro-norme di spesa che si sono affastellate fino a bruciare il tesoretto dei tagli già realizzati. Carlo Cattarelli ha messo sul tavolo il problema dei problemi: se i tagli, già assai meno di quelli che servirebbero per rendere più efficiente la macchina pubblica e ridurre il perimetro malato dell’economia di Stato, vengono vanificata con nuova politica di spesa, si bruciano le uniche risorse utilizzabili per raggiungere il principale obiettivo di politica economica: ridurre le tasse sul lavoro (sia per l’impresa sia per i lavoratori).
È questa la vera politica per l’occupazione: il ridisegno del carico fiscale sugli onesti che oggi rappresenta un record mondiale e azzera la possibilità di investire nel futuro, di agire sulla domanda interna, di creare quel meccanismo virtuoso tra redditi, spesa, investimenti, occupazione. È questa l’unica “catena del valore sociale” che fa girare correttamente l’economia e crea il lavoro. Quello vero.

I tagli alla spesa nel cassetto, Cottarelli in uscita

I tagli alla spesa nel cassetto, Cottarelli in uscita

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Niente di personale: almeno di questo siamo certi, nel caso in cui Carlo Cottarelli non dovesse fare marcia indietro rinunciando al proposito maturato negli ultimi tempi. E che avrebbe già anticipato al presidente del Consiglio Matteo Renzi. Ovvero, quello di lasciare l’incarico dopo l’estate. Ottobre, è la data prevista.

Che Renzi non avesse con il commissario alla spending review la medesima sintonia di Enrico Letta, il quale lo aveva nominato, non era affatto un mistero. Del resto, a dispetto delle voci circolate contestualmente all’arrivo dell’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, che indicavano Cottarelli come candidato a prendere le redini del Dipartimento economico della presidenza del Consiglio, per lui i mesi trascorsi dall’insediamento del nuovo governo indiscutibilmente non sono stati i più facili. E certo non per la responsabilità del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, con il quale il commissario ha condiviso una lunga militanza negli organismi internazionali, a rappresentare il nostro Paese.

Gli ostacoli che ha dovuto affrontare sono stati fino in fondo politici. Probabilmente non del tutto imprevisti. Ma non nelle proporzioni e nelle forme che aspettava di trovarsi davanti quando è rientrato da Washington, dopo 25 anni passati al Fondo monetario internazionale, per occuparsi delle rogne italiane. Intanto un approccio tutto diverso da parte di Renzi rispetto a Letta, nei confronti del capitolo «tagli alla spesa pubblica» e dei compiti di Cottarelli. Un approccio che ha avuto l’effetto di ridimensionare oggettivamente il ruolo del commissario: declassato da una specie di autorità indipendente incaricata di individuare non soltanto gli sprechi e le diseconomie interne alla Pubblica amministrazione ma di proporre anche i tagli alle voci di spesa più ingombranti, a un semplice consulente esterno. Per quanto, ovviamente, autorevole: ma comunque un corpo estraneo alla stanza dei bottoni. Condizione diventata sempre più palpabile man mano che il tempo passava. Ed evidentemente sempre meno sopportabile.

Poi alcuni fatti che parlano da soli. Ieri su questo giornale Francesco Giavazzi si è opportunamente chiesto dove sia finito il lavoro di Cottarelli. Aggiungendo che il commissario alla spending review dovrebbe rendere coraggiosamente noto dove, come e quanto si dovrebbe tagliare, mettendo il governo di fronte alla responsabilità di non farlo. Sappiamo, perché l’ha scritto prima ancora sul «Corriere» Riccardo Puglisi, uno dei partecipanti al gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon a cui Cottarelli aveva chiesto un rapporto sui costi della politica, che da marzo sono pronte 25 relazioni su altrettanti segmenti della spesa pubblica preparate da team di esperti. Tutti dossier, immaginiamo ustionanti, che il commissario avrebbe già voluto pubblicare ma che invece restano nei cassetti. E la ragione è semplice: Cottarelli non ha ancora avuto il permesso del governo per renderli noti. Perché dopo tanti mesi non sia arrivato il via libera di Palazzo Chigi si può soltanto ipotizzare. Forse le conclusioni contenute in quei rapporti non sono del tutto condivise? Forse. Il che ci starebbe pure, ma è improbabile che il commissario, e lo stesso governo, non l’avessero calcolato.

Di sicuro la mancata pubblicazione dei 25 dossier ha reso ancora più evidenti, se ce ne fosse stato il bisogno, le difficoltà con cui Cottarelli si deve confrontare. A cominciare con quella forse più importante. Va benissimo intervenire sulle ottomila aziende pubbliche: è un buco nero gigantesco come dimostra l’esistenza di 2.761 società con più amministratori che dipendenti. Ma come si fa a individuare tagli per 17 miliardi di euro, almeno di tanto la spesa pubblica dovrebbe essere ridotta nel 2015, se non si possono nemmeno sfiorare i due capitoli più grossi? La sanità è uscita di fatto dalla spending review con il patto della Salute: un accordo fra il governo e le Regioni. Mentre le pensioni, per esplicita volontà dell’esecutivo, non ci sono mai entrate. L’agenzia «Adn Kronos» ieri ha fatto sapere che Cottarelli «continua a lavorare, come sempre, a stretto contatto con i suoi interlocutori naturali». E che «potrebbe presto affidare al suo blog, fermo all’ultimo intervento del 7 luglio, un post per tornare a evidenziare la necessità di tagli selettivi e non lineari, con riferimento anche al caso del pensionamento dei quota 96, appena affrontato nel decreto P.a.». Proprio le pensioni, guarda un po’… Poche ore dopo, sul blog c’era l’intervento annunciato dall’agenzia di stampa che ha subito suscitato reazioni politiche. Forse la sua ultima testimonianza (nemmeno questa autorizzata?) da commissario, magari prima dell’annuncio ufficiale del divorzio. Con il risultato che il prossimo taglio alla spesa pubblica frutto del lavoro di Cottarelli sarà il suo stipendio.