carlo lottieri

Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri

Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri

di Carlo Lottieri

Da più di vent’anni in Italia è ripetutamente richiamata l’esigenza di operare programmi di privatizzazione, che sottraggano allo Stato il controllo di ampi settori economici e li affidino a soggetti privati. Molte dismissioni hanno pure avuto luogo, anche se tanto resta da fare, ma non sempre è chiaro il vero motivo che deve portare lo Stato a mollare la presa su tante aziende. Questa mancanza di chiarezza nelle idee è premessa a privatizzazioni che, in troppi casi, si rivelano deludenti. Ora potrebbe aprirsi una nuova stagione, simile a quella dei governi dei primi anni Novanta, ma le conseguenze di eventuali cessioni saranno molto diverse sulla base delle ragioni che inducono a privatizzare.
Fino ad ora, infatti, troppe volte la ragione che ha indotto questo o quell’amministratore a privatizzare è stata la semplice esigenza di reperire risorse. Il tal comune mette in vendita alcune farmacie solo allo scopo di avere soldi da destinare alla costruzione di impianti sportivi o biblioteche. A ben guardare, questa non è una privatizzazione, ma una semplice riallocazione delle risorse a disposizione: come quando si cede un immobile per averne un altro. Perfino se il senso primario della privatizzazione fosse quello di reperire capitali da destinare alla copertura del debito (cosa di cui c’è sicuramente bisogno), perfino in quel caso se ci si limitasse a ciò ancora una volta si mancherebbe il bersaglio.
È anche opinabile la tesi di chi sostiene che si deve privatizzare per rendere più efficiente il sistema nel suo complesso. È vero che le imprese private sono mediamente molto più dinamiche, innovative e capaci di soddisfare il pubblico di quanto non siano quelle in mano allo Stato. Ma anche l’argomento dell’efficienza è inadeguato o, meglio, incompleto. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre il debito pubblico e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà. In questo senso ogni privatizzazione è un’amputazione del potere detenuto dall’apparato politico e burocratico. Ed è esattamente per tale motivo che ogni dismissione va accompagnata da una liberalizzazione del settore interessato.
In questo senso sarebbe certamente riformatore quel governo che mettesse sul mercato fino all’ultima azione di Trenitalia e che destinasse gli introiti a ridurre la montagna del debito di Stato. Sarebbe poi facile, in un arco di tempo ragionevole, constatare come la nuova azienda ferroviaria si orienti presto a mutare il proprio stile ed assumere comportamenti più orientati a tagliare i costi inutili, migliorare l’offerta, soddisfare la clientela. Ma i veri risultati arriverebbero solo grazie a un’apertura di mercato che possa vedere più aziende operare in concorrenza tra loro. Il significato più liberale delle privatizzazioni sta dunque nel ridimensionamento del potere pubblico ed è anche per questa ragione che ogni dismissione non è veramente tale se il settore non è aperto alla concorrenza di mercato.
La scelta di trasferire beni e imprese dalle mani di politici e burocrati a quelle di proprietari e imprenditori produce benefici di vario tipo: e certo può aiutare a ridimensionare il debito e migliorare l’efficienza. Ma gli effetti maggiori si hanno quando il cambio di titolarità (dallo Stato ai privati) serve a creare spazi di libertà e a superare situazioni di monopolio legale e privilegio.
Gli effetti economici delle privatizzazioni sono evidenti, ma il punto cruciale è un altro. Nel suo significato più autentico le dismissioni puntano a ricostruire un ordine di diritto e quindi di libertà, anche nella persuasione che solo entro istituzioni legittime e al servizio della società un’economia può crescere in maniera durevole.
Deficit democratico ed Europa: perché va bene così

Deficit democratico ed Europa: perché va bene così

Carlo Lottieri

Da più parti si ripete che uno dei problemi più urgenti da affrontare consisterebbe nel risolvere il cosiddetto “deficit democratico” che affligge l’Unione europea.
La tesi è la seguente. In Europa abbiamo istituzioni importanti e anche molto influenti sulla nostra vita (basti pensare che una larga parte delle normative nazionali sono in sostanza applicazioni di direttive comunitarie), ma in larga misura esso provengono da istituzioni che non sono state selezionate direttamente dai cittadini. Alcuni degli organismi europei sono addirittura apparati burocratici, ma anche quando si tratta di entità politiche – come nel caso della Commissione, che è una specie di “esecutivo” dell’Europa – la loro legittimazione è indiretta. Sono i governi nazionali, espressione del gioco democratico interno, a selezionare chi andrà a ricoprire il ruolo di commissario per conto di questo o quel Paese.
L’argomento usato da chi contesta il deficit democratico ha una sua fondatezza. I sistemi politici del nostro tempo fondano la loro legittimità (reale o presunta che sia) sul voto, e in questo caso è strano che l’unico organismo europeo eletto direttamente dagli europei, il Parlamento, continui a giocare un ruolo marginale. Bisogna però avere il coraggio di dire che va bene così e che superare questo deficit non può che peggiorare la situazione.
Quando si immaginano organismi politici selezionati dalla popolazione europea, grazie al voto dei circa 600 milioni che compongono l’Ue attuale, si dimentica che l’Europa, quale società, esiste solo in termini molto limitati. Non vi è alcun dubbio che esistono tratti che accomunano quanti vivono nel Vecchio Continente, ma è pur vero che le diverse storie e lingue pesano moltissimo. È difficile immaginare una vita politica che veda quali membri attivi – gli al fianco degli altri – i danesi e i portoghesi, gli irlandesi e i romeni, gli italiani e i finlandesi. Una cosa è chiara: nel mondo che conosciamo non esistono dibattiti condivisi che vedano confrontarsi le diverse popolazioni europee e per questo motivo non esiste, né può esistere, un’opinione pubblica europea.
In assenza di dibattito condivisi e di un’opinione, c’è da chiedersi come si possa avere un sistema politico unificato in grado di eleggere direttamente propri organismi.
Oltre a ciò, bisogna iniziare a riflettere sulla natura dell’Europa. E come spiega molto bene Jean Baechler ne Le origini del capitalismo (un volume degli anni Settanta che IBL Libri si appresta a ripubblicare) il tratto probabilmente più caratteristico dell’Europa è stato, storicamente, l’assenza di unità. L’Europa ha generato il capitalismo perché si è trovata a disporre, specie nella fase conclusiva del Medioevo, di un gran numero di giurisdizioni indipendenti e in concorrenza tra loro. Il potere politico era debole e questo ha favorito lo sviluppo di un’economia libera e forte.
La pretesa di colmare il deficit democratico è sensata entro gli schemi della politica otto-novecentesca, che vuole una diretta legittimazione popolare di ogni istituzione. Anche quando l’Italia ottenne il Veneto dalla Francia, nel 1866, il governo si sentì in dovere di far mettere ai voti un’annessione che, in realtà, era già stata stabilita. Furono plebisciti fasulli, come tanti storici hanno rilevato, ma quel che conta è che il Regno d’Italia avvertì l’esigenza di legittimare con il voto popolare quella modifica dei confini.
“Democratizzare” compiutamente l’Europa, però, ci porterebbe in una situazione poco favorevole alle libertà individuali e assai difficile da gestire. Se il Parlamento di Bruxelles e Strasburgo diventasse un Parlamento vero, in grado anche di esprimere autonomamente un governo, la complicata convivenza delle diverse realtà nazionali all’interno della Ue si farebbe ancor più problematica.
Probabilmente la situazione attuale non è accettabile ed è fonte di varie perplessità constatare come larga parte della nostra vita sia nelle mani di commissari europei venuti un po’ da chissà dove. Ma la soluzione non sta certo nella costruzione di un artificiale Stato europeo sempre più lontano e incomprensibile.
Opinione pubblica ed egualitarismo nell’età di Facebook

Opinione pubblica ed egualitarismo nell’età di Facebook

Carlo Lottieri

Un dato fondamentale del nostro tempo è la crisi dell’editoria periodica per come la conoscevamo. Si tratta di una crisi profonda che riguarda quasi tutti i quotidiani (dopo che i settimanali sono quasi scomparsi da anni) e che va ben al di là dei pur massicci licenziamenti di redattori e del crollo verticale delle vendite. Il cambiamento del costume e il fatto che si vedano sempre meno quotidiani spuntare dai tasche dei soprabiti sono accompagnati da una serie di conseguenze molto importanti.
I motivi della crisi sono numerosi, ma certamente uno dei principali è l’imporsi di internet (dove è possibile reperire, gratuitamente, una gran massa di informazioni e commenti), insieme al successo dei social network. La trasformazione è profonda e ha ricadute rilevanti sull’economia, sulla vita sociale, sulla politica. Se il giornalismo è stata una delle attività cruciali del ventesimo secolo (veniva dalla carta stampata, ad esempio, Benito Mussolini e ha ruotato a lungo attorno al giornalismo molta parte della vita politica), oggi questo universo sembra progressivamente sprofondare, insieme alla stessa idea degli opinion leader.
Con la disfatta del giornalismo sembra infatti ridursi sempre di più lo spazio di chi storicamente s’incaricava di offrire un punto di vista “ragionato” e aiutava, in tal modo, l’emergere di un’opinione pubblica sufficientemente consapevole. Per decenni “The Times”, “Le Figaro” o il “Corriere della Sera” hanno permesso ogni mattina di avere un’interpretazione dei fatti e della società con cui confrontarsi. L’idea era che l’analisi giornalistica e la riflessione sviluppata nei fondi e nei commenti aiutassero ad affrontare i problemi con razionalità e spirito critico.
Nell’età della rete, però, quanto scrivono gli opinionisti di larga fama sembra interessare sempre meno. Se il giornalismo si basava sull’autorevolezza di alcune testate e di taluni autori, nell’epoca della rete sembra che viga l’eguale dignità dei differenti punti di vista. Ognuno – in Twitter, in Facebook o altrove – dice la propria e al più cerca le opinioni degli amici, per confrontarsi e dialogare. Tutto progressivamente si appiattisce e delinea alla fine uno scenario in cui possono imporsi senza problemi le teorie economiche o scientifiche meno difendibili.
In fondo, il vecchio giornalismo nasceva dalla modestia di una società borghese colta che non si riteneva in grado di dire la propria su tutto, non pretendeva di sapere ogni cosa anche senza avere visto niente, confidava nella qualità di alcuni quotidiani e professionisti. Per citare solo un caso, i “montanelliani” erano persone che in primo luogo conoscevano i propri limiti e poi, in seconda battuta, apprezzavano l’arguzia e l’intelligenza dello scrittore toscano.
Il protagonismo generalizzato dei nostri tempi sembra “liberante” e in parte lo è, ma comporta pure problemi. È certamente positivo nei social network si abbiano confronti e discussioni, e che sia possibile per chiunque esprimere la propria opinione, ma se questo toglie tempo e spazio ad analisi non superficiali è facile che la conseguenza principale sia il venir meno di ogni ostacolo di fronte a quanti vogliono affermare demagogia e complottismo.
Durante il secolo ormai alle spalle spesso i giornali sono stati confezionati male, utilizzati a fini politici, piegati agli interessi di questo o quel gruppo. La barriera che si poneva dinanzi a quanti volevano esprimersi e comunicare ha avuto più volte effetti deprecabili. Era però in qualche modo positiva l’idea (più un ideale che un fatto, ma un ideale comunque non banale…) che il pulpito della comunicazione fosse almeno in parte esclusivo, riservato a pochi, da utilizzarsi con grande cura.
Non ha alcun senso ritenere che siamo sempre e in ogni occasione eguali, perché non posso pensare che quanto so in tema di cellule staminali abbia lo stesso valore di quanto conosce chi questi temi li studia da una vita. Non basta dare un microfono in mano a chiunque perché si possa assistere al costituirsi di un’opinione pubblica improntata a ragionevolezza e buon senso.
Non c’è alcun dubbio che in passato molti opinion leader siano stati poco onesti e inadeguati. È difficile pensare che la totale assenza di opinion leader sia però la soluzione al problema.
La folle guerra dell’Europa ai paradisi fiscali

La folle guerra dell’Europa ai paradisi fiscali

Carlo Lottieri

Da qualche tempo una commissione appositamente costituita da parte del Parlamento europeo sta conducendo indagini al fine di valutare in che modo taluni Paesi europei (Lussemburgo, Belgio, Regno Unito, Svizzera e altri ancora) stiano violando le regole comunitarie, sottoscritte anche da chi – come la federazione elvetica – ha firmato accordi bilaterali. L’idea di fondo è che talune normative tributarie di questo o quel Paese europeo sarebbero state elaborate al fine di attirare capitali e investimenti.
Sembra, insomma, che si debba considerare “sleale” il comportamento di cerca di mantenere entro ben precisi limiti l’entità della tassazione, rendendo difficile la vita agli Stati più esosi. Buona parte di questa agitazione è conseguente allo scandalo che ha visto coinvolto Jean-Claude Juncker, attuale presidente della Commissione europea e per molti anni figura cruciale del piccolo principato lussemburghese. Al di là delle circostanze del momento è comunque un segno dei tempi che buona parte della classe politica del Vecchio Continente sembri ossessionata dalla volontà di alzare le imposte là dove sono basse, invece che preoccuparsi di ridurle dove sono divenute ormai insopportabili.
Una quota significativa (sicuramente maggioritaria) del ceto dirigente europeo ritiene che non vi siano limiti alle pretese del potere pubblico, determinato a spremere quanto più sia possibile le imprese e le famiglie. Per questo vengono messe sotto accusa, allora, quelle multinazionali che dislocano nei diversi Paesi le attività e i profitti tenendo in grande considerazione i diversi regimi tributari. Esattamente come ognuno di noi compra un prodotto nel negozio A e un altro nel negozio B, molte corporation con attività in varie aree del mondo valutano i loro progetti di crescita e insediamento anche sulla base del principio che collega tra loro i costi e le opportunità. Se non facessero così, i prezzi dei prodotti e servizi che esse offrono sarebbero molto più alti.
È comunque interessante come la lotta ai paradisi fiscali, e a difesa degli inferni fiscali, si basi in larga misura su una manipolazione del linguaggio. Poiché il mainstream statalista ritiene che ogni euro sia potenzialmente del potere pubblico e che questi abbia il diritto di rivendicarlo, la riduzione delle imposte è presentata come un “aiuto di Stato”, come “concorrenza sleale”, come collaborazione in un’attività sostanzialmente criminale che è orientata a “evadere l’obbligo della contribuzione fiscale”.
Tutto questo è molto preoccupante, dal momento che il chiaro disegno politico di chi combatte le politiche fiscali attrattive – e che negli scorsi, ad esempio, mise sotto processo la crescita impetuosa dell’Irlanda, un tempo terra di povertà ed emigrazione – è arrivare a un’armonizzazione crescente delle politiche fiscali. Su “La Repubblica”, ad esempio, Nicola Acocella ha sostenuto la necessità “di maggiore uniformità nella conduzione delle politiche fiscali, oltre che in materia di regolamentazione finanziaria, politiche industriali e del lavoro e di progetti comuni”. D’altra parte, se adottare una tassazione inferiore significa essere sleale verso chi chiede di più (e attrarre capitali e imprese) è chiaro che l’unica maniera per uscire da questa situazione consiste nell’avere – prima o poi – un regime fiscale identico in ogni parte d’Europa. Ovviamente non si tratterebbe di estendere all’intero continente la fiscalità della Svizzera o del Lussemburgo, ma invece di innalzare tutti i regimi tributari al livello dei più esigenti.
Già oggi molti dicono che non è possibile avere una politica monetaria comune, grazie all’euro, e poi avere differenti politiche fiscali, regole del lavoro disomogenee, sistemi previdenziali differenziati. Ma la battaglia condotta contro i paradisi fiscali – a difesa del socialismo europeo di destra e sinistra – è allora solo una componente (tra le altre) di una più generale battaglia contro le libertà individuali e contro le logiche dell’autogoverno.
Un’Europa che declina a causa dello statalismo (della pressione fiscale, della regolazione asfissiante, dell’intreccio tra politica ed economia) chiede oggi sempre più stato e sempre più dirigismo, provando a soffocare le ultime aree di resistenza e gli ultimi spazi di libertà. Per questa ragione, quanti sono fedeli alle ragioni del liberalismo classico dovrebbero battersi a difesa della concorrenza istituzionale e fiscale tra governi, guardando ai paradisi fiscali non già come a realtà da combattere, ma modelli da imitare.

 

Le pensioni di domani tra Stato e privato

Le pensioni di domani tra Stato e privato

Carlo Lottieri – La Provincia di Como

La recente sentenza della Corte costituzionale, che ha ripristinato gli aumenti per le pensioni superiori ai 1.400 euro, ha riportato la questione previdenziale al centro dell’attenzione e sta di nuovo obbligando a porre mano all’intero sistema delle pensioni: troppo costoso e basato su logiche difficilmente giustificabili sulla base di criteri di giustizia.

Nell’immediato, il governo sarà costretto a trovare risorse che permettano di soddisfare (almeno in parte) le richieste della Consulta. Questo però non basta. Più in generale è bene comprendere che il passaggio che ebbe luogo una ventina di anni fa dal sistema detto “retributivo” a quello “contributivo” non è in grado di garantirci un futuro, dal momento che non si è usciti da quello schema che vede i lavoratori attuali pagare la pensione dei lavoratori del passato, ormai anziani. Per giunta la demografia ci condanna, dato che l’età della vita si è allungata proprio mentre crollava l’indice di fertilità. Lo scenario futuro vede pochi giovani che dovranno mantenere tantissimi anziani.

La gestione pubblica delle pensioni è stata costruita operando una collettivizzazione dei risparmi destinati a sorreggere la nostra terza età. I lavoratori sono stati costretti a destinare le loro risorse all’Inps e a istituti simili, che non hanno accantonato e investito tali capitali, ma li hanno usati per soddisfare le esigenze dei pensionati presenti e anche per altre esigenze “sociali”. Ora però i conti della previdenza non tornano e sono necessarie misure drastiche, che si aggiungano alle varie riforme degli ultimi anni.

Al tempo stesso, se l’economia non si mette in moto è impossibile che vi siano risorse per garantire una vita decente alla popolazione anziana, ma con questi prelievi fiscali e previdenziali è difficile che si possa avere una qualche ripresa.

Entro tale quadro molti si rendono conto dell’esigenza di passare da un sistema previdenziale “politicizzato” (pubblico, statale) a uno basato sulla responsabilità di singoli in grado di controllare direttamente i loro accantonamenti. È questo in particolare il tema dei fondi privati e della previdenza complementare.

Non è un caso, però, che oggi soltanto una minoranza dei lavoratori (meno di un terzo) stia costruendo una pensione complementare: un po’ perché l’insieme del prelievo fiscale e contributivo è già molto alto, e quindi i giovani non hanno risorse da destinare a una pensione ulteriore, ma anche perché c’è poca fiducia. Il modo in cui negli scorsi anni il legislatore è intervenuto a modificare le regole fiscali in materia di previdenza privata oppure ha annullato l’autonomia delle varie mutue professionali ha insegnato che in questo ambito regna un arbitrio che non promette molto di buono.

Pure in tema di pensioni, insomma, c’è bisogno di più diritto e meno politica. In altri termini è necessario che vi siano regole precise, semplici, di lunga durata, sottratte alla volubilità di governi e legislatori. Questo è importante non soltanto per aiutare l’economia a rimettersi in moto, ma anche per favorire quella fiducia che è necessaria a far crescere una previdenza nuova e direttamente nelle mani dei lavoratori.

C’è un legame tra Renzi e i black bloc?

C’è un legame tra Renzi e i black bloc?

Carlo Lottieri

A qualcuno può anche sembrare che la devastazione per le strade di Milano causata dai gruppi dei centri sociali porti soltanto acqua al mulino di Matteo Renzi, che d’altra parte è stato uno dei bersagli polemici di quella violenza di strada. Ed è possibile che, nel breve periodo, in qualche modo sia così e che qualche elettore arrivi a pensare che per sconfiggere la sinistra estrema (anche al di là dei black bloc) si debba puntare su questo ex-democristiano riuscito abilmente a mettere le mani su quanto rimane del vecchio Pci.
A ben guardare, però, la relazione tra renzismo e black bloc non è solamente di opposizione: come si capisce subito dalla lettura della “Carta di Milano” prodotta per iniziativa di questo governo e che l’esecutivo ha in vari modi esaltato. Quello stucchevole miscuglio di decrescita, ecologia, dirigismo e pauperismo che è appunto la Carta presentata nell’imminenza di Expo deve farci riflettere, perché il rapporto tra la sinistra in doppiopetto e quella di piazza esiste senza alcun dubbio e non va dimenticato.
I nostri giovani – a scuola, alla televisione, sui giornali – sono ogni giorno nutriti di una visione distorta della realtà proprio perché da decenni a dominare sono culture ostili al mercato e alla libertà individuale. Quello che la sinistra vuole realizzare è la sconfitta del capitalismo selvaggio e l’edificazione di una società senza diseguaglianze. Quanti hanno distrutto le vetrine di corso Magenta sono cresciuti in un mondo che ritiene normale togliere ai produttori la metà e anche più della ricchezza che realizzano in un anno. E anche per questo non si sentono affatto in colpa di aver sottratto qualche migliaia di euro a chi vende abiti costosi o gioielli.
È ovvio che non vi sia alcuna responsabilità diretta da parte di Renzi per le devastazioni del Primo Maggio, ma è egualmente vero che l’Italia di sinistra (cattocomunista, azionista, progressista, socialdemocratica ecc.) nel corso del tempo ha posto le basi per una contestazione crescente della proprietà e del mercato. E non c’è da stupirsi quando i figli sono un poco più violenti e più coerenti dei padri.
Se la mentalità contemporanea prevalente, che Renzi interpreta tanto bene, vede nelle diversità un’ingiustizia, quelli che il premier ha chiamato “teppistelli” ne traggono le conseguenze. Perché non si può mettere costantemente sotto accusa le logiche del profitto e poi immaginarsi che non succeda nulla.
Bisognerebbe allora iniziare a capire come l’estremismo di coloro che usano le molotov per cercare di sbriciolare le istituzioni del capitalismo liberale aiuti anche a comprendere quanto veleno vi sia nel moderatismo della sinistra governativa. L’immobilismo di chi non fa nulla per ridurre la costante crescita del debito pubblico e anche della tassazione viene talvolta accompagnato da una specie di retorica liberale, ma più spesso è giustificato dal persistere di quello statalismo che la Carta di Milano ha esaltato sotto vari aspetti principali.
È allora chiaro che o si riesce a contrastare il blocco sociale post-comunista e post- democristiano che sorregge Renzi e definisce in larga misura la cultura prevalente, oppure non cambierà nulla. Lo Stato continuerà a dilatarsi e molti dei nostri giovani riterranno di essere vittime di un qualche capitalismo selvaggio che esiste soltanto nei loro sogni e nei testi con cui vengono introdotti alla conoscenza della realtà.
Renzi vale quel che vale, prova a tirare avanti e in qualche rara occasione riesce perfino a muoversi nella giusta direzione. Ma la sua cultura è tanto intrisa di dirigismo che a ben guardare non è affatto così lontano da quanti l’hanno contestato nelle strade milanesi.
Chi desidera vivere in una società più libera e basata sull’economia capitalista deve sapere costruire un’alternativa sia a Renzi, sia alla sinistra radicale. Il mondo non può essere fatto di molte sfumature del rosso: bisogna invece cercare di dare spazio ad altri colori e a diversi modi di esaminare la realtà sociale.
L’immigrazione non è invasione, ma basta assistenzialismo

L’immigrazione non è invasione, ma basta assistenzialismo

Carlo Lottieri

La questione dell’immigrazione è tornata al centro delle cronache e, nell’imminenza di importanti elezioni, è diventata pretesto di opposti populismi.
Da un lato, a sinistra, si difende l’idea di un’immigrazione assistita, statizzata, a carico dei contribuenti, con l’idea che non si dovrebbe porre alcune limite all’arrivo di lavoratori e famiglie da Africa, Asia e America latina. Sulla base di logiche egualitarie e sostanzialmente illiberali, si afferma la tesi che i cittadini dell’Occidente, in generale, e dell’Italia, in particolare, avrebbero non soltanto l’obbligo morale di aiutare chi sta peggio, ma anche l’obbligo giuridico-politico di destinare le risorse provenienti dalle imposte a porre le basi per l’accoglienza e l’ospitalità di chiunque venga a vivere da noi.
Al populismo socialista si contrappone, sempre più, un populismo di segno opposto che è alimentato dalla stessa spesa assistenziale a favore dei nuovi arrivati. I centri di accoglienza sono ormai al centro della battaglia politica di chi, come Matteo Salvini, vede nel contrasto alla “invasione” la maniera più semplice per fare della Lega Nord un partito nazionale. In questo caso, si lascia intendere che meno immigrati vi sono e meglio è. Il progetto è quello di un’Italia solo italiana, anche sulla base della tesi – economicamente indifendibile – che gli immigrati sottrarrebbero posti ai lavoratori indigeni.
In questa situazione un progetto autenticamente liberale dovrebbe chiedere di “depoliticizzare” il tema. Bisogna riconoscere che una buona immigrazione può solo avvantaggiarci (basti pensare all’aiuto che tante famiglie ricevono dall’arrivo di badanti filippine, ucraine o romene), ma al tempo stesso si deve comprendere che la spesa pubblica in tema di immigrazione è benzina buttata sul fuoco degli odi razziali e della xenofobia.
Qualche elemento essenziale va ricordato. La maggior parte dell’immigrazione ha luogo tramite voli aerei ed aeroporti, o anche grazie a bus e treni. Silenziosamente, senza richiamare l’attenzione di giornalisti e senza suscitare tensioni di opposta natura, ogni giorno migliaia di persone fanno scalo in Italia con visti turistici e poi entrano in clandestinità. Nel suo insieme, l’immigrazione illegale è un fenomeno che non si risolve, allora, con la militarizzazione delle coste e il respingimento dei barconi.
In secondo luogo, bisogna tenere a mente che quanti arrivano via mare spendono somme rilevanti e in tal modo finanziano organizzazioni criminali. Bisognerebbe utilizzare quelle risorse in altro modo, incanalandole verso una gestione diversa della selezione di chi vuole venire da noi e facendo sì che non siano più i contribuenti a sostenere l’onere dell’ospitalità dei migranti. Chi arriva deve sapere che dovrà saper badare a se stesso e quindi dovrà utilizzare le molte migliaia di euro che oggi dà a chi senza scrupoli li carica sui barconi per acquistare un biglietto aereo e per gestire quelperiodo di tempo cercherà un lavoro, una casa e tutto il resto.
Lo Stato ponga legge semplici e chiare per gestire la selezione dei nuovi arrivati, e poi le faccia rispettare. Ma non spenda più soldi per un assistenzialismo che non aiuta gli stessi assistiti. Nemmeno ci si deve illudere che il flusso verso l’Europa si possa totalmente annullare, sebbene la crisi economica oggi abbia fatto sì che il numero degli italiani che se ne va è superiore a quello degli stranieri che vengono da noi.
È necessario comprendere che esistono già individui e realtà sociali che possono e vogliono farsi carico dei costi dell’accoglienza. In primo luogo, sono disposti a pagare – al punto che oggi finanziano la medesima criminalità che gestisce lo spostamento illegale di esseri umani – i migranti stessi, ma oltre a loro ci possono essere imprese pronte a dare opportunità a queste persone che vengono da lontano. È già così, se si considera il rapporto – in particolare – tra molte imprese agricole e i loro dipendenti pakistani o indiani, ma anche le famiglie che ospitano al proprio interno quelle donne che si prendono cura dei nostri anziani.
Per giunta, se qualcuno vuole aiutare per generosità o anche perché infatuato dal mito egualitarista può sempre farlo: non già chiedendo allo Stato di intervenire, ma sostenendo di tasca propria quegli enti filantropici, religiosi e no, che già oggi sono attivi nel sostegno agli immigrati.
Una società chiusa è una società morta. L’esigenza di aprirsi al dialogo, al commercio, alla globalizzazione e ai contributi più diversi implica anche la capacità di vedere nell’immigrazione una opportunità. Ma oggi l’assistenzialismo e la burocrazia hanno statizzato questo fenomeno, hanno creato talora perfino disparità di trattamenti, non di rado hanno dato argomenti a chi parla alla pancia di tanti solo sulla base di calcoli elettoralistici.
Dobbiamo invece aprirci al mondo sulla base di regole chiare e comportamenti responsabili, che tengano conto delle esigenze delle imprese e che non scarichino anche stavolta sui contribuenti oneri di solidarietà che non hanno alcuna valida giustificazione. Se la buona immigrazione è un gioco “a somma positiva” (che avvantaggia quanti vengono da noi e quanti, tra di noi, sanno valorizzare il lavoro e le intelligenze dei nuovi arrivati), non si capisce perché non possa alimentarsi da sé e abbia bisogno di poggiare su meccanismi redistributivi.
Su questi temi, nel corso degli ultimi trent’anni, sono stati commessi molti errori: dal momento che quasi ogni parte politica ha inseguito il consenso delle scelte demagogiche invece che orientarsi verso decisioni razionali, davvero in grado di favorire un migliore futuro per tutti. C’è bisogno che a destra e a sinistra si affermi insomma un linguaggio diverso e prenda corpo un modo più responsabile di trattare le questioni. Nel mondo dei voli low cost e delle imprese globali non si può più continuare a ragionare nei termini nazionalistici e statocentrici di questa vecchia destra e di
questa vecchia sinistra.
Il liberalismo quale alternativa al socialismo

Il liberalismo quale alternativa al socialismo

Carlo Lottieri

Ogni teoria della giustizia è in qualche modo una teoria egualitaria, in virtù del fatto che nel momento stesso in cui pone le proprie regole essa deve pretendere che tali criteri siano applicati in maniera uniforme e coerente. Se ad esempio difendiamo una prospettiva meritocratica, è evidente che uguali comportamenti devono ricevere identico trattamento. E così anche quando nelle società rigidamente stratificate si distinguevano i membri dell’aristocrazia dalle altre categorie sociali, era chiaro che tale differenziazione implicava il principio di una “comune dignità” tra tutti quanti erano parte a pieno titolo dell’élite.
Se in un modo o nell’altro ogni ordine legale pretende una formale equiparazione (o equalizzazione) degli individui, la prima lezione che bisogna ricavare è che le maggiori tensioni politico-culturali riguardano i criteri a partire dai quali definiamo il tipo di eguaglianza che consideriamo giusta e degna di essere perseguita.
Alla base del pensiero liberale c’è l’idea di una comune dignità di tutti gli uomini. È ovvio che in ogni società vi sono santi e criminali, eroi e vigliacchi, saggi e mascalzoni, ma ogni essere umano merita un rispetto che discende direttamente dal suo appartenere all’universalità umana. La tesi teologica propria del cristianesimo, che vede in ogni individuo un “figlio di Dio”, si è storicamente convertita nell’universalismo liberale, che è premessa al riconoscimento ad ognuno di diritti fondamentali e inalienabili.
In parte, il socialismo è debitore verso questa impostazione. Nella tradizione che include il marxismo, la socialdemocrazia e il welfare State, a ogni uomo vanno garantite quelle libertà fondamentali senza le quali l’esistenza stessa non sarebbe degna di essere vissuta. Ma mentre i liberali chiedono semplici tutele “formali” (il diritto di non essere aggrediti), il socialismo si propone di assicurare a chiunque reddito, lavoro, istruzione e cure mediche, e così via.
Questa posizione ha un elemento paradossale. In fondo, i teorici socialisti accusano il liberalismo di perseguire un’uguaglianza a metà: che permetta e chiunque d’intraprendere, ma che non garantisce affatto sui risultati. In una società liberale non è considerato “ingiusto” che qualcuno possa morire di fame o che un ragazzo intelligente non possa accedere agli studi superiori. Simili situazioni sono spiacevoli e ognuno è chiamato ad agire perché le cose cambino, ma non c’è necessariamente un crimine all’origine di tali realtà. Nella logica del collettivismo statalista, invece, l’obbligo morale di aiutare il prossimo si converte in potere per le istituzioni politiche.
Nel combattere le diseguaglianze di fatto i socialisti finiscono per produrre risultati inattesi, che forse essi stessi rigetterebbero se solo fossero consapevoli delle conseguenze dei loro stessi assunti teorici.
L’obiettivo egualitario su cui sono costruite le società socialiste implica una redistribuzione delle risorse, e quindi un apparato politico-burocratico che si faccia carico di tutto ciò. Questo spiega perché in ogni società di welfare, come già nei paesi comunisti, vi sia una super-classe che ottiene innumerevoli privilegi in nome della necessità di “accudire gli orfani e proteggere le vedove”.
Oltre a ciò, il ceto incaricato di affermare una più alta giustizia si considera legittimato a usare la coercizione. In questo modo la stratificazione sociale non è più l’esito della differente fortuna imprenditoriale, della lotteria naturale dei talenti o della libera scelta di chi dona ad altri le proprie risorse o le lascia in eredità ai figli: essa è il frutto della pianificazione autoritaria che è secreta dal gioco politico e dalla volontà degli interessi più forti e organizzati che a esso prendono parte.
Essendo una teoria centrata sullo Stato e volta a vedere nella giustizia solo un prodotto della pianificazione pubblica, il socialismo – nelle sue varie forme e nei suoi vari colori – è quindi il nemico fondamentale della libertà individuale, del pluralismo, della responsabilità. Al di là delle apparenze, esso è una concezione avversa a ogni progresso e novità, e soprattutto intimamente nemica di quell’attitudine a discriminare (a scegliere, optare, privilegiare) che è al cuore stesso della libertà degli individui.
Imprese, mercato e concorrenza istituzionale

Imprese, mercato e concorrenza istituzionale

Carlo Lottieri

In più occasioni viene richiamata l’attenzione su un fatto: e cioè che sono i Paesi di più piccole dimensioni e anche quelli a struttura federale a offrire le condizioni migliori per la creatività imprenditoriale e per il successo delle società. Dove abbiamo piccoli principati o minuscoli cantoni è anche facile trovare bassa tassazione, limitata regolazione, una burocrazia più semplice e meglio funzionante. Entro quel quadro istituzionale la vita delle aziende è assai semplice: nell’interesse di tutti.
Una delle ragioni fondamentali sta nel fatto che le piccole giurisdizioni non possono essere protezionistiche e le imprese di quei territori, quindi, nei fatti si trovano a operare entro un mercato di vaste dimensioni. Il protezionismo è un errore sempre, ma si tratta comunque di una strategia che più facilmente può venire adottata da un Paese di 60 milioni di abitanti invece che da uno di poche centinaia di migliaia, dato che quest’ultimo è largamente dipendente da produttori “esterni”.
Oltre a questo c’è un altro fattore: spesso sottovalutato. Si sa che le imprese crescono entro il mercato e grazie alla competizione: un’impresa cerca sempre di migliorare perché sa che la propria clientela può in ogni momento lasciarla se i propri beni o servizi non sono all’altezza. Senza questa concorrenza non vi sarebbe sviluppo dei prodotti e non vi sarebbe alcuna qualità.
Questo è vero anche per i governi, che quando si prendono cura di territori minuscoli sono sotto la pressione competitiva delle giurisdizioni vicine. Se un cantone svizzero alza le imposte e offre cattivi servizi, per un’azienda basta spostarsi di pochi chilometri per trovare – entro il medesimo universo linguistico e culturale – tasse inferiori e regole più adeguate. Una pluralità di centri di governo responsabilizzati, chiamati a gestire le risorse che ottengono dai loro cittadini, crea una situazione assai simile a quella del mercato e produce – analogamente – tanti benefici.
Se si considera che la Svizzera è più piccola della Lombardia ed è divisa in 26 tra cantoni e semi-cantoni, è facile comprendere come a Basilea non possano troppo alzare le tasse e infittire la regolamentazione perché questo provocherebbe con ogni probabilità uno spostamento di imprese nel vicino cantone di Zurigo. La strategia detta di exit è facilmente praticabile quando il quadro istituzionale è frammentato e questo rappresenta un freno molto serio di fronte alle pretese dei governi di farsi tirannici.
Se l’accrescimento della concorrenza istituzionale è il principale pregio dei Paesi di limitate dimensioni, ve ne sono però anche altri. In un Paese come il Lussemburgo, che ha meno di 500 mila abitanti, operare massicce e durature redistribuzioni è assai difficile, poiché nel faccia-a-faccia di tale piccolo universo sociale per chi è chiamato a sopportare i costi è assai facile scoprire le carte e denunciare l’ingiustizia.
È esattamente per questa ragione che secondo Gordon Tullock entro un ordine federale è possibile ridurre la ricerca di rendite (rent-seeking) condotta da quanti traggono vantaggio dalla complessità di un sistema di tassazione e trasferimenti del tutto opaco. La concorrenza istituzionale rende difficile per ogni giurisdizione mantenere un sistema fiscale troppo complesso: per giunta, la semplicità del percorso compiuto dal denaro dei contribuenti ostacola il lavoro dei gruppi di pressione. Spingendo verso il basso la tassazione, il federalismo competitivo toglie risorse all’azione dei lobbisti. Sprechi e sinecure sono caratteristici dei sistemi politici accentrati di medie o grandi dimensioni, dove tutto diviene assai meno trasparente e riconoscibile.
Una cosa è cruciale: ogni istituzione deve vivere di risorse ottenute dai propri cittadini e, quindi, va il più possibile limitata ogni forma di perequazione. Diversamente abbiamo un falso federalismo, che induce i centri di spesa locali a fare e disfare, con l’obiettivo di comprare il consenso, e senza pagare dazio. Al contrario, ogni soldo che un sindaco o un presidente di Regione spendono deve venire dalle tasche dei loro cittadini. È l’unico per innescare una gestione della cosa pubblica meno disastrosa di quella che abbiamo dinanzi agli occhi.
Di fronte al fanatismo, l’Occidente riscopra le sue radici – Editoriale di Carlo Lottieri

Di fronte al fanatismo, l’Occidente riscopra le sue radici – Editoriale di Carlo Lottieri

Carlo Lottieri

Succede ormai con periodicità. Era già accaduto al tempo dello scandalo sollevato dal romanzo di Salman Rushdie (Versetti satanici, 1989) e poi per il film Submission di Theo van Gogh (2004) e di seguito in altre circostanze. Di tanto in tanto il mondo musulmano sembra esplodere d’ira dinanzi a forme espressive – letterarie, satiriche, cinematografiche – dell’Occidente e reagisce, come nel caso delle vignette di Charlie Hébdo di qualche mese fa, scatenando una violenza inaudita.
Quando in Occidente si manifestano tesi critiche verso l’Islam e si avversano taluni aspetti di quella cultura, gli stessi rapporti tra mondo musulmano e società occidentale vanno in crisi. In tale contesto, la nostra società sembra incapace di trovare un equilibrio, talora mostrandosi perfino disponibile a non difendere la propria identità e le garanzie che, da noi, tutelano la libertà dei singoli.
Come allora si dovrebbe reagire a questo attacco tanto duro? Sicuramente non esistono risposte semplici. Qualunque analisi seria e responsabile, però, chiede che si distingua in maniera assai netta ciò che è legittimo sotto il profilo del diritto (l’ordine giuridico) e ciò che invece è opportuno in una prospettiva etica (l’ordine morale). Dal punto di vista del diritto, gli occidentali devono continuare a proteggere la libertà d’espressione di tutti: una libertà che non si estrinseca solo e in primo luogo nella facoltà d’affermare ciò che piace a tutti e che è largamente condiviso. Entro una società aperta e liberale hanno piena cittadinanza anche quelle tesi che taluni, e magari anche molti, giudicheranno assurde e insostenibili. Ogni religione deve vedere riconosciuto la piena facoltà di esprimersi e definire la frontiera che distingue il giusto e l’ingiusto, la santità e il peccato; e la stessa libertà va attribuita ai romanzieri, ai giornalisti, ai registi e così via. L’Europa farebbe un terribile errore se, per non suscitare tensioni con certe frange dell’Islam, abbandonasse la propria tradizione e amputasse la libertà di espressione. Quello che disegnavano e scrivevano gli autori di Charlie Hébdo barbaramente uccisi era legittimo al di là dei contenuti stessi.
Bisogna però distinguere tra una vera tolleranza e un’ideologia di Stato che pretende d’imporre a tutti una sorta di “religione laica” che di liberale ha ben poco e che sotto certi punti di vista finisce proprio per alimentare una reazione fanatica anti-europea. Specialmente in Paesi come la Francia, ma in parte anche da noi, ha preso piede un repubblicanesimo che avversa le culture religiose in quanto tali e che vorrebbe imporre un modello unico di società e di esistenza. Trionfa insomma un “politicamente corretto” che non sembra lasciare spazio al pluralismo anche se si presenta in abiti democratici. Tutto questo ha poco a che fare con la tradizione liberale, e se va difesa la libertà dei giornali satirici, allo stesso modo va salvaguardata la libertà delle famiglie cristiane, musulmane o di altro credo. Proibire a uno studente, come si fa in Francia, di portare a scuola una piccola croce appesa al collo o un qualsiasi altro simbolo religioso non è una scelta di libertà, ma semmai di segno opposto.
Una società libera è tale se ognuno rispetta chi è diverso da sé. Più di tutti devono però essere disposti a esercitare questo rispetto quanti dispongono del potere, che non hanno alcun titolo per considerare i loro valori come necessariamente giusti e universali, e quindi da imporsi agli altri. Il subdolo dispotismo del laicismo statale “alla francese” è, in qualche modo, il più prezioso alleato degli integralisti e dei fanatici islamisti.
Dobbiamo ammettere che da questo punto di vista l’Europa è assai deficitaria e che gli orientamenti prevalenti sembrano proprio rafforzare l’imposizione di una metafisica pubblica, di fatto in lotta con le religioni. La sacralità dei nostri Stati (che si autorappresentano come perpetui, indivisibili e sovrani) deve essere contestata, se si vuole costruire una società davvero plurale. Ed è importante comprendere come il laicismo imposto dal moderno welfare State sia cosa assai diversa dalla libertà individuale, la quale deve permettere a chiunque di fare le proprie scelte in ambito educativo, sanitario, previdenziale e via dicendo. Chiamando in causa taluni dibattiti della filosofia politica degli ultimi anni, bisogna allora prendere sul serio il pluralismo di un autore come Chandran Kukathas (autore de L’arcipelago liberale), che connette libero mercato e comunità volontarie.
C’è invece troppo “kemalismo” e troppa statualità nelle società europee, in cui gli apparati pubblici poggiano su una religione civile à la Rousseau che riduce gli spazi di libertà ed entra in tensione con le fedi. Ma è difficile costruire una convivenza serena se lo Stato non lascia che ogni cultura (cristiana, musulmana, ebraica, laica ecc.) non è libera di operare nei vari ambiti: fermo l’obbligo per tutti di non ledere i diritti altrui, dalla libera iniziativa imprenditoriale alla piena espressione delle proprie idee.
Nessuno è tenuto ad apprezzare fino in fondo un periodico tanto irriverente come Charlie Hébdo ed era facile prevedere che quelle vignette avrebbero buttato benzina sul fuoco. Ma il linguaggio del periodico francese non può essere considerato un crimine entro una società libera. Comprimere ancor più le nostre libertà, per giunta, non produrrebbe grandi risultati e in questo senso le piazze arabe in rivolta devono farci riflettere. Non per indurci a rattrappire ulteriormente i nostri spazi di libertà, ma semmai per dare basi più solide a quel pluralismo culturale e a quella tolleranza religiosa che – in tante occasioni – le logiche di Stato e il moralismo del “politicamente corretto” imposto per legge finiscono di fatto per minare nelle loro fondamenta.