carlo lottieri

Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Carlo Lottieri

Negli scorsi giorni due avvenimenti, peraltro strettamente collegati, hanno dominato la cronaca economica europea.
Il primo riguarda la Svizzera, dato che la Banca centrale elvetica ha deciso di non difendere più il cambio 1,20 tra euro e franco, con la conseguenza che la seconda valuta si è notevolmente apprezzata fino a raggiungere la parità con la moneta comune europea. La mossa è avvenuta un po’ a sorpresa, ma è pur vero che dal 2012 a oggi erano stati in molti a sostenere che un cambio tanto inadeguato prima o poi si sarebbe dovuto abbandonare. In un mondo caratterizzato da una forte domanda di franchi svizzeri, la difesa di quel livello avrebbe finito per rappresentare un costo troppo elevato per Berna.
Cosa però ha indotto gli svizzeri a cambiare strada? È chiaro che essi avrebbero difeso ancora per un po’ quel cambio del tutto artificioso, cedendo alle pressioni lobbistiche di operatori turistici ed esportatori, se non vi fosse stato l’annuncio di una massiccia azione espansiva da parte della Bce. Dinanzi al cosiddetto “bazooka” di Mario Draghi, che si apprestava a immettere – nel corso del tempo – più di mille miliardi di euro, la Bns ha preso atto della realtà e ha lasciato che il mercato dei cambi facesse il suo corso.
Sull’azione di Draghi si è registrato un (quasi) unanime consenso. Si è detto che – finalmente! – le autorità monetarie prendevano iniziative anti-recessione, che questo denaro fresco avrebbe potuto aiutare gli investimenti e le imprese, che in tal modo gli interessi sul debito pubblico potevano diminuire, con grande beneficio per i conti degli Stati gravati da debiti. E poi si è detto che c’era bisogno di contrastare la deflazione con una “buona” inflazione intorno al 2%. Credo che sia opportuno, invece, essere scettici.
Una buona moneta è una moneta stabile, che facilita gli scambi, permette un’efficace contabilità e viene accumulata in vista di investimenti futuri. Queste sono le funzioni essenziali della moneta, ma nessuna di queste è davvero preservata quando chi la gestisce pretende di manipolarla a piacere. Se nel corso della storia passata il processo evolutivo gestito dagli operatori di mercato ha selezionato l’oro, questo è avvenuto proprio perché si trattava di una moneta non facilmente moltiplicabile con una decisione arbitraria come quella assunta qualche giorno fa da Draghi.
Oltre a ciò, Draghi ha agito – come qualche commentatore tedesco ha evidenziato – a vantaggio dei Paesi meno virtuosi e più indebitati (Italia e Francia, in particolare) e a danno di quelli più virtuosi. Questo “premiare” chi fa debiti non soltanto è ingiusto, ma rappresenta un incentivo ad agire in maniera sconsiderata. Per giunta ora si entra in una fase inflazionistica che, dopo la fiammata iniziale, ci obbligherà a fare i conti con tutte le difficoltà che sono caratteristiche di un’economia con una moneta debole.
L’Europa si può in qualche modo permettere di fare questo, illudendosi che non vi sia un prezzo assai salato da pagare, perché è una grande realtà, che unisce centinaia di milioni di persone. Questo processo sarà distruttivo, ma i nodi verranno al pettine negli anni a venire. Al contrario, la dirigenza della banca centrale elvetica – che pure a lungo non si è mostrata più saggia delle dirigenze delle altre banche centrali (americana, europea, giapponese ecc.) – è stata costretta a invertire la propria direzione dalle limitate dimensioni dell’economia del Paese, che in definitiva conta solo otto milioni di abitanti.
Ancora una volta, la Svizzera ha tratto vantaggio dalla propria “piccolezza”. Se alla fine il buon senso ha prevalso e se ora – di conseguenza – gli svizzeri possono contare su un cambio più affidabile (che può orientare gli attori economici a reimpostare su basi maggiormente solide la loro struttura produttiva) è solo grazie al fatto che non hanno potuto diluire la responsabilità dei propri errori e non hanno potuto proseguire in quella politica monetaria dispendiosa e redistributrice che prima li portava ad acquisire euro.
È questa una buona lezione che, in qualche modo, dovrebbe anche indurci a riflettere maggiormente su cosa sta diventando l’Unione europea e sulle conseguenze negative derivanti dall’espansione del suo potere.
Convegno “Prima le idee” – Interviste ai relatori

Convegno “Prima le idee” – Interviste ai relatori

Per parlare della situazione politica, ma soprattutto del centro destra, il Centro Studi ImpresaLavoro ha organizzato lo scorso 2 dicembre a Udine, presso Palazzo Kechler, un incontro in cui proporre alcuni punti di vista per contribuire al dibattito.

Ha introdotto Simone Bressan, Direttore ImpresaLavoro

Sono intervenuti:
Massimo Blasoni, Presidente ImpresaLavoro
Carlo Lottieri, Filosofo liberale, editorialista Il Giornale
Davide Giacalone, Scrittore, editorialista Libero

Intervista a Massimo Blasoni:

Intervista a Carlo Lottieri:

Intervista a Davide Giacalone:

Il servizio di TeleFriuli:

L’espansione del potere statale e la minaccia dell’Unione

L’espansione del potere statale e la minaccia dell’Unione

Carlo Lottieri

Lo Stato moderno è quell’istituzione che, al termine di un lungo cammino che ha avuto inizio in epoca medievale, si è imposta sulla società moderna quale soggetto in grado di monopolizzare l’uso della violenza, assorbire il diritto, farsi carico di tanti ambiti e attività tradizionalmente affidati a comunità, associazioni, imprese e individui. Dopo avere dominato gli ultimi cinque secoli della storia occidentale, però, lo Stato potrebbe essere avviato verso il proprio declino. È però vero che anche se le cose stessero in questi termini, ci si troverebbe in una fase “terminale” segnata da una serie di paradossi.
Da un lato, mai come ora lo Stato è stato forte e mai oggi il ceto politico è stato in grado di togliere risorse ai produttori, costruendo un enorme apparato parassitario. Oggi questo Moloch sta però distruggendo le economie, e non solo quelle del Sud dell’Europa: dato che tanti Stati sono sempre più indebitati e vanno trascinando nel gorgo l’intera economia. Eccezion fatta per qualche caso particolare (dalla Svizzera al Liechtenstein, a taluni paesi ex-comunisti), nel Vecchio Continente chi lavora è privato del 50% delle risorse, ricevendo in cambio una sanità di modesta qualità, un’istruzione sempre meno adeguata, una promessa di protezione previdenziale che non potrà essere mantenuta, e via dicendo. Ma di fronte a tale fallimento la risposta che viene individuata consiste nel trasferire il potere a un livello superiore: puntando utopicamente a costruire uno Stato globale e, quale tappa intermedia, un’Unione europea sempre più costosa e centralizzata. Questo significa che gli Stati stanno trionfando, ma al tempo stesso stanno progressivamente per essere spodestati da un iper-statalismo sovranazionale e da un processo che svuota antiche e consolidate autonomie nazionali. Ne consegue che Roma e Parigi, Londra e Berlino, ma anche i capoluoghi di regione e le grandi città, rischiano di essere sempre più i semplici punti d’appoggio di un potere parassitario e onnipresente, le cui pratiche predatorie tengono ormai a sganciarsi dagli Stati e adottano qualsivoglia strategia pur d’imporsi.
La formula, pur teoricamente infelice, della cosiddetta “cessione di sovranità” interpreta con efficacia lo svuotamento di istituzioni che un tempo si sono proclamate totali e definitive, gli Stati, e che hanno pure sviluppato una loro teologia secolare, costruendo quelle mitologie variamente nazionaliste o classiste che hanno innescato i grandi conflitti degli ultimi due secoli. Sotto vari punti di vista, il globalismo giuridico di quanti mirano a realizzare un qualche Stato mondiale e che puntano a edificare una statualità continentale – gli Stati Uniti d’Europa – è figlio diretto della linea teorica che ha costruito la modernità statuale (Bodin-Hobbes-Rousseau), essendo in sintonia con le ideologie che hanno dominato la filosofia politica negli ultimi secoli. La sovranità prima si è fatta assoluta, ma poi si è realizzata integralmente nel momento in cui ha incontrato la massa (nazionalismo, socialismo, democrazia illiberale) e ha quindi investito se stessa in un globalismo giuridico volto a far venir meno ogni vincolo, facendo coincidere la mistica della volontà generale e l’ideologia dei diritti umani.
Per certi aspetti, ci si trova su un piano inclinato. Le élite politiche e intellettuali europee, che nel ventesimo secolo hanno dato credito a ogni visione totalitaria, oggi considerano la prospettiva dell’unificazione come l’unica possibile e legittima. Nonostante i problemi correlati al processo di costruzione dell’Unione, ogni difficoltà viene addebitata all’ancora imperfetta federazione realizzata negli anni scorsi. È un’idea largamente condivisa che una democrazia europea compiuta con capitale a Bruxelles sarebbe in condizione di assicurare pace, civiltà e prosperità a tutti.
Non tutto sta però favorendo gli artefici di questo Potere tendenzialmente illimitato. Il quadro economico e sociale, in particolare, va deteriorandosi. Le logiche deresponsabilizzanti che sono state al cuore dello Stato moderno (“la grande finzione grazie alla quale tutti si illudono di vivere alle spalle di tutti”, secondo l’aurea definizione di Frédéric Bastiat) sono esaltate dalle procedure di protezione, aiuto e garanzia che contraddistinguono l’interventismo dell’Unione e della Bce. La disfatta della civiltà europea non è casuale.
Il risultato è che il meccanismo redistributivo che vorrebbe costringere alcuni Stati a sostenerne altri rischia di erodere le chance di tenuta dei primi senza davvero aiutare i secondi. I bilanci dei Paesi più virtuosi sarebbero messi a rischio e con essi la solidità della moneta comune, mentre nel caso dei Pigs il “salvataggio” di taglio assistenziale rinvierebbe decisioni che invece vanno assunte senza indugio. Ritardare l’agonia non significa evitare la catastrofe. Dilatati nella loro capacità d’intervento dallo sviluppo del welfare, gli Stati moderni hanno progressivamente innalzato la pressione fiscale, hanno poi aumentato la massa monetaria (generando inflazione) e, infine, hanno fatto ricorso al debito.
Il progetto ideologico è lanciatissimo e non ha rivali, ma la realtà offre resistenza. Sul piano del dibattito delle idee, purtroppo gli unici (o quasi) che s’oppongono al globalismo giuridico-politico e all’europeismo unificatore sono gli sciovinisti difensori delle patrie ottocentesche. I fautori della coercizione sembrano insomma non dover competere con progetti alternativi e non incontrare ostacoli. Anche se il treno va velocissimo, all’orizzonte è però già visibile il precipizio. L’interventismo statale è stato distruttivo e l’iper-interventismo dello Stato massimo lo è ancor di più. Come cantava Jim Morrison, “this is the end”, perché alla fine gli errori si pagano. Per questo è urgente dare fiducia a quanti credono nella proprietà privata, nel mercato, nella facoltà di autodeterminarsi, nell’autonomia negoziale, nella possibilità di generare nuove istituzioni (veramente liberali) e nell’obiezione di coscienza.
Grazie alla libertà devono insomma poter crescere mille fiori: così da disorientare i fanatici del Potere e da far dissolvere i loro progetti illiberali.
La Pac è fallita, ma l’Europa fa finta di nulla

La Pac è fallita, ma l’Europa fa finta di nulla

Carlo Lottieri

Nelle scorse settimane è toccato al ministro italiano delle Politiche agricole, Maurizio Martina, scendere in campo a difesa della Politica agricola comune (Pac), che forse subirà qualche limitato taglio. Eppure l’economia ha le sue leggi: lineari, ma al tempo stesso capaci di rivelarsi spietate se vengono continuamente ignorate. E questo spiega perché l’interventismo in agricoltura abbia prodotto, negli scorsi decenni, soltanto disastri.
Meccanismi assistenziali a favore del mondo agricolo sono presenti in molti Paesi, per una ragione assai semplice. Ancora un secolo fa, la maggioranza degli europei lavorava nei campi, mentre oggi solo una piccola frazione degli occupati (in quasi tutti i Paesi europei è inferiore al 10%) si colloca in tale settore. Di fronte a un tale esodo la classe politica è intervenuta. Nel Vecchio Continente, in particolare, fino al 1992 sono stati introdotti montanti compensativi associati alle produzioni e successivamente si è provveduto a scoraggiare ogni iniziativa con altri strumenti. Al fine di limitare i costi di questo sistema di sovvenzioni a favore dei “poveri contadini” (tra i primi beneficiari ci sono però le case reali: dai Windsor ai Grimaldi) si sono destinate ingenti risorse anche a chi accettava di non coltivare i propri terreni. Il risultato è che abbiamo visto farmacisti o notai acquistare terreni per fare un investimento, talora proprio contando sulle sovvenzioni destinate a quanti tengono inattivi i terreni. In più sono state introdotti limiti alla produzione.
Com’era prevedile, il meccanismo ha moltiplicato imbrogli ed abusi, come nel caso dello scandalo delle quote latte. E se la situazione europea non è troppo diversa da quella statunitense, è pure vero che le alternative esistono e, quando applicate, producono risultati notevoli: come nel caso della Nuova Zelanda. Un convinto sostenitore dell’esperienza liberista neozelandese (stop degli aiuti pubblici e libertà di produrre) è Giorgio Fidenato, un agronomo friulano che da tempo va conducendo una strenua battaglia contro la Pac – quale segretario dell’associazione Agricoltori Federati – e che egualmente è assertore della necessità di aprire la strada all’innovazione in ambito agricolo: a partire dall’utilizzo degli Ogm. La tesi di Fidenato è difficilmente contestabile: “avere finanziato le aziende agricole europee ha rallentato quei processi di ammodernamento che, specie in Italia, passano dalla fine di un’agricoltura fatta di appezzamenti troppo piccoli. Perché sia possibile uno sfruttamento migliore delle risorse i protagonisti del settore vanno indotti a fare scelte imprenditoriali. Ma il sistema degli aiuti e le logiche dettate dagli ecologisti (a partire da quanti hanno promosso il biologico) hanno impedito tutto ciò. Oggi il mercato ci chiederebbe di aumentare le produzioni, ma in realtà la Pac ci blocca”.
Il bilancio sulla Pac, insomma, è solo negativo: dato il gran numero di vittime che ha prodotto.
In primo luogo hanno subito gravi conseguenze di tale politica i contribuenti, tassati per sostenere tale politica di sprechi. Ma ugualmente danneggiati sono stati i consumatori, dato che la Pac ha tenuto artificiosamente alti taluni prezzi. E per lo stesso motivo sono stati penalizzati gli agricoltori del Terzo Mondo (dove ancora si muove di fame, anche a causa della nostra chiusura commercial), che non possono vendere da noi i loro beni. Per questo se in passato la lotta contro il protezionismo era combattuta per lo più da pochi liberisti, oggi vi sono organizzazioni umanitarie di varia tendenza che avvertono l’urgenza di offrire a quanti vivono nelle aree più povere la possibilità di guadagnarsi onestamente da vivere e di esportare da noi i loro prodotti. D’altra parte, una quota dell’immigrazione clandestina è anche da addebitarsi alla Pac, che impedendo a quanti stanno in Africa di costruirsi un futuro li induce a venire qui. Essi non vogliono vivere alle nostre spalle: ci chiedono solamente di poter venderci quei prodotti che, poiché gravati da dazi altissimi (140% sul burro, 150% sullo zucchero e così via), non possono arrivare nei nostri mercati.
In apparenza, gli agricoltori sono i grandi beneficiari della politica agricola europea: e in qualche caso è così. Però nell’insieme – dopo un periodo di tempo ormai abbastanza lungo – possiamo dire che anche il mondo agricolo ha finito per pagare un prezzo altissimo. In cambio dei finanziamenti gli agricoltori hanno dovuto accettare una crescente limitazione delle produzioni e più in genere un freno al loro sviluppo. Per questo motivo, oggi il settore appare in larga mostra arretrato.
Un vantaggio netto dalla Pac, invece, hanno ricavato i professionisti del sindacalismo agricolo e le burocrazie comunitarie. Come rileva Fidenato, “c’è una tragica alleanza tra le comprensibili paure di tanti agricoltori (consapevoli dei guasti della Pac, ma timorosi di fronte al libero mercato) e gli interessi di chi gestisce il sistema. È questo intreccio che va sciolto, mostrando come gli aiuti ostacolino la libertà d’impresa e quindi finiscano per distruggere il settore”. Il guaio è che una voce come quella di Fidenato, capace di formulare analisi razionali e a lungo termine, sia sommersa dal rivendicazionismo demagogico di chi non vuole
Quel disastro statalista che suona da lezione per l’economia europea

Quel disastro statalista che suona da lezione per l’economia europea

Carlo Lottieri – Il Giornale

Le notizie (preoccupanti) riguardanti l’economia giapponese hanno fatto crollare l’indice della Borsa di Tokio e aperto una fase politica nuova. È possibile che per il premier Abe non ci siano più molte chance e che presto il Giappone volti pagina. Sono però vent’anni che quella che era la seconda economia globale è in difficoltà. Il Paese del Sol Levante adotta da tempo tassi di interesse bassissimi, talora anche nulli, e utilizza il ricorso al debito pubblico con spregiudicatezza. Lo sfascio giapponese è allora interessante perché noi ci troviamo in una situazione simile, con la Bce che adotta una strategia di espansione monetaria (tassi egualmente vicini a zero) e un debito nazionale che ormai è pari al 134% del Pil.

In questo quadro, quanto ci viene da Tokio conferma le tesi di studiosi come Mises e Hayek, e spiega in che modo una società di successo, che negli Anni ’70 sembrava minacciare il primato americano (fino a innescare spinte protezioniste negli Usa), debba fare i conti con un processo di impoverimento. La spesa pubblica abnorme, che ha generato un debito folle, e un troppo facile accesso al credito indirizzano chiunque verso cattivi investimenti: ciò produce fasi di espansione artificiosa, a cui fanno seguito aggiustamenti talora assai dolorosi. In qualche modo, l’interventismo che genera deficit e la politica monetaria espansiva sono due pilastri del keynesismo: e le difficoltà del Giappone sono la conseguenza di un’economia in cui il ruolo del privato si restringe e la moneta è manipolata dalla Banca centrale.

Ma la situazione dell’Europa e in particolare dell’Italia è simile, così che sul disastro di quella che era un’ economia potentissima bisognerebbe riflettere attentamente. Ogni società cresce se quanti producono ricevono indicazioni corrette dall’ambiente in cui operano. Per ragioni diverse ma convergenti, la dilazione del settore pubblico estranea a logiche economiche e tassi che non riflettono le vere esigenze dell’economia, finiscono per indurre anche i soggetti privati a comportamenti poco responsabili. Esaltato dagli economisti della sinistra nostrana, il Giappone è allora oggi in ginocchio perché i suoi responsabili politici hanno intralciato il libero mercato e hanno distorto i prezzi. Le conseguenze le vediamo. In effetti, lo statalismo impedisce ai prezzi di trasmettere le informazioni corrette: come constatammo bene quando, in assenza di ticket, i farmaci erano gratuiti e assistemmo a un sovraconsumo irragionevole. Lo si è visto anche nella crisi Usa dei sub-prime, quando interessi artificiosamente bassi hanno spinto ad acquistare una casa pure quanti erano privi di adeguati redditi. La crisi giapponese mostra dove conduce lo statalismo. C’è da sperare che qualcuno, da noi, apprenda la lezione.

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Carlo Lottieri

Entro questa Europa che sta avvitandosi su se stessa, l’unica vera strategia può consistere nell’allargare gli spazi di libertà. Solo una fuoriuscita dal mito dallo Stato e, di conseguenza, dall’interventismo pubblico può ridare una chance alle popolazioni europee. E in questo senso, una spinta nella direzione giusta potrebbe venire dal TTIP, ossia da quel “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti) che dovrebbe unificare le economie di Stati Uniti ed Europa.
De negoziati in atti, però, si parla assai poco e questo in promo luogo perché ben pochi credono che ampliare gli scambi sia un atto di civiltà e una scelta che favorisce la prosperità. In questo senso dovremmo imparare da chi, negli ultimi decenni (per giunta partendo da una situazione ben peggiore della nostra), ha saputo imboccare la strada giusta. Al riguardo può essere molto utile quanto scrissero Ning Wang e Ronald Coase – quest’ultimo scomparso lo scorso anno – in uno straordinario volume (il libro è stato tradotto in italiano da IBL Libri) volto a spiegare come e perché la Cina sia riuscita a diventare un Paese capitalista. Com’è successo che uno dei Paesi più statici, piegati dallo statalismo e distrutto da progetti folli quali la Rivoluzione Culturale e il Grande Balzo in Avanti abbia saputo mettersi sui giusti binari, tanto da crescere al ritmo del 10% all’anno? Mentre Europa e Nord America vanno perdendo sempre più dinamismo, com’è possibile che la Cina abbia invece imboccato la strada opposta?
Wang e Coase insistono su vari punti, ma in particolare su due. In primo luogo, essi sottolineano il carattere altamente decentrato della Cina, che è un autentico continente e che nel corso dei secoli non è mai stato gestito direttamente da Pechino, poiché nessun regime ha mai preteso tanto. Per giunta, lo stesso Mao evitò ogni dirigismo economico sovietico (basato su piani economici quinquennali) perché riteneva che una struttura di quel tipo avrebbe rafforzato i luogotenenti politici e avrebbe quindi rappresentato un pericolo per la sua leadership. Avere tanti capetti di livello locale era probabilmente meglio che non dotarsi di una tecnostruttura che disponeva dell’economia cinese.
Mao non aveva alcuna delle preoccupazioni che gli studiosi liberali hanno di fronte alla al dirigismo, ma perseguendo in modo assai machiavellico i suoi calcoli bloccò ogni eccessiva concentrazione del potere economico in poche mani. L’altra questione su cui gli autori insistono è il ruolo che hanno avuto i cambiamenti “ai margini”. In definitiva la Cina collettivizzata da Mao si è trovata a dover affrontare una povertà terribile e una disoccupazione di grandi dimensioni. In questo quadro drammatico e, spesso, a migliaia di chilometri dalla capitale, in varie circostanze quella che ebbe luogo fu una privatizzazione di fatto dei terreni che produsse ottimi risultati e poi venne presentata dal regime come l’effetto di una scelta strategia.
Anche nelle città, la nascita di imprese private ebbe luogo nell’illegalità. Non solo il regime comunista non organizzò in alcun modo i primi passi del sistema privato, ma neppure creò un quadro giuridico che favorisse tutto questo. L’afflusso nelle città di masse di disoccupati obbligò però molti ad arrangiarsi: e anche stavolta il Pcc si attribuirà i buoni risultati conseguenti. Il regime subì i cambiamenti, anche se ebbe la furbizia di non ostacolarli una volta che le cose ebbero avuto luogo e, anzi, si attribuì le trasformazioni quali effetti di decisioni “lungimiranti”.
Spesso s’insiste sul pragmatismo di cui diedero prova i comunisti cinesi e, in particolare, Deng Xia-ping, cui poco interessava se fosse meglio adottare Stato o mercato, perché l’importante era che l’economia crescesse. Questo è cruciale per capire l’apertura al mercato della Cina, ma anche Deng avrebbe potuto fare ben poco se – lontano dai centri potere – non ci fosse stata la coraggiosa iniziativa di chi ha osato, sfidando i pregiudizi e gli interessi consolidati. E oggi la partita cinese è assai più aperta – anche sotto il profilo politico – proprio grazie all’espansione di imprese che sfidano il mercato invece che rispondere a esigenze politiche.
Non lo si dice quasi mai, ma l’esperienza cinese è soprattutto quella di un potere che, un po’ alla volta, si è ridimensionato e ha finito per perdere il monopolio sulla società. Oggi – nonostante i molti problemi che persistono: dal partito unico alla situazione tibetana – la libertà individuale in Cina è assai più rispettata e il potere meno ramificato, perché le forze del mercato hanno creato spazi di autonomia e sparigliato le carte.
Se il coraggio d’intraprendere ha condotto entro un ordine capitalistico pure la Cina del marxismo in salsa maoista, perché non dovrebbe poter succedere lo stesso anche nella nostra Europa dominata da iper-regolamentazione, tassazione e redistribuzione? E se l’apertura del mercato cinese ha tanto aiutato quella società, perché mai questo non dovrebbe succedere anche sulle due coste dell’Atlantico?
Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Carlo Lottieri

Siena è una città bellissima, ricca di storia e monumenti, che conserva istituzioni e tradizioni uniche. Una città che conquista chi la visita e che è ancora oggi carica di potenzialità. Ma in questo tempo di scandali si tratta ormai di una realtà umiliata, piegata in due, smarrita, che vede venir meno ogni riferimento. Questo minuscolo capoluogo del mondo è sempre più una rappresentazione in scala ridotta del disastro italiano, un’esagerazione di quanto sta avvenendo nell’intera Penisola: sia per quanto esso è bello, sia per quanto è disperato. La folle vicenda del Monte dei Paschi è solo l’ultimo episodio di una disfatta. Negli scorsi anni si era assistito anche al progressivo declinare del sistema turistico e alberghiero, con molti esercizi costretti a chiudere, e soprattutto allo sfaldarsi dell’università, che sotto il rettorato Tosi ha infoltito oltre ogni ragionevolezza gli organici – specie nel settore amministrativo – e si è lanciata in spese difficilmente giustificabili, accumulando una quantità impressionante di debiti. Ora l’ateneo sta provando a risalire la china, ma deve fare i conti con una pesante eredità.
Siena è un piccolo gioiello magnifico che si trova ora a fare i conti con un recente passato pieno di errori, un presente che l’ umilia e un futuro davvero a rischio. E le ragioni di questa situazione sono chiare. A Siena è trionfato quel mix di ideologia e cinismo che è uno tra i tratti più caratteristici dello statalismo nazionale. Non soltanto l’Italia è il Paese che per anni e anni ha avuto il partito comunista più forte dell’Occidente, ma qui si è anche elaborato un interventismo “di relazione” che è basato sul favore e sul’appartenenza. La contrada, la loggia, la sede di partito, la parrocchia o qualsiasi altra cosa sia in grado di creare un legame faccia-a-faccia è in grado di permettere il raggiungimento di obiettivi altrimenti fuori portata.
Se l’ideologia ha voluto fornire una giustificazione “alta” a ogni forma di intervento pubblico, la relazione para-familiare ha gestito nei fatti il giorno dopo giorno di questo progressivo ampliamento del numero delle prebende e dei privilegi. A Siena ci si rivolgeva a questo o a quello per andare a lavorare in Mps, e quasi ogni altro ambito cittadino rispondeva a questo tipo di logiche. La banca faceva comunque da cassa un poco per tutti, dalle associazioni alle imprese, offrendo lavoro e finanziamenti con grande generosità e al di fuori di logiche di mercato.
Siena muore per la politica: a causa della politica. È una città in cui relazioni interpersonali anche di grande efficacia e tutt’altro che da demonizzare (si pensi al fenomeno formidabile delle contrade: una realtà che tutto il mondo ammira) sono state “imbastardite” da una progressiva pubblicizzazione di ogni ambito: con la conseguenza che quasi ogni comportamento ha finito per configurarsi come un favore a questo o quello.
Siena potrà rialzarsi se penserà che la propria tradizione bancaria è essenzialmente una tradizione di mercato, e che quanto è avvenuto negli ultimi decenni può diventare solo una (triste) parentesi. Siena può salvarsi se saprà riscoprire e valorizzare, con spirito competitivo, quanto ha di eccellente: in università e non solo (si pensi, ad esempio, a un’istituzione musicale ammirevole come l’Accademia Chigiana). La città uscirà da questo psicodramma che ormai dura da anni solo se tornerà a essere una città di imprenditori: nel turismo e in altri settori. Ma parlare di Siena vuol dire parlare dell’Italia. Il microcosmo toscano è in qualche eccessivo nel raffigurare tutto il bene e tutto il male della Penisola. Siamo tutti un poco senesi, in questo senso, e tutti dobbiamo allora riscoprire il meglio del nostro passato per poter presto dimenticare questo presente che ci offre davvero ben poco.
Abolire la precarietà è abolire la vita

Abolire la precarietà è abolire la vita

Carlo Lottieri

Chiunque appaia in televisione o in un qualunque altro luogo atto a dibattiti e ponga sotto accusa la condizione precaria in cui si trovano le giovani generazioni è destinato ad avere la meglio: basta che parli della “dignità” della persona umana e metta atto accusa il sistema liberale, per definizione “spietato e senza regole”. Eppure – a ben guardare – la polemica contro la precarietà del lavoro è una battaglia contro la vita, il mutamento, lo sviluppo. Essa esprime la pretesa di costruire un mondo di impiegati delle poste, i quali gestiscono pacchi fermi nei depositi e cartoline mai arrivate a destinazione.  Sia chiaro: come avrebbe detto il comico Catalano quando spopolava con le sue ovvietà nel salotto di Renzo Arbore, “è meglio avere un posto di lavoro stabile e ben pagato piuttosto che uno insicuro e mal retribuito”. Bisogna però chiedersi se questo sia sempre possibile e a quali condizioni. Una riflessione sulla precarietà, per giunta, esige che ci si domandi per quale motivo in una società di mercato ogni status è instabile e suscettibile di essere spazzato via.

La radice di tutto è la libertà umana. Se non vengono coartati o rinchiusi in un guLag, gli uomini tendono a decidere sulla base delle loro preferenze. Il susseguirsi dei giorni e delle settimane ci vede compiere scelte assai diverse e – ad esempio – se un tempo ci piaceva un dato gruppo rock, è possibile che poi ci appassioni alla musica barocca. E lo stesso si può dire per ristoranti, barbieri o fruttivendoli. Per questo motivo sul libero mercato nessuna impresa può essere sicura che esisterà tra un anno, dato che il perdurare di ogni attività è strettamente connesso al mutevole favore espresso dai clienti (spesso condizionato dallo stesso evolvere delle tecnologie e dall’arrivo di soggetti più abili nell’intercettare le attese del pubblico). Se le imprese che costruivano valvole sono state soppiantate da quelle che hanno realizzato i transistor, e queste ultime a loro volta da altri ancora, è chiaro che quei posti di lavoro non esistono più. Ma quando un’impresa entra in crisi e si pensa di salvare l’occupazione ricorrendo a strategie assistenzialiste, si finisce per distruggere ricchezza e dirottare risorse verso un’impresa sconfitta perché incapace di andare incontro alle attese dei consumatori.

Certamente vi sono settori sottratti al precariato, e i retori anti-mercato guardano a quel mondo come ad un modello da imitare. I pezzi di “socialismo reale” della società italiana (sanità, università, magistratura, scuola, enti locali, ecc.) garantiscono ai loro dipendenti un posto stabile e per sempre. Non è necessario che un ospedale soddisfi i clienti e guarisca i malati perché sia finanziato – anche contro la loro volontà – dai contribuenti.

Ovviamente, ognuno di noi malsopporta le incertezze della vita, tende a limitare il rischio e è anche pronto a sacrificare una parte del proprio reddito per avere una prospettiva futura più lineare. Ma in un certo senso gli imprenditori esistono proprio per questo, dato che in molti casi si fanno carico quasi completamente degli imprevisti del mercato e scelgono di corrispondere ai dipendenti una retribuzione fissa, sottratta agli alti e bassi di ogni economia reale; e magari garantita per un dato numero di anni. Quando questo avviene è perché il dipendente riceve una retribuzione che sconta la quota di “rischio” sopportata dal datore di lavoro.

Nell’instabile mondo abitato dagli uomini liberi il rischio può quindi essere gestito o minimizzato, ma sicuramente non può essere eliminato. D’altra parte, sul piano individuale come su quello di un’intera società, il miglior modo per contrastare la precarietà nei suoi aspetti peggiori consiste nel crescere ed essere sempre più efficaci. Chi lavora bene, infatti, è ricercato: se perde un lavoro ne trova un altro, e gli è anche più facile ottenere contratti a lunga scadenza. Ma lo stesso vale per la società nel suo complesso, che quando è in espansione è caratterizzata da una cronica carenza di forza-lavoro (con il risultato che i lavoratori finiscono per avere, sul mercato, una maggiore forza contrattuale).

Perché una società progredisca davvero bisogna però tagliare le spese e licenziare i dipendenti pubblici, abbassare le tasse ed eliminare regole ed inciampi. Né bisogna dimenticare che le amare sorprese che può riservare il mercato rappresentano un dato caratteristico di ogni esistenza non pianificata. In una società costretta ad operare come un esercito inquadrato, in cui ognuno agisce obbedendo agli ordini e il cammino è comunque fissato dai generali, il precariato può anche essere abolito perché la libertà stessa è negata. A quanto processano le incertezze del mercato tutto ciò potrà piacere, ma non ci si chieda di condividere una prospettiva tanto illiberale.

Lo sciopero è davvero utile e legittimo?

Lo sciopero è davvero utile e legittimo?

Carlo Lottieri

In Italia, a seguito dell’iniziativa politica del premier Matteo Renzi sull’articolo 18 i temi del mercato del lavoro e della libertà contrattuale sono tornati al centro del confronto pubblico. C’è però una questione un po’ spinosa che resta sempre fuori discussione: come fosse un tabù o un tema che non va neppure sfiorato. Si tratta dello sciopero.
Eppure altrove non è così. Qualche anno fa la società italo-svizzera incaricata di gestire i collegamenti ferroviari tra la Lombardia e il Canton Ticino fu alle prese con un contratto travagliato, dato che i sindacati italiani erano infuriati per il fatto che i colleghi svizzeri avevano sottoscritto un’intesa che prevedeva la rinuncia a interrompere il lavoro per l’intera durata del contratto. Liberamente, insomma, ci si vincolava a non scioperare.
Da noi questa libertà contrattale non è pensabile, dato che lo sciopero – già nella carta costituzionale – è considerato un diritto fondamentale. E come non si può cedere la propria vita o la propria libertà, allo stesso modo è inconcepibile che vi sia chi rinuncia alla facoltà di scioperare.
In realtà, i responsabili sindacali elvetici in quella circostanza accettarono proposte che a loro parvero vantaggiose e la controparte fu lieta di ottenere la garanzia che non vi sarebbero stati scioperi: tutelando in tal modo le attese e gli interessi degli utenti, che hanno bisogno di andare al lavoro ogni giorno. Ma nell’immaginario del sindacalismo italiano toccare lo sciopero è peggio che bestemmiare in chiesa.
Diversamente la pensava un grande liberale del Novecento, Bruno Leoni, per il quale quello dello sciopero non era un diritto. Ai suoi occhi, sciopero e serrata erano sullo stesso piano, rappresentando evidenti violazioni contrattuali. Come emerge in alcuni suoi scritti ripubblicati qualche anno fa in un volume intitolato La libertà del lavoro(edito da Rubbettino), egli non riteneva certo che si potesse obbligare la gente a lavorare contro la propria volontà, ma gli pareva giusto che – come avviene di fronte alle violazioni contrattuali – s’intervenisse con penali a carico di chi non rispetta gli impegni assunti.
In realtà, ormai lo sciopero è soprattutto un’arma nelle mani delle burocrazie sindacali. Potendo ricattare imprenditori e utenti, gli apparati sindacali dispongono di grande visibilità. Non è caso che molti politici italiani (da Marini a Bertinotti, da Cofferati a Del Turco e via dicendo) siano usciti proprio dalle file del sindacalismo: il potere crea potere, e il sindacato è una delle vie maestre per accedere alle più alte cariche.
I moderni sindacati (ben diversi da quelli che sorsero nella seconda metà dell’Ottocento) vivono per giunta grazie all’esproprio del diritto del lavoratore a negoziare il contratto. Se gli accordi siglati dalle organizzazioni sindacali fossero vantaggiosi, non vi sarebbe bisogno d’imporli ai non iscritti: ben pochi vi rinuncerebbero e, in generale, i lavoratori si rivolgerebbero ai sindacati per consegnare loro la delega a rappresentarli. Se non è così, è perché solo la libertà contrattuale tutela i lavoratori, mentre il “monopolio” della negoziazione imposto dai sindacati maggiori difende unicamente gli interessi del ceto sindacale.
Così, decidendo anche a nome di chi non nutre fiducia nei loro riguardi, i sindacalisti sono ormai un grave ostacolo all’emancipazione dei lavoratori.
Da Milano al confine elvetico c’è meno di un’ora di viaggio. Ma quanto a civiltà giuridica la distanza è abissale e non c’è da stupirsi se stipendi, condizioni contrattuali e qualità della vita sono assai diversi. A tutto vantaggio di quanti hanno la fortuna di starsene a Nord di Ponte Chiasso.