cesare maffi

Le tessere sindacali sono gonfiate

Le tessere sindacali sono gonfiate

Cesare Maffi – Italia Oggi

La polemica sui tesserati pretesamente falsi della Cgil ha riportato l’attenzione sui numeri milionari, ma altresì un po’ ballerini, degli iscritti ai sindacati. L’ultimo intervento al riguardo risale al febbraio 2012, quando una confederazione autonoma, la Confsal, denunciò la forte discrepanza esistente fra pensionati sindacalizzati certificati dall’Inps e pensionati dichiarati come iscritti dalle centrali sindacali. ItaliaOggi ne diede notizia (23 febbraio 2012): «Sindacati, oltre 3 milioni di tessere gonfiate». Quasi un milione e mezzo di differenza era riscontrato fra dati ufficiali e dati sindacali, con un’accentuata discordanza per l’Ugl. Ovviamente le altre confederazioni elevarono fiere proteste, in particolare appunto l’Ugl. A proposito di quest’ultima confederazione, sarà opportuno ricordare un curioso precedente.

Negli anni sessanta il Corriere della Sera, in un’inchiesta dedicata alle confederazioni sindacali, sparò una cifra: un milione di lavoratori era organizzato dalla Cisnal (la progenitrice dell’Ugl). Ovviamente i dirigenti della Cisnal furono ben lieti del numero attestato da una fonte autorevole, ma si trovarono in imbarazzo negli anni successivi. Infatti non poterono né serbare intatto quel livello né, ancor meno, denunciare una cifra minore. Furono quindi costretti a far lievitare i propri iscritti (quelli denunciati pubblicamente, non quelli veri), fino a raggiungere, sotto Renata Polverini, cifre plurimilionarie, che il segretario della Uil con un amichevole rabbuffo alla collega definì fantasiose.

Se nel settore pubblico vi sono dati di riferimento più solidi, come le deleghe sindacali o i voti nelle elezioni interne (questi ultimi non riguardano i soli tesserati), nel settore privato non può esservi alcuna certezza. Ecco quindi le differenze, di quando in quando ribadite, fra cifre denunciate per un fine e cifre segnalate per un altro. Un fatto è certo: la forza numerica dei sindacati dei lavoratori sta negli ex lavoratori, vale a dire nei pensionati.

L’inghippo sta nelle deleghe rilasciate dai pensionati nel momento in cui lasciano il lavoro: permettono l’automatica riscossione mensile sui ratei di pensione, attuata dall’Inps. Un esperto come pochi altri di faccende sindacali, quale Giuliano Cazzola, ha già indicato la strada per affamare le centrali sindacali: vietare all’Inps la riscossione permanente delle deleghe sindacali (ItaliaOggi, 17 ottobre). Obbligare a deleghe rilasciate anno per anno vorrebbe dire, fuor di dubbio, fornire il destro a centinaia di migliaia di pensionati di revocare, di fatto, l’autorizzazione a riscuotere i contributi sindacali.

Il sadismo fiscale di Mario Monti

Il sadismo fiscale di Mario Monti

Cesare Maffi – Italia Oggi

La storia della Tasi si misura in mesi, ma ammaestra come se fosse una vicenda secolare, tra assurdità, frenesie tassatorie e velleità burocratiche. Partiamo dall’Isi, che non è l’acronimo di uno Stato islamico, bensì cela l’imposta straordinaria sugli immobili, nata sotto il governo Amato I, nel ’92. Secondo l’italico costume di rendere permanente tutto quello che dovrebbe essere transitorio, l’Isi divenne presto Ici. Una patrimoniale, certo; però l’intendimento originario era diverso. Si voleva istituire un tributo sui servizi comunali: chi gode sicurezza e strade, giardini e illuminazione pubblica, deve pagare per i vantaggi che riceve. Avrebbe dovuto essere soggetto passivo chiunque ne traesse giovamento, indipendentemente dal titolo di proprietà o di possesso o di essere conduttore di un’unità immobiliare. Ovviamente non fu così, perché è molto più semplice, per far cassa, mazzolare un bene immobile piuttosto che mettersi a cercare un’altra base imponibile. Anche l’ipotesi di creare un’Imposta sui servizi comunali, che avrebbe dimezzato l’Ici, finì in cavalleria.

L’esigenza di lucrare somme sempre crescenti portò ad aumenti delle aliquote (il tetto del sette per mille da eccezionale divenne ordinario), addirittura sfondando in qualche caso il massimo per salire al nove, perfino sopprimendo il tetto, e rivalutando le rendite catastali del 5% ai fini dell’Ici. Non paghi, i legislatori crearono l’Imu, falsamente definita imposta municipale unica. Da sperimentale l’Imu è divenuta definitiva mentre le rivalutazioni delle rendite catastali hanno assunto, sotto Mario Monti, livelli di sadismo fiscale (+60% per gli immobili residenziali).

A un certo momento, nelle discussioni sul federalismo fiscale, venne fuori l’ipotesi d’introdurre una tassa sui servizi comunali. Avrebbe dovuto sostituire l’imposta patrimoniale. Si tornava alle origini, in certo modo. Ecco motivata la Tasi. La nuova imposta, però, non si misura sui servizi goduti, bensì sulla rendita catastale. È una patrimoniale. Non sostituisce l’Isi-Ici-Imu, ma si assomma. Le complicazioni dell’Ici (il ministro Vincenzo Visco, un signore che se ne intende, denunciò «l’inestricabile giungla dell’Ici») si sono moltiplicate con Imu e Tasi. I contribuenti continuano a pagare somme crescenti e incontrano difficoltà sempre maggiori. Non hanno nemmeno contezza di quanto sia la pretesa del proprio comune nei loro confronti. Non hanno alcuna certezza su modi e tempi e rate di pagamento.

Anche la Tasi deriva la propria esistenza alla volontà erariale di far cassa: sempre, dovunque, comunque. Ogni sistema è buono. Quindi, è più facile ricorrere a un’imposta patrimoniale che non a una reddituale. È più semplice colpire un bene immobile che non un bene mobile. È più facile far salire un’aliquota o una rendita catastale che non prevedere meccanismi più razionali e meno brutali. È più facile aggiungere una nuova forma impositiva a quelle esistenti, invece di sopprimerne qualcuna. È più semplice rendere stabile quel che era provvisorio, piuttosto che studiare un diverso provvedimento. A tutti questi ammaestramenti si aggiunge la beffa di qualche politico. Il bocconiano col loden, assurto a palazzo Chigi a furor di urla («fate presto!» gridava il Sole-24 ore), si è vantato: «In pochi giorni ho messo in campo la riforma della tassazione, introducendo di fatto una patrimoniale». Disse Maffeo Pantaleoni: «Qualunque imbecille può inventare e imporre tasse».

Sindacati pagati dagli iscritti

Sindacati pagati dagli iscritti

Cesare Maffi – Italia Oggi

Non è piaciuta ai sindacalisti la riduzione di distacchi, aspettative e permessi retribuiti. Si sono sprecate le accuse di populismo, di demagogia, perfino di incremento di spesa a seguito del provvedimento con il quale la ministra Marianna Madia, in applicazione dell’articolo 7 del decreto-legge n. 90 sulla pubblica amministrazione (convertito dalla legge 114), ha invitato le organizzazioni sindacali a comunicare quali distacchi intendano revocare.

Invece la novità è altamente positiva, per più motivi.

C’è una ragione di risparmi, evidente. Se un insegnante torna a insegnare anziché continuare a svolgere attività sindacale, non ci sarà più bisogno di assumere un supplente in sua sostituzione. Quand’anche i sindacalisti che rientrano al lavoro avessero poco lavoro da svolgere, un risparmio ci sarebbe quando quel posto fosse cassato dall’organico per superfluità. Similmente il discorso vale per i permessi retribuiti.

C’è un aspetto politico da non trascurare. Matteo Renzi è riuscito dove avevano tentato, senza troppi successi, ministri del passato di vario orientamento. Ha dimostrato di non aver timore reverenziale verso le centrali sindacali. Già si era avvertita la sua allergia alla concertazione. Anche taluni toni quasi sprezzanti indicano la sua mancata subordinazione alla Triplice. Semmai, pur se il passo avanti è importante e meritevole, non è sufficiente.

Il vero obiettivo sarebbe far tabula rasa dei privilegi concessi ai sindacalisti dallo statuto dei lavoratori (non per nulla, poco dopo l’approvazione, vi fu chi parlò piuttosto di «statuto dei sindacalisti». Il principio dovrebbe essere di non mettere a carico della collettività i costi dei sindacati. L’attività sindacale andrebbe pagata dai tesserati, non già indiscriminatamente da tutti i dipendenti, compresi i non aderenti, nel caso delle imprese private, o da tutti i contribuenti, nel caso del comparto pubblico. Posto che la riforma del lavoro è ricorrentemente annunciata (anche se da ultimo attenzione e polemiche si sono concentrate sull’articolo 18), inserirvi anche la revisione delle spese sostenute per i sindacati non sarebbe un fuor d’opera. In parte, si è fatto con i partiti. I sindacati non dovrebbero rimanere esenti.