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L’irrilevanza di Confindustria di fronte all’offensiva renziana sul lavoro

L’irrilevanza di Confindustria di fronte all’offensiva renziana sul lavoro

Il Foglio

In Viale dell’Astronomia, la sede di Confindustria, non si sta preparando alcuna campagna o una qualsiasi iniziativa pubblica e condivisa a sostegno della riforma renziana del mercato del lavoro che invece sta motivando la mobilitazione dei sindacati. A invocare manifestazioni di piazza, e si vedrà con che modalità – magari solo con dei gazebo dai quali distribuire materiale informativo sulle “vertenze e i problemi del lavoro” – sono la Cgil di Susanna Camusso e la Cisl di Raffaele Bonanni parallelamente alla Fiom di Maurizio Landini. Per quanto le sigle sindacali siano affette dalla “annuncite” quando si tratta di proclamare uno sciopero generale (“ne annunciano a prescindere”, ha detto Renzi) in questi giorni stanno confinando il dibattito pubblico alla sola difesa dell”articolo 18. Con l’idea di far passare un messaggio preciso: come si può con il tasso di disoccupazione al 12,6 per cento fare così a mani basse strage di lavoratori? Quando invece si tratterrebbe di incentivare la flessibilità del mercato e, infine, adottare quella linea tracciata dall’ad di Fiat-Chrysler nel 2011 per favorire la prevalenza dei contratti aziendali su quelli nazionali, senza i quali sindacati e Confindustria non avrebbero ragion d’essere.

In verità non sono mancate in questi giorni le prese di posizione confindustriali sul punto più controverso dello Statuto dei lavoratori e sulla necessità di trasformare un mercato del lavoro che ha ingessato imprese e investimenti: dichiarazioni a sostegno sono arrivate dal direttore generale dell’Associazione, Marcella Panucci, e dal presidente di Federmeccanica, una delle strutture principali dell’associazione, Fabio Storchi (“l’articolo 18, come l’insieme delle nostre regole sul mercato del lavoro, non è più ammesso dalla realtà globale in cui le aziende si muovono”). Ma al netto di sparute interviste e dell’apertura di credito piuttosto netta del quotidiano confidustriale di ieri (“Renzi ha rotto gli indugi sull’ultimo tabù della sinistra e sul mondo del lavoro”) non s’ode una voce stentorea o il rumore dei passi di imprenditori marcianti.

Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, che ieri mattina ha incontrato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, continua anche giustamente a criticare il “pessimismo che si coglie da tante parti”, a denunciare tutti gli ostacoli esterni all’attività imprenditoriale sintonizzandosi con la platea che si trova innanzi (ieri il problema era il divario digitale esposto a un convegno sulle telecomunicazioni) e a sottolineare come l’Italia “non è un ecosistema favorevole alle imprese, agli investimenti e al rischio privato” e “ne abbiamo controprove quotidiane”, ha detto. Questo forse non basta ora che si prepara una rivoluzione per un paese abituato al consociativismo e che necessita di mettersi in linea non tanto con l’Europa – dove pure il lavoro è al centro delle esortazioni della Banca centrale europea e della Commissione, oltre che del Fondo monetario – quanto rispetto ai concorrenti internazionali, dentro e fuori dall’area Ocse.

Quando nel 2002 la Germania era in recessione e rischiava la procedura di infrazione per deficit eccessivo, gli industriali diedero un contributo decisivo attraverso una campagna pubblica ad ampio spettro per invocare riforme improntante alla flessibilità dell’impiego, quelle che poi il cancelliere socialista Gerhard Schröder affidò alla regia dell’allora capo della Volkswagen Peter Hartz. Da Viale dell’Astronomia si è spesso dato prova di sapere curvare il dibattito con tambureggianti iniziative d’impatto. Alcune discutibili (il “Fate presto” del Sole 24 Ore nel 2011 a governo Berlusconi morente), altre capaci di motivare la mobilitazione degli imprenditori “innamorati dell`Italia” (nel febbraio del 2014). Forse ora varrebbe la pena di fare altrettanto.

Semplificazioni, meno fisco vuol dire più capitale

Semplificazioni, meno fisco vuol dire più capitale

Isidoro Trovato – Corriere economia

Tanto tuonò che non piovve. La riforma del regime fiscale per le imprese è uno di quegli argomenti “evergreen” nel dibattito politico economico italiano. Stavolta però il traguardo potrebbe persino essere alla portata anche se la tanto attesa legge dell’11 marzo 2014 sulla semplificazione, pur contenendo indirizzi importanti, costituisce un’opera di «manutenzione straordinaria» dell’attuale sistema e risponde, secondo il mondo produttivo, solo in parte alla necessità di una riforma realmente sistematica e organica. Serve qualcosa di più specifico e una riforma fiscale davvero incisiva per il futuro delle imprese.

Da un’elaborazione dell’ufficio studi e della direzione politiche fiscali di Confartigianato, infatti, emerge che nell’arco delle ultime due legislature, tra il 29 aprile 2008 e il 28 marzo 2014, sono state approvate 629 norme fiscali, di cui 72 semplificano (11,4% del totale), 168 sono potenzialmente neutre dal punto di vista dell’impatto burocratico (26,7%) e 389 presentano un impatto burocratico sulle imprese (61,8%): ogni tre norme fiscali promulgate, due aumentano i costi burocratici per le imprese. La politica di semplificazione appare come una tela di Penelope se per una norma che semplifica ne vengono emanate 5,4 che hanno un impatto burocratico negativo sulle imprese. È del tutto evidente la necessità di procedere speditamente a una radicale semplificazione degli adempimenti tributari che gravano sulle imprese e sui cittadini. Per una reale semplificazione, però, è necessario non solo incidere sui singoli adempimenti ma anche rivedere le modalità con cui si giunge alla determinazione del reddito da tassare. Occorrono altri interventi, secondo gli artigiani, ma soprattutto bisogna metter mano ai regimi contabili delle imprese minori che sono la stragrande maggioranza del mondo produttivo: basti pensare che il 57,1% delle aziende applica un regime di contabilità semplificata mentre il 42,9% è in contabilità ordinaria. Circa 9 persone fisiche su 10 e 6 società di persone su 10 applicano la contabilità semplificata mentre le società di capitali sono interamente comprese nella contabilità ordinaria (obbligatoria).

Obiettivo primario, dunque, per le aziende è quello di armonizzare le aliquote. Ma con obiettivi e gradualità diverse. «In ordine di priorità – spiega Cesare Fumagalli, segretario generale di Confartigianato – bisogna introdurre un regime forfetario da riservare alle aziende di ridotte dimensioni (quelle che hanno ricavi tra 30 e 40mila euro) e con limitata struttura imprenditoriale che preveda pochissimi adempimenti contabili (solo conservazione dei documenti). Servirà poi modificare l’attuale regime semplificato per permettere la determinazione del reddito secondo il criterio della cassa. Tel regime favorirebbe anche quello dell’Iva per cassa, oggi poco utilizzato, in quanto i contribuenti per determinare il reddito restano costretti al rispetto del criterio di competenza economica. Avevamo salutato con grande entusiasmo quel provvedimento ma i legacci burocratici lo hanno reso impraticabile e solo così tornerebbe a essere utile. Altro provvedimento di grande efficacia è quello che prevede una specifica azione per favorire le start-up d’impresa riducendo il carico fiscale per i primi anni dell’avvio dell’attività». Ulteriore obiettivo è quello di uniformare il reddito d’imposta e favorire la capitalizzazione delle aziende. «La nostra proposta – spiega Fumagalli – prevede di mantenere l’imposta stabile per chi lascia il reddito nella sua impresa. In pratica, chi reinveste in azienda non sconterà più la tassazione progressiva bensì quella proporzionale nella misura del 27,5%. Si uniformerebbero le imprese indipendentemente dalla forma giuridica e si favorirebbe la capitalizzazione di imprese individuali e società di persone».