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L’inganno dei costi bassi. Ecco perché una buona notizia diventa negativa

L’inganno dei costi bassi. Ecco perché una buona notizia diventa negativa

Eugenio Fatigante – Avvenire

Finalmente una buona notizia, Così potrebbe pensare l’ignaro lettore, poco esperto di cose economiche, nel leggere che dopo 55 anni l’Italia è in deflazione (e l’Europa ci si avvicina). Bene, i prezzi scendono, quindi il conto nei negozi e nei supermercati diventa più basso (pur ricordando che si tratta, come sempre, di un indice, quindi di una media, e che ci possono essere anche prodotti i cui prezzi salgono ancora): non capirebbe allora – sempre il nostro ignaro lettore -il perché dei toni tanto preoccupati che si leggono nei commenti davanti a questo fenomeno. 

Cosa c’è che non va nel livello dei prezzi entrato in territorio negativo, e comunque lontano da quel 2% “ideale” che è l’obiettivo fissato dalla Bce di Francoforte? La questione va vista sotto due punti di vista: quello strettamente legato al costo della vita e i suoi riflessi sui conti pubblici. Nel primo campo, come spiegano tutti i manuali di economia la dinamica dei prezzi “versione 2014” diventa negativa perché, in questo caso, non è la conseguenza di un aumento di produttività delle industrie, bensì della bassa domanda di beni e servizi e del calo globale dei consumi. Va poi considerato che, secondo diversi economisti, la presenza di prezzi al ribasso e l’aspettativa di un’ulteriore discesa finiscono per spingere i consumatori, soprattutto per i beni più costosi, a rinviare ancora gli eventuali acquisti nella speranza che il prezzo di quel bene cali ancora. Ma questo è il minimo. L’aspetto più grave è che gli scontrini più bassi (per i consumatori) hanno un rovescio della medaglia; si riducono pure i margini di ricavo di supermercati e negozi e, con essi, quelli delle imprese produttrici. Di conseguenza si hanno meno investimenti, meno posti di lavoro e  salari ridotti. Ecco, allora, che il portafoglio in cui restano più soldi per la spesa, allo stesso tempo si “alleggerisce” – in via generale – per i problemi occupazionali e salariali. Rischiando di innescare una vera spirale deflattiva, che porta a prezzi ancor più bassi. Insomma, il vantaggio della deflazione c’è solo per chi ha l’assoluta certezza del posto di lavoro e anche di un reddito medio-alto.

C’è poi l’altro versante per cui l’inflazione negativa diventa deleteria, anche per la vita delle famiglie: gli effetti sul bilancio dello Stato. Per far comprendere questo “passaggio” basti pensare a 10mila euro chiesti in prestito a un amico, da restituire dopo 2 anni senza interessi. In condizioni normali, con prezzi e salari che salgono, il valore di quei 10mila euro diventa inferiore per chi li rimborsa perché, pur restando sempre 10mila, con quella somma – trascorsi 24 mesi – si possono in realtà comprare meno beni e servizi. Grosso modo lo stesso avviene per gli Stati che hanno un alto debito pubblico (come l’Italia), con la “complicazione” degli interessi. Per questo si afferma che una delle armi per contenere il debito è, oltre al ritorno alla crescita, un “certo livello” d’inflazione, non troppo basso. 

Cerchiamo di farci capire anche qui con un esempio. Ai livelli massimi toccati dai tassi di interesse sui titoli italiani contribuiva anche un alto livello di inflazione: nel pieno della tempesta che ci colpì, nel novembre 201 1, il rendimento del Btp decennale aveva toccato il 7,5%, ma l’inflazione veleggiava al 3% e questo dava una “spinta” anche alle voci in entrata del bilancio. Il rendimento reale (e quindi il costo “vero”del rimborso del debito per lo Stato) era attorno al 4%. Oggi, pur essendo sceso il Brp sotto il 3%, con l’inflazione sottozero il costo resta quasi uguale per il Tesoro. Solo se l’inflazione fosse rimasta attorno al 2%, il costo del servizio del debito si sarebbe tramutato in un reale beneficio per le casse pubbliche (quello “vero”, difatti, si sarebbe ridotto a un 1%). Questo spiega perché la deflazione finisce col penalizzarci ancor più nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica concordati con la Ue. E la cosiddetta “sostenibilità “del debito diventa un problema ancor più grave.

Il fallimento degli 80 euro: col bonus consumi in calo

Il fallimento degli 80 euro: col bonus consumi in calo

Antonio Signorini – Il Giornale

Gli ottanta euro sono rimasti in banca o nei portafogli. Se non fosse un controsenso, verrebbe da pensare che la misura fatta per rilanciare i consumi, in realtà li abbia rallentati; ma è più probabile che il bonus sia andato a rimpinguare i risparmi di cittadini con poca fiducia nella ripresa. I dati Istat parlano chiaro e confermano i timori espressi non molto tempo fa dalle associazioni del commercio. In giugno, quindi in coincidenza con l’arrivo degli ottanta euro in busta paga, le vendite al dettaglio sono rimaste ferme rispetto al mese precedente, ma sono calate rispetto allo steso mese dell’anno precedente (quando non c’era il bonus) del 2,6%. Gli italiani hanno speso meno sia per i prodotti alimentari (-2,4%) sia peri non alimentari (-2,8%). In calo la grande distribuzione (meno 1,3%), un salasso per i piccoli (-3,9). 

Non è una sorpresa per i commercianti. Per Confcommercio i dati Istat confermano «quanto già anticipato dal nostro indicatore consumi e cioè che le misure prese fino ad oggi non hanno prodotto gli effetti sperati sui consumi e non sono state idonee a sostenere la fiducia delle famiglie, in calo anche ad agosto». Per la confederazione «è presumibile che anche la seconda parte del 2014 possa mancare l’appuntamento con la ripresa economica, confermando, dunque, l’urgenza di interventi più incisivi». Segnali negativi anche sui salari (le retribuzioni contrattuali orarie in giugno sono aumentate dell’1,1% rispetto all’anno scorso, la crescita annua più bassa dal 1982) e sul fronte delle imprese (in agosto l’indice della fiducia è passato a 95,7 da 99,1). 

Importanti elementi di riflessione per il premier Matteo Renzi che oggi guiderà il Consiglio dei ministri per l’approvazione dello Sblocca Italia e delle misure per la scuola. Ieri il premier è andato al Quirinale a illustrare le misure del Consiglio dei ministri. Prima, un vertice con il ministro dell`Economia Pier Carlo Padoan e il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi per cercare le coperture alle infrastrutture. La soluzione trovata è approvare in parte oggi e in parte con la legge di Stabilità le misure.Le coperture disponibili da subito si confermano i 3,7 miliardi. Sono 1,26 miliardi dal fondo delle opere incagliate, e 2,54 miliardi dal fondo di coesione In tutto 3,8 miliardi da destinare soprattutto a nuove linee ferroviarie di alta velocità o alta capacità. Lo Sblocca Italia «non sostituisce la legge di Stabilità» ha dichiarato Lupi, è un pacchetto di «dieci punti» e «confermo le coperture per i provvedimenti contenuti in es SU». 

Nella bozza in entrata al Consiglio le linee citate sono solo quelle del Sud: la Napoli-Bari e Palermo-Messina-Catania, con poteri straordinari per Fs e burocrazia limitata. In via di riscrittura di un articolo che rendeva più facile installare antenne su tralicci preesistenti per la contrarietà del ministero dei Beni culturali (che ha bocciato più articoli del ministero dell’Economia). Tra le novità in entrata, un piano per la costruzione di nuovi inceneritori di rifiuti e semplificazioni a favore dell’edilizia. Per le grandi locazioni e le costruzioni nei campeggi. Anche ieri è continuato il tiro alla fune sulla privatizzazione delle società partecipate da Comuni, Province e Regioni. L’accelerazione e gli incentivi (meno vincoli di bilancio) ai Comuni che vendono o accorpano – nonostante il pressing dello stesso Renzi- potrebbero essere rinviati. Sullo sfondo la partita delle pensioni e del lavoro, rinviata forse a fine anno. «Nessun intervento sulle pensioni in legge Stabilità», ha assicurato ieri il ministro del Lavoro Giuliano Poletti al Meeting di Rimini di Comunione e liberazione. Ad avere ipotizzato un taglio delle rendite più alte per finanziare misure per gli esodati o l’estensione degli 80 euro ai pensionati era stato lo stesso Poletti, che ha smentito attriti con il premier: «Sono stabilissimo», ha assicurato.

Il capitale di Renzi

Il capitale di Renzi

Il Foglio

Un prodotto degli ottanta euro è il consenso, è ora di spenderlo. Le ultime statistiche direbbero che avere messo ottanta euro in più nella busta paga degli italiani non incentiva i consumi né incoraggia la popolazione a spendere più di prima. Le vendite al dettaglio nel mese di giugno, il primo mese di disponibilità del bonus, sono rimaste ferme confermando il calo tendenziale di maggio del 2,6 per cento, dice l’lstat. La fiducia dei consumatori vacilla: dopo il picco di maggio, in agosto l’indice è tornato ai livelli di mano, quando il premier Renzi ha annunciato lo sgravio. Un andamento a parabola che autorizza molti commentatori a certificare che del “miracolo” proclamato con enfasi dal governo non c’è traccia. Certo, i numeri sarebbero stati peggiori senza quel sollievo: parte degli ottanta euro sono finiti in spese mediche o piccoli acquisti. O migliori, se non fossero serviti a pagare quel filotto di tasse su casa e affini di questi mesi o se la congiuntura recessiva (drammatizzata dai media) non avesse convinto molti a risparmiare. Oppure, soprattutto, se il governo avesse detto credibilmente agli elettori che si tratta di uno sgravio permanente, e non one shot. E’ ancora presto e non deve stupire se non si spende. Ciò detto, il prodotto degli ottanta euro non è soltanto il consumo ma anche il consenso politico. Consenso capitalizzato alle europee che va investito: ora Renzi dovrebbe spendere i suoi “ottanta euro” e assumersi la responsabilità di misure anche impopolari, le sole capaci di invertire una tendenza grave. Partire da un’opera di revisione della spesa che non faccia prigionieri e i cui proventi vadano poi a ridurre la pressione fiscale più alta d’Europa.

Quando il caos fiscale non aiuta i consumi

Quando il caos fiscale non aiuta i consumi

Mauro Meazza – Il Sole 24 Ore

Nel dubbio (fiscale) non spendere: l’accostamento tra incertezze tributarie e flessione dei consumi potrà sembrare azzardato, eppure mai come in questi anni di crisi il Fisco è diventato via via più indecifrabile. Proviamo a fare qualche esempio, limitandoci alla tassazione locale su prime e seconde case. Sappiamo dire, oggi, quanto pagheremo di Tasi? E sappiamo quando pagheremo, se a ottobre oppure a dicembre? E quanto ci chiederanno di Tari? E riusciamo a capire, infine, se la nuova Iuc, l’imposta cosiddetta “unica” comunale, sarà più o meno costosa della (incredibilmente) compianta Ici?

A tutte queste domande, per tutti o per molti di noi, la risposta è sempre no. E sono incognite da centinaia e centinaia di euro, incarognite per di più da regole continuamente in manutenzione. Tanto per confondervi le idee: più di quattromila Comuni (oltre la metà del totale) devono ancora decidere le percentuali di prelievo della nuova tassa sui servizi indivisibili, quella che colpisce anche le prime case (si veda «Il Sole 24 Ore» di lunedì scorso); per la tassa sui rifiuti, quella che ora si chiama Tari, l’importo totale del 2014 si conoscerà a fine settembre; e il conto totale per proprietari di case e inquilini lo scopriremo a dicembre quando finalmente avremo chiare le aliquote e le (eventuali) detrazioni.

Già, le detrazioni. Altra parola gravida di incertezze, questa volta in ambito statale e non più locale: le esigenze di bilancio potrebbero infatti imporre la riduzione degli sconti Irpef (ossia, una buona parte delle cosiddette tax expenditures). E una norma già minacciosamente vigente dà al Governo il potere di intervenire se i tagli alla spesa pubblica improduttiva non fossero sufficienti. Per dirla fuori dal fiscalese: il sollievo oggi concesso dall’Irpef per voci di uso comune, come i farmaci o i mutui casa, potrebbe ridursi dall’attuale 19% a un “19 meno X per cento” (non è un refuso, semplicemente non si conosce la nuova percentuale), per un impatto complessivo fino a 3 miliardi. Se succederà, sarà l’anno prossimo ma intanto, nel dubbio, meglio mettere da parte.

Anche perché a questo quadro potremmo aggiungere le chiacchiere estive su ulteriori contributi di solidarietà a carico delle pensioni o persino la revisione del prelievo sui tabacchi, annunciata per il nuovo anno. E dovremmo poi considerare – se dalle possibili uscite vogliamo passare alle entrate – gli stipendi che crescono al rallentatore (a luglio, come riferiamo qui accanto, l’Istat segnala un 1,1%, il valore più basso dal 1982) o magari gli anni di mancati adeguamenti al costo della vita per i pensionati. Ma vogliamo risparmiare anche noi, almeno sulla pazienza dei lettori: serve già parecchio tempo per stimare quanto mettere da parte per i prossimi debiti tributari. E, se non bastasse un commercialista, potremmo sempre chiedere a un astrologo.

San Matteo non ha fatto il miracolo

San Matteo non ha fatto il miracolo

Mario Deaglio – La Stampa

Il coraggio – sospira Don Abbondio nel XXV capitolo dei «Promessi Sposi» – uno non se lo può dare. E nemmeno la fiducia, siamo tentati di aggiungere, guardando ai dati, appena resi pubblici dal’Istat, sul clima di fiducia degli italiani che segnalano una netta caduta per il terzo mese consecutivo. Il giudizio degli intervistati è peggiorato su quasi tutto: molto sulla situazione economica dell’Italia, poco o nulla sulla situazione economica attuale della loro famiglia, per la quale, però, è aumentato il numero di quanti si aspettano un peggioramento imminente. Rispondendo alle varie domande del questionario, gli intervistati, quando non vedono nero, vedono tutto con lenti con varie gradazioni di grigio. Questo clima nazionale di sconforto è tanto più deludente in quanto la caduta dell’indice di fiducia segue una sua impennata decisa di inizio anno (spesso attribuita a un «effetto Renzi») che l’aveva quasi riportato ai valori del 2008, ossia all’inizio della crisi.

Per fortuna il clima di fiducia non si traduce necessariamente in comportamenti, così come la salita primaverile non ha portato a una corsa agli acquisti, c’è da sperare – mentre invece le associazioni dei consumatori ne traggono previsioni infauste – che non andiamo incontro a uno «sciopero dei consumatori», peraltro già molto «svogliati» negli ultimi mesi. Dopo l’aggiornamento di questo indice è però più difficile pensare a un aumento, anche piccolo, dei consumi privati. Il «bonus» mensile di ottanta euro che dieci milioni di lavoratori stanno incassando non solo non ha inciso, come già si sapeva, sulle abitudini di spesa, ma non ha neppure aumentato il «buon umore economico» degli italiani. I motivi per i quali il «bonus» – una misura generica di rilancio, meno efficace di misure «mirate» a determinati settori economici o segmenti sociali – non si sta traducendo in un aumento di consumi, ma, al massimo, in una loro stabilizzazione sono nascosti nelle pieghe dei bilanci famigliari. E’ verosimile che, per non ridurre troppo il loro tenore di vita, negli ultimi 2-3 anni, molte famiglie abbiano contratto dei debiti e che usino quest’entrata mensile addizionale per ripagarli; è altrettanto verosimile che, prima dei normali beni di consumo, si pensi a spese sanitarie rinviate scarsamente coperte dal servizio sanitario nazionale (per esempio le cure dentarie).

Invece di attingere ai loro risparmi e convertirli in acquisti necessari, gli italiani continuano a investirli in titoli del debito pubblico che rendono pochissimo: ai tassi dell’asta dei Bot semestrali di ieri (nella quale la domanda si è rivelata molto abbondante, superando di oltre una volta e mezza la quantità offerta) il rendimento di 1000 euro basta appena a prendere un caffè ed e quasi dimezzato rispetto all’asta precedente. Certo, i titoli sono stati tutti acquistati da operatori finanziari, in parte esteri, ma una quota rilevante finirà, prima poi, grazie alla loro intermediazione, nei portafogli delle famiglie italiane che, per paura della crisi, esitano a utilizzare quelle risorse per spese necessarie.

Insomma, San Matteo Renzi ha dato una notevole scossa a molti aspetti del-la vita economica italiana e altre promette di darne con il prossimo Consiglio dei Ministri. Non è riuscito, però (ancora?) a compiere il miracolo di far sorridere gli italiani. D’altra parte, le notizie che giungono dal resto d’Europa mostrano che questo «male italiano» si sta lentamente diffondendo e che praticamente tutte le economie dell’Unione Europea sono in frenata. Per la prima volta ieri su organi di stampa tedeschi si è evocato lo spettro di una recessione,  attribuendone indirettamente la causa al conflitto ucraino che ha seriamente danneggiato le esportazioni della Germania (e dell’Italia) verso la Russia. Gli occhi degli europei, e non solo degli italiani, sono tutti puntati su San Mario Draghi, il quale, dall’alto dei 148 metri dell’Eurotower di Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea, sta preparando le sospirate misure «non convenzionali» che dovrebbero immettere denaro nell’economia, raggiungendo direttamente (ossia usando le banche principalmente come tramite) imprese desiderose di investire e famiglie desiderose di sottoscrivere prestiti per acquistare un’abitazione.

E’ ragionevole attendersi un miglioramento che permetta all’economia europea di non scivolare in deflazione, ma non aspettiamoci che le economie ripartano a razzo: in economia è difficile trovare dei grandi santi che risolvano i problemi. Milioni di italiani e di altri europei sembrano invece continuare a credere che la ripresa deve scendere dall’alto, derivare da fatti esterni senza accorgersi che in buona parte la si crea giorno dopo giorno, avendo il coraggio di compiere piccole scelte, comprese quelle di acquistare i beni che servono con spese che rientrino nelle normali disponibilità delle famiglie e di varare piani di crescita che restino nell’ambito della normale attività delle imprese. Decine di milioni di famiglie europee, con la somma delle loro decisioni, determinano in buona parte il «clima economico». Questi milioni di piccoli miracoli individuali sono la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché ci scuotiamo di dosso quest’infernale recessione.

Più poveri e più tassati

Più poveri e più tassati

Nicola Porro – Il Giornale

Questa settimana il governo darà via al cosiddetto Sblocca Italia. Nomi altrettanto evocativi sono stati dati a decreti precedenti. Nonostante ciò l’Italia è ferma al palo. Il governo Renzi ha fatto un passo in più rispetto ai predecessori: ha restituito agli italiani (o meglio solo a una certa fascia ben identificata) 10 miliardi di euro, in forma di riduzione fiscale. Non è poco. Eppure il Pil, il nostro reddito, è diminuito.

Purtroppo il motivo è semplice: gli italiani non si fidano più. Cerchiamo di essere un po’ più specifici. Ogni riduzione fiscale dovrebbe generare una maggiore propensione media al consumo. E per questa via creare maggiore prodotto e reddito. Si spende di più, le aziende così vendono e assumono. La riduzione fiscale di Renzi (prevista anche per gli anni prossimi) serve a poco per il Pil e molto per chi comunque la incassa e gode di un extrareddito disponibile. Non alimenta la nostra produzione per due ragioni di fondo.

La prima la spiega il presidente della Confedilizia nelle pagine interne. Le diverse patrimoniali sulla casa ci hanno reso più poveri per duemila miliardi. La seconda è che (come dimostra il dibattito estivo) siamo incerti sul futuro fiscale che ci attende: nuove imposte, varate dai passati governi, ma solo oggi in vigore, contributi vari sulle pensioni, riforma delle regole sulle detrazioni fiscali rendono lo scenario tributario a 12-18 mesi fosco. Ebbene nessuna riduzione fiscale avrà mai un effetto positivo sulla produzione se chi ne gode si sente, al tempo stesso, più povero e in prospettiva più tassato.

Si può uscire da questa impasse ? La prima strada è quella di riscrivere un contratto fiscale con gli italiani (tutti, senza distinzione di censo) dicendo loro che le patrimoniali sugli immobili verranno riportate alla situazione pre 2011. Prendiamo atto che quelle imposte hanno impoverito gli italiani più di quanto abbiano arricchito lo Stato. Si dovrebbe poi concentrare lo sforzo di riduzione fiscale sulle imprese. L’elargizione degli 80 euro a dieci milioni di italiani (come bene aveva previsto nel 1958 Milton Friedman) ha un effetto moltiplicatore sul Pil molto inferiore di quello che avrebbe una riduzione fiscale più forte a un milione di imprese.

I consumi immobili di un paese in attesa

I consumi immobili di un paese in attesa

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Per i tanti che sono stati abituati a considerare l?inflazione come un mostro, cambiar passo e mettere nel mirino la deflazione equivale ad operare su di sé una torsione per imparare a guardare da un’altra parte. Eppure gli ultimi dati sull?andamento dei prezzi ci dicono che è un’operazione che dobbiamo fare e purtroppo non per una breve stagione. Immergendoci in questo nuovo scenario non possiamo però dimenticare quello che dice la Bce ovvero che nell’Eurozona non esiste un vero problema-deflazione perché i prezzi scendono per la gran parte a causa dell’effetto combinato di basso costo del petrolio e euro forte.

In Italia comunque non ci vuole un genio per cogliere un’altrettanta evidente correlazione tra bassa inflazione e consumi al lumicino. La stagione estiva non promette grandi cose, il periodo di ferie si va concentrando sempre di più attorno alle due settimane centrali di agosto e la spesa media dei vacanzieri tende pericolosamente verso il basso, con soggiorni che diventano più brevi. Si va diffondendo anche una forma di turismo pendolare con gli autobus che prendono al mattino i bagnanti in città, li scaricano sulle spiagge e li riprendono appena dopo il tramonto. Non dimentichiamo poi che luglio – il mese delle rilevazioni Istat rese note ieri – è stato condizionato dal cattivo tempo che ha ulteriormente amplificato tutti i fenomeni di cui sopra.

La verità è che la tendenza a rinviare gli acquisti dei beni durevoli sembra non aver cambiato verso nonostante gli 80 euro in busta paga. Lo straordinario successo del car sharing nelle grandi città indica anche un mutamento culturale di medio periodo che sarebbe un errore sottovalutare e che promette di andare al di là delle sole autovetture, la cultura della condivisione ci sorprenderà. Intanto gli armadi degli italiani restano pieni («Siamo legati agli oggetti, non buttiamo mai niente» sottolinea il sociologo dei consumi Italo Piccoli) e il ricambio avviene con il contagocce. Lo stesso vale quantomeno per gli elettrodomestici e per l’ arredo. Nella grande distribuzione, e non solo, intanto si intensificano le promozioni. In provincia ci sono persino negozi che si chiamano «Sottocosto», Carrefour ha lanciato una campagna-sconti a sensazione legata alle partite dell’Italia durante i Mondiali di calcio e Ikea ha promesso sconti per il 40% ma secondo il professor Piccoli i risultati non sempre sono all’altezza dell’impegno profuso. I volumi venduti per ripagare i tagli di prezzo devono crescere almeno del 20%. «Il consumatore ha imparato a fare zapping tra le varie promozioni e ha cominciato ad essere sospettoso. Se un giorno trova che un pacchetto di caffè costa 3 euro e poi lo vede in promozione a 1,90 perde completamente la percezione del valore di quel prodotto. Il risultato è che compra di meno e che non è più disposto ad acquistare a prezzo pieno». Un boomerang per le aziende produttrici.

Il rinvio degli acquisti è anche legato a considerazioni più di fondo. Secondo l’economista Fausto Panunzi bisogna sempre ricordarsi che sono cambiate profondamente le aspettative, «nelle famiglie si trepida per la disoccupazione dei figli o per il rischio che il padre a 50 anni venga tagliato e licenziato dall’azienda in cui lavora» e di conseguenza si è portati a risparmiare quasi compulsivamente, a comprare solo lo stretto necessario. E non c’è promozione che tenga nei confronti di un mood così negativo. Che settembre avremo, allora, se l’orientamento dei consumatori rimane lo stesso? Gli 80 euro ci saranno ancora ma Piccoli crede che non sarebbe sensato da parte del governo lanciare campagne pro-consumi: «Anche gli spot che Berlusconi fece a suo tempo alla fine non portarono a nulla di significativo».

Il convitato di pietra è la domanda interna

Il convitato di pietra è la domanda interna

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

A guardare alle grandezze finanziarie, l’economia italiana non sembra messa male: la Borsa, malgrado gli inciampi delle ultime settimane, segna un +17% rispetto a un anno fa, i tassi dei titoli pubblici (vedi l’asta BoT di ieri) sono ai minimi storici, i tassi pagati da famiglie e imprese sono anch’essi più bassi di un anno fa… Ma quando si passa alle grandezze reali la musica cambia.

L’inflazione ha cambiato pelle ed è diventata deflazione: dieci città vedono il segno “meno” nella dinamica dei prezzi. Anche se parte della discesa dei prezzi viene da una “deflazione buona” (legata alla tecnologia – vedasi il -9% sui 12 mesi dei prezzi delle comunicazioni), non vi è dubbio che la parte maggiore è una “deflazione cattiva”, figlia della debolezza della domanda. E il resto dell’economia reale? Il calo del Pil fotografa un Paese che prende una polmonite quando il resto del mondo prende un raffreddore.

Come risolvere questa discrasia fra economia finanziaria ed economia reale? Prima di rispondere menzioniamo un’altra discrasia, anzi due. Primo, non tutti i dati recenti sono negativi: alla fine dello scorso trimestre la produzione industriale è risalita, e la disoccupazione è scesa. Secondo, e più importante: i dati “fisici” e quelli della fiducia danno due letture completamente diverse. Sia gli indici Pmi che le inchieste sulla fiducia (delle famiglie e delle imprese), sia le attese di produzione che i “superindici” anticipatori dell’Ocse danno l’immagine di un’Italia che avanza. Anche se alcune di queste buone notizie devono essere prese con le pinze (per esempio, il livello degli indici Ocse indica, per ragioni tecniche, che l’Italia farà meglio rispetto a un “prima” desolante e che non che fa meglio degli altri Paesi), non vi è dubbio che le due letture sono diverse. Insomma, i dati non rimano. Cosa c’è, allora, «sotto ‘l velame de li versi strani»?

A questa domanda si può dare una risposta tecnica e una politica. La risposta tecnica riposa sul fatto che troppe statistiche sono ancora basate su un’economia di “grano e acciaio” e non colgono appieno il divenire di un apparato produttivo che – proprio sotto la sferza della recessione – cambia pelle: cambia la composizione dei prodotti, che non è catturata da indici a pesi fissi, cambiano i segmenti di valore aggiunto e le quantità fisiche sono inadeguate a raffigurare colori e contorni di un’economia che cerca nuove strade.
La risposta politica guarda a una società che ha riposto troppe e messianiche speranze nel nuovo Governo. Le riforme istituzionali, come il superamento del bicameralismo perfetto, sono importanti, anche per l’economia. Ma non hanno effetti immediati e consumano capitale politico.

Altre riforme, come quelle della pubblica amministrazione, sono – era inevitabile – annunci che attendono la fase decisiva dell’applicazione. E il Jobs Act potrebbe – e non è detto – migliorare il mercato del lavoro se detto mercato ricevesse il carburante della domanda. È la (mancanza di) domanda il convitato di pietra al tavolo delle riforme. Quando il Governo Renzi decise di destinare risorse a far ripartire l’economia, poteva agire sulla domanda (sgravi alle famiglie) o sull’offerta (sgravi alle imprese). L’investimento risponde al profitto netto atteso, e avrebbe potuto rispondere a sgravi su imposte e/o costo del lavoro; ma risponde anche e forse soprattutto alle prospettive di domanda, e in questo caso gli sgravi alle famiglie potevano aiutare.

Nella fattispecie, i famosi 80 euro non sembrano aver avuto molto effetto, anche se è presto per giudicare (sono arrivati a fine trimestre) e in ogni caso il giudizio dovrebbe prendere a paragone l’inconoscibile, cioè quel che sarebbe accaduto senza sgravio. Sulle prospettive della domanda pesa anche il futuro. Una piena adesione alle regole cieche del Fiscal Compact impartirebbe un altro duro colpo all’economia italiana. La strategia del Governo Renzi sembrava essere quella di affidarsi alla ripresa per validare a posteriori una politica di bilancio arrischiata, fondata su stime ottimistiche dei risparmi di spesa. E la ripresa non poteva che arrivare dal traino esterno, dato che l’economia italiana non può sollevarsi da sola. Questa scommessa era – ed è – l’unica possibile nell’immediato, e non è ancora persa. L’economia americana tira e la Cina non si ferma. Il punto interrogativo sta nel Paese motore dell’economia europea: una Germania che rallenta restringe sbocchi al nostro export. C’è solo da sperare che il rallentamento favorisca atteggiamenti meno sordi rispetto alle giuste richieste di flessibilità nelle regole di bilancio.

Ma l’economia non è fatta di solo export. La parte maggiore è la domanda interna, anche se l’export può fare da volano. E ci sono modi di favorire la domanda interna: le riforme a costo zero, da tempo proposte. In cima alle quali c’è l’allentamento della più pesante palla al piede che da troppi anni azzoppa l’economia: l’oppressione burocratica, l’incertezza e le lungaggini delle autorizzazioni, le frustranti litanie di ritardi e di veti… Nodi intricati che attendono ancora chi sappia porli in cima alla lista delle cose da fare.

Il paradosso del nostro benessere

Luca Ricolfi – La Stampa

Quel che mi colpisce, nei commenti degli ultimi giorni, è il modo in cui ci stiamo risvegliando dal nostro sogno di mezza estate. Di fronte agli ultimi dati negativi su crescita, consumi e spread, alcuni studiosi si limitano a riproporre le proprie ricette, come ad ammonire il premier: hai visto che, finché non fai quel che ti diciamo noi, le cose non possono cambiare? Accanto a questo filone un po’ ripetitivo, però, ce n’è anche un altro, tutto sommato più interessante. Alcuni commentatori, anziché insistere sulle omissioni del governo (soprattutto in materia economico-sociale), paiono suggerire che, in fondo, il problema siamo noi italiani. Un po’ per i soliti motivi, ovvero il fatto che quasi tutti hanno qualcosa da perdere da un vero cambiamento, ma un po’ anche in base a un ragionamento piuttosto sofisticato sul rilancio dell’economia. L’idea, detta in poche parole, è che nelle condizioni attuali non ci sia politica economica che possa trarre l’Italia fuori delle secche su cui si è arenata. Secondo questo modo di pensare una vera ripresa richiederebbe una ripartenza della domanda interna, e una tale ripartenza sarebbe impossibile senza un ritorno di ottimismo, fiducia, speranza, entusiasmo, coraggio morale. Per dirla con l’efficace formula di Mario Deaglio: «la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani», i quali «hanno le risorse per dare una forte spinta propulsiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere» (La Stampa, 7 agosto 2014).

Resto sempre un po’ perplesso quando, per risolvere un problema, vengono invocati atteggiamenti morali e stati d’animo, perché mi sembra un po’ una confessione di impotenza, come se dicessimo: abbiamo esaurito tutte le cartucce che avevamo, ora non ci resta che mobilitare la nostra forza di volontà. In questo caso, tuttavia, la mia diffidenza per i rimedi idealistici si basa anche su due osservazioni di fatto, entrambe legate in qualche modo al benessere raggiunto dagli italiani.

La prima osservazione è che, nonostante la crisi e nonostante una parte delle famiglie italiane (circa 1 su 5) versi in gravi difficoltà, sia il nostro tenore di vita sia la nostra ricchezza familiare accumulata (fra le maggiori al mondo), restano abbastanza elevate da tenere molto bassa l’offerta di lavoro degli italiani (non così quella degli immigrati, che sono l’unico gruppo sociale rilevante che continua a guadagnare posti di lavoro). Detto con le crude parole di un amico napoletano, «finché c’è pasta e vongole» difficile pensare che gli italiani si risveglino dal loro torpore, tanto più in una situazione in cui la rapacità del fisco erode inesorabilmente i guadagni di tutti.

La seconda osservazione è che la paura degli italiani, e la loro scarsa propensione a spendere, non sono campate per aria, ma hanno un fondamento abbastanza preciso. Quel fondamento è la politica della casa, forse l’unica cosa importante che accomuna gli ultimi tre governi (Monti, Letta e Renzi). Il valore dell’abitazione, infatti, non solo è un elemento di tranquillità economica, ma è una delle determinanti cruciali che sostengono i consumi e la propensione a indebitarsi per consumare (una stima della Banca d’Italia di qualche anno fa quantificava in 25 miliardi l’impatto sui consumi di una variazione di 1000 miliardi del valore del patrimonio immobiliare).

Ebbene, sulla casa, negli ultimi 4 anni, abbiamo sciaguratamente seguito il mantra europeo della iper-tassazione dei patrimoni, nella presunzione (a mio parere errata, almeno per l’Italia) che le imposte sulla ricchezza siano poco dannose per la crescita. Il risultato è che per raccogliere 10-15 miliardi di tasse in più abbiamo abbattuto il valore del patrimonio immobiliare degli italiani di un ammontare che è difficile da stimare con precisione, ma che certamente è di un altro ordine di grandezza, diciamo almeno 30 volte maggiore (ricordiamo, giusto per dare un’idea, che il patrimonio immobiliare degli italiani si aggirava sui 5 mila miliardi nel 2007, e da allora è diminuito di almeno 1000 miliardi).

È così che, grazie alla politica, nel giro di pochi anni ci siamo ritrovati molto meno ricchi, e soprattutto molto più timorosi per il futuro. Fino a pochi anni fa chi aveva una casa poteva pensare di avere una riserva di valore racchiusa in un forziere, e se riusciva ad affittarla poteva anche pensare di percepirne un reddito, sia pure modesto. Proprio per questo poteva permettersi di consumare, e qualche volta di indebitarsi per consumare. Oggi chi ha una casa, e la maggior parte degli italiani ne ha una, non la vive come un tesoro ma come un fardello. Non può venderla senza svenderla. Se aspetta a venderla non può escludere che fra 5-10 anni valga ancora di meno di oggi. Se l’affitta non sempre riesce a coprire i costi della manutenzione e delle tasse. Se non la affitta si dissangua grazie alle molteplici tasse che comunque deve pagare.

In una situazione del genere, come stupirsi dei dati comunicati dall’Istat nei giorni scorsi? Secondo una rilevazione iniziata oltre vent’anni fa (1993), la delusione degli italiani per la situazione economica non è mai stata forte come nell’ultimo anno (2013). Né sembra che il clima di fiducia stia migliorando, a giudicare dalla rilevazione di luglio sui consumatori. Quello di fronte a cui ci troviamo, temo, è una sorta di paradosso del benessere. Abbastanza ricchi per poterci permettere ancora qualche anno di inerzia, ci siamo tuttavia impoveriti così tanto e così bruscamente, fra il 2007 e oggi, da non osare più consumi avventati. Forse è per questo che gli appelli all’ottimismo, da chiunque provengano, non funzionano più.

Le speranze (mal) riposte

Le speranze (mal) riposte

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Gli economisti che si erano detti favorevoli agli 80 euro e non a un maxi-taglio dell’Irap per le imprese avevano sostenuto il provvedimento confidando che i redditi medio-bassi, beneficiari del primo e significativo taglio delle tasse deciso da tempo, spendessero immediatamente i soldi in più trovati in busta paga. La domanda interna ne aveva e ne ha un bisogno enorme e ci si augurava che gli italiani cogliessero al volo l’occasione. Purtroppo dobbiamo constatare che non è andata così. Non c’è stata trasmissione di input tra la riduzione dell’Irpef e l’aumento dei consumi e il motivo prevalente della débacle è abbastanza chiaro: c’erano in parallelo troppe (altre) tasse da pagare e quindi il popolo degli 80 euro ha dovuto abbassare le penne, ha rinunciato a fare shopping e ha malinconicamente accantonato i soldi per ridarli allo Stato sotto forma di Tasi, Tares e quant’altro. Tassa entra e tassa esce. Una partita di giro, se non addirittura una beffa.

Con il senno di poi viene da dire che la trasmissione ai consumi che non si è avuta avrebbe potuto essere stimolata da qualche accorgimento in più, ci volevano politiche di accompagnamento. Se commercianti e albergatori avessero preso a modello il marketing aggressivo di Ikea – solo per fare un esempio – e avessero promosso sconti e offerte speciali qualcosa forse si sarebbe mosso ma arrivati a questo punto è inutile palleggiarsi le responsabilità e litigare, come è accaduto ieri tra Confcommercio e Palazzo Chigi.

A questo punto bisogna essere più pazienti e più determinati allo stesso tempo, non decretare con troppa fretta il fallimento di un’operazione che rimane giusta e da settembre tornare a batere il chiodo con maggiore convinzione e spirito di iniziativa. Gli 80 euro in più restano comunque in busta paga per tutto il 2014, piuttosto non si sa se saranno confermati il prossimo anno e se la platea dei beneficiari verrà allargata, come pure sarebbe giusto. Ben vengano, dunque, i tagli alle tasse anche se bisogna sapere che miracoli non se ne fanno. L’attesissima ripresa dell’economia italiana si è spostata più in là e dovremo aspettare il 2015 per intravedere un incremento del Pil degno di questo nome. Ma dobbiamo anche sapere che la Grande Crisi ci consegna un’economia diversa rispetto a sei anni fa, i cicli non saranno più durevoli come in passato e le imprese dovranno attrezzarsi a fare i conti con mercati in eterna fibrillazione e consumatori impauriti. Facciamoci gli auguri.