Corriere della Sera

Un’estate di tasse per 20 milioni di contribuenti

Un’estate di tasse per 20 milioni di contribuenti

Isidoro Trovato – Corriere della Sera

L’ingorgo in coda all’estate. Qualche giorno fa il calendario delle scadenze fiscali è stato messo per l’ennesima volta alla prova: è arrivato l’annuncio del rinvio dal 31 luglio al 19 settembre della scadenza della presentazione dei modelli 770. Si tratta dei moduli che contengono l’elenco della forza lavoro retribuita e la loro presentazione è obbligatoria da parte dei datori di lavoro. Ora è attesa la firma del ministro dell’Economia sul decreto che successivamente arriverà a Palazzo Chigi per il via libera definitivo, ma già tra oggi e domani è atteso l’annuncio ufficiale da parte dell’Amministrazione finanziaria. Sollievo? Poco. Problemi? Quasi invariati. La sostanza della questione non cambia: in gioco ci sono più di 400 adempimenti in poco più di un mese. Rimane quasi intatto l’ingorgo fiscale dell’estate: l’erario chiede ai contribuenti uno sforzo titanico dal 20 agosto al 19 settembre. A dare l’allarme erano stati i consulenti del lavoro e i commercialisti che, rielaborando i dati dell’Agenzia delle Entrate, avevano segnalato il periodo critico per le imprese e i professionisti. In ballo c’è una paradossale emergenza estiva con i contribuenti non solo chiamati a soddisfare le richieste di un Fisco tra i più esosi d’Europa, ma anche a dover fare i conti con tanta burocrazia e una marea di adempimenti concentrati nel periodo in cui mezza Italia si ferma.
Quanto sia pesante questo stato di cose lo ha ricordato il premier ieri pomeriggio a Genova per l’arrivo della Concordia. «Se noi semplifichiamo la burocrazia, diamo efficienza al Fisco, diamo semplicità alle regole sul lavoro possiamo uscire dalla crisi che è europea e non solo italiana. Poi il tempo ci dirà se abbiamo ragione noi o i gufi», ha chiosato Matteo Renzi.

Il rinvio

E allora perché non si riesce a evitare questa concentrazione in una fase in cui l’Italia pensa più alle ferie che ad altro? In realtà il calendario fiscale prevedeva una prima scadenza al 16 giugno ma l’Amministrazione finanziaria è arrivata col fiatone e il ritardo nel rilasciare circolari e aggiornamenti ha prodotto proroghe che hanno portato le scadenze fino al 20 agosto. Tutte tranne quella più «pesante» che riguarda il modello 770 che solo a seguito di proteste e reiterate richieste sarà spostata al 19 settembre. E così l’ingorgo è stato semplicemente traslocato di un mese.

Imprese, professionisti e artigiani

Sono circa 20 milioni i contribuenti coinvolti in questa frenetica attività estiva che prevede esattamente 410 adempimenti necessari per potere quantificare il pagamento delle imposte dovute. Oltre al modello 770 c’è di tutto: da Irpef a Irap, Ires, Iva e poi addizionali regionali, Inps, Tobin tax, Imposta sostitutiva sui redditi di capitale e sui capital gain. Senza contare il versamento dei contributi previdenziali per lavoratori dipendenti, ma anche per artigiani, commercianti, collaboratori, lavoratori domestici. E pure i diritti dovuti alle Camere di commercio cadono nel medesimo periodo dell’anno.
Naturalmente la platea di contribuenti costretti ad affrontare quest’onda anomala di provvedimenti fiscali amplifica l’impatto. Si va dai 171 adempimenti per gli imprenditori individuali, seguiti a stretto giro dai professionisti con 167 adempimenti e via via fino a giungere 72 adempimenti per gli enti non commerciali. Ma anche imprenditori, commercianti, artigiani, partite Iva, professionisti, co.co.pro sono coinvolti in questo balletto di date incerte che non aiuta né la pianificazione finanziaria aziendale né la razionalizzazione delle attività.

Un nuovo calendario

Secondo il parere unanime degli addetti ai lavori, per dare una svolta a questo «imbuto estivo» bisogna allargare le vie d’accesso al Fisco e per riuscirci serviranno dosi massicce di semplificazioni a tutto campo. «Una soluzione che continuiamo a proporre ormai da tempo, anche nell’ambito della riforma fiscale che in questo momento è in Parlamento – afferma Marina Calderone, presidente del Coordinamento unitario delle professioni -. Un esempio illuminante in tal senso è rappresentato dall’introduzione della cosiddetta contrapposizione di interessi: consiste nel rendere detraibile tutto quello che il contribuente spende, senza alcun limite. Questo avrebbe una serie di vantaggi: pagamento delle imposte sui redditi effettivi; interesse a richiedere la ricevuta o lo scontrino per qualsiasi pagamento; azzeramento degli adempimenti trattandosi di semplici conteggi di detrazione. Sarebbe un modo efficace anche per favorire l’emersione del nero. È un metodo scelto da molti altri Paesi, Stati Uniti in testa, ma che in Italia non riusciamo a far adottare». Un sistema che avrebbe anche l’effetto di diminuire la montagna di adempimenti.
Al di là di ogni semplificazione rimane comunque la necessità di eliminare l’imbuto e per riuscirci serve un patto concreto tra gli operatori (imprese, professionisti e contribuenti) e l’Amministrazione finanziaria in modo da concordare e mantenere un calendario rispettoso delle esigenze dei contribuenti e dei professionisti che con il loro operato garantiscono allo Stato il regolare incasso di imposte, tasse e contributi. Serve dialogo. Infatti da tempo i professionisti dell’area giuridico-economica ritengono indispensabile l’insediamento di un tavolo in cui si decidano date fisse e inderogabili ma diluite nel tempo. Perché, almeno il Fisco risparmi agli italiani l’ingorgo estivo.

Crescono solo le promesse

Crescono solo le promesse

Antonio Polito – Corriere della Sera

Matteo Renzi è davvero unico. Nessun altro primo ministro avrebbe mai detto la frase riportata da Alan Friedman nell’intervista al Corriere di venerdì scorso: «Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5%, non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone». In realtà la differenza di un punto di crescita è la differenza tra la vita e la morte per l’economia italiana, e dunque anche per le famiglie. Un punto di crescita è 16 miliardi di ricchezza in più, posti di lavoro in più, più entrate fiscali, meno deficit e rientro dal debito, quindi meno spread e più credito. E così via. Avete presente l’effetto palla di neve? Ecco, un punto in più di Pil metterebbe l’economia italiana in un circolo virtuoso dal quale ogni sfida ci apparirebbe finalmente possibile. Un punto in meno, un altro anno a danzare intorno allo zero, e siamo nei guai neri: in autunno tutti i mostri del videogioco (deficit, fiscal compact, disoccupazione) ricomincerebbero a mangiarsi la speranza che il governo Renzi ha acceso negli italiani e in Europa.

Dunque speriamo che il presidente del Consiglio scherzasse con Friedman, contando sulla sua innegabile simpatia. Però speriamo anche che da ora in poi si faccia sul serio. Si ha infatti l’impressione di essere giunti a un tornante cruciale della vita di questo governo. L’inizio era stata una scommessa basata sul «tocco magico» del premier. L’idea era di accendere una scintilla di ottimismo in un Paese troppo depresso, che lo spingesse a ricominciare a investire e a consumare: una crescita autogenerata. Si trattava di una strategia possibile, le aspettative contano molto in economia; ma non sembra aver funzionato. Ne era parte integrante, al netto dei suoi vantaggi elettorali, lo sconto Irpef degli 80 euro. I dati sui consumi per ora dicono che il rimbalzo sulla domanda interna non c’è stato. E, nel frattempo, anche l’altro grande salvagente dell’economia italiana, l’export e la domanda esterna, sembra sgonfiarsi. Se questa fosse una corsa ciclistica, diremmo che ci siamo piantati sui pedali, e che non ci rimane che sperare in una spinta della Bce a settembre.

Ora ci sono due strade percorribili. La prima è rimettere la testa sulle carte e ripartire dal rompicapo di sempre: le riforme di struttura. La Spagna le ha fatte e ha ripreso a crescere e a creare occupazione. Ha messo a posto le sue banche e soprattutto ha fatto una vera riforma del mercato del lavoro, più facile licenziare e più facile assumere. Noi del Jobs Act sentiamo parlare da quando Renzi faceva la Leopolda e ancora non sappiamo se affronterà finalmente il nodo fatidico dell’articolo 18.

L’altra strada, inutile girarci intorno, sono le elezioni. Di fronte alle difficoltà dell’economia Renzi può decidere di sfruttare la riforma elettorale e costituzionale che riuscirà a portare a casa per rinviare la resa dei conti pubblici con l’Europa, rilanciandosi con una fase 2.0 e con un Parlamento più fedele.

La prima strada porta a fare un discorso di verità al Paese, la seconda ad annunciare sempre nuovi traguardi e cronoprogrammi che poi non possono essere rispettati. Per quanto entrambe legittime, la prima strada ci sembra quella più diritta.

Degli sprechi il catalogo è questo

Degli sprechi il catalogo è questo

Milena Gabanelli – Corriere della Sera

Non si crescerà mai senza riforme, che vuol dire taglio agli sprechi e investimenti. Il tempo è poco e servono soldi subito. La strada più rapida sarebbe quella del rientro dei 300 miliardi depositati su conti esteri, con versamento delle relative somme evase. Però ci vuole la legge che sanziona pesantemente i grandi evasori, e che esiste in tutti i Paesi civili. Quella legge è pronta sul tavolo da due anni, ma ancora non vede la luce, per non aggredire troppo coloro che hanno impoverito il Paese e le loro aziende trasferendo gli utili su conti cifrati. E allora, oltre ai tagli giustissimi ai superstipendi, agli 80 euro in più per chi ha meno di 1.500 euro al mese, quali sono le idee concrete per evitare la chiusura di migliaia di aziende private, e quali le idee di rilancio delle aziende pubbliche sane?

Fra le tante dichiarazioni di Renzi su come uscire dalla depressione generale c’è anche quella di pensare a una Rai che contribuisca alla rinascita del Paese. Certamente avrà un piano, ma per ora si vuol prendere 150 milioni dal canone. La Rai ha 11.600 dipendenti, circa 4.000 collaboratori, un incalcolabile indotto, è il quinto gruppo culturale d’Europa, il tesoro è l’azionista. Dal canone incassa 1,7 miliardi (il 30% evade), 600 milioni dalla pubblicità, 20 milioni da altri servizi. I conti stanno così così. Tecnologicamente arretrata, mantiene un’infinità di strutture e canali, e nonostante i 1.700 giornalisti Rai News è fra gli ultimi siti web che vengono cliccati per informarsi. Il Direttore generale sta tentando di riorganizzare l’offerta, e intanto taglia su prodotto e stipendi: la falce si sta abbattendo con la stessa neutralità su meritevoli e fannulloni, incluse le partite Iva (cruciali in molti programmi) che si mettono in tasca poco più di 1.000 euro al mese. Tuttavia non basterà. Il premier ha suggerito di vendere qualcosa. L’unica «cosa»che si può collocare sul mercato senza tanto clamore è la società che possiede le torri di trasmissione, RaiWay, ma RaiWay è la Rai, ed ha un solo cliente, la Rai. Questo significa che il Direttore generale non può in autonomia decidere di quotare un pezzo di un’azienda pubblica (ovvero privatizzare) perché occorre seguire un iter parlamentare, e arrivare alla delibera del Consiglio dei ministri. Senza questo passaggio cosa si dovrà inventare sul prospetto informativo per avere l’ok della Consob?

Per tornare efficiente e competitiva, la Rai andrebbe «snellita», ma modifiche radicali saranno possibili solo se si interviene sulla riforma del 1975, meglio nota come lottizzazione. Ogni partito si è preso un canale, e poi ci ha infilato i suoi uomini scegliendo come unico criterio la «fedeltà», non all’azienda ma al partito. Risultato: proliferazione di strutture e incarichi dirigenziali che negli anni si sono stratificati. Non esiste nessuna tv pubblica al mondo dentro la quale convivono 3 telegiornali che hanno come referenti 3 diverse aree politiche; ognuno ha una sua struttura autonoma, i suoi direttori, i suoi inviati, il suo apparato tecnico, i suoi studi, il suo budget. Poi c’è Rai news 24, che non si può dire sia seguitissima, e le 26 sedi per l’informazione regionale. Bisogna «ottimizzare» si dice, ma da dove cominci se non metti mano al contratto di servizio con lo Stato? Le sedi regionali sono nate in funzione dei rapporti con le istituzioni locali. Un modello in crisi poiché le Regioni non rappresentano più il territorio, quindi bisognerà cambiare completamente la prospettiva in funzione delle macroaree. Si prende spesso a modello il miglior servizio pubblico al mondo, ovvero la Bbc, dove però i canali generalisti nazionali sono sostenuti solo dal canone: 174 euro, contro i nostri 113. Se tuttavia il modello a cui ispirarsi è Bbc, confrontiamoci. Le stazioni televisive locali inglesi sono 15, che interagiscono con quelle radiofoniche. I dipendenti sono circa 1.500 contro i nostri quasi 2.000. Le sedi occupano mediamente 2 piani (con una postazione fissa per il giornalista che si connette), la maggior parte sono in affitto. Noi occupiamo edifici giganteschi, quasi tutti di proprietà, con insostenibile spreco di spazi e costi. La loro sede più piccola è quella delle Channel Island: 2 dipendenti; da noi a Campobasso sono in 70. Nella sede di Cosenza lavorano 95 persone, ma il palazzo sembra quello di Viale Mazzini. Tutti i servizi finiscono dentro a Bbc One (la nostra Rai 1), con 4 brevi collegamenti al giorno. Inutile ribadire che la produzione locale del nostro servizio pubblico è perlopiù asservita ad assessori e governatori, che in caso di smantellamento di qualche sede si incateneranno pur di non vedere sottratta una telecamera a loro uso e consumo.

Gli «intrecci armoniosi» si metteranno di traverso anche in caso di accorpamento della lunga lista di strutture a cui hanno dato vita nel corso degli anni, e che pullulano di direttori e personale. Emblematica la genesi di Rai Vaticano. Nel ‘97 una decina di dipendenti occupavano due stanze per preparare gli eventi di Giubileo 2000. Senza budget, il team si relazionava con la Santa Sede per agevolare le reti nella produzione di programmi da trasmettere e vendere in tutto il mondo, e doveva essere operativo per 2 anni. Il Giubileo è finito da tempo, ma la piccola squadra si è trasformata in una struttura con i suoi funzionari e dirigenti per continuare a fare le stesse cose. Rai Expo è l’ultima creatura: una dirigenza, 45 dipendenti, una sede a Milano e una a Roma. Ma per raccontare il grande evento dell’alimentazione mondiale non bastano le sedi regionali e i programmi delle reti? A Expo finita (ottobre 2015) siamo sicuri che quella struttura non diventerà permanente? Anche Rai Quirinale, da postazione informativa è diventata nel tempo un elefantino, con un direttore e 35 dipendenti. Per fare cosa? Trasmettere il messaggio del presidente della Repubblica di fine anno e la cerimonia del 2 giugno.

Per «rinascere» sarà inevitabile eliminare sedi e strutture che non hanno nessun senso, ma non mandando a casa qualche migliaio di persone che hanno famiglia! L’azienda avrebbe bisogno di tutto il suo personale se venisse organizzata in modo produttivo; è pur sempre la più grande industria culturale del Paese! Ricordiamo inoltre che non ha ammortizzatori sociali, e sarebbe paradossale creare disoccupati per dare 80 euro in più a chi uno stipendio (anche se magro) ce l’ha. Certo occorrerà poi liberarsi dai burocrati e intervenire sui contratti collettivi di lavoro. Questo quadro però, determinato dalla politica e dalle sue scelte in 60 anni, non lo ribalta un Direttore generale da solo, senza il supporto del governo. Ricordiamo che la Bbc, così spesso invocata a chiacchiere, ha come unico criterio nella nomina della governance e della dirigenza la competenza e il merito. Anche in Gran Bretagna «il palazzo» interferisce e orienta, ma quando un dirigente sbaglia, va a casa senza tante storie. Per questo il mondo intero considera la Bbc la più autorevole tv pubblica del mondo.

Le buone idee e la zavorra delle (non) riforme

Le buone idee e la zavorra delle (non) riforme

Francesco Daveri – Corriere della Sera

Alla presentazione del programma della presidenza italiana dell’Unione al Parlamento europeo, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha elencato una lista di cose da fare perché l’Europa torni a crescere. Ce n’è un gran bisogno, nel Vecchio Continente: dopo due anni di recessione, gli investimenti nell’Eurozona sono scesi al 17,7% del Pil, il loro minimo di sempre. L’industria e il mercato “battono in testa” anche in Germania, non solo in Italia e in Francia.

Per crescere, dicono a Bruxelles, servono le riforme strutturali: bisogna ridurre i monopoli sui mercati e le rendite di posizione nel settore pubblico. Ma quei cambiamenti si fanno oggi per ottenere risultati solo domani. Così, secondo Padoan, ai Paesi che si impegnano da subito dovrebbe essere garantita una maggiore flessibilità nel rispetto dei vincoli di bilancio. Senza stravolgere le regole attuali. Fuori dal gergo della politica, le parole del ministro vogliono dire che l’Italia non proporrà iniziative contro la norma sul pareggio di bilancio strutturale cara all’Europa che rispetta i vincoli. Nello stesso tempo, però, l’idea di flessibilità all’italiana si traduce nella richiesta di lasciare da parte i commissariamenti della Troika (Bce, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) nei confronti dei Paesi che non riescono a rimborsare il loro debito pubblico. Alla Troika in effetti c’è un’alternativa: più coordinamento e più monitoraggio reciproco tra i Paesi europei prima, per evitare tardivi, umilianti e a volte inefficaci aggiustamenti imposti dall’alto poi. Sarebbe un netto cambiamento di rotta rispetto agli anni scorsi.

Sono tutte buone idee. Da quando è iniziato il semestre a guida italiana, da Roma fioccano proposte su come migliorare il funzionamento dell’Unione. Eppure oggi le innovazioni avanzate dall’Italia per stimolare l’Europa a fare di più si scontrano con un macigno: il carniere quasi vuoto delle riforme del governo Renzi nei suoi primi 150 giorni di attività. Senza cambiamenti strutturali, la richiesta di flessibilità di Roma viene percepita a Bruxelles e a Berlino come l’intenzione di aumentare ancora un debito pubblico che è già oltre il 135% del Pil. E l’appello ad abbandonare i commissariamenti dei Paesi a rischio di default può essere visto come il sinistro annuncio di chi in definitiva confida nella Bce per essere tirato fuori dai suoi guai. Senza una chiara accelerazione estiva delle tante riforme annunciate ma non approvate né attuate, il rischio concreto è che anche le migliori proposte della presidenza italiana finiscano nel nulla. Perché alla fine, in Europa come in Italia, tutti sanno che il miglior test per capire se un budino è buono sta sempre nel mangiarlo.

Troppa burocrazia blocca l’economia

Troppa burocrazia blocca l’economia

Stefano Micossi – Affari & Finanza

L’economia resta piatta come una tavola e metà dell’anno è andata: la crescita quest’anno può collocarsi tra lo zero e lo 0,3 per cento, l’inflazione viaggia anche lei intorno allo 0,3 per cento l’anno. In questo quadro, incomincia a serpeggiare qualche dubbio (anche in Europa) sulla determinazione del premier a portare avanti le riforme economiche necessarie. La cartina di tornasole saranno le decisioni sull’articolo 4 della legge delega sul lavoro – il famoso Jobs Act – ora ferme al Senato in attesa del voto sulle riforme istituzionali. Si tratta di vedere se sarà finalmente superato il contratto nazionale cum statuto dei lavoratori degli anni settanta del secolo scorso, gran distruttore di posti di lavoro e vero padre del precariato a vita dei nostri figli. Ma c’è molto altro da fare; più che provvedimenti bandiera, serve un’azione costante e determinata per rimuovere i blocchi e le rigidità che impediscono l’avvio di nuove attività, gli aggiustamenti industriali, le dissipazioni nelle società in mano pubblica. Faccio due esempi.

So di un giovane che decise due anni fa di aprire un bar gelateria in una località balneare del Lazio; l’iniziativa, che comportava un investimento non trascurabile, fu accolta con favore dall’amministrazione locale, che voleva favorire gli investimenti. Ci vollero sei mesi per ottenere un’autorizzazione preliminare della ASL sul progetto del locale, quella definitiva non è mai arrivata. Mesi di lavoro infaticabile furono necessari anche per le certificazioni sanitarie, di sicurezza, acustiche, sull’aerazione e antincendio; la complicazione delle pratiche consigliò di rivolgersi a consulenti-facilitatori, al costo di qualche migliaio di euro. Alla fine fu pronta la SCIA, segnalazione certificata d’inizio attività, che venne inviata per via telematica al SUAP, lo sportello unico attività produttive del Comune – che di unico non ha nulla, dato che tutte le attività preparatorie devono essere svolte dall’interessato prima di poter inviare la SCIA. Emerse allora che, trattandosi di zona artigianale, un oscuro allegato tecnico del regolamento urbanistico prevedeva che l’attività dovesse essere limitata solamente alla vendita di prodotti da asporto; niente somministrazione di bevande, niente servizio ai tavoli. In mancanza di ogni motivazione di interesse pubblico, la restrizione era chiaramente in contrasto con la direttiva europea sui servizi e vari decreti di liberalizzazione emanati dal governo Monti; su iniziativa del sindaco, il consiglio comunale deliberò di rimuovere la restrizione e inviò la delibera per l’approvazione alla Regione – la quale ha impiegato un anno ad approvarla, perché nel frattempo non era stato nominato l’apposito comitato tecnico. Simili restrizioni sono presenti in molti piani urbanistici comunali, con finalità protettive dell’esistente; l’autorità antitrust può solo avviare un ricorso al tribunale amministrativo, le regioni collaborano malvolentieri. Come si vede, la concreta realizzazione della libertà d’iniziativa sul territorio non ha semplici soluzioni, richiede interventi molteplici a vari livelli del sistema amministrativo; di questa azione minuta, continua e determinata per l’attuazione della direttiva europea dei servizi ancora non si scorge traccia.

Il secondo esempio riguarda gli aggiustamenti industriali, che l’Italia tende a rinviare il più a lungo possibile. Gli strumenti hanno cambiato nome nel tempo: mobilità lunga, cassa integrazione straordinaria, cassa integrazione in deroga e, naturalmente amministrazione straordinaria, il cuore pulsante del sistema. Questa è un lebbrosario di imprese in ristrutturazione presso il ministero dello sviluppo economico: originariamente costituito per assistere grandi imprese in crisi, l’intervento è stato esteso nel tempo anche a imprese di minore dimensione e ora – come rivelato da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – anche a ospedali ed enti sindacali. Le imprese mantenute nel lebbrosario a spese dei contribuenti sono quasi 500, alcune da molti anni. Si sa che intorno al meccanismo si affollano migliaia di professionisti; la nomina a commissario è una sinecura, dato che non c’è fretta di concludere. Il sindacato la fa da padrone. Il sistema è completamente opaco: non si sa quanto costa, non sono pubblicati rapporti regolari sull’esito delle procedure, non vi sono termini per il completamento degli interventi. Fa da contorno più largo il sistema dei crediti in sofferenza e delle moratorie bancarie nei confronti di imprese in difficoltà finanziarie: a seconda delle definizioni, stiamo parlando di qualcosa tra il 15 e il 20 per cento degli attivi bancari, difficile da smobilizzare anche per una legislazione fiscale penalizzante sul trattamento delle perdite e l’insufficiente sviluppo di veicoli di cartolarizzazione dei prestiti di dubbia qualità. Nel frattempo, il nostro paese si è dotato di una moderna legislazione per le crisi d’impresa, secondo i principi del Chapter 11 americano; ha anche introdotto il seme di meccanismi moderni per la gestione attiva dei lavoratori che perdono il lavoro, l’ASPI della legge Fornero, ma il sindacato lo vede come il fumo negli occhi. Dunque, di quegli strumenti non ci serviamo abbastanza, perché implicano di riconoscere quando un posto di lavoro non esiste più e di procedere alle ristrutturazioni, con connesso riconoscimento delle perdite. Emerge distinto il quadro di un paese che non vuole fare i conti con i suoi problemi e preferisce rinviare. Non ci si può stupire se l’economia resta piatta.

Tasse e fatture digitali, fisco più semplice

Tasse e fatture digitali, fisco più semplice

Enrico Marro – Corriere della Sera

Obiettivo Fisco amico, soprattutto delle piccole imprese. Varati i primi due schemi di decreto legislativo di attuazione della delega fiscale, uno sulle semplificazioni e la dichiarazione precompilata e l’altro sulla riforma del catasto, il governo sta preparando un terzo decreto su «abuso di diritto» e riordino delle sanzioni, che potrebbe approdare in Consiglio dei ministri ai primi di agosto. A settembre, invece, arriverà un quarto decreto che rivoluzionerà la tassazione per le piccole imprese che usano i regimi fiscali semplificati: circa 4 milioni di contribuenti per i quali dovrebbe arrivare la tassazione per cassa e non più per competenza.

Il reddito d’impresa si calcolerà cioè su entrate ed uscite effettive e non su costi e ricavi teorici. In questo modo si dovrebbe superare il problema dei mancati incassi dovuti ai ritardi nei pagamenti. Le tasse, in altri termini, si pagheranno solo su quanto realmente incassato. La novità sarà accompagnata dall’incentivazione della fatturazione elettronica anche tra privati (registri e adempimenti semplificati), che dovrebbe appunto accorciare i termini di pagamento. Inoltre, per favorire la capitalizzazione delle piccole aziende è in arrivo una importante novità: le società individuali e di persone si vedranno tassare il reddito che resta in azienda in base alla nuova Iri (Imposta sul reddito imprenditoriale, prevista dalla delega) secondo l’aliquota proporzionale allineata all’Ires (società di capitali), cioè il 27,5%, mentre solo la parte di reddito che verrà prelevata dall’imprenditore e dai soci subirà l’aliquota Irpef di competenza, concorrendo alla formazione dell’imponibile complessivo. Infine, arriveranno anche un nuovo regime forfettario al posto del regime dei minimi articolato secondo il settore economico di attività e un sistema semplificato per le imprese di nuova costituzione.

Il cronoprogramma di attuazione della riforma fiscale prevede quindi a ottobre la presentazione del decreto legislativo di riordino della giungla delle agevolazioni fiscali. Il provvedimento sarà collegato alla legge di Stabilità 2015 perché da questo capitolo dovrebbero arrivare alcuni miliardi di risparmi. Una partita che si trascina da diversi anni e che nessun governo è riuscito a chiudere. Il processo di riforma sarà quindi completato con i decreti sul nuovo processo tributario, con la revisione della riscossione nazionale locale, che dovrebbe separare i destini dell’Agenzia delle entrate e di Equitalia (oggi posseduta al 51% dalla prima) e col riordino del regime di tassazione trasnazionale. Il tutto sarà accompagnato da un’azione dell’Agenzia delle entrate più concentrata a prevenire l’evasione fiscale.

In questo senso il decreto sull’abuso di diritto e le sanzioni che dovrebbe essere approvato all’inizio di agosto è decisivo. Si tratta infatti di disinnescare la causa di una parte importante del contenzioso fiscale che poggia appunto sulla difficoltà interpretativa delle norme, aprendo da un lato spazi all’elusione e all’evasione e dall’altro a comportamenti vessatori dell’amministrazione fiscale. Per questo si tratta di fare chiarezza distinguendo nettamente, per esempio, tra condotte legittime in quanto finalizzate a pagare meno imposte possibili e condotte invece che hanno come scopo l’evasione. La definizione dell’abuso di diritto verrà accompagnata da una depenalizzazione delle fattispecie minori. Per esempio la dichiarazione infedele per piccoli importi non dovrebbe più far scattare un processo penale ma verrebbe punita con sanzioni amministrative. Decisioni che il governo si aspetta portino a un aumento del grado di fedeltà dei contribuenti e a una diminuzione delle liti giudiziarie.

L’intero processo di riforma va però accelerato. La legge delega 23 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l’11 marzo ed è entrata in vigore il 27. I primi due decreti attuativi (semplificazioni e catasto) sono stati licenziati dal governo a fine giugno, ma non sono ancora definitivi. I decreti infatti passano all’esame delle commissioni parlamentari competenti, che deve concludersi entro un mese, e poi tornano in Consiglio dei ministri per l’approvazione conclusiva. La riforma prevede che tutti i decreti legislativi debbano essere approvati entro un anno. I provvedimenti da emanare sono numerosi. Tra gli altri anche quelli sul riordino dei giochi, e sul potenziamento della lotta all’evasione, oltre che la stima e il monitoraggio della stessa: una novità assoluta in Italia. La riforma del Fisco è appena agli inizi.

Semplificazioni, meno fisco vuol dire più capitale

Semplificazioni, meno fisco vuol dire più capitale

Isidoro Trovato – Corriere economia

Tanto tuonò che non piovve. La riforma del regime fiscale per le imprese è uno di quegli argomenti “evergreen” nel dibattito politico economico italiano. Stavolta però il traguardo potrebbe persino essere alla portata anche se la tanto attesa legge dell’11 marzo 2014 sulla semplificazione, pur contenendo indirizzi importanti, costituisce un’opera di «manutenzione straordinaria» dell’attuale sistema e risponde, secondo il mondo produttivo, solo in parte alla necessità di una riforma realmente sistematica e organica. Serve qualcosa di più specifico e una riforma fiscale davvero incisiva per il futuro delle imprese.

Da un’elaborazione dell’ufficio studi e della direzione politiche fiscali di Confartigianato, infatti, emerge che nell’arco delle ultime due legislature, tra il 29 aprile 2008 e il 28 marzo 2014, sono state approvate 629 norme fiscali, di cui 72 semplificano (11,4% del totale), 168 sono potenzialmente neutre dal punto di vista dell’impatto burocratico (26,7%) e 389 presentano un impatto burocratico sulle imprese (61,8%): ogni tre norme fiscali promulgate, due aumentano i costi burocratici per le imprese. La politica di semplificazione appare come una tela di Penelope se per una norma che semplifica ne vengono emanate 5,4 che hanno un impatto burocratico negativo sulle imprese. È del tutto evidente la necessità di procedere speditamente a una radicale semplificazione degli adempimenti tributari che gravano sulle imprese e sui cittadini. Per una reale semplificazione, però, è necessario non solo incidere sui singoli adempimenti ma anche rivedere le modalità con cui si giunge alla determinazione del reddito da tassare. Occorrono altri interventi, secondo gli artigiani, ma soprattutto bisogna metter mano ai regimi contabili delle imprese minori che sono la stragrande maggioranza del mondo produttivo: basti pensare che il 57,1% delle aziende applica un regime di contabilità semplificata mentre il 42,9% è in contabilità ordinaria. Circa 9 persone fisiche su 10 e 6 società di persone su 10 applicano la contabilità semplificata mentre le società di capitali sono interamente comprese nella contabilità ordinaria (obbligatoria).

Obiettivo primario, dunque, per le aziende è quello di armonizzare le aliquote. Ma con obiettivi e gradualità diverse. «In ordine di priorità – spiega Cesare Fumagalli, segretario generale di Confartigianato – bisogna introdurre un regime forfetario da riservare alle aziende di ridotte dimensioni (quelle che hanno ricavi tra 30 e 40mila euro) e con limitata struttura imprenditoriale che preveda pochissimi adempimenti contabili (solo conservazione dei documenti). Servirà poi modificare l’attuale regime semplificato per permettere la determinazione del reddito secondo il criterio della cassa. Tel regime favorirebbe anche quello dell’Iva per cassa, oggi poco utilizzato, in quanto i contribuenti per determinare il reddito restano costretti al rispetto del criterio di competenza economica. Avevamo salutato con grande entusiasmo quel provvedimento ma i legacci burocratici lo hanno reso impraticabile e solo così tornerebbe a essere utile. Altro provvedimento di grande efficacia è quello che prevede una specifica azione per favorire le start-up d’impresa riducendo il carico fiscale per i primi anni dell’avvio dell’attività». Ulteriore obiettivo è quello di uniformare il reddito d’imposta e favorire la capitalizzazione delle aziende. «La nostra proposta – spiega Fumagalli – prevede di mantenere l’imposta stabile per chi lascia il reddito nella sua impresa. In pratica, chi reinveste in azienda non sconterà più la tassazione progressiva bensì quella proporzionale nella misura del 27,5%. Si uniformerebbero le imprese indipendentemente dalla forma giuridica e si favorirebbe la capitalizzazione di imprese individuali e società di persone».

Quella spesa infinita per i giornali di partito

Quella spesa infinita per i giornali di partito

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Dal 1993 al 2012 lo Stato italiano ha speso 330 milioni per sovvenzionare 25 giornali legati ad altrettanti movimenti politici. Altri 90 milioni di contributi, c’è scritto nel rapporto sui costi della politica del commissario alla spending review Carlo Cottarelli e curato dal gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon, li abbiamo versati a partire dal 2003 a sole sei emittenti radiofoniche. Più di 37 a Radio Radicale, 26 a Ecoradio, quasi 17 a Città Futura, 5,2 a Veneto Uno, 3,6 a Galileo e persino 1,3 a Onda Verde. Tutte cifre che si devono sommare ad altre voci che hanno costituito il più imponente sistema di finanziamento pubblico dei partiti del mondo occidentale. Con la differenza che in questo caso ci troviamo di fronte a una zona grigia dove il confine tra l’attività politica vera e propria e un altro genere di interessi può essere veramente labile. Anche grazie a una normativa compiacente. Basta citare l’assurdità per cui, fino a un decreto legge approvato nel 2012 dal governo Monti, il contributo ai giornali veniva erogato sulla base delle tirature e non delle copie effettivamente vendute, raccontano sempre gli esperti del team di Bordignon. Segnalando come le rese dei quotidiani di partito si aggirino «in media intorno al 90%, da confrontarsi con il 22% del Corriere della sera e di Repubblica».

Ma questa zona grigia, insistono gli autori di questa parte del rapporto (Paolo Balduzzi, Marco Gambaro e Riccardo Puglisi), non è l’unica nella quale il limite fra finanziamento dei partiti e costi “indiretti” della politica è alquanto fumoso. Ci sono altre aree «che raggiungono dimensioni rilevanti e generano spesa strutturale» con «ordini di grandezza probabilmente superiori ai finanziamenti diretti ai partiti». Per esempio, i servizi reali di cui i politici godono nelle strutture di governo centrale e locale. Strutture nelle quali spesso «le remunerazioni sono inflazionate rispetto alle prestazioni richieste». E i politici «operano in modo da inserire persone appartenenti alla stessa area, indipendentemente dal merito e dal profilo professionale: si tratta in questo caso di premi o di pagamenti indiretti». Per non parlare di quelle «risorse degli apparati amministrativi che risultano di fatto al servizio dei politici», prefigurando «un uso privato e improprio di risorse pubbliche». Caso tipico, quello dell’impiego dei mezzi di un ministeri o di una Regione per i viaggi elettorali.

Poi ci sono le aziende pubbliche. Dove le nomine, dice il rapporto, sono politiche e dove spesso ai cambi di maggioranza corrispondono cambi di dirigenti apicali e a seguire dei livelli appena inferiori,senza che i precedenti dirigenti siano rimossi. Questi ultimi continuano a mantenere ruolo e salario, «pur essendo di fatto spinti in posizioni organizzative marginali». Non si spiega forse così il numero abnorme e crescente di società ed enti pubblici, che fra centro e periferia ha ormai superato ampiamente quota 8 mila e che Cottarelli ha definito «una situazione anomale nel contesto internazionale»?

Cessioni, servono vere aperture

Cessioni, servono vere aperture

Nicola SalduttiCorriere economia

Il governo ha indicato nel Piano nazionale di riforma un obiettivo chiaro: nel 2014 gli incassi da privatizzazioni dovrebbero arrivare a 9-10 miliardi. Somma che serve ad alimentare il fondo di ammortamento per l’acquisto di titoli del debito pubblico. Un legame diretto: meno beni di Stato e meno debiti. Una formula virtuosa che sembra essersi inceppata. Un obiettivo che, alla luce dei possibili rinvii, appare meno probabile di qualche mese fa. Sul fronte delle cessioni immobiliari il Demanio continua a insistere, ma la situazione del mercato non appare favorevole. Sembra invece abbastanza probabile un ulteriore passo indietro nelle due società-simbolo dello Stato azionista, Eni ed Enel. Il Tesoro e la Cassa Depositi potrebbero cedere un altro pacchetto. Ma in questo caso molto dipenderà dalla capacità dei nuovi manager, appena nominati, di rendere i potenziali azionisti interessati alla nuova tranche. Perché una cosa è certa: a vent’anni dal grande avvio delle privatizzazioni, una stagione che ha consentito alla Borsa italiana di compiere il grande salto, quasi raddoppiando la sua capitalizzazione, che ha visto 7-8 milioni di italiani diventare azionisti, adesso le cessioni di Stato sono diventate una materia più complicata. Non è un caso che le banche d’affari stiano proponendo la possibilità di studiare la formula dei prestiti convertibili (utilizzati finora soltanto per l’uscita dello Stato dall’Ina, l’Istituto nazionale delle Assicurazioni, poi confluita nelle Assicurazioni Generali). La vera scommessa a questo punto potrebbe partire dai Comuni, una volta concluso il lavoro di Corrarelli sulla spending review. Con due passaggi indispensabili, ormai: le possibili fusioni tra le municipalizzate e la discesa (a largo raggio) degli enti locali sotto la fatidica soglia del 15% e con un ruolo di governance molto più defilato. Come dire, le privatizzazioni. Quelle vere.

Lavoro, rinvii e distrazioni

Lavoro, rinvii e distrazioni

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

L’Italia sta chiedendo più flessibilità all’Europa sulle regole di bilancio e in cambio promette incisive riforme economiche. La partita è delicata, ma non potrà iniziare sul serio se il governo Renzi non dà prima qualche segnale immediato sulle riforme. Il fronte su cui, giustamente, vi sono le maggiori aspettative è il mercato del lavoro, che funziona malissimo e ostacola la crescita.
I dati parlano chiaro. Su cento italiani fra 20 e 64 anni, meno di 60 hanno un’occupazione. In Germania sono 77, nel Regno Unito 75, in Francia 70. Anche negli altri Paesi c’è stata la crisi, perciò non si può dar la colpa solo a questo. La distanza rispetto ai valori dell’area euro era già molto alta prima del 2008. Nello scorso maggio si sono creati 50 mila nuovi posti di lavoro. È una buona notizia, ma nello stesso mese la Germania ne ha creati (fatte le debite proporzioni) quattro volte di più. Dobbiamo cambiare passo, e alla svelta.
I problemi «strutturali» del mercato del lavoro italiano sono noti. I servizi per l’impiego sono inefficienti e molte imprese non trovano persone con le qualifiche richieste. La cassa integrazione tiene artificialmente in vita aziende e posti di lavoro decotti, mentre gli ammortizzatori sociali non proteggono adeguatamente i veri disoccupati. Fisco e burocrazia scoraggiano gli investimenti, in particolare dall’estero. E, soprattutto, i rapporti di lavoro sono disciplinati da una giungla di norme e di fattispecie contrattuali, peraltro soggette a continui conflitti interpretativi. Oggi in Italia assumere è un vero e proprio terno al lotto.
Dal 1996 ad oggi sono state fatte tre grandi riforme (Treu, Biagi e Fornero). Il bilancio? Grandi ambizioni, misure non all’altezza degli obiettivi, applicazioni incomplete, niente valutazione. E nessuna modifica (o quasi) alla disciplina del lavoro a tempo indeterminato, risalente ai primi anni 70. Il credito che Matteo Renzi si è guadagnato a Bruxelles è in buona parte dovuto agli impegni presi sul fronte dell’occupazione. Il Jobs Act è stato presentato come un provvedimento capace di aggredire, questa volta davvero, i problemi strutturali, inclusa la rigidità in uscita. Sono finora seguite due iniziative concrete: il decreto Poletti sui contratti a termine e il disegno di legge delega sul mercato del lavoro. È proprio su quest’ultimo che il governo deve giocare bene le sue carte. Il testo contiene novità promettenti sugli ammortizzatori e sulle politiche attive. Ma il vero nodo è l’articolo 4 della delega, dove si prevede una drastica semplificazione del codice del lavoro, rendendolo finalmente certo e comprensibile. Verrebbe inoltre introdotto un contratto di lavoro a tempo indeterminato «a tutele crescenti» in sostituzione dell’attuale disciplina e un «contratto di ricollocazione» per accompagnare i lavoratori nella transizione da un posto ad un altro. Queste innovazioni cambierebbero in modo virtuoso gli incentivi per imprese e lavoratori e segnerebbero una inequivocabile svolta rispetto al passato.
Riuscirà Matteo Renzi a far passare la riforma, superando le resistenze del sindacato e di una parte del Pd? La delega è ferma in Commissione al Senato e si rischia il voto finale a settembre. Un brutto segnale, che certo non depone a favore della serietà e fermezza d’intenti. È chiaro che l’articolo 4 è una forca caudina sul piano politico. Ma se Renzi non sarà capace di attraversarla, la sua credibilità riformatrice ne uscirà indebolita. Forse irrimediabilmente.