Corriere della Sera

Scontrino fiscale, bonus ai commercianti

Scontrino fiscale, bonus ai commercianti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Una scatolina grigia, 15 centimetri per 20, collegabile con una connessione Usb al computer e il gioco è fatto. Voi acquistate in contanti o con carta, il commerciante batte il prezzo del prodotto, dalla piccola stampante esce lo scontrino cartaceo. Ma soprattutto, in tempo reale, da quello stesso apparecchio la transazione viene trasmessa per mezzo di un indirizzo e-mail ad un server che la archivia, una sorta di cloud (nuvola, ndr), capace di memorizzare milioni di operazioni. Le prime stampanti di scontrini digitali sono già in commercio, essendo state autorizzate a gennaio scorso. La novità è che il governo, per incentivarne l’uso, potrebbe accollarsene in tutto o in parte il costo, attraverso un meccanismo di detrazione fiscale.

Ma partiamo dal principio, che è la delega fiscale che ha già prodotto un decreto delegato sulla dichiarazione dei redditi precompilata che arriverà a casa di 20 milioni di contribuenti dall’aprile 2015. Ora però il governo ha intenzione di spingersi oltre e integrare quel 730 con un’ulteriore facilitazione: la possibilità di completare la dichiarazione precompilata con alcune spese detraibili. Nasce qui la necessità di introdurre lo scontrino digitale in uno dei prossimi decreti delegati, su cui sta lavorando una squadra di tecnici, coordinata dal viceministro Luigi Casero. In particolare si prevederà che, attraverso l’uso degli scontrini digitali, le spese sostenute per il medico, i farmaci, la palestra dei figli vengano inviate immediatamente al cervellone dell’Agenzia delle Entrate, con il semplice uso della tessera sanitaria, in modo che la dichiarazione che verrà inviata a casa del contribuente, a partire dal 2016, possa già contenere le detrazioni.

Ma cosa ci guadagna la controparte? Minori oneri per la conservazione e la rendicontazione delle scritture contabili: per i più piccoli il governo sta pensando di abolire l’obbligo di tenuta dei registri dei corrispettivi, oltre a concedere una detrazione per l’acquisto delle stampanti digitali. L’operazione però non sarebbe completa se non contemplasse l’attivazione del sistema della fatturazione elettronica anche tra privati (oggi è già in vigore nel rapporto tra lo Stato e i privati). Anche questa è allo studio e dovrebbe essere inserita nel prossimo decreto delegato, insieme con alcuni sistemi di incentivazione per chi adopererà la fatturazione elettronica: minori controlli fiscali, minori obblighi di presentazione di documentazione contabile.

Il quadro si completa con un accordo con il sistema bancario per rendere meno oneroso l’utilizzo di tutti i sistemi di pagamento elettronici, i cosiddetti Pos. L’obiettivo del governo è creare un sistema totalmente tracciabile ma anche sicuro: il server, ad esempio, dovrà soddisfare alcuni requisiti tecnologici di riservatezza. L’operazione è complessa e richiede ancora che alcune autorizzazioni giungano dall’Unione europea ma il governo conta che possa andare completamente a regime entro il 2018. Il risultato dovrebbe essere uno snellimento del sistema fiscale ma anche un forte recupero dell’evasione, in particolare di quella dell’Iva, l’imposta più evasa nel nostro Paese. In attesa che siano pronte le autorizzazioni e le infrastrutture informatiche, il recupero dell’evasione dell’Iva è stato temporaneamente affidato al sistema del reverse charge (inversione contabile,ndr) dal venditore all’acquirente (escluso quello finale).

Abolizione dello scontrino, ennesimo annuncio di un fisco che complica invece di semplificare

Abolizione dello scontrino, ennesimo annuncio di un fisco che complica invece di semplificare

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La direttrice dell’agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha annunciato che presto sarà abolito lo scontrino fiscale. I commercianti esulteranno. Le imprese che producono le macchinette per emettere gli scontrini, un po’ meno. I professionisti delle note spese, sulle prime, saranno sconcertati. E molti cittadini che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo resteranno invece rabbiosamente interdetti, sospettando che si voglia far sparire l’unico strumento che costringe artigiani e negozianti a compiere il proprio dovere con il Fisco. Niente di tutto questo, ovvio: ci assicurano che è soltanto semplificazione. Dalla carta alla tracciabilità elettronica. Il premier Matteo Renzi non aveva forse promesso di portare l’Italia fuori dal medioevo digitale?

Benissimo, allora.Se non fosse che quando il Fisco parla di cambiare le regole, o peggio ancora accenna a qualche semplificazione, vengono i brividi. Non c’è ministro delle Finanze che da quarant’anni a questa parte non abbia annunciato una riforma fiscale. Con il solo risultato di accrescere gli adempimenti, aumentare la burocrazia e far salire dunque i costi per le imprese e i cittadini e per lo Stato. Quante volte sono cambiate le regole fiscali non lo sa nemmeno chi si accanisce a inondarci di norme e circolari. Corre quindi l’obbligo di ricordare i numeri contenuti in uno studio della Confartigianato, secondo cui nei 2292 giorni intercorsi fra il 29 aprile 2008 e l’8 agosto 2014, periodo durante il quale anche il nome dell’attuale direttrice delle Entrate compariva negli organigrammi dei vertici degli apparati fiscali, sono stati emanati 46 provvedimenti contenenti 691 norme di natura tributaria. Della quali ben 418 hanno complicato la vita a cittadini e aziende, contro le 96 che l’hanno semplificata e le 177 che non hanno avuto particolari effetti burocratici. Negli ultimi sei anni e mezzo il Fisco ha sfornato una complicazione alla settimana: lo sa Rossella Orlandi?

Debiti con le imprese, pagati 32,5 miliardi. «Il grosso degli arretrati è degli Enti Locali»

Debiti con le imprese, pagati 32,5 miliardi. «Il grosso degli arretrati è degli Enti Locali»

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Per saldare ivecchi debiti della pubblica amministrazione il governo ha già erogato 40,1 miliardi tra ministeri, organi nazionali dello Stato e enti locali. Ai creditori, però, fino al 30 ottobre scorso sono stati effettivamente pagati 32,5 miliardi. Un aggiornamento viene dal ministero dell’Economia, dopo la promessa fatta dal premier Matteo Renzi: in Parlamento e in tv, a «Porta a Porta», il presidente del Consiglio aveva detto che sarebbero stati saldati i debiti arretrati «entro il 21 settembre», giorno del suo onomastico. Pena una passeggiata di 23 chilometri per l’ex sindaco da Firenze al santuario di Monte Senario. A prescindere da come è finita la scommessa con Bruno Vespa (Renzi sostiene di non aver perso), il meccanismo pianificato dall’esecutivo si basava sull’accordo tra governo, banche e Cassa depositi e prestiti (che faceva da garante): un imprenditore doveva solo registrarsi sul sito del ministero dell’Economia e, dopo avere ottenuto la certificazione del proprio credito, poteva andare in una banca o in una finanziaria a riscuotere (il costo dell’operazione di cessione del credito era dell’1,6% e per gli importi inferiori ai 50mila euro saliva all’1,9%). Molti imprenditori, però, si sono visti voltare le spalle da finanziarie e istituti di credito perché l’accordo non prevedeva alcun obbligo.

Comunque «il governo ha provveduto a mettere a disposizione degli enti debitori oltre 56 miliardi per smaltire il debito patologico», precisa il Tesoro. Di questi, quelli effettivamente assegnati agli enti sono 40 miliardi, ma quelli effettivamente erogati non superano appunto i 32,491 miliardi. Le amministrazioni centrali dello Stato sono responsabili di una quota del «debito patologico stimata nel 5-10% – aggiungono dal ministero -.La gran parte del debito è responsabilità di Regioni, Province, Comuni», Asl, enti e società delle autonomie locali. Insomma, dice l’Economia, la responsabilità dei mancati pagamenti è di Regioni ed enti locali.

Ieri il ministro Pier Carlo Padoan era a Bruxelles per la riunione dell’Ecofin, dove ha parlato anche del problema del budget Ue. La commissione ha chiesto finanziamenti aggiuntivi al Regno Unito e all’Italia. «È un argomento difficile, ma oggi (ieri ndr) non c’è stato alcun negoziato sulle quote che i Paesi devono pagare all’Europa. In questa fase è troppo presto per dire che cosa faremo». Secondo le cifre della Commissione, sono circa 340 i milioni che l’Italia deve versare per il ricalcolo di fine anno, 2,1 miliardi il Regno Unito. Per quanto riguarda la legge di Stabilità, Padoan ribadisce che finora «nessun Paese ha ricevuto bocciature». Nel frattempo prosegue il cammino della manovra alla Camera: sono stati presentati 3.707 emendamenti (oltre un migliaio solo dal Pd), compreso quello con il quale l’esecutivo ha modificato il testo dopo le richieste dell’Ue. Martedì è prevista la verifica di ammissibilità ma un numero così alto di emendamenti è molto probabile che spingerà il governo a chiedere la fiducia.

Le donne sono meno pagate anche quando decidono loro

Le donne sono meno pagate anche quando decidono loro

Rita Querzè – Corriere della Sera

Le donne guadagnano meno degli uomini anche quando possono scegliersi lo stipendio. Lo dicono gli accademici di due università inglesi e una belga. Ieri ne dava conto il Financial Times. Tradendo una certa sorpresa. Ma siamo sicuri che ci sia da stupirsi? Partiamo dalla ricerca. In tutto 159 imprese sociali monitorate. Risultato: le donne al vertice remunerano se stesse il 23% in meno dei «colleghi» maschi. Un divario in linea con quanto registrato in Inghilterra nel settore profit. In Italia quel 23% diventa una percentuale (per fortuna) più bassa: da noi il pay gap tra uomini e donne si ferma al 6,7%. Da una parte le italiane che lavorano appartengono più spesso a categorie professionali medio alte, dove la consapevolezza del proprio valore è maggiore. Dall’altra i salariali dei contratti di categoria fanno da argine alle sperequazioni.

Ma il punto è: quando si rilevano differenze retributive tra i generi è corretto parlare di discriminazione? Non sarà che le donne scelgono settori e posizioni meno remunerate? Il fenomeno è stato studiato. «Il punto è che il differenziale retributivo uomo-donna permane quando si paragonano lavoratrici e lavoratori nello stesso settore, con la stessa anzianità e pari titoli di studio – fa notare Luisa Rosti, economista dell’università di Pavia -. L’80% del pay gap tra i generi non ha una spiegazione razionale». È quello che gli statistici chiamano appunto «residuo non spiegato». La discriminazione sta proprio lì dentro. Su un punto l’indagine può essere utile. Ricorda che chi discrimina di solito lo fa in modo inconsapevole. Tanto che le donne spesso hanno un nemico inaspettato da cui guardarsi. Se stesse.

Il circolo (vizioso) degli interessi, un macigno da 80 miliardi l’anno

Il circolo (vizioso) degli interessi, un macigno da 80 miliardi l’anno

Sergio Bocconi – Corriere della Sera

Peccato originale, Moloch, Dna. In qualsiasi modo lo si voglia definire il debito pubblico italiano nasce e cresce con il Paese: quando il ministro delle Finanze Pietro Bastogi parla alla Camera il 29 aprile 1861 dice parole che oggi potrebbero essere definite di «stringente attualità»: «Perché l’Italia meriti il credito di tutta l’Europa deve cominciare a rispettare i debiti contratti…». Inizia così la lunga marcia del debito pubblico italiano che Quintino Sella riporta in sostanziale pareggio nel 1876.

Cent’anni dopo siamo ancora «virtuosi»: nel 1975 il debito ha già fatto un primo balzo ma è ancora pari al 56% del Pil. A pagare in parte le «spese» è chi incassa interessi reali negativi di sette punti. Ed è il caso di sottolineare il costo del debito perché in futuro, cioè in questi ultimi dieci anni, sarà invece questo un autentico macigno per l’Italia, soprattutto in presenza di una crescita del Pil nominale pari a zero e negativa in termini reali. Circa 80 miliardi di media l’anno che contribuiscono a depotenziare qualsiasi politica economica.

Sono interessanti a questo proposito le analisi condotte da esperti come Roberto Artoni (che ha scritto «Il debito pubblico in Italia dall’unità ad oggi») professore ordinario di Scienza delle finanze alla Bocconi. Perché è nell’equilibrio fragile fra le varie componenti macroeconomiche che si viene formando il disequilibrio che farà esplodere il debito pubblico italiano. Nel 1970 la situazione della finanza pubblica è «normale»: la spesa è pari al 33% del Pil e il debito al 37,1%. Seguono dieci anni di governi Rumor, Colombo, Andreotti, Moro, Cossiga, Forlani, nei quali «turbolenze» sociali, rallentamento dell’economia, costituzione di un welfare in parte «elettorale» e alta inflazione conducono un primo ribaltamento della situazione. Nel 1980 la spesa è così aumentata di otto punti al 40,8% del Pil mentre le entrate, cioè il gettito fiscale, cresce della metà. Il debito è 56,1%, il peso degli interessi passa dall’1,3 al 4,4% ma con i prezzi che aumentano al 21,1% l’anno i tassi reali sono negativi del 5,8%.

Iniziano gli anni del craxismo e la spesa si impenna ulteriormente portandosi nel 1985 al 50% del Pil. Sono però anche anni caratterizzati da un’inversione di tendenza nelle politiche monetarie internazionali che si inaspriscono a partire dall’America reaganiana. Nell’85 in Italia, (nonostante il buon andamento dell’economia) il debito sul Pil «vola» all’80,5% ed è importante osservare che se il totale della spesa pubblica cresce di cinque punti, gli interessi raddoppiano all’8,4% del Pil con tassi reali che adesso favoriscono i sottoscrittori dei titoli di Stato perché sono positivi e pari al 4,5%. Il macigno pesa.

Il trend prosegue negli anni successivi e il debito che nel ‘90 è al 94% nel 1992 supera la soglia del 100%: siamo al 105%. Cambiano i governi, da Andreotti ad Amato e Ciampi, scatta l’adesione al trattato di Maastricht (che entra in vigore nel novembre del ‘93) e cadono anche i tassi e il loro peso relativo su spesa e Pil. Nel ‘92-93 cominciano anche le privatizzazioni che vedono Romano Prodi prima alla guida dell’Iri e poi nel ‘96 all’esecutivo. Le cessioni di banche e aziende di Stato con lo smantellamento delle partecipazioni statali «fruttano» complessivamente 127-130 miliardi. Grazie dunque al combinato disposto di aumento delle entrate, riduzione delle spese, ritorno all’avanzo primario e un forte calo del peso degli interessi (che passano dal 10,1% nel ‘95 al 3,2% nel Duemila) il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo scende dal 121% del ‘94 al 108 del 2001. Per toccare il «minimo» nel 2007 al 103,3% quando al governo c’è di nuovo Prodi.

Ebbene: come e perché in meno di dieci anni si torna al 134%? L’avanzo primario è pari in media al 2%, la spesa, al netto delle cessioni pubbliche, resta intorno al 50% del Pil e anche le entrate non registrano rilevanti variazioni. Ma mentre il Pil cresce zero in termini nominali e ha segno meno in termini reali, gli interessi rappresentano in media sempre il 5% circa del Pil. Il debito, nonostante i tassi bassi e lo spread relativamente contenuto, costa. Tanto.

Diciamoci la verità, sul debito pubblico ci eravamo distratti

Diciamoci la verità, sul debito pubblico ci eravamo distratti

Francesco Daveri – Corriere della Sera

Nelle 192 pagine delle sue previsioni autunnali la Commissione europea descrive per il 2015 uno scenario di crescita appena positiva e di inflazione quasi a zero per i Paesi della Unione nel suo complesso. È un quadro molto peggiorato rispetto a quello descritto solo sei mesi fa nei documenti di primavera della stessa Commissione. Per l’Italia c’è la conferma di dati negativi sul Prodotto interno lordo (Pil) che dovrebbe attestarsi su un meno 0,4 per cento nel 2014 per poi tornare a un piccolo segno più (0,6 per cento) nel 2015. Per il nostro Paese, però, a differenza che per altri partner europei, il rinvio al futuro di una ripresa più decisa ha implicazioni particolarmente pesanti per la finanza pubblica.

Senza una crescita più robusta peggiora il deficit, non casualmente proiettato dalla Commissione al 3 per cento per il 2014 e al 2,7 per cento per il 2015 nel caso in cui siano attuate le misure della legge di Stabilità annunciate dal governo. A preoccupare Bruxelles, non è però tanto il deficit italiano (Francia e Spagna sono messe peggio di noi), ma il dato sul debito pubblico. Nel 2013 – ricorda la Commissione – è solo grazie alla recente revisione dei conti nazionali che il debito italiano è sceso al 127,9 per cento del Pil. Già nel 2014, invece, senza la crescita e dovendo – finalmente – onorare parzialmente il rimborso dei debiti della Pubblica amministrazione, è previsto in risalita sopra al 130 per cento del Pil (al 132,2 per cento) per poi toccare il 133,8 per cento a fine 2015, e stabilizzarsi lì intorno negli anni successivi.

Le note preoccupate della Commissione ricordano una verità: se è vero che (vedi il Giappone) si può convivere senza andare in default con un grande debito pubblico, è però altrettanto vero che una grande massa di debito pubblico pesa sulle spalle di qualsiasi economia. Nel caso dell’Italia l’onere comincia con gli 80 miliardi di euro di interessi che ogni anno lo Stato deve versare ai suoi creditori. Rispetto a prima della crisi, oggi una gran parte di questo debito è nelle mani di italiani e di banche italiane. Ma il risultato (tasse più alte per pagare gli interessi di un debito che non scende mai e anzi continua a crescere) è una partita di giro di cui si fatica a vedere la ragione ultima se non l’estrema ratio di un Paese che vuole solo galleggiare senza pensare al futuro.

Il peso del debito pubblico va però oltre l’onere degli interessi sull’indebitamento passato e si estende alla necessità di trovare acquirenti ai tassi prevalenti sul mercato per un enorme ammontare delle quote in scadenza. Il conto è presto fatto: se la rapida ripresa dell’economia americana – ipotesi tutt’altro che campata per aria – portasse con sé un aumento di un punto percentuale dei tassi di mercato, nei prossimi 12 mesi lo Stato italiano dovrebbe pagare 3,2 miliardi di euro in più sui 323 miliardi di euro di debito in scadenza da rinnovare. L’analogo della risicata spending review di quest’anno. Sostenere un debito pubblico grande come quello italiano è una scommessa rischiosa sull’evoluzione dei tassi e delle condizioni del credito nel mondo su cui l’Italia è per ora assicurata dall’impegno della Bce a difendere l’euro. Fino a quando, rimane da vedere. Certo, il,peso del debito pubblico è oggi meno evidente. È meno evidente perché lo spread, la differenza nel costo del debito italiano rispetto al debito tedesco, oscilla intorno ai 150 punti, cioè 400 punti base in meno della fine del 2011. Ma – lo dice la Commissione nelle poche righe finali della sua scheda sull’Italia – il problema resta.

Sotto ai dati contabili, detta legge l’algebra impietosa del debito. Al di là delle occasionali revisioni contabili, un Paese può rientrare dal suo accumulo passato senza tirare la cinghia degli avanzi di bilancio solo se cresce rapidamente: lo hanno fatto la maggior parte dei Paesi europei nel secondo Dopoguerra e, negli anni Novanta, i Paesi scandinavi, ma godendo di favorevoli condizioni di ripresa globale. Per l’Italia di oggi diventa allora urgente affiancare al graduale riequilibrio di bilancio e alle riforme per promuovere la crescita, le privatizzazioni, già contabilizzate da Bruxelles per uno 0,5 per cento del Pil e per ora assenti dall’agenda politica. Privatizzazioni che – vale la pena di ricordarlo – potrebbero essere un’altra occasione per riattivare la crescita e non solo per fare cassa.

Fisco, a novembre 221 adempimenti

Fisco, a novembre 221 adempimenti

Isidoro Trovato – Corriere della Sera

Quali sono i due periodi dell’anno in cui si sente parlare di ingorghi? Estate e vacanze natalizie. E il Fisco si adegua. Il groviglio di scadenze che ha agitato le notti di imprese, professionisti e contribuenti in estate si ripresenta (con ammirevole coerenza) anche in quest’ultimo scorcio di 2014. Saranno oltre 400 gli adempimenti che attendono i contribuenti in questa parte finale di anno. Una concentrazione di adempimenti tale da mandare in tilt le aziende e gli studi professionali. Il paradosso, poi, sta anche nel fatto che un paio di giorni fa il Consiglio dei ministri ha approvato definitivamente il decreto legislativo sulle semplificazioni in attuazione della delega fiscale.

E così succede che, al di là delle (buone) intenzioni di velocizzazione manifestate dal governo, sono 221 le scadenze che attendono i contribuenti nel mese di novembre, come è rilevabile dal prezioso servizio presente nel sito internet dell’Agenzia delle Entrate sulle scadenze dei contribuenti. Si tratta di 221 tra versamenti, comunicazioni, dichiarazioni, adempimenti di varia natura. «Lo avevamo chiesto già in estate – afferma Rosario De Luca, presidente Fondazione Studi Consulenti del Lavoro -. Auspichiamo una vera razionalizzazione del calendario fiscale e interventi mirati ad evitare errori formali e l’applicazione del conseguente regime sanzionatorio».

Si parte con i versamenti mensili di ritenute fiscali, rate di Unico e Iva periodica fissati per il 17 novembre. Ma dicembre non sarà da meno, considerando che il giorno 1 scadranno gli anticipi delle imposte in acconto per il 2014. Acconti che vanno per l’Ires dal 101,5% fino al 130% per banche e assicurazioni, e al 100% per l’Irpef. E così, oltre ai consueti adempimenti mensili, nel mese di dicembre scadranno i termini per il versamento dei tributi comunali sugli immobili. I contribuenti infatti saranno chiamati alla cassa il 16 dicembre per il saldo dell’Imu e della Tasi. E il 27 dicembre, mentre ci si avvicina a Capodanno, arriva l’oneroso versamento dell’acconto dell’Iva.

Sempre a dicembre, altri due appuntamenti importanti: rispettivamente entro il 29 ed il 18 dicembre, scadranno i termini per le presentazioni tardive dei modelli Unico e dei 770. Ma prima che la mezzanotte del 31 dicembre porti via il 2014, gli obbligati alla tenuta delle scritture contabili ai fini fiscali dovranno procedere con la stampa dei registri relativi al periodo di imposta 2013. Volendo avere un visione d’insieme dettagliata per categoria il panorama non è certo più confortante. Interessati dal calendario fiscale sono tutti i contribuenti ma soprattutto i titolari di partita Iva. Nel dettaglio: imprenditori, artigiani, commercianti si troveranno di fronte 119 scadenze. Va un po’ meglio ai professionisti: ne avranno 117. Per le società di capitali ne sono previsti 100, mentre dipendenti e pensionati che se la caveranno con «soltanto» 51 scadenze.

Ma non finisce qui. Non bisogna dimenticare infatti che gli stessi contribuenti dovranno anche fare i conti con altre scadenze non fiscali, dunque non ricomprese nell’elenco pubblicato nel sito dell’Agenzia delle Entrate. Basti ricordare il versamento dei contributi previdenziali per lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, collaboratori, lavoratori domestici in scadenza il 16 novembre e il 16 dicembre. Dunque mettetevi una mano sul cuore (e una sul portafoglio) e preparatevi a un sereno fine anno con il Fisco.

Gli italiani si rifugiano nel risparmio

Gli italiani si rifugiano nel risparmio

Stefania Tamburello – Corriere della Sera

Gli italiani hanno ripreso a risparmiare. Per il secondo anno consecutivo, dopo la caduta seguita allo scoppio della crisi, è infatti aumentata, passando dal 29 al 33%, la quota di famiglie che negli ultimi 12 mesi sono riuscite a mettere i soldi da parte. «Il valore del risparmio è nel Dna dei nostri concittadini, anche – e forse soprattutto – in momenti difficili come questo», ha osservato Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri, l’Associazione tra le Casse di risparmio e le fondazioni di origine bancaria, che oggi celebra la 90esima giornata del risparmio, presentando la ricerca elaborata da Ipsos. Gli italiani «formiche», dunque, che di fronte ad una crisi più grave e lunga del previsto – l’87% degli intervistati dall’Ipsos ritiene che durerà ancora 5 anni – hanno preso nuove misure rimodulando le strategie di spesa.

A spingere questa rinnovata voglia di risparmiare sarebbe quindi l’incertezza, unita al timore dell’aggravarsi della situazione economica che non consiglia di impegnarsi in grosse spese – e la contemporanea caduta degli acquisti di immobili lo dimostra – ma di approvvigionarsi di fronte all’imprevisto. È però possibile anche che alcuni si siano adattati alla crisi meglio di altri con quella dualità che caratterizza per esempio l’andamento delle industria, un terzo delle quali esporta e non soffre. Il dato che segna la differenza è quello che rivela come circa un terzo delle famiglie italiane – il 26% del campione – non sarebbe in grado di far fronte con sue risorse a una spesa imprevista di mille euro e quello che invece fa salire al 74% la quota impreparata a una di 10 mila euro. Tra queste percentuali si inseriscono le famiglie colpite direttamente dalla crisi pari al 27% in diminuzione dal 30% del 2013 e quella, il 23% (erano il 26% nel 2013), dei nuclei che segnalano un serio peggioramento del proprio tenore di vita negli ultimi due anni.

Di contro aumenta, e raggiunge il 50%, cioè un italiano su due, la quota di chi si dichiara soddisfatto della propria situazione economica: negli ultimi tre anni la percentuale degli insoddisfatti era sempre stata superiore. Significativo anche il balzo fatto dagli ottimisti rispetto ai pessimisti: rappresentano il 24% e il 21%, nel 2013 erano rispettivamente il 21% e il 28%. I più fiduciosi sono i giovani e gli over 45 mentre restano scettici gli individui dai 31 ai 44 anni: i più colpiti dalla crisi. Gli investimenti infine: l’incertezza ha accentuato la preferenza per la liquidità – svettano i depositi in conto corrente – mentre continua la contrazione dell’ appeal del «mattone» anche a causa delle tasse.

Il vigile del fuoco rapinatore e l’impiegato «ubriaco fisso», quei casi assurdi del reintegro

Il vigile del fuoco rapinatore e l’impiegato «ubriaco fisso», quei casi assurdi del reintegro

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La mattina entrava in banca vestito da sceriffo con cappello da cowboy e stellone sul petto. Ma non si trovava negli States e non faceva il poliziotto. In quella italianissima banca era solo un impiegato. Così fu licenziato: fece causa ma non ottenne il reintegro. Sfortunato. Fosse capitato con quel giudice di Monza che aveva revocato il licenziamento del dipendente di una ditta che si ostinava a presentarsi tutti i giorni con i pantaloncini corti, sarebbe andata diversamente. Cioè come al solito. Con la bilancia dell’articolo 18 che quando si arriva davanti al magistrato, argomenta l’avvocato giuslavorista Andrea Del Re, pende quasi sempre dalla parte del lavoratore. Anche in casi che davvero non ti aspetti.

Fece scuola quello dell’alcolista cronico che non solo non andava a lavorare, ma nemmeno avvertiva l’azienda. Il giudice lo reintegrò perché «l’assenza dal servizio e l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione non possono costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento quando son dovute non già a stati di ubriachezza, bensì a un danno cerebrale costituente l’esito della prolungata assunzione dell’alcol e dei suoi effetti». Siccome era sempre ubriaco non era dunque capace di intendere e volere, quindi non licenziabile. Il celebre giurista Giuseppe Pera la marchiò come la sentenza dell’«ubriaco fisso». Caso per nulla paradossale, percorrendo la lunga galleria degli orrori giudiziari che Del Re ha pubblicato nel saggio collettivo «Art.18: la reintegrazione al lavoro», curato da Massimo Bornengo a Antonio Orazi.

C’è l’infermiere che picchia un paziente e il giudice intima alla clinica di ridargli il posto con la motivazione che «si è trattato di un fatto isolato ed eccezionale in relazione a un paziente particolare», aggiungendo che «l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni non può giustificare quella che rimane un’estrema ratio». C’è il vigile del fuoco colto a rapinare una banca, sospeso dal servizio e riammesso con il pagamento degli arretrati da un magistrato appassionato di cinema che s’indigna per la decisione ritenendo «vergognoso rovinare prima di una condanna una persona e la sua famiglia per una sostanziale esigenza di immagine, di apparenza dell’istituzione, in assenza di un concreto pericolo in ambiente lavorativo e nella società…». Tanto più ricordando, scrive testualmente nella sentenza, il film «“Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick, risalente al lontano 1956 nel quale il protagonista (Sterling Haiden) dice alla fidanzata: “Vedi, nessuno di loro è un vero e proprio criminale, hanno tutti un lavoro e apparentemente conducono una vita normale, ma hanno i loro problemi”».

C’è l’operaio che mostra i genitali ai suoi colleghi e viene reintegrato, «tenuto conto che il gesto esibizionistico era compiuto in assenza di personale femminile, non era stato dettato da istinti sessuali e, pur nella sua volgarità e indecenza, non aveva integrato gli estremi del delitto di atti osceni». E c’è chi, avendo invece molestato due compagne di lavoro «compiendo atti esibizionistici, in particolare esibendo i genitali ad una di loro», si salva dal licenziamento perché il giudice lo considera «provvedimento disciplinare sproporzionato».

Per non parlare del più classico dei classici. Ovvero, del dipendente licenziato perché scoperto a svolgere un secondo lavoro durante le assenze per malattia e regolarmente reintegrato. E grazie a un precedente che ha da poco compiuto ventotto anni. Una sentenza del pretore di Viareggio nella quale si afferma: «È illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore che, in costanza di malattia, ha svolto attività lavorativa ma nessun danno ha arrecato al datore di lavoro, in quanto la suddetta malattia richiedeva oltre che le cure anche la necessità del lavoratore di vivere con familiari e amici e di trovare interesse nell’ambiente esterno, cosicché l’attività svolta era compatibile con lo stato di malattia la cui guarigione non solo non è stata ritardata, ma è stata anche accelerata».

La scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani

La scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani

Alessandro Pansa – Corriere della Sera

Meglio un uovo oggi che una gallina domani. Con il trattamento di fine rapporto (Tfr) in busta paga e l’aumento delle imposte sui rendimenti dei fondi pensione e degli enti di previdenza, la legge di Stabilità privilegia i consumi a scapito dei risparmi. E poco importa se chi si anticipa la liquidazione paga più tasse diventando complessivamente più povero, o se in Europa tutti i Paesi tranne la Norvegia non tassano i redditi della previdenza. La crescita non c’è? Sproniamola con i soldi di domani. Al contrario, l’Italia ha bisogno di risparmi ed investimenti per gestire la profonda crisi in cui è precipitata e dalla quale uscirà con difficoltà, sacrifici e tempi lunghi. Le leggi per la crescita servono a poco e l’ottimismo degli annunci è controproducente. Anche perché il governo, per ora, di questa crisi non porta la responsabilità.

Il quadro è impressionante. I posti di lavoro disponibili nell’industria sono scesi, in dieci anni, di oltre il 15 per cento; la quota dei beni ad alto contenuto di conoscenza prodotti dalle imprese italiane si è ridotta di oltre il 30 per cento dal 2000; il divario (gap) tecnologico con i Paesi emergenti – cioè il tempo che occorre a questi ultimi per costruirsi una tecnologia simile alla nostra – è crollato da undici a sette anni dal 2004 ad oggi; la maggiore sensibilità (gli economisti direbbero elasticità) delle esportazioni ai prezzi si accompagna al ritiro dell’industria dai settori dove c’è più domanda di conoscenza e di occupazione qualificata; ci siamo mangiati, a partire dagli Anni 90, più del 30 per cento dello stock di capitale accumulato nei decenni passati: senza capitale non crescono produttività ed occupazione, qualsiasi siano le leggi. Se poi dovesse continuare l’uscita di capitali – 70 miliardi netti in due mesi – si indebolirebbe la struttura finanziaria.

Non è colpa del governo Renzi, né di quelli prima di lui. Dal 1989 abbiamo scelto di aderire progressivamente ad un sistema fondato su libertà di movimento dei capitali, cessione di sovranità monetaria e trasferimento di consistenti quote di potere ai mercati. Condivisibile. Di più: necessario, per l’Italia di allora. Ma, a differenza di altri Paesi europei – la Germania ha puntato sulla resilienza della manifattura, la Francia sull’alta tecnologia e la Gran Bretagna sul dominio della finanza – l’abbiamo fatto senza creare né valorizzare vantaggi competitivi, che pure c’erano. Venticinque anni dopo, ci interroghiamo sul costo della liquidazione dell’Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere (Efim); ci domandiamo se abbiamo fatto bene a cancellare l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri); scontiamo privatizzazioni condotte senza modelli industriali definiti; rimpiangiamo di aver ostacolato la creazione di grandi imprese nei settori agroalimentare, elettronico, farmaceutico, delle infrastrutture di telecomunicazione.

Vogliamo continuare ad illuderci delle «magnifiche sorti e progressive» dell’Italia? O non sarebbe meglio raccontarci la verità? La verità è rivoluzionaria, diceva Gramsci; a chi vuole fare la rivoluzione converrebbe partire da lì. Gli 80 euro, il Tfr in busta paga, il bonus alle neo mamme sono misure che potranno, forse, soccorrere la congiuntura: ma l’assenza di un sistema produttivo in grado di trarne vantaggio le rende irrilevanti rispetto ad una crisi strutturale. Il sistema in cui siamo – per fortuna! – integrati, ci obbligherà ad affrontare un doloroso processo di ristrutturazione, qualcuno lo chiama svalutazione interna: compressione dei consumi, riduzione del valore degli asset, aumento del ritorno sugli investimenti e della produttività del lavoro. Più tardi accadrà, peggio sarà. Il nostro tenore di vita dovrà ridursi sino a quando il risparmio domestico e di capitali esteri faranno crescere gli investimenti, l’occupazione, i salari. Ed il Paese riguadagnerà competitività sui mercati e ruolo nel mondo. Non è roba da gufi, è la sola possibilità per dare una prospettiva alle prossime generazioni, cui non abbiamo il diritto di negare il futuro visto che il nostro ci è stato servito sul piatto d’argento del benessere e della sicurezza, e l’abbiamo in parte buttato via.

Ma il governo? Aiutare i cittadini a prendere coscienza della realtà e gestire questa «traversata nel deserto» come opportunità di rinascita nazionale costituirebbe un merito enorme. Lo potrà fare favorendo il risparmio di oggi e gli investimenti di domani, adeguando i sistemi di welfare, sostenendo lo sviluppo tecnologico ed incalzando gli imprenditori a rafforzare le loro aziende. I politici che hanno condiviso con i propri cittadini «lacrime e sangue» si sono guadagnati un posto nella storia. Chi non ha avuto il coraggio di farlo e ha scelto la politica del «bagnasciuga» è finito nel dimenticatoio della cronaca.