credito

Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi

Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi

Introduzione

Una piccola nota per comprendere come il problema del credit crunch, ovvero della mancanza di credito per le aziende, sia anche legato alle scelte di investimento delle famiglie. Il credito che le istituzioni finanziarie e monetarie possono erogare al mondo delle imprese segue regole tecniche complesse e precise, regole che dopo la crisi del 2008 hanno subito delle modifiche che vanno sotto il nome di Basilea 3, ovvero dei negoziati che hanno definito i nuovi standard di solidità bancaria. In sostanza, affinché una banca possa prestare denaro a terzi deve non solo raccoglierlo presso gli agenti economici (famiglie e imprese), ma deve garantire al sistema finanziario che la scelta di dare credito a un certo soggetto non comprometta la solidità della banca stessa. E quindi con Basilea 3 stato ribadito con più forza il concetto che la banca rappresenta un ingranaggio fondamentale per fornire sicurezza e liquidità ai diversi attori economici.
Negli ultimi anni in Italia si è potuto osservare come la propensione al risparmio dei cittadini sia prima calata (fra il 2008 e la fine del 2010), per poi risalire e stabilizzarsi intorno al 10%.
Propensione al risparmio delle famiglie consumatrici:

grafico 1
Fonte: Istat

Questo aumento della quota di risparmio contribuisce a ridurre la quota dei consumi, strozzando così la domanda interna di beni. Questo, in sé, non sarebbe un problema se i risparmi accumulati dalle famiglie fossero investiti per produrre in futuro maggior reddito per il Paese.

Le ragioni del risparmio

Le famiglie risparmiano per diversi motivi: accumulare risorse per acquisti di beni durevoli (es.: casa); per sicurezza (es: assicurazioni vita, acquisto titoli di stato sicuri, il materasso); per investimento reddituale (es: obbligazioni, azionariato). Si può immediatamente vedere come le motivazioni alla base della scelta di risparmio hanno effetti diversi sul sistema economico nel suo complesso.
Il risparmio per l’acquisto di un bene durevole, come la casa, richiederebbe molto tempo e molte risorse. Proprio per ovviare a questo problema (immobilizzare ingenti risorse per lungo tempo non è facile per una famiglia) si è sviluppato il mercato dei mutui bancari, strumenti che rendono ragionevolmente più facile accumulare la massa di denaro necessario all’acquisto di un immobile in poco tempo: invece di immobilizzare il denaro per poi acquisire il bene, si acquisisce il bene attraverso un debito a lunga scadenza. Insomma, si privilegia la spesa oggi e il risparmio domani, piuttosto che fare il contrario. Si privilegia l’attività economica adesso attraverso lo sviluppo dell’attività bancaria: a questo, in fondo, servono le banche. Purtroppo, questa forma di risparmio è al palo da diversi anni, come testimonia questo grafico:
Tasso di investimento delle famiglie consumatrici, definito dal rapporto tra investimenti fissi lordi delle famiglie consumatrici, che comprendono esclusivamente gli acquisti di abitazioni, e reddito disponibile lordo.
grafico 2
Fonte: Istat
 
Il risparmio per motivi di sicurezza, invece, ha ragioni legate alle esigenze di cassa di breve periodo o di lungo periodo. Accumulo denaro nei conti correnti o nei conti di deposito per assicurarmi di avere la liquidità disponibile appena diventi necessario far fronte a qualche evento improvviso: in uno stato d’insicurezza economica come quello che stiamo vivendo, la probabilità di un evento improvviso aumenta e con esso la massa di denaro nei conti corrente.
Come ci ricorda la Banca d’Italia: «Con riferimento ai depositi bancari, nel 2013 erano censiti oltre 73 milioni di conti per un ammontare totale di circa 920 miliardi di euro (…). L’ammontare medio per cliente era pari a circa 12.500 euro1». Per quanto riguarda il lungo periodo, l’investimento in titoli di stato sicuri o nelle polizze assicurative (vita e pensione), rispondono alla necessità di garantirsi in un futuro relativamente lontano un capitale fronte di un bassissimo rischio e di un bassissimo guadagna. Secondo Banca d’Italia, nel 2013 le famiglie italiane possedevano un patrimonio in attività finanziarie pari a 3.848 miliardi di Euro (+2,1% rispetto al 2012). Si pensi che 1/4 di questa ricchezza finanziaria è investita in assicurazioni e titoli di stato (poco più di 900 miliardi di €).
Nel 2013 la distribuzione di questa ricchezza seguiva l’andamento riportato nel seguente grafico:
grafico 3
Fonte: Banca D’Italia
Riporta sempre la Banca d’Italia: «Si è arrestata nel 2013 la ricomposizione dei portafogli delle famiglie, verso i depositi bancari e verso il risparmio postale». Si è arrestato, quindi, un flusso che ha visto cambiare la composizione del portafoglio degli italiani verso strumenti poco rischiosi e di immediata liquidità: questa è una delle forme tangibili dell’insicurezza economica che ancora respiriamo ogni giorno.
Infine, abbiamo il risparmio per investimenti a fini reddituali, ovvero quel 43,3% del patrimonio finanziario delle famiglie che in vario grado contribuisce al mantenimento del potere d’acquisto dei cittadini nel tempo. Questa motivazione di risparmio è anche quella i cui effetti di breve termine si riverberano con maggior rapidità sul sistema. L’acquisto di azioni, di obbligazioni o il finanziamento di fondi comuni di investimenti rappresenta uno strumento molto rapido di passaggio dal risparmiatore verso chi, nel mercato, necessità di finanziamenti.

Il credit crunch

Tornando al problema iniziale, l’assenza di credito verso le imprese, se rimaniamo nell’ottica del trasferimento del risparmio privato verso investitori privati, allora dovremmo chiederci come la variazione della propensione al risparmio possa aiutare o meno le imprese. Famiglie in cui aumenta la propensione al risparmio sono famiglie che consumano meno: e questo, per le imprese, non è un bene. Soprattutto quando il risparmio finisce sotto il materasso, lontano dai flussi economici della nostra economia. Famiglie in cui aumenta la propensione al risparmio e indirizzo le loro attività finanziarie verso conti corrente e titoli di stato, aiutano poco le imprese: quel denaro rimane o immobilizzato negli istituti di credito, a loro volta in sofferenza per i prestiti erogati, o fornisce allo Stato la liquidità necessaria a sostenere le sue spese, di cui solo una parte, una parte sempre minore, è destinata agli investimenti produttivi.
Infine, famiglie in cui aumenta la propensione al risparmio e indirizzo le loro attività finanziarie verso il mercato azionario e/o obbligazionario forniscono il loro denaro direttamente alle imprese attive nei settori economici, superando quindi la funzione di redistribuzione dei depositi tipica dell’attività bancaria. Purtroppo, per quanto la quota di attività finanziarie che contengono questa voce sia pari al 43% del totale della ricchezza finanziaria, come riporta l’Osservatorio sui Risparmi delle famiglie italiane, uno studio redatto da GFK Eurisko e Prometeia, «gli investimenti si sono indirizzati prevalentemente verso gli strumenti di risparmio gestito e assicurativi». Questo significa che gli italiani tendono a investire il loro denaro negli strumenti più rischiosi attraverso l’intermediazione di gestori. Una buona notizia se non fosse che «Il comparto degli investimenti continua a non sedurre larga parte del suo mercato potenziale. Investire appare oggi meno di moda che in passato». Eccola qui una parte rilevante del credit crunch: le persone non si fidano a dare il proprio denaro al sistema finanziario, anche se così facendo potrebbero rimettere in modo gli investimenti necessari alla ripresa sostanziale dell’economia. Eccola servita la nostra trappola della liquidità.
Si chiede al sistema delle imprese di diventare meno banco-centrico. Per farlo, si deve cambiare certamente la mentalità degli imprenditori ma non basta: serve dare una buona ragione affinché il pubblico si senta certo che l’operazione di finanziamento diretto che fa sia ragionevole e trasparente.

Il Friuli Venezia Giulia

Rispetto a quanto detto nelle pagine precedenti, proviamo adesso ad analizzare la situazione regionale. Prima di tutto bisogna osservare che la situazione del credito verso le imprese è critica. Per quanto le sofferenze sembrano essere in diminuzione, rimangono davvero molto elevate.
grafico 4
Fonte: Banca D’Italia
Questo ovviamente ingessa l’attività bancaria, alle prese con la gestione di crediti che rischiano di diventare inesigibili, scalfendo così la solidità degli istituti coinvolti.Nonostante ciò, il denaro nei forzieri delle banche non mancano.
grafico 5
Fonte: Banca D’Italia
Come di vede dal grafico qui sopra riportato, c’è stato un accumulo di depositi molto rilevante da 2011 ad oggi in FVG. Le banche, quindi, sono state inondate di soldi non solo dalla BCE ma dai cittadini stessi.

grafico 6

Eppure questi denari restano lì, fermi, lasciando le imprese in balia di banche con depositi sempre più gonfi ma sempre più irrigidite dalle criticità dei crediti già emessi nel passato.

grafico 7

Concretamente proviamo a vedere che cos’è accaduto nei primi dieci mesi del 2014.

tabella 1

tabella 2

tabella 3

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Banca d’Italia
 
Autore: Paolo Ermano
Meno prestiti e più depositi in Fvg, aumenta il risparmio di famiglie e imprese

Meno prestiti e più depositi in Fvg, aumenta il risparmio di famiglie e imprese

Udine Today

Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Friuli Venezia Giulia ad imprese e famiglie sono scesi di 6,3 miliardi di euro, a fronte di un aumento dei depositi presso le banche di 5,1 miliardi di euro: lo rende noto un report del Centro Studi ImpresaLavoro che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

Secondo l’istituto fondato da Massimo Blasoni, non si allenta quindi la morsa del credit crunch e questo nonostante il sistema bancario abbia ricevuto dal 2011 ad oggi fortissime iniezioni di liquidità. In parte si è trattato di trasferimenti effettuati dalla BCE ma una buona fetta di quelle risorse derivano dall’incremento del risparmio di famiglie e imprese.

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Più risparmi, ma la Crisi del credito non si allenta

Più risparmi, ma la Crisi del credito non si allenta

La Vita Cattolica

Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Friuli-Venezia Giulia ad imprese e famiglie sono scesi di 6,3 miliardi di euro, a fronte di un aumento dei depositi presso le banche di 5,1 miliardi di euro: lo rende noto un report del Centro Studi ImpresaLavoro che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

Secondo l’istituto fondato da Massimo Blasoni, non si allenta quindi la morsa del credit crunch e questo nonostante il sistema bancario abbia ricevuto dal 2011 ad oggi fortissime iniezioni di liquidità. In parte si è trattato di trasferimenti effettuati dalla Bce ma una buona fetta di quelle risorse deriva dall’incremento del risparmio di famiglie e imprese.

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Dal credito al fisco, un cambio di mood può contare quanto una riforma

Dal credito al fisco, un cambio di mood può contare quanto una riforma

Enrico Nuzzo – Il Foglio

Agguantare la crescita, uscire dall’attuale fase di stagnazione, superare la crisi, sono le formule, nei dibattiti a tutti i livelli, veicolate al popolo degli elettori. E su questi obiettivi si tarano interventi, compresi i tagli di spesa pubblica, sulla cui efficacia il cittadino non può che sperare, pur se non più con straboccante fiducia. È trascorso molto tempo dalle prime avvisaglie di segnali negativi del trend economico e ripetuti sono stati gli interventi di contrasto messi in campo dai vari governi, con magri risultati; robusti i sacrifici ripetutamente richiesti alla comunità, ancora in attesa dei segnali di uscita dalla situazione in cui il paese è precipitato. Moniti e consigli da parte delle stesse istituzioni internazionali sulle scelte, per invertire la rotta, sono di comune cognizione. Ineludibili, si sottolinea, per provare a invertire la descritta tendenza negativa, le riforme del mercato del lavoro, del fisco, della giustizia, e cosi via. Misure di politica monetaria, anche appropriate, intanto si mettono sul tavolo.

In sintesi, qualcosa si muove, pur se ancora non si intravede un piano organico di misure complessive da tradurre in azioni concrete, in un tempo necessariamente non breve. E non sempre ci si preoccupa di prestare attenzione al complesso universo dei lacci e ai lacciuoli all’opera, capaci di paralizzarne l’efficacia. Gli interventi per incidere sull’andamento del ciclo economico non raggiungono l’obiettivo per il semplice fatto di essere varati. È invece necessario che il comportamento degli operatori e dei cittadini siano tali da assecondare le finalità che li hanno ispirati, spazzando via – e si tratta di precondizioni ineliminabili – quanto costituisce vero e proprio fattore di decrescita. Degli esempi.

Non stimola la ripresa la semplice messa a disposizione di liquidità per rivitalizzare il mercato del credito, se poi drenata dalle banche che, per parte loro, continuano a ignorare le richieste di prestiti di imprese e famiglie. Le misure per immettere danaro in circolazione, convenzionali o meno che siano, vanno sostenute con consapevoli regole applicative (diverse da quella del tasso negativo sui depositi, perché non del tutto efficace, considerati gli attuali e non più stringenti vincoli tra Banca centrale e aziende di credito). E tanto per evitare che le stesse banche trovino modo per parcheggiare la liquidità ricevuta al loro interno e utilizzarla esclusivamente per loro convenienze e valutazioni. Come agire? Con un’azione coerente di vigilanza orientata a verificare, nello specifico, da subito e in itinere, se la suddetta liquidità viene concretamente fatta confluire nel circuito produttivo, in coerenza con le misure che ne hanno ispirata la messa a disposizione. In ipotesi di persistente disapplicazione delle quali misure (nel trimestre, e/o un altro lasso di tempo ritenuto idoneo), pare appropriato pretendere dall’istituto che non destina quelle somme all’erogazione di prestiti, almeno un tasso di interesse pari, ad esempio, a quello medio (spread compreso) praticato alla sua clientela, privandola, per questa via, del vantaggio conseguito dalla distrazione della liquidità allo scopo cui era destinata.

Sul versante fiscale non aiuta, di certo, a stimolare la ripresa la sbornia talvolta eccessiva dei controlli a tutto campo a cui il cittadino è assoggettato. Sono di dominio pubblico le diffuse richieste di informazioni “a tappeto” sui conti correnti dei singoli da parte dell’Agenzia delle entrate; insistente l’attenzione del fisco sulle spese sostenute all’uscita di un negozio, o a seguito della compera di un’abitazione, con conseguente timore di accertamento sintetico, eccetera. Controlli asfissianti e invasivi, che muovono da presunzione di evasione e articolati anche su impropri giochi di prova e di inversioni di oneri di prova, fanno crollare, da noi, la propensione alla spesa. Gruppi sempre più numerosi di persone, per acquisti voluttuari, prediligono altre mete europee (Londra, Parigi e via dicendo) ben liete di ospitare i consumatori italiani. Assolutamente non trascurabile il numero di coloro che, quando non li dirottano all’estero, preferiscono tenere “parcheggiati” i risparmi, per evitare problemi col fisco, piuttosto che investirli, a tanto contribuendo anche l’attuale scarsa remuneratività di mercato.

Come non ravvisare, allora, nella descritta condotta dei pubblici poteri, un fattore di decrescita? E non si discorra di controlli necessari per combattere l’evasione – che pure va fatta, senza aggettivi, e in maniera efficace – per giustificare il progressivo scivolamento del paese in stato di polizia fiscale che, a parte altre conseguenze, con siffatta condotta, paralizza i consumi e ostacola la crescita, con sistematicità e senza tregua. Non da meno è parte del mondo politico-istituzionale, a vari livelli. I recenti casi di trasferimenti all’estero, fatti o da farsi, di sede di società (Fiat, Lottomatica) e quelli più risalenti di aziende nella vicina Svizzera e/o nei paesi dell’est, dovrebbero avere aperto gli occhi sull’indifferibilità di alcune misure legislative da adottare.

La competizione fiscale tra stati, dell’Unione europea o meno, è una realtà con cui occorre misurarsi. La libertà delle imprese di scegliere paesi fiscalmente più ospitali è garantita, nello stesso spazio europeo, dal principio della libertà di stabilimento e da quello della libera circolazione dei capitali. Non è mantenendo gli attuali livelli di aliquota di tassazione di gruppi e di imprese che si frena la migrazione delle strutture produttive verso la piazza londinese o quella fiamminga. E non occorre avere antenne particolarmente sensibili per avvertire la propensione di altri a seguire gli esempi sopra ricordati. Allo stesso modo, non sono di certo i vincoli burocratici e le rigidità delle scelte di governo, centrale o locali che siano, a invogliare gli stranieri, che ancora ci credono, a investire in Italia. A un gruppo estero – è uno dei tanti casi – pronto a dar vita a un’importante iniziativa, con significative ricadute occupazionali, è stato fatto presente che doveva costruire a proprie spese anche le strade di collegamento dell’impianto con le principali arterie dei trasporti. Alla disponibilità dimostrata a sobbarcarsi siffatto ulteriore onere in cambio di benefici compensativi (riduzioni di imposte, eccetera) è stata opposta per lungo tempo l’impossibilità di aderirvi, per carenza di previsioni di leggi in proposito. L’investimento è stato realizzato. Non in Italia.

Un errore non accettare l’aiuto della Bce

Un errore non accettare l’aiuto della Bce

Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Il mercato tende, per sua natura, a cercare rapidamente una spiegazione delle cose (inspiegabili) che accadono. Ieri era una giornata molto importante per capire quante possibilità ci sono di riuscire a combattere il calo dei prezzi (la deflazione), uno scenario di forte rallentamento dell’economia in Europa. E la Banca centrale europea ha messo in campo una delle armi più efficaci: la possibilità per le banche europee di finanziarsi a un tasso d’interesse molto basso, pari allo 0,15%.

Tanto per avere un’idea la media dei tassi di finanziamento per le imprese viaggia ancora intorno al 9%, quasi dieci volte di più. E che cosa è accaduto? Che gli istituti di credito hanno bussato alle porte di Francoforte chiedendo molti meno fondi di quanto non ci si aspettasse. Soltanto 82 miliardi di euro rispetto ai circa 150 miliardi previsti. Certo, molti analisti considerano che la data decisiva sarà quella dell’11 dicembre, nella quale si realizzerà il secondo round di questa operazione e soprattutto sarà già concluso l’esame sulla solidità banche, i cosiddetti stress test . Una valutazione che servirà a capire quali gruppi avranno bisogno di aumenti di capitale e quali no (si dice che almeno due gruppi italiani dovranno tornare sul mercato per chiedere fondi). Eppure questa spiegazione non basta. Si potrebbe pensare che le banche non abbiano chiesto le risorse perché in realtà la liquidità di cui dispongono è sufficiente. E allora perché questa situazioni di stretta creditizia? Nei mesi scorsi lo scontro tra banche e imprese non è stato morbido: da un lato le aziende hanno accusato gli istituti di credito di non erogare abbastanza finanziamenti, dall’altro le banche accusano le aziende di chiedere soprattutto mezzi finanziari per ristrutturare i loro vecchi debiti (spesso di scarsa qualità) invece di domandare prestiti per nuove iniziative e investimenti.

E forse il dato di ieri dice anche questo: tra banche e imprese si dev’essere rotto qualcosa anche nel meccanismo di dialogo. Una specie di corto circuito nel quale, come si dice, il «cavallo non beve» pur avendo molta sete. Una situazione che ha del paradossale soprattutto se le istituzioni, in questo caso la Bce, hanno ormai messo in campo molte delle loro possibilità. Con la doppia riduzione dei tassi d’interesse e l’annuncio di essere pronta a comprare anche i cosiddetti Abs (asset backed securities ), una sorta di titoli di debito che fanno capo direttamente alle aziende. Dopo quello che è accaduto ieri forse serve un altro passo: banche e imprese, a livello europeo, dovrebbero cominciare a capirsi di più.

L’asta può attendere

L’asta può attendere

Giuseppe Turani – La Nazione

Il cavallo non beve? Ci sono i soldi ma le imprese li lasciano nelle banche? Probabilmente sì. La Bce ha messo a disposizione delle banche una prima tranche dei 400 miliardi stanziati da qui a dicembre. Ci si aspettava che in questa prima asta le richieste fossero almeno di 100 miliardi. Invece ci si è fermati poco sotto quota 83 miliardi. Mario Draghi, cioè ha messo sul tavolo 100 miliardi, ma non sono stati ritirati nemmeno tutti dalle banche (che avrebbero dovuto rigirarli alle imprese). Ma non c’era l’intera Europa affamata di soldi da investire? La vicenda è un po’ più complessa.

Intanto, questa prima assegnazione di fondi è caduta proprio nel giorno del referendum scozzese. Le banche, non sapendo quale sarà la situazione dell’euro il giorno dopo, hanno preferito muoversi con i piedi di piombo. Inutile rischiare quando si potrà partecipare alle altre aste. La seconda ragione della prudenza è molto tecnica. A ottobre scattano per le banche europee gli stress-test. Si faranno prove per vedere come i bilanci degli istituti reagiscono di fronte a una serie di difficoltà. Le banche lo sanno e si sono preparate (come hanno potuto). In pratica dovrebbero avere tutte i bilanci a posto, in grado di superare gli stress-test. In queste condizioni hanno preferito non complicarsi troppo la vita imbastendo operazioni finanziarie nuove a pochi giorni dall’avvio dei test.

Anche perché i soldi della Bce si potevano ritirare solo a fronte di reali prestiti alle aziende o alle famiglie. In sostanza, bisognava impostare delle operazioni di credito che invece si è ritenuto più prudente rinviare al fine di non “sporcare bilanci che, almeno in teoria, così come sono dovrebbero essere in grado di superare le prove previste. Ma quasi certamente c’è anche il fatto che le banche europee non hanno davanti ai loro sportelli la fila di aziende che chiedono soldi per nuovi e vantaggiosi investimenti. E la cosa è abbastanza comprensibile.

L’economia europea è quasi ferma (quella italiana va addirittura indietro). In queste condizioni anche l’imprenditore più avventuroso si guarda bene dall’investire visto che poi non saprebbe a chi vendere i suoi prodotti. Sembra di capire (ma bisognerà attendere le prossime aste) che mettere soldi sul tavolo non basta: bisogna anche che esista un mercato, cioè gente che abbia la voglia di fare acquisti e di spendere soldi. Oggi non è così.

Le banche rifiutano il denaro di Draghi: l’economia è ferma

Le banche rifiutano il denaro di Draghi: l’economia è ferma

Ugo Bertone – Libero

«Una batosta per Draghi». Non ha usato mezzi termini il sito del Financial Times per giudicare a caldo l’esito della prima asta Tltro, cioè i prestiti della Bce alle banche perché finanzino l’economia reale dell’Eurozona a secco di capitali. I numeri sono impietosi: a fronte di una previsione di 133 miliardi, ne sono stati richiesti 82,6. Su 382 istituti europei che avevano diritto a partecipare alla distribuzione dei fondi, ben 127 sono rimasti alla finestra. Le banche italiane, per la verità, sono state le più attive, avanzando richieste per 23 miliardi. In particolare Unicredit ha avanzato richieste per 7,7 miliardi, seguita da Intesa (4 miliardi), Mps (3 miliardi) e da Iccrea (2,24 miliardi per conto di 190 banche cooperative). Si sono fatti avanti anche Bper (2 miliardi), Banco Popolare e Credito Valtellinese (1 miliardo a testa), Credem e Carige (attorno a 750 milioni), più Mediobanca (570 milioni). Un elenco che potrebbe salire e non di poco con la prossima offerta di dicembre. Ma anche così il risultato è inferiore alle attese. Alla vigilia il ministro Pier Carlo Padoan aveva, infatti, definito credibile una richiesta di 37 miliardi.

Di questo passo, se il flop si ripeterà a dicembre e nelle successive sei operazioni previste da Francoforte, andranno deluse le speranze del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che da questi prestiti si aspetta, di qui al 2016, 200 miliardi da mettere a disposizione delle imprese con un contributo al Pil di almeno un punto percentuale, ovvero una preziosa boccata d’ossigeno anti-recessione. Ancora una volta, come capita ormai troppo spesso, le previsioni e le speranze dei tecnici si sono rivelate troppo ottimistiche. Senza dimenticare poi che una fetta molto consistente dei nuovi prestiti servirà a ripagare nel prossimo febbraio i debiti con Francoforte legati al primo Ltro.

Ma perché? Per quale motivo le banche sono così restie ad attingere a prestiti allo 0,05% per la durata di quattro anni? La risposta più convincente arriva da Paolo Guida, vicepresidente dell’Aiaf, l’associazione degli analisti finanziari: «Il problema – dice – sta, soprattutto in Italia, più nella domanda che nell’offerta di credito. Le condizioni dell’economia, infatti, non giustificano investimenti da parte delle imprese o l’ulteriore indebitamento delle famiglie». Insomma, il sistema sembra ormai precipitato nella trappola della liquidità descritta da Keynes: non si prendono a prestito quattrini oggi perché, di fronte al crollo dei prezzi, le cose costeranno di meno domani. Ovvero, come recita il proverbio, si può portare il cavallo in riva al fiume ma non lo può costringere a bere. E i cavalli, ovvero le aziende tricolori, sono davvero stremati. Inoltre, a frenare il credito non è tanto la mancanza di liquidità bensì la combinazione tra i vincoli patrimoniali imposti dall’Aqr e il rischio legato agli impieghi.

In questa situazione la Bce paga il prezzo per essersi mossa con eccessivo ritardo. I prestiti Tltro avrebbero avuto ben altro effetto se messi in pratica prima che la situazione si deteriorasse in maniera così tragica. Ma Draghi ha dovuto (e deve) affrontare l’opposizione irriducibile dei falchi tedeschi che si ostinano ad invocare nuova austerità, con il pretesto che ogni allentamento della stretta sia usato come pretesto per non fare le riforme. In questa cornice, però, la relativa sconfitta subìta ieri dalla strategia di Draghi può tradursi in un’occasione di riscossa. Il flop dimostra soprattutto che i mali dell’Europa sono così gravi che non si possono curare con l’aspirina dei Tltro. Ci vuole una terapia più forte: senz’altro è necessario che la Bce possa procedere presto all’acquisto degli Abs (Asset backed securities), ovvero prodotti in cui le banche potranno impacchettare prestiti poco redditizi o comunque “scomodi” come ha potuto fare la Federal Reserve, rivitalizzando il mercato del credito per l’acquisto dell’auto. Ma, soprattutto, super Mario dovrà lanciare il “quantitative easing” europeo, ovvero l’acquisto di titoli di Stato ed azioni in quantità sufficiente per smuovere l’economia. Quanto ci vorrà? Forse non saranno sufficienti nemmeno i mille miliardi di cui ha già parlato Draghi. Ma non è il caso di esitare. Come ha detto lo stesso banchiere romano, di questi tempi «il rischio di non fare è molto più alto di quello di fare».

La liquidità da sola non basta

La liquidità da sola non basta

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Ci sono limiti a quello che la politica monetaria può fare, oltre i quali spetterebbe alla politica fiscale dei governi intervenire, sostenere direttamente l’economia e la domanda aggregata. Il modesto esito della prima operazione di credito mirato e a lungo termine (Tltro) è probabilmente una testimonianza dei limiti della Bce. Quella di ieri non rappresenta una lezione conclusiva, vi sono infatti anche ragioni tecniche dietro al collocamento di solo metà dell’ammontare di crediti che era stato stimato.

Tuttavia la bassa domanda per prestiti quasi senza costo, di durata lunga e da destinare alle imprese, inevitabilmente accentua i dubbi sullo stato dell’economia reale e sulla possibilità che sia la politica monetaria a scioglierli. Nella media dell’area euro il credito alle piccole e medie imprese non è più limitato dalla disponibilità di fondi quanto in passato, ma pesa un’incertezza ancora grave sul futuro.

Il rischio di deflazione, per esempio, renderebbe il livello dei tassi reali non così favorevole come sembra. Inoltre è ancora in corso un processo di riduzione dei debiti, e questo comprime l’effetto di ogni politica monetaria espansiva. Alla fine la maggiore offerta di credito finisce per essere poco utile alla crescita, o secondo la nota metafora, finisce per spingere invano una corda.

Nelle statistiche europee spicca la coincidenza tra debolezza del credito bancario e degli investimenti. Nei paesi europei più vulnerabili d’altronde le condizioni incerte dei debitori pesano sia sull’offerta sia sulla domanda di credito e la caduta degli investimenti è stata particolarmente forte. Ma chi si aspettava più adesioni all’offerta della Bce, osserva che nell’operazione di ieri si sono fatte sentire soprattutto le defezioni delle banche di paesi non della periferia. Alcune di esse hanno voluto evitare di apparire bisognose di fondi proprio alla vigilia della valutazione dei bilanci. Ma in realtà sono mesi che, nonostante la disponibilità di denaro a buon mercato, il credito non sta crescendo nemmeno nei paesi più solidi dell’area euro.

La scarsa domanda di credito delle banche dei paesi più saldi si aggiunge alla diagnosi di chi ritiene che l’area dell’euro sia scivolata in una trappola della liquidità; che i problemi dell’economia siano soprattutto nel vuoto di investimenti; o si nascondano in un’incertezza più insidiosa sul futuro dell’Europa che affonda le sue radici sotto l’intero territorio economico dell’euro-area. Se è così, è possibile che anche altre iniziative della Bce – l’acquisto di titoli da cartolarizzazione (Abs) o perfino quello di titoli sovrani – abbiano un impatto insufficiente su un’economia reale che non vuole investire e non può consumare.
Prima di trarre conclusioni bisognerà attendere che si chiarisca tra poche settimane lo stato delle banche europee, con l’esito dell’analisi dei bilanci e la revisione degli attivi. A quel punto sarà chiaro quali istituti avranno bisogno di ricapitalizzarsi. Per banche più solide sarà possibile assumersi il rischio tipico delle fasi di transizione dell’economia, l’asimmetria informativa che durante le crisi rende più difficile al creditore valutare le reali prospettive del debitore. Ma a patto che si riesca a ricostruire un po’ di fiducia nel futuro. E per farlo non è indispensabile fare davvero tutte le cose inutili prima di fare quella necessaria: senza rilanciare la fiducia, le aspettative non possono cambiare.

Non è un compito che si può lasciare solo alla Bce. L’operazione di ieri getta anzi un’ombra sull’obiettivo della Bce di aumentare rapidamente il proprio bilancio. La quantità di credito che la Bce intende immettere nei prossimi mesi è davvero grande, poco meno di mille miliardi di euro. Ma nelle complesse circostanze attuali, l’effetto dell’offerta di credito non sembra dipendere dal volume, quanto dall’effettivo beneficio per il debitore: può essere il trasferimento di rischi a carico del creditore oppure un costo del denaro eccezionalmente conveniente. In entrambi i casi, la politica monetaria tenderebbe però ad assumere caratteri fiscali, che spetterebbero invece ai governi. Quando la Bce ha chiesto ai governi di farsi carico dei rischi dei titoli cartolarizzati, la risposta di Germania e Francia è stata negativa, come se si fosse ormai accettato che la politica fiscale comune finisca nascosta dentro al bilancio della Banca centrale. Non è un buon modo per convincere i cittadini, i risparmiatori e gli investitori, ad avere fiducia nella volontà politica europea.

Il credito riparte quando c’è crescita

Il credito riparte quando c’è crescita

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

Il primo colpo di bazooka contro la crisi è andato a vuoto: l’asta Bce dei prestiti agevolati per riattivare l’erogazione del credito in Europa è andata ben al di sotto delle aspettative, creando così seri interrogativi sull’efficacia della manovra per favorire la ripresa manifatturiera e sulla necessità di interventi monetari più radicali. Se le banche hanno chiesto infatti meno del previsto – 82,6 miliardi a fronte di aspettative per quasi 150 miliardi di euro – significa che le tensioni e le incertezze che si vedono ancora all’orizzonte, soprattutto sul fronte economico, rendono del tutto superflua un’ulteriore provvista di liquidità da riservare all’attività di lending per le piccole e medie imprese: senza la domanda, la maggiore offerta ha poco senso.

L’asta Tltro ha messo a disposizione delle banche quasi 400 miliardi di qui al 2016, da rimborsare in quattro anni. E l’ha agganciata a una condizione ben precisa: se la banca non utilizza il prestito per aumentare le erogazioni alle piccole e medie imprese non finanziarie, dovrà restituire l’intero ammontare entro due anni. Una condizione “tagliola”, questa, voluta espressamente dallo stesso Mario Draghi per scoraggiare il ricorso ai prestiti di Francoforte solo per poi acquistare titoli di Stato: «I prestiti – ha detto a chiare lettere Draghi – devono essere contratti solo per finanziare l’economia reale». Se l’intenzione e gli obiettivi dell’operazione erano (e sono) dunque buoni – in Inghilterra la ripresa del credito si deve proprio a una manovra analoga lanciata dalla Bank of England (loan for lending) – resta da capire perchè le banche dell’Eurozona non si siano presentate in massa allo sportello.

Anche se conclusioni più certe e definitive sulla partecipazione delle banche al programma per le pmi si avranno non prima di dicembre, quando scatterà la seconda delle 6 aste Tltro programmate dalla Bce per un totale di 400 miliardi, l’esito dell’assegnazione di ieri non è stata del tutto una sorpresa nemmeno a Francoforte: non solo perchè l’asta è caduta proprio alla vigilia della pubblicazione degli stress test sui bilanci bancari – un esame che mette in tensione le banche e le spinge alla prudenza – ma soprattutto perchè è ormai da tempo che la stessa Banca centrale europea va ripetendo che le manovre sulla liquidità servono a stabilizzare il mercato finanziario, ma possono fare poco o nulla per rilanciare l’economia europea e soprattutto quella dei paesi periferici dell’Eurozona la cui ripresa (anche in termini di investimenti esteri e di fiducia dei mercati) molto dipende dalle riforme strutturali, dal varo di efficaci politiche industriali e soprattutto dalla capacità della classe politica europea di rispondere con nuove politiche di bilancio più flessibili alle sfide di una crisi che non si può più nemmeno definire a macchia di leopardo.

Il non aver affrontato per tempo la crisi industriale e occupazionale in Paesi chiave dell’Unione Europea – come per esempio l’Italia – ha generato infatti una sorta di effetto-domino sulle economie circostanti, fino a ostacolare la ripresa in paesi-guida come la Germania o a peggiorare situazioni già in bilico come quella francese. Ora che lo stallo dell’economia europea è chiaro a tutti – come confermano i recenti allarmi di tutte le organizzazioni economiche e finanziarie internazionali, dall’Fmi all’Ocse fino all’Eurotower di Mario Draghi – il vero nodo della questione è che cosa farà Bruxelles sul fronte politico per dare peso, sostanza e prospettive alla manovra di stimolo monetario appena avviata da Francoforte. Qui non si tratta più solo di discutere i margini di flessibilità fiscale che ogni Paese ha il diritto di avere per fronteggiare una crisi economica, ma di fare almeno tre passi in più: dare un ruolo alla Commissione nel decidere piani di intervento di sostegno straordinario per i casi di crisi industriale più acuta a livello nazionale o regionale, aumentare il bilancio della Ue per dotarlo di risorse ad hoc da utilizzare nel sostegno dell’occupazione laddove le crisi industriali hanno superato il livello di guardia. Non ultimo, rivedere il sistema di regole sulla stabilità del mercato finanziario e dell’industria bancaria per ridurre, se non temperare, quelle norme chiaramente pro-cicliche che hanno costretto le banche di ogni tipo e dimensione a stringere il credito per sostenere (o evitare) drastici interventi di ricapitalizzazione e pulizia dei bilanci.

Oggi per una banca è estremamente oneroso non solo detenere partecipazioni azionarie nelle aziende – fenomeno tipico dei mercati come il nostro in cui il ruolo del mercato dei capitali è stato tradizionalmente svolto dal settore bancario – ma anche erogare credito alle piccole e medie imprese, che sono non a caso le più colpite dal credit crunch. Secondo i parametri di Basilea 3, la banca che presta soldi a una piccola azienda la cui solidità o patrimonializzazione non è eccellente (e quale Pmi non si trova oggi in questa situazione?) è costretta a effettuare accontamenti che si avvicinano ormai alla stessa entità del prestito: a che serve allora dotarsi di liquidità aggiuntiva? In conclusione, il flop dell’asta Tltro è in realtà un messaggio molto chiaro lanciato dalle banche ai governi e alle istituzioni europee: la liquidità è utile per sostenere il mercato finanziario, per uscire dallo spettro della deflazione e per rafforzare il patrimonio del settore creditizio attraverso gli acquisti di titoli di Stato. Ma se l’obiettivo è quello di rilanciare l’economia, serve molto di più del denaro facile: servono politiche industriali per indirizzare gli investimenti delle imprese, serve un’Europa più consapevole dell’interdipendenza che lega i destini – e le economie – dei suoi stati membri.