crescita

Partite Iva, politica ferma ma da loro passa la crescita

Partite Iva, politica ferma ma da loro passa la crescita

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Riflettere su professionisti, partite Iva e freelance non è tema separato da quello della crescita: è questo l’elemento che il governo e la politica faticano a capire. Torniamo a parlare di partite Iva e cominciamo a sgombrare il campo da un equivoco. Chi sostiene le loro ragioni non lo fa in nome di una rivisitazione tardiva del mito del «piccolo è bello». Non sappiamo ancora quali connotati avrà l’economia del dopo crisi ma probabilmente la polarizzazione del sistema delle imprese, oggi determinata dall’export , si accentuerà. Bisognerà quindi sostenere tutti gli sforzi per aumentare la taglia delle aziende laddove è possibile, strutturare le filiere della fornitura in maniera più moderna e spronare i «piccoli» a non proseguire nel loro tran tran, a darsi – pur nei limiti della dimensione – un orizzonte di politica industriale, ad attuare per tempo la staffetta generazionale, ad aprirsi alla collaborazione anche temporanea di manager esterni, ad affrontare la discontinuità digitale.

Questo itinerario, ovvero l’evoluzione del nostro sistema manifatturiero, è destinato a incrociare la modernizzazione dei servizi, a mettere in cantiere una forte ibridazione con tutto ciò che sta a valle della produzione: di conseguenza, riflettere su professionisti, partite Iva e freelance non è tema separato da quello della crescita. Pur rispettando la differente scala di grandezza, fa parte della stessa riflessione, è l’incontro tra l’evoluzione dell’industria, le sue esigenze di ri-specializzazione e i professionisti dell’innovazione. È questo l’elemento che il governo, la politica ma anche il segmento più orientato alle riforme del giuslavorismo italiano faticano a capire. Per loro intervenire sulle partite Iva resta una misura di politica sociale, un paternalistico sostegno ai giovani.

Che questa impostazione sia riduttiva lo dimostrano tutte le indecisioni messe in mostra dallo stesso premier, che pure della capacità di scegliere ha fatto il baricentro del suo format politico. Renzi ha fatto autocritica sul nuovo regime dei minimi (che penalizza le partite Iva) ma è ancora lì a cincischiare di aliquote, tetti e forfait senza venirne a capo e con l’amministrazione finanziaria che si erge a custode di una presunta ortodossia fiscale. Non si rende conto che questi traccheggiamenti alimentano un risentimento tra i freelance che si esprime oggi, per lo più, con le campagne di tweet bombing sui social e le assemblee nei coworking ma è destinato a non fermarsi lì. Se si continua a tematizzare la questione delle partite Iva come una sorta di anomalia del sistema, una devianza rispetto al lavoro dipendente, non si va lontano e si finisce per delegare la ricognizione politico-sociologica ai fiscalisti ministeriali.

C’è un legame stretto tra la tassazione, le politiche previdenziali e il riconoscimento dello status di lavoratore autonomo della conoscenza, ma stenta a passare tra i maître à penser renziani. Eppure tutte le riviste americane di maggiore prestigio hanno pubblicato nelle ultime settimane inchieste e analisi sul boom del «nuovo» lavoro autonomo, sostenendo che lì si troveranno le maggiori (e le migliori) occasioni di lavoro e la possibilità di creare valore per sé e per il sistema delle imprese. Ecco, è questo il verso giusto: aiutare le partite Iva a crescere con politiche fiscali che non taglino loro le gambe, dotarle di un welfare che non si presenti predatorio (arrivare al 33% di contributi Inps con prospettive di pensione sotto i mille euro è francamente insostenibile) e favorirne l’inclusione nelle politiche di sviluppo. È chiaro che un simile programma non lo si centra con un ritocchino o un emendamento infilato nel Milleproroghe, ma si può dare un segnale subito (bloccare l’aumento delle aliquote previdenziali e ripristinare un regime dei minimi più favorevole) e poi costruire il nuovo.

Se la politica sta ferma il mercato si muove. Si cominciano, infatti, a registrare i primi movimenti di partite Iva e freelance verso nuove formule come le ditte individuali commerciali o le accomandite semplici perché garantiscono un regime fiscale più equo e una contribuzione previdenziale che non assomigli all’usura.

Dati non dati

Dati non dati

Davide Giacalone – Libero

Cresciamo meno della metà dell’eurozona, non riuscendo a riassorbire la disoccupazione. Ciò dovrebbe imporre, a tutti, il tema di cosa fare per rimediare. Invece si cerca su chi scaricare la colpa, agevolati dal fatto che al governo hanno appena provato a prendersi il merito di dati e previsioni di pura fantasia. Nelle scorse settimane abbiamo letto di previsioni di crescita del prodotto interno lordo, per l’anno in corso, del 2,1%. Alcuni, più prudenti, supponevano un +1,6. Domandavamo: da dove arriva questa manna? Rispondevano: dal calo del petrolio e dalle politiche espansive della Banca centrale europea. Più le meravigliose riforme già fatte e che solo chi si picca di leggere i documenti non riesce a vedere.

Ora arriva la previsione della Commissione europea: 1’Italia dovrebbe crescere dello 0,6%. Dopo tre anni di recessione. L’intera zona dell’euro, noi compresi, è data in crescita dell’1,3%. Considerato che in quella media ci siamo noi, ed è già più del doppio della nostra, risulta evidente che gli altri crescono allargando il distacco. Le cose non andranno meglio nel 2016, perché è vero che noi dovremmo crescere dell’1,3, ma l’area e previsto che faccia +1,9. Lo svantaggio relativo diminuisce solo dello 0,1, mentre quello assoluto cresce. Tale crescita, inoltre, non è il frutto delle riforme che facciamo all’interno, ma del trascinamento che subiamo dall’esterno, tanto è vero che un’eventuale flessione della domanda globale è segnalata come possibile causa di problemi nei nostri conti. Sono le esportazioni a funzionare, prevedendosi un saldo attivo del 2,6 fra importazioni ed esportazioni. Ciò vuol dire che a tirare la carretta ci sono le aziende che esportano, agevolate da null’altro che dal deprezzamento dell’euro. Cioè da quel che non dipende da scelte politiche compiute all’interno dei nostri confini. Occhio a quel che segue.

Nelle stime fatte a novembre si prevedeva una crescita del nostro pil dello 0,6. Esattamente quella che si prevede ancora oggi. Ma si pensava che quella crescita avrebbe portato al 12,6% la disoccupazione, nel corso del 2015. Posto che il 2014 si era chiuso con la disoccupazione al 12,9. Ora, invece, si corregge la previsione, peggiorandola: dovremmo chiudere l’anno con il 12,8% dei disoccupati. Ovvero quelli che abbiamo oggi. Ma non ci era stato raccontato che solo a gennaio si erano creati 100mila posti di lavoro? Peccato fossero 94mila e compensassero a malapena gli occupati persi da ottobre. Nel 2016 dovremmo trovarci con il 12,6% di disoccupati, quindi con un calo dello 0,2. Nessuno, intellettualmente onesto, può sostenere che sia colpa di questo governo, visto che scontiamo una lunga e devastante perdita di competitività e crescita dei costi interni. Però nessuno, intellettualmente onesto, può continuare a vendere la balla che le riforme denominate all’inglese sono in grado di mettere al lavoro i disoccupati in vernacolo. L’Italia arranca e scivola anche perché al gran clamore delle polemiche seguono risultati striminziti e contraddittori.

E veniamo ai conti pubblici, dove si trova la polpetta avvelenata, fin qui nascosta agli italiani. Qui la Commissione si fa prudente, perché i conti italiani devono ancora essere rivisti. Fin qui siamo alla fede rispetto a quel che dice il nostro governo. E sentite che dice: nel 2014 il deficit è stato al 3% (che il cielo ci assista e che non si trovi nulla a farlo crescere); nel 2015 sarà del 2,6; nel 2016 del 2. Come si ottiene questo risultato? Mediante l’aumento del gettito fiscale. Avete letto bene. E io lo leggo nelle carte europee: perché aumenta la pressione fiscale. Laddove ci era stato detto che sarebbe diminuita nell’anno in corso. La verità è che rispetto ai conti a sua volta fatti dal governo italiano c’è una imponente novità, ovvero la Bce che fa scendere significatívamente il costo del debito pubblico. Bravissimi, ma com’è, allora, che tale meravigliosa cosa non produce da sola, senza tasse, la discesa del deficit? Risposta: perché non sono capaci d’imbrigliare la spesa pubblica. Vedi al capitolo Collarelli e secretazione dei suoi lavori. Saldo finale: debito pubblico che cresce al 133% del pil quest’anno e si spera scenda (si fa per dire) al 131,9 il prossimo.

Torno da dove sono partito: dobbiamo chiederci cosa fare per disincagliare l’Italia, posto che il motore produttivo funziona, come dimostrano le esportazioni. Rispondiamo: abbattimento del debito, mediante dismissioni; tagli della spesa corrente; tagli alla pressione fiscale; smantellamento della pressione burocratica. I dettagli illustrati molte volte. Ma, prima di tutto, piantiamola di prenderci per i fondelli fa soli. Operazione impossibile per la fisica, ma praticata dai parolai.

Doccia fredda sulla crescita 2015, Italia bloccata dalle tasse locali

Doccia fredda sulla crescita 2015, Italia bloccata dalle tasse locali

Oscar Giannino – Il Mattino

Le stime economiche sul 2015 diramate ieri sono una bella secchiata di ghiaccio sui recenti entusiasmi italiani. In sintesi, nel 2014 nell’euroarea solo Cipro, col suo Pil che ha segnato -2,8%, ha fatto peggio dell’Italia che ha chiuso a -0,5%. Nel 2015 l’Italia e Cipro restano i fanalini di coda, con previsioni di crescita ferme a +0,6% nel nostro caso e a +0,4% per i ciprioti. E nel 2016 Cipro ci spera, con un +1,6% rispetto al nostro +1,3%. La nostra disoccupazione non scende dal 12,8% nel 2015 e scende solo al 12,6% nel 2016. Certo, il 12,6% dell’Italia non è paragonabile al 26,6% della Grecia o al 24% della Spagna, ma in due anni in questi paesi è previsto che scenda di 4 punti. Se volete, consolatevi con fatto che la Commissione crede che il deficit italiano resterà al 2,6% del Pil, sotto il livello di guardia del 3%.

Perché restiamo in coda?
La scheda riservata all’Italia spiega esaurientemente perché Bruxelles non sia affatto convinta delle stime di crescita 2015 fino al 2% recentemente rilasciate nel nostro paese (ma attenti che Bankitalia prudentemente non si è ancora discostata dal +0,4% che risale a novembre scorso). Quel misero +0,6% attribuitoci nel 2015 dipende da consumi interni che non possono contribuire per più dello 0,3%, e per un traino dell’export che vale +0,4%, mentre le scorte hanno un effetto negativo del -0, 1%. La propensione al risparmio dovrebbe salire invece dal 12,2% del reddito disponibile al 13,1%, continuando a far arrabbiare il presidente del Consiglio e i suoi consiglieri che la considerano un «arricchimento» degli italiani. Non è cosi. Trovandosi ad aver perso il 10% del valore reale della loro ricchezza netta e con un reddito reale procapite diminuito per effetto della disoccupazione e dell’innalzamento di tasse locali e tariffe pubbliche, gli italiani mettono da parte e non consumano, perché non si fidano di aumenti ancora maggiori fiscali – previsti in legge di stabilità per decine di miliardi negli anni 2016-2018 – contributivi – scattati da inizio gennaio per artigiani, commercianti e iscritti alla gestione separata Inps – e di tariffe delle municipalizzate.

Ma il Jobs Act e gli incentivi all’assunzione?
In effetti, Bruxelles non dà il peso a questi due fattori che molti stimano invece come considerevole in Italia. L’occupazione totale dovrebbe salire solo dello 0,4% nel 2015, per la Commissione. L’impressione in Italia è che soprattutto i rilevanti incentivi monetari all’assunzione votato in legge di stabilità, a fronte di imprese che da 10 mesi tenevano il piede sul fre- no aspettando che venissero deliberati, dovrebbe portare a molti più occupati. I 94 mila aggiuntivi a sorpresa dello scorso dicembre – senza incentivi – compensavano a mala pena i 106 mila persi tra ottobre e novembre ma hanno fatto ben sperare. Vedremo. L’intera scommessa di Renzi si gioca su questo tavolo.

E il bonus petrolifero?
È vero, il barile è sceso dai 114 dollari di giugno 2014 ai 51-53 attuali. Ma primo nessuno si sente di scommettere che resti davvero a questa soglia (nelle ultime 2 settimane è salito da 41 a 50). E secondo l’Italia può prendersela solo con se stessa: nel nostro caso si trasferisce solo una minima parte del minor costo industriale alla tasca di famiglie e imprese, perché lo Stato si piglia per se più del 60% del costo finale tra accisa e Iva.

E il Qe della Bce?
Anche il minor costo del credito per effetto degli acquisti di titoli – per 1,1 trilioni di euro tra marzo 2015 e autunno 2016 – decisi dalla Bce si trasferirà in minima parte ad aziende nostrane e italiani, se non si risolve in qualche modo l’ostacolo di 180 miliardi di sofferenze e 150 miliardi di incagli in pancia alle banche italiane. Dopo 3 anni di ritardo, finalmente il governo Renzi sta pensando a una bad bank di sistema per sgravarne le banche almeno di una metà a condizioni vantaggiose. Ma siamo ancora a caro amico, perché i problemi tecnici da risolvere sono tanti, per evitare l’accusa di aiuti di Stato e tentare di coinvolgere capitali privati oltre alla garanzia di Cdp. Siccome i tempi sono lunghi, per il momento l’unico a beneficare di Francoforte sarà sempre lui, lo Stato italiano che risparmierà interessi sul debito pubblico.

Ma se il deficil risale?
Questo è l’unico aspetto da non temere più. Non solo Bruxelles stima molto generosamente un deficit pubblico italiano in discesa, mentre molti osservatori italiani – vista la legge di stabilità approvata dal Parlamento sforbiciando i tagli di spesa inizialmente previsti – sono disposti a scommettere che anche nel 2015 rischiamo di sforare il 3%. In realtà, con i recenti nuovi criteri di interpretazione del Patto di stabilità e crescita europeo diramati dalla Commissione, non rischiamo certo anche nel caso di sforamento del 3% niente di particolarmente grave, si aggiusterebbe tutto con 4 miliardi di aggiustamento da decidere a dicembre.

Conclusione
Sono tutte previsioni che non tengono in considerazione né un trauma sistemico all’eurozona se la situazione greca sfugge di mano, né una fiammata d’instabilità internazionale dovuta alla drammatica guerra alla svalutazione delle valute in atto in tre quarti del mondo, che espone molti paesi non più velocemente emergenti a trovarsi impiccati a debiti in dollari che salgono di valore. Ma detto questo, inutile illudersi. Se cresciamo così poco, è perché un paese impiccato ad alte tasse, a credito asfittico per la condizione delle sue banche, e a così forte disomogeneità tra Sud desertificato e Nord quasi-europeo, ha dentro di sé, nei propri errori e nel proprio modello distorto, le ragioni e le colpe dei propri guai.

L’Europa non cresce perché ha deciso così

L’Europa non cresce perché ha deciso così

Innocenzo Cipolletta – L’Espresso

Il primo ministro italiano ha un sogno: la parità tra dollaro e euro. Questo significa una svalutazione di almeno il 20% rispetto alla fine del 2014. E non c’è dubbio che la manovra della Bce denominata Qe (quantitative easing) vada in questa direzione. Certo, una svalutazione dell’euro aiuta una parte delle imprese europee (e italiane) che esportano fuori dell’Europa e quelle che temono la concorrenza da parte di paesi dell’area del dollaro, ossia da parte di molti paesi emergenti. Ma una simile svalutazione ha fondamenta economiche?

Facciamo finta di porre questa domanda a un’ipotetica Agenzia di Rating Interplanetaria (Ari) che guardasse la Terra e volesse dare un voto complessivo al nostro Mondo. Ebbene, un analista dell’Ari non avrebbe difficoltà a verificare che i paesi dell’euro (Eurolandia) hanno conti con l’estero attivi (per circa il 2,5% del Pil), ossia esportano più di quanto importino, mentre gli Usa con il loro dollaro hanno un disavanzo di circa un’analoga entità (2,6% del Pil). Se poi guardassero ai costi salariali di produzione, scoprirebbero che Eurolandia sta riducendo il costo unitario del lavoro rispetto ai suoi concorrenti (-0,7% nel 2014), mentre gli Usa lo stanno aumentando (+0,2%). Non solo, ma Eurolandia ha un disavanzo pubblico sotto la famosa soglia del 3% (2,6%), mentre gli Usa la superano alla grande (4.9% ). Di fronte a questi dati, il nostro analista dell’Ari troverebbe bizzarro che gli europei puntino a una svalutazione dell’euro. «Ma come» direbbe l’analista «qua bisogna fare l’inverso: svalutare il dollaro per correggere squilibri nei conti con l’estero americani, mentre l’euro andrebbe rivalutato per le ragioni opposte». Di fronte a queste tendenze. l’analista sarebbe indotto a degradare il rating della Terra per manifesta incongruenza delle azioni dei maggiori governi del Globo!

Anche noi dobbiamo domandarci perché una della aree più ricche del mondo, quella dell’euro, con oltre 300 milioni di abitanti istruiti, protetti da sistemi sociali avanzati, residenti prevalentemente in zone urbane, sofisticati come consumatori e risparmiatori, con i conti pubblici mediamente in buon equilibrio, per crescere debbano puntare solo sulle esportazioni verso un paese indebitato come gli Usa e verso paesi più poveri come quelli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. E, per raggiungere questo obiettivo, debbano frenare la propria domanda interna per consumi e investimenti, riducendo i salari della propria popolazione e la spesa pubblica. Possibile che abbiamo costruito l’Europa affinché dipenda dalla crescita della Cina o si difenda dalla competitività dei poveri vietnamiti? Dov’è che abbiamo sbagliato e dove continuiamo a sbagliare?

In realtà, paradossalmente, con l’adozione dell’euro non siamo andati avanti nel costruire un’Europa unita, ma siamo clamorosamente scivolati indietro. Siamo tornati ad essere la somma di 19 piccoli paesi (area dell’euro) che, invece di costruire una nuova istituzione sovranazionale, si sono impegnati a “mettere ordine a casa propria”. L’illusione è che la somma di tanti piccoli paesi competitivi dia luogo a un grande paese competitivo. Ma non sarà così. Per essere rapidamente competitivi non si può che comprimere i costi interni (salari e spesa pubblica) e cercare di invadere gli altri mercati, a cominciare da quelli dei vicini. È quello che ha fatto la Germania prima della grande crisi. Se tutti in Europa avessimo fatto come la Germania, nessuno avrebbe ottenuto quei risultati (neppure la Germania), la domanda interna europea sarebbe crollata ed Eurolandia sarebbe sprofondata in una crisi recessiva ben prima della grande crisi finanziaria.

Ma, poiché continuiamo a ripeterci che la salvezza sta solo nell’essere competitivi, ecco che esultiamo per la svalutazione dell’euro che invece impoverisce i nostri paesi. Il modello di sviluppo dell’Ue non dovrebbe essere quello trainato dalle esportazioni come risultante della somma delle competitività dei singoli paesi, ma quello di un grande paese capace di trovare al suo interno il motore della crescita, per migliorare il patrimonio infrastrutturale. la qualità della vita dei propri cittadini, il livello di sicurezza e di benessere generale. Questo non significa affatto rinunciare ad essere competitivi sui mercati mondiali, ma implica assumersi la responsabilità di generare una crescita mondiale che non può che partire dalle aree più ricche della terra.

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Nicola Porro – Il Giornale

Ieri il direttore generale della Banca d’Italia ha detto che la nostra ricchezza nel primo trimestre di quest’anno dovrebbe crescere. Salvatore Rossi ha anche sostenuto che potrebbe essere il primo di una serie di dati positivi che ci potrebbero accompagnare fino al 2016. Meglio di niente. Ma è ancora presto per brindare.

Prima considerazione. Tra il 1995 e il 2007 l’Italia è cresciuta ad un tasso medio dell’1,5 per cento. Poi, dopo la crisi americana dei subprime, il disastro (con una relativa calma nel biennio 2010-2011). Si può dire che dal 2008 al 2014 abbiamo bruciato ricchezza per più di 300 miliardi, tra mancata crescita e la riduzione del Pil vera e propria. Roba da far tremare i polsi. Fortunatamente gli italiani hanno accumulato, forse proprio grazie al debito pubblico, un’enorme ricchezza privata. Che oggi stanno usando per tamponare la crisi. Per recuperare questo salasso dovremmo crescere ad un tasso del 2,5 per cento annuo per i prossimi venti anni. Neanche uno stuntman del gioco d’azzardo ci metterebbe un euro sopra. Insomma è difficile pensare che quel che abbiamo perso si possa recuperare nel medio periodo. I tassi di crescita di cui si parla in Bankitalia (o quelli più ottimistici del governo) sono più vicini all’1 per cento che al 2. E per di più nessuno scommette che ciò possa avvenire ininterrottamente per i prossimi 80 trimestri (cioè i venti anni di cui sopra).

Seconda considerazione. Ci sono delle congiunzioni astrali piuttosto buone a saperle sfruttare. Intanto il cambio euro-dollaro (compresi i cross con il franco svizzero e le molte monete che molleranno tra poco) è sceso a livelli che rende molto competitiva l’industria italiana. E ciò avviene proprio nel momento in cui comprare petrolio (cioè energia per far girare le fabbriche) è particolarmente conveniente. Il combinato disposto di euro svalutato (come una liretta qualsiasi) e petrolio sotto i 50 dollari rappresenta un sogno per chiunque produca nel Belpaese. Nel passato alla svalutazione della nostra moneta corrispondeva un incremento della bolletta energetica. A ciò si aggiunga una tenuta dei prezzi (addirittura si parla di deflazione) che potrebbe essere manovrata per il verso giusto. Ops. Dimenticavamo: mai come in questo periodo i tassi di interesse sono stati ridicolmente bassi.

Sintesi finale. Quel che manca è un catalizzatore. Un lievito per far girare tutto nel verso giusto. Gli ingredienti sono buoni, di prima qualità. E sette anni di recessione (con alti e bassi) hanno spinto in giù la molla della nostra economia, pronta a scattare. Serve fiducia. La parola magica. Fiducia dei consumatori che riprendano a spendere, e fiducia delle imprese che riprendano a investire. Sergio Marchionne ha fatto entrare proprio ieri, a Melfi, 300 nuovi operai. Può essere un primo segnale. La politica, il governo deve alimentare un percorso virtuoso, fatto di regole certe (per investire), meno burocrazia (per lavorare) e meno tasse (per competere). La politica non può far molto perché le fabbriche producano meglio, ma purtroppo ha fatto davvero troppo perché esse si fermino. Quel che ora manca è dunque un elemento impalpabile ma pesantissimo.

2015, il nuovo rischio “figuraccia” per l’Italia

2015, il nuovo rischio “figuraccia” per l’Italia

Giuseppe Pennisi – Il Sussidiario.net

Sarebbe ingeneroso commentare il semestre in cui l’Italia ha avuto il compito di presiedere gli organi di governo dell’Unione europea raffrontando le aspettative suscitate dalle promesse dello scorso maggio/giugno con i risultati quali si possono constatare a fine dicembre. Le promesse contengono sempre una buona dose di retorica e si è puntato molto in alto (un’interpretazione  e tensiva di trattati e di accordi inter-governativi in materia di flessibilità) allo scopo di raggiungere  obiettivi più modesti, quali lo scomputo degli investimenti pubblici dal calcolo dei parametri  attinenti al rapporto tra indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e Prodotto interno lordo (Pil). In effetti di concreto si è ottenuto molto poco: lo “scomputo” sarà consentito all’Italia, e ai nostri partner, unicamente per gli investimenti attinenti al quel “piano Juncker” che, come abbiamo scritto, si regge su complicate e strane alchimie e forse non decollerà mai.

Occorre dare atto alla tenacia e all’energia del Presidente del Consiglio, tuttavia, di aver contribuito alle richieste di altri Capi di Stato e di Governo di riportare il tema della crescita nell’agenda europea. Dobbiamo anche dare atto che il semestre ha avuto luogo in un momento particolarmente infausto caratterizzato dal cambiamento della Commissione europea, da un’eurozona additata dal G20 come il grande malato dell’economia mondiale, da una guerra al confine orientale (Ucraina-Russia) e dal Medio Oriente in subbuglio con il sorgere dell’Isis.

La crescita è tornata tra i temi dell’agenda europea, ma non è certo che ne sia l’argomento centrale. Perché l’Italia possa proporre, in seno agli organi Ue, che la crescita abbia un ruolo maggiore deve, innanzitutto, uscire dalla condizione di ultimo della classe, “rimandato e declassato” come ricordato su queste pagine. È necessario ammettere che Governo e Parlamento non hanno dato un bello spettacolo nel completare la Legge di stabilità con il voto di fiducia su un maxiemendamento le cui coperture non sono certe.

Ci sono casi, specialmente se si è stati rimandati agli esami di riparazione, in cui è preferibile qualche settimana di esercizio provvisorio per mettere bene a punto la normativa e presentarsi agli “esaminatori” con un compito ben fatto. Sarebbe disastroso se la prima relazione di cassa, coincidente con la verifica europea del “caso Italia”, mostrasse che siamo stati frettolosi e pasticcioni. Inoltre, le prospettive per il futuro non sono rassicuranti. Abbiamo spesso fatto riferimento alle stime del gruppo del consensus (20 istituti privati econometrici) che, però, hanno una durata di 24 mesi. Rivolgiamoci ad alcune a medio e lungo periodo approvate dai rappresentanti ufficiali del Governo italiano. Le più ottimiste sono quelle della Commissione europea, che mostrano una graduale ripresa sino a raggiungere il tasso di crescita dell’1,1% nell’ipotesi di energiche riforme dei mercati dei prodotti e dei servizi e di un serio programma di privatizzazione. L’Ocse vede un ritorno a un tasso crescita del 2% verso il lontano 2025 , sotto l’ipotesi di politiche ottimali, per poi riprendere a scendere a ragione dell’invecchiamento della popolazione. Per il Fondo monetario internazionale si giungerebbe a un tasso di crescita dell’1,3% (sempre con politiche ottimali) ma subito dopo tornerebbe il declino. L’ufficio studi economici ci vede ansimanti alla ricerca di un tasso di crescita dell’1% l’anno. Se dai grafici e dalle tabelle si passa ai testi, due sono i temi di fondo: la produttività dei fattori e il peso del debito. Sono stati affrontati con l’energia del caso nel corso del semestre? Ce lo chiediamo.

I mercati chiusi che bloccano la nostra crescita

I mercati chiusi che bloccano la nostra crescita

Daniele Manca – Corriere Economia

I tempi non sono più quelli nei quali mercati aperti, libero movimento di capitali e merci, garantivano sviluppo e crescita. Anzi, ogni Paese sembra richiudersi in se stesso tentando di trovare al proprio interno – e a spese dei partner – una propria via di difesa dalla crisi. Niente di più sbagliato. Il mercato delle telecomunicazioni ha permesso all’Europa una leadership, poi perduta, grazie a innovazione, concorrenza e massima apertura.

Lo stesso non si può dire dell’energia. Vale per l’Italia come anche per l’intero Vecchio Continente. Scambiare energia tra i vari Paesi dell’Unione è tutt’altro che facile (il gas poi fa caso a parte). Succede così che la produzione in eccesso, soprattutto da fonti rinnovabili che proviene da Paesi come la Spagna, ma anche da tutta la zona scandinava e dalla Norvegia, non possa arrivare in nazioni che ne hanno bisogno. Energia che viene dispersa. Come può essere efficiente un mercato quando il peso della tasse tra Germania e Danimarca e tra il 50% e il 60% del prezzo finale mentre in Gran Bretagna la percentuale scende al 5%?

Il confronto con gli Stati Uniti è drammatico in termini di prezzo dell’elettricità rispetto a quello in Europa. È la conseguenza di scelte che hanno portato ad avviare la ricerca dello shale gas, da noi osteggiato per motivi ambientali. Ma anche di quello che è a tutti gli effetti un mercato unico. Che significa interconnessione delle reti nazionali e convergenza dei prezzi. In tempi di crisi la strada è ancora più difficile. Ma nel dopoguerra la situazione non era certo meno complicata. Eppure, la lungimiranza di capire che andavano superati i confini nazionali, se quello che si cercava era un futuro più prospero, non è mai mancata. Oggi quella consapevolezza dove è finita?

L’economia «000»: inflazione, tassi e crescita ferma

L’economia «000»: inflazione, tassi e crescita ferma

Giuliana Ferraino – Corriere della Sera

Zero crescita, zero inflazione, zero interessi: se viviamo nel tempo zero, è venuta l’ora di ripartire da zero. Gli indicatori economici segnalano che la nostra produzione industriale scende (-2,9% a settembre), l’export è in affanno, la nostra competitività declina. Il Pil continua a restringersi: -0,2% nel secondo trimestre, e le previsioni sono poco ottimistiche sul futuro, come ci ricorda Moody’s. Aumentano soltanto il debito pubblico (salirà al 133,896 nel 2015 stima la Commissione Ue) e la disoccupazione (12,6% a settembre). In sintesi: l’Italia non solo non sa più creare ricchezza, ma ha accumulato una zavorra che paralizza il Paese. E se il denaro a costo zero garantito dalla Bce dovrebbe favorire il credito e promuovere gli investimenti produttivi, di fatto per ora erode risparmi e pensioni. Questa situazione ha impoverito le famiglie e aumentato le disuguaglianze.

Nel tempo zero gli aggiustamenti non bastano più: dobbiamo liberarci delle incrostazioni che ingabbiano il nostro modo di pensare e di agire, retaggio di un mondo che è stato spazzato via da 7 anni di crisi durissima. Per tornare a crescere, creare posti di lavoro e ridare speranza e sogni ai giovani, fermando la fuga dei talenti, serve una nuova cultura. In tutti i settori e per tutte le categoria, che porti liberalizzazioni vere. Basta con corporazioni e club. Tassisti e avvocati non possono fare eccezione. Anche la flessibilità del mercato del lavoro, invocata per attirare investimenti, rilanciare la crescita e favorire le assunzioni, rischia di alimentare nuove disuguaglianze, se non sarà accompagnata da concorrenza reale sul mercato dei beni e dei servizi e le scelte non saranno guidate dalla meritocrazia.