crescita

La via stretta di Renzi tra crescita e debito

La via stretta di Renzi tra crescita e debito

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Non varcare la soglia del 3% di deficit in rapporto al Pil, ma sottolineando che quel limite è anacronistico e andrebbe rivisto. Convincere l’Europa (a partire inevitabilmente dai «tecnocrati») che il rinvio al 2017 del pareggio di bilancio «strutturale» (cioè corretto per il ciclo) è fisiologico, guadagnandosi – nell’ambito delle regole date, ma contestando i metodi di calcolo del prodotto «potenziale»- la maggiore flessibilità possibile. Evitare l’apertura di una procedura d’infrazione e scommettere che la tregua fin qui accordata dai mercati tenga e che i piani espansivi di Mario Draghi alla BCE non vengano stoppati.

Tutto si può dire, meno che la sfida del Governo Renzi, un mix di temerarietà innovativa e di sottile prudenza negoziale impersonate, rispettivamente, dal premier stesso e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, non sia difficile e impegnativa. Una sorta di «terza via» tra strappi e continuità per forza di cose sotto continuo esame, come si conviene del resto per un grande Paese, terza economia e seconda potenza manifatturiera alla spalle della Germania nell’Eurozona, ma anche terzo Paese – questa volta nel mondo dietro Stati Uniti e Giappone- per volume di debito pubblico accumulato.

L’Italia ha un disperato bisogno di crescere. Non lo fa praticamente da vent’anni e porta sulla sua devastata economia reale, dopo la crisi scoppiata nel 2008, i segni di una stagione di guerra. Senza crescita non può ridurre nemmeno il suo debito, che infatti ha continuato a lievitare nonostante gli straordinari risultati (ma anche a prezzo di una caduta verticale della spesa per gli investimenti) ottenuti negli anni sul fronte del disavanzo primario, al netto cioè degli interessi pagati (95 miliardi nel solo 2013) dallo Stato per finanziare il debito.

D’altra parte, se non corregge la traiettoria del debito, l’Italia non rischia solo a Bruxelles (che al momento plaude all’Irlanda e alla Grecia e bolla come «creativa» e inaccettabile anche l’ipotesi avanzata da Renzi di scorporare dal Patto di stabilità le spese per l’innovazione) ma sui mercati. Sulla sostenibilità del debito non c’è un numero-soglia esatto (140% in rapporto al Pil? 150%?) ma una valutazione di credibilità del sistema-paese che si misura, appunto, sui mercati. E l’Italia resta sotto questo profilo vulnerabile e molto sensibile all’evoluzione, incerta, dei tassi d’interesse. Quando l’Ocse prevede che la crescita sarà dello 0,2% nel 2015 e segnala il nostro Paese – con un debito al 133,8% secondo la Commissione europea in ascesa anche l’anno prossimo, in recessione e insieme, di fatto, in deflazione – alla penultima posizione nella classifica del G20, accende un faro su una prospettiva non tranquillizzante.

La stessa lettura si ricava dall’ultimo sondaggio-Eurobarometro della Ue tra i 18 paesi della moneta unica: l’Italia, per la prima volta nella sua storia, con il 47% degli italiani che ritengono l’euro una “cosa cattiva” è oggi il paese più euroscettico. A ben vedere, anche questo un risultato della persistente mancata crescita che peggiora il rapporto debito/Pil e, riattivandosi pressoché in automatico la richiesta europea di un più vigoroso consolidamento fiscale, stronca ogni possibilità di ripresa e la fiducia in un futuro prossimo migliore. Facendo ripartire la spirale infernale: non è possibile per il governo alzare l’orizzonte della politica economica espansiva ma quanto fatto e messo in cantiere può non bastare, la ripresa continuerebbe a latitare e il debito a salire.

Naturalmente sarebbe facile addossare ogni responsabilità all’Europa e all’euro, tralasciando il particolare che l’Italia non cresce da vent’anni e che il terzo debito pubblico del mondo non l’ha creato la moneta unica ma ce lo siamo costruiti (e accumulato) in casa nel corso di decenni. La “terza via” in Europa del Governo Renzi, tra strappi e continuità, è molto stretta e vedremo quali risultati porterà, fermo restando che quest’Europa incompiuta e prigioniera di regole auto-soffocanti necessiterebbe di una revisione radicale.

Invece, è più larga in Italia l’unica strada percorribile, quella dell’attuazione delle riforme: qui, dietro e davanti la Legge di stabilità su cui a fine mese si pronuncerà Bruxelles, ci sono per il governo grandi spazi da riempire, a cominciare dal Jobs Act, dal cantiere fiscale, dalla riduzione della spesa e dalla creazione di un ambiente favorevole all’attività d’impresa e all’attrazione di investimenti esteri. Il tempo è poco, sui mercati la sostenibilità dell’Italia e del suo debito si gioca su questi terreni e misurando i fatti.

Non si cresce con questa frittata

Non si cresce con questa frittata

Giorgio Mulè – Panorama

Oramai la frittata è fatta. Mettetevi il cuore in pace e non aspettatevi miracoli dalla legge di Stabilità, l’insieme di misure che avrebbe dovuto far uscire un’Italia Sfinita dalle secche della recessione. Panorama ha provato a far cambiare verso a una manovra che ci è apparsa fin dall’inizio sbagliata alla radice. Per tre motivi innanzitutto: perché tradiva clamorosamente l’impegno di tagliare cum grano salis l’enorme montagna della spesa pubblica, perché non stimolava gli investimenti, perché rubava il futuro ai giovani attraverso l’imbroglio dell’anticipo del Tfr e l’incremento delle tasse sui fondi pensione.

Le nostre analisi e le nostre preoccupazioni hanno trovato puntuale riscontro in tutti i pronunciamenti di chi, in Italia e in Europa, è chiamato a dare un giudizio di merito sulla legge di Stabilità: Banca d’Italia, Istat, Unione europea. La nostra crescita, per il 2015, è stata definita a Bruxelles «tiepida», «fragile» o addirittura «molto fragile», gli effetti della manovra sull’economia «nulli» dall’Istat per il biennio 2015-16, perché il governo metterà in circolo denaro aumentando ancora la spesa pubblica, mentre sulle pensioni Bankitalia ha annunciato l’apertura di un potenziale baratro dovuto alla possibilità di intascare il Tfr per i prossimi tre anni. Per non parlare della mannaia che incombe con le «clausole di salvaguardia», una gragnuola di nuove tasse sotto forma di aumento dell’Iva a cominciare dal 2016 e fino al 2018, e i nuovi balzelli che le regioni (già sul piede di guerra e recalcitranti per i risparmi da fare) potrebbero inventarsi dopo il taglio dell’Irap.

In questa situazione si inserisce il defatigante dibattito tutto interno al Partito democratico sul Jobs act con le lacerazioni e le minacce da una parte e dall’altra che hanno oggettivamente stufato. Chi potrebbe assumere non lo fa a causa della totale incertezza della normativa, chi potrebbe investire si tiene alla larga da un Paese incapace di tradurre in atti concreti gli annunci. Ma insomma: quando si potrà avere una linea chiara, senza bizantinismi e rinvii sine die? Quando si potrà capire se per i licenziamenti disciplinari sarà o meno prevista la possibilità che un giudice intervenga disponendo il reintegro con l’inevitabile indeterminatezza del suo giudizio? Tutto questo senza dimenticare che a ridosso di Natale, tanto per invogliare gli italiani a predisporsi con il migliore auspicio ai consumi, saremo chiamati a saldare il conto dell’Imu e della Tasi, ultimo atto di una tassazione della casa che non conosce eguali nel mondo moderno. E con questo la frittata è completa. Se Renzi, come dichiara a Bruno Vespa, vuol governare fino al 2023, faccia pure. Ma se non cambia registro, siamo fritti.

Per crescere tagliare più spese

Per crescere tagliare più spese

Stefano Lepri – La Stampa

No, la manovra di bilancio del governo Renzi non è «espansiva». Avrebbe potuto essere nettamene restrittiva se si fosse dato ascolto in pieno alle richieste della Commissione europea uscente, a José Barroso e a Jyrki Katainen. E quando, a ragione, giudichiamo esagerati i loro timori, ricordiamoci che del tutto infondati purtroppo non sono. La capacità dei governi italiani di contrastare la recessione con interventi di bilancio (meno tasse, o investimenti utili) è pesantemente limitata dal fardello di debito pubblico che ci portiamo addosso. Pesa l’eredità di scelte sbagliate dei governi passati; soprattutto negli anni dal 1981 al 1991 e dal 2000 al 2004.

Nel momento attuale, con tassi di interesse bassissimi in tutto il mondo, è lontano il pericolo che il debito italiano diventi instabile; più remoto, appunto, di quanto si ostinino a credere alcuni a Bruxelles e molti a Berlino. Inoltre è poco probabile che si ripeta una crisi interna all’area euro come quella del 2011-2012. Tuttavia, l’Italia deve esercitare prudenza. Sarebbe eccessiva l’austerità impostaci dal «Fiscal Compact» europeo; la Banca d’Italia conferma che ritiene giustificato non rispettarla. Ma, come Ignazio Visco avvertiva venerdì scorso, una manovra apertamente espansiva adottata dalla sola Italia potrebbe «dar luogo a reazioni negative da parte dei mercati».

Così com’è all’esame del Parlamento, la legge di stabilità 2015 è espansiva solo nel senso improprio di accrescere il deficit rispetto alle leggi vigenti (riduce le tasse più di quanto riduca le spese, se si considerano gli 80 euro come sgravio). In senso proprio, si limita a «rallentare il processo di aggiustamento dei conti pubblici»; in assoluto il deficit continua a ridursi, su questo si fonda anche il giudizio dell’Istat. All’interno dei vincoli dati, è possibile aiutare la crescita se si tagliano spese poco produttive sostituendole o con sgravi fiscali efficaci o con investimenti pubblici di qualità. Su questo è legittimo chiedersi se il governo abbia fatto abbastanza; specie dopo che ha accantonato proposte significative sulla spesa, quelle sulle partecipate locali e sulle stazioni appaltanti.

Dalla politica peraltro non vengono alternative valide. La destra, a cui il presidente del Consiglio ha sottratto uno dei cavalli di battaglia, il calo dell’Irap, si mobilita contro le tasse sulla casa: ma a parità di risorse è molto più efficace sulla crescita pagare meno Irap o altri tributi sul reddito. Movimento 5 stelle e Lega Nord vorrebbero uscire dall’euro: però oggi se fossimo fuori il costo del debito sarebbe quasi certamente più alto, non più basso. L’opposizione di sinistra, ossia la Cgil, vorrebbe un piano massiccio di investimenti pubblici finanziato da una patrimoniale. A parte le ben note (anche a tecnici di sinistra) difficoltà di tassare patrimoni diversi dagli immobili, occorre riflettere su un recente sondaggio: in grande maggioranza gli italiani ritengono che per ridurre gli squilibri sociali sia meglio calare le tasse ai poveri che aumentarle ai ricchi.

Costruttive invece sono le obiezioni venute ieri dalla Banca d’Italia, sul limitato valore di alcune misure, sui possibili inconvenienti di altre. Indicano una urgenza di riforme più profonde, piena responsabilità tributaria degli enti locali, maggiori ambizioni di rinnovamento della scuola. Più oltre, nel 2016 e 2017, i conti tornano solo grazie ad una «clausola di salvaguardia» che impone gravosi aumenti di tasse (Iva al 25% e oltre) qualora non si riesca a ridurre le spese. Quella distanza di tempo è il luogo dove si incrociano le grandi variabili del nostro futuro: se cambierà l’Italia, se si romperà la gabbia di sfiducia tra Stati che soffoca l’Europa.

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

«Debole? No. L’aggettivo è superfluo, evitiamo i qualificativi». «Beh, tutto si può fare ma negare che oggi in Europa la crescita sia debole è ignorare la realtà». Il battibecco tra Angela Merkel e Matteo Renzi si svolge nel rassegnato silenzio generale intorno al tavolo dell’ultimo vertice di Bruxelles. François Hollande tace, risucchiato dalle disgrazie politiche in casa che ne fanno un fantasma in Europa. L’aggettivo naturalmente sparisce dal comunicato finale, dalle righe in cui si parla della situazione economica dell’Eurozona. In questo modo però la sua assenza diventa ancora più eloquente. Assordante. Perché dice che, siccome la Germania cresce meno ma cresce ancora e più degli altri, il problema non esiste a livello collettivo, è questione individuale, nazionale.

Ovviamente se il problema della crescita debole non è europeo, per risolverlo non servono iniziative europee e piani di investimento continentali: se e quando arriveranno, non potranno essere che una gentil concessione, un gesto più o meno simbolico, non certo la sferzata di rilancio necessaria a battere recessione, deflazione e disoccupazione che deprimono molti Paesi e cominciano a trascinare verso il basso anche la congiuntura tedesca, a rischio di recessione tecnica. Tutto questo significa anche, chiacchiere a parte, che le molle fondamentali dello sviluppo in Europa restano sempre le stesse, due e non tre, le solite. Cioè riforme strutturali e rigore, un po’ più temperato sì ma con estrema moderazione e la flessibilità delle regole Ue ridotta al minimo indispensabile. Evidentemente agli occhi del cancelliere tedesco la credibilità delle norme oggi è più importante della stabilità economica e finanziaria: di fronte ai mercati o all’elettorato tedesco?

La conferma che ben poco per ora è destinato a cambiare sotto il cielo europeo è arrivata del resto nelle ultime 48 ore. Alla fine Italia e Francia hanno evitato la clamorosa bocciatura delle rispettive leggi di bilancio per il 2015. Francia e Italia hanno ottenuto qualche margine di manovra in più vista l’avversa situazione economica in cui si trovano ma, per scongiurare una sanzione politica senza precedenti (che l’Europa poteva permettersi solo a proprio rischio e pericolo) hanno dovuto andare a Canossa, rassegnarsi a ridurre, a suon di miliardi in più messi in finanziaria, gli scostamenti dagli impegni che avevano previsto. Jirki Katainen, che sarà dal primo novembre uno dei due vice-presidenti Ecofin nella nuova Commissione Juncker, ha comunque immediatamente provveduto a rovinare la festa dissipando ogni possibile equivoco. Ha chiarito che lo sconto sarà una tantum: non varrà retroattivamente anche per l’anno in corso, quindi le verifiche di Bruxelles potrebbero anche concludersi con la comminazione di multe agli indisciplinati. Nessuna grazia nemmeno per altre deviazioni dalla retta via macro-economica. L’Italia è già nel mirino di una procedura Ue per superdebito ed eccessivi divari di competitività. Pacta servanda sunt : il concetto è impeccabile, difficile non condividerlo. Del resto il timore che una flessibilità di manica larga possa indurre i Governi ad allentare gli sforzi di risanamento e modernizzazione, nasce non dalla paranoia di pochi ma da un’esperienza consolidata.

La realtà però questa volta stride, deborda dalle gabbie giuridiche quando l’economia europea rischia la sindrome giapponese, elettroencefalogramma piatto per una decina di anni. Non si esce dal tunnel, ha avvertito il presidente della Bce, Mario Draghi, all’ultimo vertice Ue, con «la strategia della speranza». Se rigore e riforme sono urgenti e necessari, a patto di non farne indigestione, oggi da soli non bastano. Oltre a una politica monetaria accomodante e a un euro dal cambio più competitivo, ci vuole anche la crescita e al più presto, senza attendere i tempi fisiologici in cui la cura di risanamento darà i suoi frutti positivi. Altrimenti l’Europa finirà impiccata alle sue regole. Anche la Germania, che si illude di essere immune dai problemi altrui, ne pagherebbe lo scotto. Del resto già si avvertono i primi segnali.

Iva: pressoché inevitabile il suo aumento nel 2015 di almeno un punto percentuale

Iva: pressoché inevitabile il suo aumento nel 2015 di almeno un punto percentuale

NOTA

A meno di improbabili miracoli economici, nel 2015 saremo costretti ad aumentare l’Iva complessivamente di almeno un punto percentuale. Il governo prevede infatti una crescita dello 0,6% del Pil nel 2015, dell’1% nel 2016 e dell’1,3% nel 2017. Sappiamo quanto poco valgano queste professioni di ottimismo (basti ricordare come nel Def il premier Renzi e il ministro dell’Economia Padoan avessero addirittura ipotizzato per quest’anno una crescita del Pil dello 0,8%) ed è quindi purtroppo molto più realistico immaginare che, fermo restando le condizioni attuali dell’economia italiana, anche nel 2015 il nostro Pil rimanga nella migliore delle ipotesi piatto, facendo registrare uno scostamento negativo dello 0,5% tra crescita preventivata e crescita reale.
«Questo dato – osserva il presidente del Centro studi “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – comporterebbe minori entrate fiscali per 4 miliardi su base annua, compensabile solo con un immediato aumento dell’Iva. La clausola di salvaguardia, insomma, rischia di essere applicata in ogni caso, indipendentemente dall’effettiva realizzazione dei tagli di spesa previsti dal Governo Renzi».
Obiettivo crescita: se non ora quando?

Obiettivo crescita: se non ora quando?

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

È certamente la conseguenza delle nuove incertezze sull’uscita della Grecia dalla crisi, forse c’entrano anche i dati negativi sulla congiuntura Usa, ma la spallata che ha coinvolto la Borsa e i titoli pubblici italiani è un monito per chiunque si fosse fatto illusioni sulla stabilità del titolo Italia sui mercati finanziari. L’Italia resta ancora un osservato molto speciale in Europa. Certo, la coincidenza temporale con l’approvazione della prima legge di stabilità del governo Renzi è del tutto casuale. Ma il segnale non poteva arrivare più chiaro: bene la manovra espansiva, ottima la riduzione delle tasse, ma attenzione alla solidità dei numeri e niente salti nel buio.

Detto questo, c’era una tassa odiosa e adesso non c’è più. Una tassa sull’occupazione, che prescindeva dall’andamento dell’impresa, e quella tassa è stata cancellata per un valore di 5-6,5 miliardi. Le imprese non pagheranno più un assurdo balzello sulla loro capacità di creare o difendere l’occupazione. Una misura che si accompagna all’azzeramento dei contributi nei primi tre anni per le assunzioni a tempo indeterminato. In questo modo, come dimostrato ieri da Giorgio Pogliotti sul Sole 24 Ore, il costo per l’azienda di un’assunzione stabile si ridurrà di quasi un terzo. Significa che assumere a tempo indeterminato potrebbe davvero diventare più conveniente rispetto ad altre formule contrattuali. Soprattutto se alle misure economiche si accompagnerà una vera riforma del mercato del lavoro, con un contratto a tutele crescenti che superi definitivamente le incongruenze e le vischiosità burocratico-giudiziarie dell’attuale articolo 18. Su questo qualunque passo indietro del governo è proibito.

Complessivamente la riduzione della pressione fiscale, tra imprese e famiglie, è significativa. E va anche riconosciuto lo sforzo di coprirla il più possibile con tagli di spesa per 15 miliardi (12 nuovi più 3 già previsti). È vero però che una quota della copertura arriva ancora una volta dalla stima del recupero dell’evasione (3,8 miliardi) e che i tagli di spesa – come ha giustamente osservato Luca Ricolfi sulla Stampa – vengono per una parte riassorbiti da nuove spese. Ma soprattutto c’è il rischio che i circa 6 miliardi di tagli che gravano su Regioni e Enti locali si possano tradurre in nuove tasse. Un rischio molto concreto se si considera che dal 2000 (ultimo anno prima del nuovo Titolo V) la pressione fiscale locale è aumentata dell’80%, cioè da 47 a oltre 81 miliardi.

Renzi comunque può dire a ragione di aver portato a casa una manovra (quasi) senza tasse (con l’eccezione dell’aumento di prelievo sui fondi pensione, sulle fondazioni bancarie e sulle polizze vita). Una manovra decisamente espansiva. Portare il rapporto deficit/Pil dal 2,2 tendenziale al 2,9% permette di investire 11 miliardi in sviluppo. Può essere una scelta ardita, ma se non ora quando? L’analisi con cui Moody’s ha confermato il rating all’Italia sottolinea che è il ritorno alla recessione il fattore che più pesa sui rischi di sostenibilità finanziaria. Lo stesso Fondo monetario, nel rapporto del 22 agosto, ha sottolineato che «il rilancio della crescita è essenziale per superare il pericolo di una crescita fuori controllo del debito».

L’Europa sarà sorda a queste buone ragioni? Sarebbe, va detto senza equivoci, un errore madornale. L’Italia rispetta il parametro del 3%, ha il più alto avanzo primario d’Europa e mantiene comunque un andamento in discesa del rapporto deficit/Pil. Fa tutto questo malgrado un Pil in discesa. E mette anche da parte – novità dell’ultima ora – una riserva da 3,4 miliardi per ogni eventualità. Che credibilità può avere una richiesta di Bruxelles di aumentare la correzione del deficit costringendoci a escludere diversi miliardi dal rilancio della crescita?

«Se non ora quando» vale anche per l’Europa. D’altra parte il giudizio che conta di più è quello che daranno da subito i mercati. Già stamattina la credibilità della manovra di Renzi sarà messa alla prova. Dopo la giornata di ieri c’è da tremare: la scelta della crescita attraverso il taglio delle tasse è la strada giusta, ma guai a perdere la consapevolezza di quanto la strada della stabilità finanziaria sia stretta e difficile. La giornata di ieri, se ne avevamo bisogno, ce lo ha ricordato.

Non arrendiamoci al mal di testa da depressione

Non arrendiamoci al mal di testa da depressione

Daniele Manca – Corriere economia

Il mondo sta crescendo del 3 per cento all’anno. «Poco» ci viene detto dagli analisti del Fondo monetario internazionale, come pure dagli economisti in genere. Ma. a ben guardare, non siamo molto distanti dalla media alla quale il mondo cresceva agli inizi degli anni Ottanta e Novanta, come notava nei giorni scorsi il «Financial Times». Ma in quegli anni non avevamo ancora i postumi del mal di testa da grande crisi del 2008. E ci accontentavamo. Si sperava solo di crescere di più negli anni a seguire. Il mal di testa sembra impedire a governi, imprese e cittadini di reagire. Soprattutto in Europa. La Cina, che ha contribuito alla crescita mondiale per il 30%. nel 2014, si spera continui a correre a ritmi medi del 7,5% . L’America sta provando seriamente a fare la sua parte. Non è difficile capire di chi sia la colpa se, come riportato da Martin Wolf sempre sull’Ft, il 70% delle economie emergenti cresce nel 2014 a tassi più bassi della media pre-crisi. E se questo circolo di mancata contribuzione da parte dell’Unione europea allo sviluppo, e quindi di crescita meno forte delle economie emergenti, dovesse avvitarsi il futuro potrebbe davvero essere molto triste.

Inutile però sperare che la spinta arrivi da possibili allentamenti di patti o flessibilità più o meno risolutive. Possono aiutare sicuramente ma, fatto 100 la domanda nell’eurozona nel 2008, oggi siamo a quota 95. Gli Stati Uniti sono a 106. Analogo l’andamento del Pil. E allora la Bce può aiutare, Bruxelles anche, ma, se nei singoli Paesi non riparte la domanda interna, c’è poco da sognare. Ci si potrà accusare l’un altro, la Germania perché ha un surplus commerciale troppo alto, Francia e Italia perché in ritardo sulle riforme per aumentare produttività e competitività. Ma è necessario che ognuno faccia la sua parte. Noi la nostra. I cittadini aspettano solo questo. Le attività finanziarie delle famiglie erano a marzo pari a 3.858 miliardi di euro. Pari a quelle del periodo pre-crisi. Il segnale più evidente che stiamo risparmiando. Intimoriti sul futuro. Ma anche che, appena le condizioni dovessero mutare e potessimo tornare a investire, non saremo certo in difficoltà a farlo.

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La crisi economica europea ha trovato di recente due conferme e una autorevole indicazione su come uscirne. La conferma viene dal rallentamento della Germania e dal Fondo monetario internazionale che chiede investimenti pubblici in infrastrutture. Per questo giornale non si tratta di novità perché da anni ripetiamo che il dogma del rigore fiscale senza politiche espansive europee centrate sugli investimenti, specie in infrastrutture, era sbagliato.

I trinomi dell’Fmi
Con oggi si chiudono a Washington le riunioni annuali di Fmi e Banca mondiale (istituzioni a cui aderiscono 188 Paesi) che hanno celebrato anche il loro 70° anniversario. È stato presentato anche il World economic outlook di ottobre che va letto alla luce di due interventi, cruciali anche per l’Europa, del direttore generale Fmi, Christine Lagarde. Il primo è di prospettiva storica a 70 anni da Bretton Woods, quando Fmi e Banca mondiale furono fondate con il contributo di John Maynard Keynes. Lagarde rende omaggio a questo genio e prospetta tre coppie di alternative di fronte alla quali l’economia mondiale si trova oggi: tra accelerazione e stagnazione; tra stabilità e fragilità; tra solidarietà e isolamenti. Lagarde spiega perché accelerazione, stabilità, solidarietà sono tra loro connesse. A nostro avviso è quella combinazione su cui si è costruita l’Eurozona (e l’Unione europea) che adesso vacilla avendo scelto, sbagliando, la ricombinazione di stagnazione, stabilità, isolamenti. Il secondo intervento riguarda l’attuale urgenza di politiche economiche per rilanciare crescita e occupazione, specie in alcune aree geo-economiche in forte rallentamento. Qui emerge in modo netto la presa di posizione sulla Eurozona per la quale Lagarde segnala i rischi di persistente bassa inflazione (che per noi è deflazione) e di recessione per superare le quali chiede misure monetarie più forti della Bce e misure fiscali dei Paesi sia in surplus che in deficit evitando gli eccessi di rigore, ammorbidendo gli effetti delle necessarie riforme nel mercato del lavoro, favorendo la crescita.

Gli investimenti e le infrastrutture
Alle politiche monetarie e fiscali per la crescita viene aggiunta con forza dall’Fmi quella sulle infrastrutture come strategia cruciale per evitare il rallentamento dell’economia mondiale e la stagnazione in alcune aree. Con riferimento all’Eurozona noi abbiamo trattato su queste colonne di infrastrutture sotto ogni punto di vista: dai metodi di finanziamento (Project bond, Eurobond, partenariato pubblico-privato) alle tipologie di investimenti (reti transeuropee, tecnoscienza, capitale umano e fisico). L’Fmi enfatizza l’urgenza degli investimenti pubblici in infrastrutture sia come leva fondamentale per rilanciare adesso crescita e occupazione, sia perché la quota delle stesse sul Pil è calata in generale, sia perché nei Paesi sviluppati vanno ammodernate e nei Paesi in via di sviluppo vanno costruite. Le condizioni di liquidità attuali sono anche molto favorevoli per costi finanziamento bassi e per l’emissione di titoli di debito in mercati molto liquidi. L’Fmi calcola che un aumento dell’investimento in infrastrutture di un punto percentuale di Pil genera nelle economie avanzate un incremento dello 0,4% di Pil nello stesso anno e dell’1,5% entro quattro anni. La conclusione è che investimenti in infrastrutture ben fatti aumentano la produttività delle economie e si ripagano anche in termini di rapporti del debito pubblico sul Pil.

Gli squilibri tedeschi
Il World economic outlook (Weo) dell’Fmi si sofferma anche sulla crisi dell’Eurozona e sui problemi dei suoi Stati membri. Il messaggio che più colpisce è quello secco indirizzato alla Germania con la richiesta di aumentare gli investimenti pubblici nelle infrastrutture. Il messaggio si ripete in varie forme nel Weo rilevando che la Germania è l’unico Paese nel quale tra il 2006 e il 2013 sono cresciuti sia il surplus di parte corrente con l’estero (dal 6,3% allo 7,5% del Pil, pari a 274 miliardi di dollari) sia i crediti finanziari netti sull’estero (dal 26,9% al 46,2% del Pil ovvero 1678 miliardi di dollari) mentre gli investimenti interni sono scesi rispetto al risparmio. Così gli investimenti totali sul Pil dal 22,3% nel 2000 sono scesi al 16,9% nel 2013 mentre si prevede una risalita solo al 18,5% nel 2019. All’opposto la quota del risparmio lordo sul Pil è passata nello stesso periodo dal 20,5% al 24% con la previsione di scendere solo al 23,5% nel 2019. La Germania soffre perciò di squilibri macroeconomici che da anni vanno ben oltre i limiti previsti dagli accordi europei per il rapporto tra il surplus di parte corrente sull’estero e il Pil. Purtroppo le istituzioni europee non hanno avuto la forza di richiamare la Germania a più investimenti che avrebbero trainato tutta l’Eurozona. Inoltre si è a lungo taciuto nelle sedi istituzionali sui vantaggi che la crisi stessa ha prodotto per la Germania. Sono critiche che da tempo Marco Fortis avanza, segnalando anche che il crollo della domanda degli altri Paesi dell’Eurozona avrebbe colpito la stessa Germania. È quello che sta accadendo. Infatti le stime di crescita per il 2014 sono state ribassate dall’1,9% all’1,3% e per il 2015 dal 2% all’1,2%, l’export di agosto è crollato del 5,8% rispetto a luglio e la produzione industriale del 4,8% mentre la fiducia delle imprese è in calo da maggio. È dunque in corso un rallentamento marcato.

Una conclusione Euro-tedesca
Al di là dei numeri contano anche le opinioni e tra queste spicca quella di uno tra i più autorevoli economisti tedeschi, Marcel Fratzscher, direttore dell’Istituto tedesco per la ricerca economica (Diw). Nel suo recente volume “L’illusione tedesca” (presentato dal ministro dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel) si sostiene sia che la prosperità tedesca vacilla per gli errori di politica economica sia che la Germania deve investire di più in infrastrutture e in capitale fisico e umano. Speriamo che questa opinione venga accolta dal governo tedesco, che dovrebbe anche aprirsi alla piena collaborazione con il presidente della Commissione europea per la realizzazione degli investimenti infrastrutturali convenienti per tutta l’Eurozona. Anche per l’Italia, che tuttavia non potrà sottrarsi a riforme radicali capaci di renderci un po’ più “tedeschi”.

Per crescere concentriamo le risorse

Per crescere concentriamo le risorse

Luca Ricolfi – La Stampa

Sulle ragioni per cui l’Italia, quale che sia la congiuntura economica, cresce meno della maggior parte delle altre economie avanzate, il consenso è relativamente ampio. Nessuno nega che vi sia una carenza di domanda effettiva (calo dei consumi, investimenti insufficienti). Nessuno nega che la pressione fiscale sui produttori (Irap, Ires, contributi sociali) soffochi l’economia. Nessuno nega che non aver fatto le riforme modernizzatrici (mercato del lavoro, giustizia civile, pubblica amministrazione) ci stia costando carissimo. Dove cominciano i dissensi è sulle terapie, ossia sul modo di rispondere alla crisi. Qui non mi riferisco, però, alle decine di teorie che circolano fra gli esperti, ma solo a quelle che hanno una plausibilità economico-politica, e inoltre non si basano su ipotetici aiuti esterni (tipo eurobond, interventi della Bce, eccetera). Ebbene, se ci limitiamo alle teorie realistiche, a me pare che esse si riducano a tre.

La prima è la teoria dello «stimolo». Secondo questo punto di vista, l’economia non si può riprendere senza uno stimolo di almeno 30 miliardi di euro (2 punti di Pil), tendenzialmente sotto forma di riduzioni fiscali alle famiglie e alle imprese. Tali riduzioni andrebbero finanziate in deficit, promettendo all’Europa (e ai mercati finanziari) di fare le riforme e ridurre la spesa pubblica negli anni a venire. La formulazione più chiara ed esplicita di questo punto di vista mi pare quella degli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che l’hanno ribadita più volte in varie sedi.

La seconda teoria potremmo chiamarla del «passo dopo passo». Secondo questa visione, se l’Italia dovesse promettere riduzioni della spesa pubblica e riforme strutturali non verrebbe creduta né dai partner europei, né dai mercati finanziari. E se provasse a sostenere la domanda aumentando il deficit dal 3 al 4 o al 5%, verrebbe immediatamente castigata dai mercati finanziari, con conseguente impennata dello spread. Quindi l’unica cosa che si può fare è galleggiare per qualche anno intorno al 3% di deficit pubblico, e nel frattempo cambiare la composizione della domanda, riducendo simultaneamente e gradualmente sia la spesa pubblica sia la pressione fiscale. Questa, nella sostanza, è la posizione del governo e del suo ministro dell’Economia. La formulazione più chiara di questa posizione mi pare quella dovuta all’economista Roberto Perotti (collaboratore del governo), che l’ha recentemente esposta in un bell’articolo sulla rivista on line Lavoce.info.

C’è però anche un terzo modo di vedere le cose, che chiamerò «concentrare le risorse». Secondo questo punto di vista è vero che la teoria dello stimolo non fa i conti con la diffidenza dei mercati finanziari verso l’Italia, ma è altrettanto vero che la linea del passo dopo passo è troppo debole e troppo lenta. È molto improbabile che le riduzioni effettive della spesa pubblica superino gli 8-10 miliardi l’anno, e a questo ritmo sarà già un miracolo se Renzi riuscirà a rinnovare il bonus da 80 euro e finanziare i nuovi ammortizzatori sociali. Di qui l’idea di non disperdere gli sgravi in mille rivoli. Anziché uno stillicidio di alleggerimenti fiscali o contributivi di cui nessuno si accorge, meglio concentrare le risorse sui settori più dinamici dell’economia italiana, aiutandoli ad aumentare l’occupazione, la competitività, o entrambe. È questa, ad esempio, l’idea lanciata da Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, nell’intervista di ieri a questo giornale, in cui invita Renzi a varare «un provvedimento molto forte di sgravio fiscale per le aziende che nell’ultimo anno sono cresciute nelle esportazioni». Anche se la proposta Farinetti è spudoratamente pro domo sua, perché la catena di vendita dei prodotti Eataly sarebbe fra le prime a beneficiarne, credo che l’idea andrebbe considerata molto seriamente (il fatto che una proposta giovi anche a chi la fa non implica che sia insensata). Quando le risorse sono molto scarse può essere assai miope spalmarle su tutti, anziché indirizzarle verso quei settori o quelle imprese che meglio possono contribuire a far uscire la barca dell’Italia dalle secche in cui si è incagliata. Semmai la domanda è: uscire sì, ma come?

Qui le risposte possono essere almeno due. Se si ritiene che le risorse disponibili vadano usate innanzitutto per aumentare la competitività dell’Italia, l’idea di Farinetti è ottima. Se invece si ritiene che vadano usate per sostenere l’occupazione, la strada potrebbe essere decisamente diversa: anziché sostenere le imprese che nell’ultimo anno (in passato) hanno aumentato il fatturato delle esportazioni, si dovrebbero premiare le imprese che nel prossimo anno (in futuro) aumenteranno il numero di occupati.

Questo secondo modo di concentrare le risorse a me sembra più utile all’Italia, almeno finché la situazione dell’occupazione resterà drammatica come oggi. Come Stampa e come Fondazione David Hume da alcuni mesi, insieme ad altre istituzioni, stiamo lavorando su una proposta che va in questa direzione (nuovi posti di lavoro), e inoltre ha il vantaggio di aumentare il gettito della Pubblica Amministrazione anziché ridurlo. La prossima settimana, su questo giornale, racconteremo di che cosa si tratta.