crescita

Italia in chiaro e scuro, ma l’industria si muove

Italia in chiaro e scuro, ma l’industria si muove

Beda Romano – Il Sole 24 Ore

È un quadro sullo stato di salute della competitività dell’industria europea piuttosto negativo, ma ricco nonostante tutto di spunti positivi quello che la Commissione pubblicherà oggi a Bruxelles. La situazione italiana è peggiore di quella di molti altri stati membri. Eppure il paese sta mostrando una straordinaria capacità di adattarsi dinanzi alle difficoltà del momento, rese ancora più difficili da noti ostacoli normativi, istituzionali e sociali.

«I dati aggregati dimostrano una ripresa delle esportazioni e un aumento della produttività nella maggioranza dei paesi membri», si legge in un rapporto annuale che verrà presentato oggi dal commissario all’Industria, Ferdinando Nelli Feroci. «Tuttavia, i dati positivi a livello di Unione europea nascondono considerevoli differenze tra stati membri e tra settori in termini di risultati e politiche». Il rapporto, ieri ancora in lavorazione, offre uno spaccato interessante.

Sul fronte italiano è facile mettere l’accento sulle debolezze e sui ritardi. Molti dati sono noti, ma restano impressionanti. L’industria italiana ha perso oltre 500mila posti di lavoro tra il 2007 e il 2012. L’unico paese ad avere aumentato l’occupazione in questo settore è stata la Germania. L’Italia appartiene a un insieme di stati membri caratterizzati da una competitività elevata ma in stagnazione o in calo (allo stesso gruppo appartengono tra gli altri la Francia e la Gran Bretagna).

Il quadro italiano è in chiaroscuro. Dal 2007, il numero di imprese manifatturiere è sceso del 19%. La competitività dei costi è diminuita di due punti percentuali, aumentando il divario già cresciuto di 35 punti percentuali tra il 1997 e il 2007. «La bassa crescita della produttività – scrive la Commissione – è dovuta principalmente a una allocazione inefficiente delle risorse». Il paese registra un calo dell’efficienza del capitale, a parità di investimenti rispetto agli altri stati membri.

Secondo la Commissione, una delle ragioni è da ricercare in riforme del mercato del lavoro che hanno aumentato la flessibilità mantenendo tuttavia rigidità nei meccanismi salariali. La spiegazione è certamente convincente, ma chi conosce il paese sa anche che famiglie e imprese usano spesso il denaro a propria disposizione in forme più o meno eclatanti di clientelismo e familismo, e non solo in tangenti versate alle autorità nazionali e locali.

Al netto di questi dati negativi, segnati da un ambiente economico poco liberalizzato l’esecutivo comunitario nota aspetti positivi in un momento in cui l’Italia dibatte nervosamente della modernizzazione della sua economia. Sul fronte energetico, l’industria ha fatto molti progressi, riducendo il proprio impatto ambientale tra il 2007 e il 2012 del 3,5% all’anno. Sul versante dell’export, le imprese italiane si stanno concentrando sempre di più su mercati extra-europei e prodotti basati su tecnologia medio-alta.

«L’industria italiana sta aggredendo il problema della competitività dei costi cavalcando l’innovazione e la qualità in prodotti maturi», scrive la Commissione. Peraltro, la riforma del 2013 della funzione pubblica ha portato per le società a risparmi per 8,99 miliardi di euro in costi amministrativi. Tuttavia, secondo Bruxelles, gli sforzi sono ostacolati da un divisione poco chiara delle responsabilità tra stato e regioni e dall’uso di decreti-legge che non consentono misure mirate di semplificazione.

Competitività anima della crescita

Competitività anima della crescita

Ferdinando Nelli Feroci – Il Sole 24 Ore

Nell’ambito del cruciale dibattito in corso sul rilancio della crescita e dell’occupazione in Europa, il rafforzamento della competitività delle nostre imprese ha assunto un ruolo decisivo. L’industria, infatti, contribuisce per circa l’80% delle esportazioni europee e per un ammontare simile per quanto riguarda la capacità innovativa del nostro sistema. Senza una forte base industriale è difficile rilanciare la crescita e riassorbire l’elevata disoccupazione. Purtroppo, dal 2008 abbiamo perso circa 3,5 milioni di posti di lavoro nel manifatturiero e la quota sul Pil Ue generata dall’industria è scesa al 15,1%.

È prioritario invertire il declino. Rimettere in moto la crescita significa trovare ricette giuste per rendere le aziende attori dinamici sui mercati globali. I rapporti sulla Competitività degli stati membri e sulla Competitività dell’industria europea, appena pubblicati, presentano un quadro di luci e ombre. Se da un lato abbiamo Stati membri con elevata competitività di sistema, dall’altra abbiamo paesi che arrancano e che vedono ridursi sempre più la loro presenza sui mercati mondiali. Discorso analogo per i vari comparti produttivi europei, dove a fronte di punti di forza, come il farmaceutico, la chimica, la meccanica, l’industria automobilistica e l’alta gamma, esistono settori in sofferenza e piccole e medie imprese (Pmi) sempre più in difficoltà.

I due rapporti cercano di individuare i punti di forza e di debolezza del panorama industriale Ue e mirano a ispirare le politiche della competitività a livello Ue e dei singoli Stati. I maggiori problemi che abbiamo identificato riguardano la debolezza della domanda interna, la mancanza d’investimenti, alti prezzi dell’energia e un contesto amministrativo-regolamentare talvolta eccessivamente oneroso per le imprese. La chiave del nostro rilancio economico risiede nella ripresa della domanda interna. Al di là del rilancio dei consumi, la crescita della domanda passa attraverso l’aumento degli investimenti, sia pubblici che privati, tra l’altro tra i più colpiti dalla crisi. La ripresa di questi ultimi consentirebbe di innescare il circolo virtuoso della crescita che alimenterebbe sia la domanda che la competitività di tutto il sistema. In questo clima di ritrovata fiducia, anche i privati riprenderebbero ad investire.

Perché questo possa avvenire, è importante garantire un adeguato accesso al credito alle aziende. Senza sufficiente liquidità per investire e innovare, le imprese europee rischiano di perdere non solo la sfida globale ma anche di compromettere la sfida in casa, a fronte di prodotti stranieri più economici e innovativi. Il sistema finanziario deve essere messo nelle condizioni di canalizzare verso le imprese la liquidità di cui dispone. Confido che il lavoro sull’Unione bancaria porti i sui frutti quanto prima su questo fronte così come le recenti iniziative intraprese dalla Banca centrale europea. Dobbiamo anche lavorare per migliorare il rapporto banche-imprese, colmando il deficit informativo delle banche verso le Pmi e viceversa, e rafforzare nuovi canali di finanziamento alternativi, come le obbligazioni per le pmi e un ricorso più strutturato al venture capital e al crowdfunding.

Il rilancio della competitività necessita di un contesto amministrativo più favorevole alle imprese. È fondamentale ridurre le tasse sul lavoro e sui fattori produttivi, ma anche sprechi ed inefficienze. Una Pubblica Amministrazione efficiente è strumentale alla crescita delle aziende, sia in termini economici che occupazionali. Dobbiamo ridurre i tempi di concessione delle licenze, rendere più efficiente il sistema giudiziario e ridurre il fardello burocratico che pesa sui nostri imprenditori.

Inoltre, la bolletta energetica è sempre più cara in Europa, soprattutto se paragonata a quella dei nostri competitor nel mondo. Nella stessa Ue, i prezzi variano notevolmente da un Paese all’altro, riflettendo le differenze nella produzione, nella tassazione e nella ripartizione delle sovvenzioni per le energie rinnovabili. Nonostante un generale aumento dell’efficienza energetica in molti settori industriali, l’aumento dei prezzi di elettricità e gas ha influenzato negativamente i costi di produzione e la competitività delle nostre imprese, specialmente nei settori ad alta intensità energetica.

Oltre a queste difficoltà, esistono fortunatamente segnali positivi. Il nostro sistema industriale ha ancora vantaggi competitivi in numerosi settori ad alta e medio-alta tecnologia con una forza lavoro mediamente più qualificata che altrove. Dobbiamo quindi insistere sui punti di forza e allo stesso tempo investire nella formazione dei nostri giovani, nell’innovazione, nelle infrastrutture e nell’internazionalizzazione. Sono queste le ricette per guadagnare competitività e aumentare la nostra presenza sui mercati mondiali, dove si concentrerà gran parte della crescita nei prossimi anni. In conclusione, per ritornare a crescere.

La strada obbligata per ritrovare la crescita

La strada obbligata per ritrovare la crescita

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il Governo Italiano è impegnato su molti, difficili fronti, in Europa e in Italia. Sappiamo anche che il presidente del Consiglio Renzi, la cui energia è davvero tanta, vuole gestire in prima persona tutto. Sono quindi legittime le preoccupazioni che questo impegno sia eccessivo e che si impongano scelte e deleghe più chiare. Sulle riforme economiche necessarie, per evitare confusione, partiamo dalle raccomandazioni delle istituzioni europee all’Italia per passare poi ad una conclusione. E cioè che la spinta (sia pure limitata, senza quella europea) alla nostra crescita ed occupazione passa dal rilancio degli investimenti con le risorse recuperate dalla spending review e dall’evasione, con la riduzione del carico fiscale ed in particolare dell’Irap (solo simbolicamente ridotta in primavera), con un efficace partenariato pubblico-privato, con l’occupazione promossa da politiche attive e retributive nuove anche nel pubblico impiego.

Le raccomandazioni europee. Sono quelle espresse nel giugno scorso dal Consiglio della Ue e dalla Commissione europea, sul Programma nazionale di riforma e su quello di stabilità presentati dal governo. Purtroppo sono raccomandazioni che si ripetono da anni e sul cui adempimento l’Italia ha fatto poco. Eppure le stesse sono difficilmente contestabili anche se possono apparire semplificanti ed eccessive. Esse si riferiscono 1) alle politiche di bilancio; 2) all’alleggerimento del carico fiscale sui fattori produttivi; 3) all’efficienza della pubblica amministrazione; 4) al rafforzamento del settore bancario; 5) alle riforme del mercato del lavoro; 6) alle riforme del sistema di istruzione; 7) alla semplificazione normativa; 8) alla politica dei trasporti e delle infrastrutture. Il governo ha risposto a queste raccomandazioni evidenziando che le riforme richieste sono in cantiere anche se la realtà è (molto) più contenuta.Anche perché non sono chiare le nostre priorità e questo preoccupa perché l’economia reale italiana continua a peggiorare, pur con tutta l’ Eurozona.

Le valutazioni sul 2014. Infatti le previsioni (ci riferiremo a quelle di Prometeia sia pure con nostre valutazioni) danno troppi segni negativi: il Pil scende dello 0,2%; gli investimenti (macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto) scendono dello 0,4%; gli investimenti in costruzioni del 2,3%; la domanda totale interna dello 0,2%; la disoccupazione ormai si avvia al 13%. Non compensano questi dati negativi l’aumento della spesa delle famiglia dello 0,2% e un saldo dell’interscambio merci sull’estero al 2,8% del Pil. Due altri fatti (uno negativo e l’altro positivo) sono noti ma è bene ricordarli. L’inflazione (al netto di energia e alimentari, che sono componenti più volatili) è scesa in agosto allo 0,5%, che è il nostro minimo storico anche perché mai prima eravamo andati sotto quelle di Francia e Germania. In positivo vi è il calo dei tassi sui titoli di Stato con il conseguente risparmio di interessi passivi che contribuirà a tenere il deficit sul Pil sotto il 3%. In sintesi: i segnali moderatamente fiduciosi di una ripresa sono stati archiviati dai dati del secondo trimestre.

Priorità e risorse. Bisogna allora individuare tra le Raccomandazioni europee le più urgenti, proseguendo nel frattempo con le riforme ad effetto strutturale sul medio termine dei 1.000 giorni prefigurati dal governo. La priorità è quella di rilanciare gli investimenti, l’innovazione e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Perché da questa dipende la fiducia nel futuro che a sua volta contribuisce ad un aumento (vero) nella spesa delle famiglie. Per fare questa operazione vanno trovate le risorse e selezionati gli impieghi. Il reperimento delle risorse deve imperniarsi (ma non esaurirsi) sulla spending review (compresa la ristrutturazione delle aziende partecipate dagli enti locali). Poiché i quasi 60 miliardi di risparmi (al lordo delle minori entrate) del triennio 2014-2016 sono ben documentati dal Programma Cottarelli (che tra l’altro indica prudentemente entità minori di quelle prefigurate da altri nel 2012), bisogna dare esecuzione alla stesso senza esitazione. Inoltre va riequilibrato il carico fiscale recuperando l’evasione. Perché la nostra pressione fiscale apparente è al 44% ma quella effettiva (sui contribuenti leali) è al 54%.

Investimenti e lavoro. Con le risorse che si liberano bisogna spingere gli investimenti, l’innovazione, la tecnoscienza, l’industria, le infrastrutture che, oltre ai noti effetti moltiplicativi, devono anche sostenere la competitività del sistema Paese. Queste misure passano sia attraverso una riduzione del carico fiscale sulle imprese, e in particolare sugli investimenti, sia attraverso iniziative di partenariato pubblico-privato dove nuovi strumenti di finanza per le infrastrutture e l’industria servono molto. Non meno importante è l’intervento sul lavoro e l’occupazione dove il ministro Poletti sta operando bene. Bisogna arrivare alla semplificazione dei contratti, a migliori politiche attive, a contratti a tempo indeterminato ma a protezioni crescenti, a rivalutare l’apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro, a rivedere i sussidi di disoccupazione e la cassa integrazione anche per prevenire forme che disincentivano il lavoro stesso. Poi ci vuole una radicale riduzione e ristrutturazione del pubblico impiego premiando solo il merito. Sappiamo che il Governo ha già adottato vari provvedimenti in queste direzioni. Siamo anche convinti che solo un successo pieno al proposito darà una (prima) spinta alla competitività italiana e aumenterà la nostra forza in Europa.

Una conclusione. Tutto ciò è per noi necessario ma non sarà sufficiente se le istituzioni europee non spingeranno gli investimenti infrastrutturali (materiali e immateriali) e una forte reindustrializzazione sostenibile anche con strumenti finanziari nuovi, come gli EuroUnionBond. Perché la politica monetaria della Bce per quanto espansiva (e non priva di rischi per bolle speculative) non può supplire una politica per l’economia reale.

Politica fiscale per battere la depressione

Politica fiscale per battere la depressione

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

La decisione della Bce, di far scendere ancora i tassi di interesse e soprattutto di avviare l’acquisto di titoli emessi dalle banche, è una svolta importante. Ma perché la Bce ha aspettato così tanto e non si è mossa prima? E saranno sufficienti i provvedimenti annunciati per scongiurare la deflazione e sostenere la crescita nell’Eurozona? La risposta ufficiale alla prima domanda l’ha data il presidente Mario Draghi in conferenza stampa. La politica monetaria ha reagito a due eventi: un peggioramento congiunturale di tutta l’area Euro che è diventato particolarmente evidente durante l’estate; e una tendenza al ribasso delle aspettative di inflazione di medio periodo, anche questa accentuatasi di recente.

La risposta non è molto convincente, tuttavia. Come ben sanno i banchieri centrali, la politica monetaria ha effetti dilazionati nel tempo. Aspettare di osservare variazioni congiunturali nei dati di contabilità nazionale o di produzione è una sicura ricetta per essere in ritardo. E le aspettative di inflazione devono essere guidate dalla politica monetaria, e non viceversa. È diversi trimestri che osserviamo una continua contrazione della base monetaria e dell’offerta di credito e il progressivo rallentamento dei prezzi. La capacità inutilizzata nell’Eurozona rimane elevata, sia nell’industria che nei servizi, ed è circa un anno che ha praticamente smesso di ridursi. Da fine 2013 gli indicatori di fiducia delle imprese hanno invertito direzione. Ignorare per tanti mesi tutti questi segnali è stato un azzardo, e non solo con il senno di poi.

Meglio tardi che mai, comunque? Non è detto. Purtroppo è poco probabile che questi interventi, per quanto significativi, siano sufficienti a risollevare la domanda aggregata, soprattutto nel Sud Europa. Oltre all’effetto sul tasso di cambio, i provvedimenti vogliono spingere l’offerta di credito bancario. Ma l’obiettivo sarebbe stato più facilmente raggiungibile uno o due anni fa, quando il deleveraging delle banche non era così avanzato. Ora la depressione ha affossato l’economia reale e riempito i bilanci delle banche del Sud Europa di crediti deteriorati. Per quanto l’acquisto diretto di titoli di credito possa parzialmente allentare il vincolo di capitale sulle banche, e i finanziamenti del sistema bancario siano a costo zero, non è detto che ciò sia sufficiente, soprattutto se è assente la domanda di nuovo credito. Inoltre, è ancora incerto se le dimensioni del mercato consentiranno alla Bce di acquistare una quantità davvero rilevante di titoli di credito.

L’esperienza di Stati Uniti, Inghilterra e Giappone suggerisce che, per uscire da una crisi così profonda, la politica monetaria da sola è insufficiente, ed è necessaria una combinazione di politica monetaria e fiscale. In questi paesi la creazione di moneta è avvenuta soprattutto tramite ingenti acquisti di debito pubblico ed è stata accompagnata da maggiori disavanzi: di fatto un’espansione fiscale finanziata dalla banca centrale. L’uso di entrambi gli strumenti è cruciale: l’espansione fiscale sostiene direttamente la domanda aggregata, e il finanziamento monetario evita l’aumento del debito pubblico e dei tassi di interesse. Da questo punto di vista, c’è una differenza importante tra l’acquisto diretto di titoli di credito emessi dalle banche e l’acquisto di titoli di stato. Soprattutto nel secondo caso, più che nel primo, la banca centrale allenta direttamente il vincolo di bilancio del governo.

Nell’area Euro questo non si può fare, naturalmente. Ma non è escluso che ci si arrivi comunque, anche se in ritardo e in maniera meno esplicita e molto meno rilevante. Se i provvedimenti annunciati non riusciranno a evitare la deflazione nell’area Euro, prima o poi la Bce potrebbe essere costretta ad acquistare anche i titoli di Stato. E lo stesso presidente Draghi ha sottolineato l’importanza del coordinamento tra politica monetaria e fiscale (oltre alle riforme strutturali) per uscire dalla crisi. Nel frattempo, non illudiamoci che possa essere la politica monetaria da sola a fare uscire il Sud Europa dalla depressione.

Senza più produttività non si cresce

Senza più produttività non si cresce

Mauro Magatti – Corriere della Sera

Se vogliamo essere realisti, il problema dell’Italia è fermare il proprio declino storico. Senza una lettura storica adeguata alla profondità della crisi non c’è provvedimento in grado di risollevare le sorti dei Paese. Proprio l’assenza di una visione chiara è il peccato di omissione (grave) che si può rimproverare al governo Renzi. Al di là dei risultati, è la direzione di marcia che si fatica a vedere: da un governo nato sotto auspici cosi favorevoli è lecito aspettarsi molto di più.

In questi giorni, pensando ai temi del lavoro, Renzi ha detto di volersi ispirare al modello tedesco. Esistono, da tempo, due principali modelli di crescita in Occidente. Quello anglosassone si basa su capacità di influenza internazionale; politica monetaria/finanziaria espansiva; liberismo interno; investimenti in ricerca e sviluppo e nuove tecnologie; contenimento salariale; elevata concentrazione della ricchezza. Il modello tedesco (o renano) si fonda invece su: forte compattezza istituzionale e sociale; politica monetaria restrittiva; centralità dello Stato nel fissare le priorità sistemiche; orientamento all’export; alta tecnologia; relazioni industriali che permettono una (relativamente) più equa distribuzione del reddito. Per entrambi, l’aumento della produttività è un presupposto per la crescita: ma mentre il primo modello si fonda sulle virtù liberali, il secondo richiede compattezza e disciplina.

In Italia la produttività ha smesso di crescere dalla seconda metà degli anni 80. Da allora, il Paese ha traccheggiato utilizzando svalutazione e debito pubblico per tirare avanti. Come ha mostrato di recente la Banca d’Italia, l’enorme massa di risparmio accumulata negli armi del boom economico venne impiegata per finanziare non nuovi investimenti, ma debito pubblico. Lì abbiamo perso il treno della crescita. Il berlusconismo ha malamente cercato di ispirarsi al liberismo americano. Ma ha trascurato la parte impegnativa (la produttività) e preso quella più superficiale (i consumi). Il risultato è un ircocervo con uno Stato onnipresente (che garantisce una pluralità di piccoli interessi corporativi) e un mercato del lavoro segmentato tra regolazione rigida e liberismo senza regole. L’entrata nell’euro prima e la crisi dei mercati finanziari poi hanno fatto saltare l’equilibrio di sopravvivenza di un tale modello, mandando l’Italia sott’acqua. Possiamo rileggere il governo Monti come il tentativo di assoggettare il Paese alla logica tedesca della disciplina. Ma il risultato non è stato positivo. Fondamentalmente perché l’Italia non è la Germania: per correggere la linea evolutiva del nostro Paese ci voleva molto tempo e una grande forza politica. Adesso la forza politica c’è, ma manca la direzione.

Uscire dall’angolo è difficile. Ma ce la si può fare seguendo la rotta giusta senza indugi. In primo luogo, aiutati delle difficoltà della stessa Germania, è il momento di realizzare un’incisiva azione di stimolo all’economia sul piano europeo. Berlino si trova oggi nelle condizioni di svolgere un’azione simile a quella che, nel dopoguerra, fu esercitata dagli Usa con il piano Marshall: ciò che serve all’Ue – sul piano economico e politico – è un grande piano di investimenti. Un vasto programma di credit easing è nell’interesse dell’Italia, della Germania, dell’Europa.

Sul versante interno, occorre spiegare al Paese che la crescita senza aumento della produttività non si dà più. L’Italia deve tornare a investire sul futuro: lo Stato deve creare le condizioni perché chi dà un contributo tangibile alla produzione di valore e ricchezza possa lavorare ed essere premiato, tornando, dove possibile, a investire in infrastrutture e alcuni comparti strategici. Occorre, nel contempo, compensare dal lato della giustizia sociale: prima di tutto dichiarando guerra a tutte le oligarchie che chiudono la società italiana. Il Paese va liberato dalle mille cupole burocratiche, localistiche, corporative, accademiche, sindacali che soffocano le sue forze generative. Bisogna poi dimostrare che uscire dalla spirale «stagnazione della produttività-diminuzione della competitività-aumento della disuguaglianza» si può (e si deve) attraverso la costruzione di una relazione virtuosa tra aumento della produttività ed equità sociale. Il totem dell’articolo 18 non va abbattuto perché possano derivare chissà quali vantaggi economici; o perché così si dà una lezione ai sindacati. La posta politica in gioco è invece la possibilità di scrivere un nuovo (e migliore) patto per il rilancio dell’Italia tra tutti coloro che – lavoratori o imprenditori, appartenenti al settore pubblico o privato, autonomi o dipendenti – contribuiscono alla produzione di valore. Premiando l’investimento, la ricerca, l’innovazione, la flessibilità, la professionalità; ma anche innovando gli strumenti della protezione sociale e puntando a una più equa distribuzione della ricchezza. In un regime rigido come quello sorto con l’euro è la qualità delle relazioni sociali e istituzionali – dalla fiscalità al welfare – la chiave per crescere.

Renzi si sente alla testa di un manipolo di rivoluzionari che ha conquistato il potere. Non si illuda. La rivoluzione deve essere ancora fatta: nella società, nell’economia, nelle istituzioni. Facendosi forte del consenso di cui dispone, il premier trovi il coraggio per portare l’Italia a superare l’idea di una società dei consumi avvinghiata attorno alle dispense pubbliche puntando a un nuovo modello sociale capace di investire su qualità ed eccellenza. Senza dimenticare la solidarietà. Per far questo, si faccia garante credibile della nascita di un’alleanza, giusta e dinamica, tra tutti coloro che vogliono dare il loro contributo a tale impresa. Il declino storico lo si può vincere solo insieme, grazie alla politica. Dopo aver scartato tutti, Renzi è solo davanti al portiere: non butti la palla in tribuna!

Ecco perché l’Italia non crescerà mai

Ecco perché l’Italia non crescerà mai

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Se volete capire perché l`Italia non cresce e non crescerà, dovete parlare con Dario Scannapieco, il vicepresidente (italiano) della Bei, la Banca europea degli investimenti, l’istituto di proprietà dei 28 Paesi dell’Unione che finanzia infrastrutture e imprese per riempire i vuoti lasciati dal settore del credito che segue solo logiche di mercato. “Qui non riusciamo a fare quello che potremmo, non ci arrivano abbastanza progetti finanziabili. Per esempio servirebbe un’amministrazione in grado di scrivere un piano logistico per il sud, ma non c’è. E quindi i fondi europei vanno a pagare la sagra della porchetta”. Scannapieco, classe 1967, da otto anni è vicepresidente della Bei dopo essere stato un dirigente del ministero del Tesoro, uno dei più giovani della filiera dei Ciampi Boys. Incontra i cronisti nella sede della Bei di Roma per spiegare che cosa può fare (e quali sono i limiti), quello che molti governi considerano un bancomat taumaturgico.

Negli anni della crisi, la Bei ha prestato 455 miliardi di euro in Europa, nel 2014 saranno 70 come finanziamenti e 3,9 con il Fei, il fondo che entra indirettamente nel capitale delle aziende. L’Italia è il Paese che riesce a intercettare la fetta più considerevole degli interventi della Bei: tra 2007 e 2013 ben 61 miliardi di euro. La Bei agisce un po’ come i vecchi istituti di mediocredito pubblici: presta le somme necessarie a progetti a lungo termine a società come Terna e Autostrade. La Bei in Italia funziona e progetti da finanziare ne trova, come il sincrotrone di Trieste che trasforma la fisica più avanzata in applicazioni per la diagnostica medica.

Eppure i racconti di Scannapieco chiariscono perché le prediche inutili sulla necessità di aumentare gli investimenti in Italia resteranno tali. I minibond inventati dal Tesoro hanno funzionato, un miliardo di emissioni. Ma le aziende che li emettono sono troppo piccole per beneficiare della sottoscrizione della Bei. C’è stato bisogno di cartolarizzare i minibond di otto utility pubbliche (cioè impacchettarli in un unico maxi-bond) per permettere alla Bei di intervenire. E i famosi projectbond, quelli che finanziano direttamente le opere pubbliche? In Italia se ne parla da decenni ma partono, anche se sarebbero un impiego perfetto per le risorse della Bei. Unico esperimento col passante di Mestre. Poi c’è il piano scuola: “Siamo stati contattati già ai tempi del governo Letta e saremmo felici di finanziare gli interventi di edilizia scolastica”, dice Scannapieco. Ma la Bei sta ancora aspettando che le Regioni costruiscano la “anagrafe scolastica”, perché prima di spendere per risanare gli istituti bisogna sapere quanti sono, dove stanno e in che condizioni si trovano. Informazioni che in Italia non detiene ufficialmente nessuno. Inutile aspettare miracoli dalla politica monetaria e dalla Bce: le nuove operazioni straordinarie di Mario Draghi, le Tltro, andranno in buona parte a rifinanziare quelle del 2011-12, le Ltro che scadono l’anno prossimo, solo una parte dei soldi arriverà alle imprese, avverte Scannapieco. “Negli ultimi quindici anni la finanza è diventata più complessa, mentre il personale delle amministrazioni pubbliche si è indebolito proprio quando servirebbe una grande competenza tecnica”, sostiene il vicepresidente della Bei. Risultato: le risorse sono scarse e mancano idee e capacità per sfruttarle al meglio. Un esempio: il ministero dello Sviluppo economico voleva dare 100 milioni di euro presi dalla Bei per aiutare le imprese a pagare gli interessi sul debito, sollievo immediato ma impatto trascurabile. I tecnici europei di Scannapieco hanno suggerito che era meglio usare quei 100 milioni come garanzia per le prime perdite potenziali su quei prestiti alle imprese. Così, con l’effetto leva, alle aziende arriveranno 500 milioni, cinque volte l’impatto iniziale. Con pochi soldi veri, la finanza creativa va saputa usare.

La sfida della crescita, l’importanza delle riforme

La sfida della crescita, l’importanza delle riforme

Mauro Calise – Il Messaggero

Sul lavoro che sta compiendo il governo Renzi resta ancora da capire quanto il premier sia davvero bravo nel gestire i dossier più scottanti, dal lavoro all’economia e alla giustizia. Per non parlare dei fascicoli aperti a tempo indeterminato, come le grandi riforme che sono, per definizione, incompiute. Tutti continuano a ripetere che i risultati tardano a venire, come se tutti ce l’avessero in tasca, la ricetta miracolosa. Dimenticando che i predecessori hanno fallito pur disponendo di maggioranze bulgare: politica per Berlusconi, tecnica per Mario Monti, bipartisan per Enrico Letta. E che i pari-grado all’estero versano in acque ben peggiori: Hollande continua a cambiare i titolari dei ministeri chiave, e a scendere in picchiata nei sondaggi. Ma a Renzi, anche per la giovane età, tocca almeno un esame al giorno. E i voti si van facendo più severi. Al premier, però, tutto questo non dispiace. Anzi, gli va a pennello. Ciò che conta, per i prossimi mesi, non è sfornare improbabili vittorie sul fronte dei dati duri di una ripresa economica che – Draghi ce l’ha fatto capire – non darà frutti prima di un paio di anni. Ma restare ben piantato al centro dei riflettori mediatici, tenendone saldamente il monopolio. Inventandosi ogni giorno un evento, un cambiamento di agenda, uno slogan accattivante. O un repentino cambio di passo, da sprinter a maratoneta. 

Ed ecco serviti tutti quelli che si erano adagiati sull’immagine di un Renzi obbligato a correre, costantemente proteso al sorpasso delle sue stesse iniziative. Il premier, da oggi, rallenta. Si prende tutto il tempo necessario a rimettere in pezzi un Paese scassato da cima a fondo. Da piè veloce Achille a tartaruga. Tanto, per dirla con Zenone, chi è in grado di superarlo? L’asso nella manica di Renzi resta questo: non ha concorrenti. Non c’e nessuno oggi in grado di sfidarlo sul grande palcoscenico mediatico, prima ancora che su quello politico. Ed è questa la principale dote di cui il premier ha dato prova straordinaria. Una gestione geniale, impeccabile della comunicazione personale col grande pubblico trasversale. 

In questo, gli va dato atto, è andato oltre lo stesso Berlusconi, che certo l’ex sindaco ha studiato in ogni minimo dettaglio. Il Cavaliere aveva un suo partito e proprie reti televisive. Renzi agisce da battitore libero. Si è inventato tutto da solo. E chi pensa che questa capacità non rientri tra le qualità di uno statista, non ha capito niente di quello che è successo in questi ultimi decenni. Col passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella incentrata sul leader. E sulla sua capacità di catturare l’immaginario collettivo. 

Rientra in questo stesso scenario anche la scelta, difesa coi denti, di ottenere per la Mogherini – una renziana d’acciaio – il ruolo di portavoce agli Esteri dell’Unione Europea. Una scommessa che riguarda la possibilità che, nel caotico panorama internazionale che si va sempre più surriscaldando, si creino spazi per sortite – coraggiose, fuori dal coro – ad alto potenziale di impatto sulla opinione pubblica, italiana e più in generale occidentale. E’ improbabile che il premier si faccia illusioni che nostre eventuali proposte riescano a condizionare play-maker ben più pesanti, come gli Usa o la Germania. Ma al carnet del suo agenda-setting, fino ad oggi ristretto all’ambito nazionale, Renzi ha aggiunto un teatro a visibilità illimitata. Schierando una donna giovane, con mestiere e temperamento, che suscita curiosità e simpatia. All’immagine di un’Europa impantanata nel proprio passato, non potrà che giovare questa incursione di futuro.

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Massimo Blasoni: «Per tornare sani servono 28 anni, non mille giorni»

Chiara Daina – Il Fatto Quotidiano

La risposta per le rime a Renzi arriva da Massimo Blasoni, 49 anni, imprenditore udinese, che ha comprato un’intera pagina su Il Giornale di ieri. Due tondi, una con la foto del premier come è adesso, l’altro con un fotomontaggio che lo ritrae anziano e canuto. Sotto, la scritta “Torneremo ai livelli del 2008 quando Renzi avrà 67 anni”. Non è una stima sparata a caso. All’inizio di agosto Blasoni ha fondato il centro studi ImpresaLavoro, che ha ipotizzato il conto e di cui fa parte anche Salvatore Zecchini, presidente del gruppo di lavoro dell’Ocse su Pmi e imprenditoria.
Come è venuto in mente di comprare una pagina di giornale?
«Volevo comunicare a Renzi con un linguaggio schietto e mediatico come il suo. Il governo aveva previsto un livello di crecita del Pil dello 0,8 per cento. Balle. Per tornare ai livelli pre-crisi, considerando una crescita media tra il 2008 e il 2014 dello 0,3%, ci serviranno altri 24 anni».
Cosa le fa più paura?
«Quella di Renzi è solo una politica degli annunci. La pressione tributaria non è diminuita. Nessuna semplificazione burocratica per le imprese e nessuna facilitazione per l’accesso al credito. Imsomma, zero segnali di ripresa, nonostante le belle parole. Lo sa quanto costano i ritardi nei pagamenti della Pa alle imprese?».
Quanto?
«Cinque miliardi di euro l’anno. Lo abbiamo calcolato nella nostra prima ricerca».
Lei ha votato Renzi?
«No, anche se all’inizio gli davo fiducia. Ma di riforme vere finora neanche l’ombra. Renzi è un politico di vecchio corso con una faccia da giovane. Ma noi l’abbiamo già invecchiato».
La disuguaglianza mina la crescita

La disuguaglianza mina la crescita

Michael Spence – Il Sole 24 Ore

Sono trent’anni o più che il divario nella distribuzione della ricchezza e del reddito è andato aumentando in molti Paesi, ma l’attenzione sul suo andamento a lungo termine è cresciuta dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008: con una crescita rallentata, la disuguaglianza sempre più forte si fa sentire maggiormente. La “vecchia” teoria sulla disuguaglianza diceva che la redistribuzione con il sistema fiscale ha indebolito gli incentivi e minato la crescita. Ma il rapporto fra crescita e disuguaglianza è più complesso. Difficile tirare conclusioni considerando i diversi canali di influenza e meccanismi di riscontro.

Per esempio, Cina e Stati Uniti sono le principali economie mondiali con la crescita più rapida. Entrambe hanno livelli di disuguaglianza del reddito elevati e in aumento. Anche se da questo non si può concludere che crescita e disuguaglianza non siano correlate fra loro o lo siano positivamente, nemmeno dire che la disuguaglianza danneggia la crescita rispecchia propriamente la realtà dei fatti. Inoltre, in termini globali, la diseguaglianza è in diminuzione con la crescita dei Paesi in via di sviluppo, anche se sta aumentando all’interno di molti Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Ciò potrebbe sembrare controintuitivo, ma ha una sua logica. L’andamento globale dell’economia mondiale è il processo di convergenza cominciato dopo la Seconda guerra mondiale. Una fetta sostanziale dell’85 per cento della popolazione mondiale che vive nei Paesi in via di sviluppo ha vissuto per la prima volta una vera crescita rapida e sostenuta. Questo andamento globale è più forte di quello che vede aumentare la disuguaglianza interna. 

Tuttavia l’esperienza in un ampio ventaglio di Paesi rivela che livelli di disuguaglianza alti e in aumento, in particolare la disuguaglianza di opportunità, possono di fatto essere molto negativi per la crescita. Una ragione è che la disuguaglianza mina il consenso politico e sociale intorno alle strategie e alle politiche orientate alla crescita. Può portare a paralisi, conflitti e scelte politiche inadeguate. La sistematica esclusione di sottogruppi su qualsiasi base arbitraria (per esempio in base all’etnia, alla razza o alla religione) è particolarmente nociva in questo senso, come dimostra l’evidenza empirica.

La mobilità intergenerazionale è un indicatore chiave dell’uguaglianza di opportunità. La crescente disuguaglianza di reddito non porta necessariamente a una mobilità intergenerazionale ridotta. Se lo fa, dipende molto dall’accessibilità per tutti degli strumenti importanti che sostengono l’uguaglianza di opportunità, principalmente l’istruzione e la sanità. Per dire, se i sistemi di istruzione pubblica cominciano a andare male, all’estremo più alto della scala di reddito vengono sostituiti da un sistema privato, con conseguenze negative sulla mobilità intergenerazionale.

Ci sono altre correlazioni fra disuguaglianza e crescita. Alti livelli di reddito e disuguaglianza del reddito (come in gran parte del Sudamerica e in diverse zone dell’Africa) spesso sfociano in orientamenti iniqui e li consolidano. Anziché cercare di creare modelli di crescita inclusivi, i politici cercano di proteggere la ricchezza e il vantaggio che genera rendite ai ricchi. Ciò ha implicato una minor apertura verso il commercio e i flussi di investimento perché questi ultimi portano a una concorrenza esterna indesiderata. Il che ci fa capire che, in termini di risultati, c’è disuguaglianza e disuguaglianza. La disuguaglianza che si basa sulla ricerca delle rendite e sull’accesso privilegiato alle risorse e alle opportunità del mercato, è estremamente nociva per la coesione e la stabilità sociale – e per le politiche orientate alla crescita. In un ambiente generalmente meritocratico, i redditi da creatività, innovazione o talento straordinario di solito sono visti benevolmente e si pensa abbiano effetti meno dannosi.

Ed è anche per questo che l’attuale campagna “anti-corruzione” della Cina è così importante. Non è tanto la relativa disuguaglianza di reddito della Cina a minacciare la legittimità del Partito comunista cinese e l’efficacia della sua governance, ma le tensioni sociali create dall’accesso privilegiato a mercati e transazioni da parte degli insider. Quanto agli Usa, difficile dire in che misura l’aumento della disuguaglianza degli ultimi trent’anni rifletta il cambiamento tecnologico e la globalizzazione (che entrambi favoriscono chi ha livelli più alti di istruzione e competenze) e in che misura rifletta l’accesso privilegiato al processo di elaborazione delle politiche, è una domanda complessa e ancora senza risposta. Ma questa risposta è importante per due ragioni: 1) le risposte politiche sono diverse 2) lo sono anche gli effetti sulla coesione sociale e la credibilità del contratto sociale.

La crescita rapida aiuta. In un ambiente con una crescita elevata, con redditi in aumento quasi per tutti, la gente accetterà una disuguaglianza crescente fino a un certo punto, soprattutto se ciò avviene in un contesto fondamentalmente meritocratico. Ma in un ambiente a bassa crescita (o peggio, a crescita negativa), una disuguaglianza in rapido aumento significa che molte persone non avranno alcun aumento di reddito o staranno perdendo terreno in termini assoluti oltre che relativi. Le conseguenze di una crescente disuguaglianza del reddito possono indurre i politici in tentazione lungo una china pericolosa: il ricorso all’indebitamento, a volte combinato con una bolla di asset, per sostenere il consumo. Come è probabilmente successo negli anni ’20, prima della Grande Depressione e come si è verificato negli Usa (e in Spagna e nel Regno Unito) nel decennio che ha preceduto la crisi del 2008.

Una variante, come si è visto in Europa, è il ricorso al prestito governativo per colmare il divario della domanda e dell’occupazione creato da una domanda privata interna ed esterna carente. Nella misura in cui quest’ultima è legata ai problemi di produttività e competitività ed esacerbata dalla divisa comune, tale risposta politica è inadeguata. Preoccupazioni simili sono state sollevate a proposito del rapido aumento dei ratio di indebitamento in Cina. Forse l’indebitamento sembra il percorso con meno attrito per affrontare gli effetti della disuguaglianza e della crescita rallentata. Ma ci sono modi migliori e peggiori di far fronte alla crescente disuguaglianza. L’indebitamento è uno dei peggiori. 

Allora cosa fare? Per me le priorità sono molto chiare. Nel breve termine, la priorità fondamentale è il sostegno al reddito per i poveri e i disoccupati che sono le prime vittime delle crisi e degli squilibri e dei problemi strutturali correlati che ci vuole tempo per rimuovere. In secondo luogo, specialmente con la disuguaglianza di reddito in aumento, l’accesso per tutti ai servizi pubblici di alta qualità, in particolare all’istruzione, è fondamentale. L’inclusione sostiene la coesione sociale e politica e dunque quella crescita necessaria per aiutare a mitigare gli effetti di una crescente disuguaglianza. Sono tanti i modi per non sostenere il potenziale di crescita di un’economia, ma il sottoinvestimento, soprattutto nel settore pubblico, è uno dei più efficaci e dei più usati.