dario di vico

La dignità del lavoro autonomo

La dignità del lavoro autonomo

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Due emendamenti e il governo ha rimesso le cose al loro posto. Nei confronti delle partite Iva erano stati commessi in sede di legge di Stabilità altrettanti errori/amnesie, non erano stati bloccati gli aumenti della contribuzione alla gestione separata Inps e si era ritoccato il regime dei minimi Irpef pasticciando e aumentando di fatto la pressione fiscale. Ieri, dopo lungo penare, e dopo diverse esternazioni del premier Matteo Renzi orientate al pentimento, la maggioranza ha trovato il modo di riparare. Il fatto stesso che il veicolo legislativo utilizzato sia il Milleproroghe – e non potrebbe essere altrimenti – la dice tutta sul carattere last minute di questa scelta. Tra le debolezze della politica dobbiamo abituarci a convivere anche con questa variante: di fronte a problemi che sarebbe facile esaminare con cura e risolvere per tempo si architettano, invece, soluzioni sbagliate per poi correre ai ripari con il fiato corto e all’ultimo minuto. Aggiungo che diversi parlamentari della maggioranza ieri hanno enfatizzato il risultato raggiunto ma vale la pena ricordare loro che stanno festeggiando un pareggio, non certo una vittoria.

Il difficile, per certi versi, comincia adesso. Se il governo, insieme in verità a un folto gruppo di parlamentari dell’opposizione, si è finalmente reso conto che la presenza di tante partite Iva e freelance non è una sciagura per l’economia, bisogna passare a una fase costruttiva che cerchi di tenere insieme riconoscimento professionale, promozione, welfare e carico fiscale. O nestamente non pare che una visione di questo tipo la si possa rintracciare, per ora, nel pur ricco dibattito interno al Pd ancora influenzato dalle problematiche della sinistra novecentesca. Il ministro competente, Giuliano Poletti, avrebbe potuto per tempo spingere in avanti la riflessione e invece gli è mancato il coraggio. Tra i tecnici che accompagnano l’azione del governo c’è sicuramente una maggiore percezione – rispetto al Pd – della discontinuità ma non hanno ancora oltrepassato le colonne d’Ercole del laburismo: il riconoscimento della modernità del lavoro autonomo.

Molte cose, infatti, ci stanno cambiando sotto gli occhi. La scomposizione del ciclo produttivo dovuta alla Grande Crisi è stata profonda e capita che anche in medie aziende ci possa essere un direttore commerciale, pienamente inserito nell’organigramma, ma inquadrato a partita Iva. E che dire del mutamento dei confini tra lavoro in ufficio e lavoro a casa? In quante professioni e in quanti bacini di competenze il numero degli indipendenti sta ormai superando il numero dei dipendenti? Si potrebbe continuare a lungo e portare cento esempi ma per prima cosa occorre cambiare metodo, individuare soluzioni di medio periodo e non solo emendamenti. Penso alla previdenza: i conti in attivo della gestione separata dell’Inps sono stati usati di volta in volta a copertura di altre spese ma è forse arrivato il momento di individuare un altro schema. Qualche idea circola tra gli addetti ai lavori e la si potrebbe vagliare con maggiore attenzione, anche perché quando arriverà a casa dei freelance l’attesissima busta arancione con la previsione delle loro pensioni non sarà un giorno facile per il governo in carica.

Anche sul terreno fiscale forse è giunta l’ora di cambiare registro. Le partite Iva possono concorrere a generare ripresa e ricchezza? Se la risposta è sì, anche le scelte di merito devono essere conseguenti e vanno adottate norme che incentivino a crescere. E non, come capita oggi, norme che inducono a rifiutare lavori per paura di uscire dal regime dei minimi.

Diecimila licenziati in un anno, ora anche il manager è partita Iva

Diecimila licenziati in un anno, ora anche il manager è partita Iva

Dario Di Vico – Corriere della Sera

A suonare l’allarme è stato Silvestre Bertolini, presidente della Cida, la confederazione dei dirigenti pubblici e privati. Secondo i numeri che ha dato ieri a Roma in un’assemblea sono circa 10 mila i manager privati rimasti senza lavoro nell’ultimo anno e per affrontare quest’emergenza la Cida chiede ammortizzatori sociali. In sostanza vuole che il governo nell’ambito dei decreti attuativi del Jobs act preveda contratti di ricollocazione anche per i dirigenti e crei un apposito Fondo presso l’Inps. Ora al di là delle richieste di carattere sindacale è positivo che i riflettori inquadrino il mondo della dirigenza. Va detto innanzitutto che a fronte di quelle 10 mila uscite non si sono persi altrettanti posti di lavoro, il turnover non è bloccato.

Secondo una recente e ampia indagine di Manageritalia – che fa parte del Cida – sui dati Inps, dal 2008 al 2013 il numero dei dirigenti è -4,5% mentre i quadri sono cresciuti del 10%. Capita infatti che persino un direttore di albergo con 80 camere o il direttore di un grosso supermercato venga assunto come quadro. Vale la pena ricordare come per la natura delle imprese italiane i dirigenti in Italia siano di meno che nelle altre aziende europee: nel 67% dei casi sono solo parenti dell’imprenditore.

Il numero complessivo diminuisce anche perché le multinazionali stanno andando verso strutture più piatte, dovute a un processo di accentramento dei livelli decisionali e in qualche caso di accorpamento dei country manager di Paesi limitrofi. Va infine tenuta presente la diffusione di figure contrattuali ibride che vanno dalla consulenza, al co.co.pro. o addirittura alla partita Iva con mono-committenza. In alcune medie aziende persino il direttore commerciale è a partita Iva. Sono state le ristrutturazioni aziendali a determinare quel grosso ricambio nella dirigenza di cui parla Bertolini. Il turnover tra i dirigenti privati è da sempre attorno al 20% l’anno, ma ora si può stimare che si sia passati dai 5 mila licenziati l’anno agli attuali 10 mila e la spiegazione del raddoppio sta nella chiusura di aziende ma anche nell’adozione di strutture manageriali piatte, di modelli organizzativi toyotisti e nel fatto che le Pmi continuano a non utilizzare manager esterni alla famiglia e nell’effetto spiazzante del digitale. Basta pensare l’impatto di una struttura di vendite online sulle tradizionali competenze commerciali.

Secondo l’indagine di Manageritalia prima si stava più a lungo nelle aziende, anche 8 anni, oggi si è passati a una media di 6. «Le competenze diventano vecchie in mesi e non più in anni» commenta Enrico Pedretti, il direttore marketing. Si raccontano così storie di dirigenti diventati tassisti, di altri che hanno dato vita a una start up, aperto un negozio o una catena di lavanderie in Brianza oppure del manager Dior che ha ristrutturato la casa di campagna a Siena e lanciato un agriturismo. Si è abbassato anche il livello delle indennità di buonuscita e spesso sono di soli sei mesi di stipendio e questo ha spinto la Cida a chiedere maggiore interlocuzione con il governo. Da qui a concepire dei veri ammortizzatori sociali però ce ne corre.

Partite Iva, politica ferma ma da loro passa la crescita

Partite Iva, politica ferma ma da loro passa la crescita

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Riflettere su professionisti, partite Iva e freelance non è tema separato da quello della crescita: è questo l’elemento che il governo e la politica faticano a capire. Torniamo a parlare di partite Iva e cominciamo a sgombrare il campo da un equivoco. Chi sostiene le loro ragioni non lo fa in nome di una rivisitazione tardiva del mito del «piccolo è bello». Non sappiamo ancora quali connotati avrà l’economia del dopo crisi ma probabilmente la polarizzazione del sistema delle imprese, oggi determinata dall’export , si accentuerà. Bisognerà quindi sostenere tutti gli sforzi per aumentare la taglia delle aziende laddove è possibile, strutturare le filiere della fornitura in maniera più moderna e spronare i «piccoli» a non proseguire nel loro tran tran, a darsi – pur nei limiti della dimensione – un orizzonte di politica industriale, ad attuare per tempo la staffetta generazionale, ad aprirsi alla collaborazione anche temporanea di manager esterni, ad affrontare la discontinuità digitale.

Questo itinerario, ovvero l’evoluzione del nostro sistema manifatturiero, è destinato a incrociare la modernizzazione dei servizi, a mettere in cantiere una forte ibridazione con tutto ciò che sta a valle della produzione: di conseguenza, riflettere su professionisti, partite Iva e freelance non è tema separato da quello della crescita. Pur rispettando la differente scala di grandezza, fa parte della stessa riflessione, è l’incontro tra l’evoluzione dell’industria, le sue esigenze di ri-specializzazione e i professionisti dell’innovazione. È questo l’elemento che il governo, la politica ma anche il segmento più orientato alle riforme del giuslavorismo italiano faticano a capire. Per loro intervenire sulle partite Iva resta una misura di politica sociale, un paternalistico sostegno ai giovani.

Che questa impostazione sia riduttiva lo dimostrano tutte le indecisioni messe in mostra dallo stesso premier, che pure della capacità di scegliere ha fatto il baricentro del suo format politico. Renzi ha fatto autocritica sul nuovo regime dei minimi (che penalizza le partite Iva) ma è ancora lì a cincischiare di aliquote, tetti e forfait senza venirne a capo e con l’amministrazione finanziaria che si erge a custode di una presunta ortodossia fiscale. Non si rende conto che questi traccheggiamenti alimentano un risentimento tra i freelance che si esprime oggi, per lo più, con le campagne di tweet bombing sui social e le assemblee nei coworking ma è destinato a non fermarsi lì. Se si continua a tematizzare la questione delle partite Iva come una sorta di anomalia del sistema, una devianza rispetto al lavoro dipendente, non si va lontano e si finisce per delegare la ricognizione politico-sociologica ai fiscalisti ministeriali.

C’è un legame stretto tra la tassazione, le politiche previdenziali e il riconoscimento dello status di lavoratore autonomo della conoscenza, ma stenta a passare tra i maître à penser renziani. Eppure tutte le riviste americane di maggiore prestigio hanno pubblicato nelle ultime settimane inchieste e analisi sul boom del «nuovo» lavoro autonomo, sostenendo che lì si troveranno le maggiori (e le migliori) occasioni di lavoro e la possibilità di creare valore per sé e per il sistema delle imprese. Ecco, è questo il verso giusto: aiutare le partite Iva a crescere con politiche fiscali che non taglino loro le gambe, dotarle di un welfare che non si presenti predatorio (arrivare al 33% di contributi Inps con prospettive di pensione sotto i mille euro è francamente insostenibile) e favorirne l’inclusione nelle politiche di sviluppo. È chiaro che un simile programma non lo si centra con un ritocchino o un emendamento infilato nel Milleproroghe, ma si può dare un segnale subito (bloccare l’aumento delle aliquote previdenziali e ripristinare un regime dei minimi più favorevole) e poi costruire il nuovo.

Se la politica sta ferma il mercato si muove. Si cominciano, infatti, a registrare i primi movimenti di partite Iva e freelance verso nuove formule come le ditte individuali commerciali o le accomandite semplici perché garantiscono un regime fiscale più equo e una contribuzione previdenziale che non assomigli all’usura.

Gli architetti? Nuovi poveri (e bussano al Catasto)

Gli architetti? Nuovi poveri (e bussano al Catasto)

Dario Di Vico – Corriere della Sera

«Gli architetti italiani? Sono i nuovi poveri». Il presidente dell’ordine professionale, Leopoldo Freyrie, non usa mezzi termini e sciorina i dati di una recentissima e cruda indagine condotta dal Cresme. Il reddito medio della professione è attorno ai 17 mila euro annui, in cinque anni la perdita di guadagno è stata del 40% e in più aumentano vertiginosamente le prestazioni non pagate. Il 68% degli architetti vanta crediti nei confronti di aziende private e il 32% verso la pubblica amministrazione. I fortunati che riescono nell’impresa di farsi pagare devono però attendere in media 172 giorni se il committente è un privato e 217 se invece si tratta di un soggetto pubblico. Visto che non vengono remunerati per il lavoro che svolgono, i professionisti a loro volta sono costretti a contrarre debiti verso terzi: al Nord il 57% di loro deve denaro alle banche, alle società finanziarie o ai fornitori.

La recessione e la mancanza di lavoro non fa evolvere la struttura degli studi che rimangono piccolissimi: il loro reddito medio è di 38 mila euro, in genere hanno un dipendente non architetto e 1,5 collaboratori a partita Iva. In queste condizioni la possibilità di prescindere dal mercato italiano e di pescare clienti esteri è minima, se non nulla. I giovani ovviamente stanno ancora peggio: dopo cinque anni di professione mensile è ancora attorno ai 1.200 euro mensili e il tasso di disoccupazione viaggia attorno al 30%. Così quando, come ieri a Roma si apre un concorso per assumere 140 funzionari e tecnici dell’Agenzia delle Entrate per potenziare il catasto, giovani architetti (e ingegneri) si iscrivono a quella che appare una vera e propria lotteria. Nel caso in questione sono in 25 mila a partecipare, un numero che non si era mai visto e riflette un disagio che all’Ordine fotografano così: «La professione è a rischio sopravvivenza».

Garanzia giovani, perché non va

Garanzia giovani, perché non va

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Stavolta non c’è neanche l’alibi dei soldi. Gli stanziamenti per la Garanzia Giovani ammontano addirittura a 1,5 miliardi eppure ci stiamo pericolosamente avvicinando a un clamoroso flop. Sull’apposito portale il ministero del Lavoro pubblica un report aggiornato: al 9 ottobre i giovani registrati erano circa 237 mila di cui però solo 53.800 sono «stati presi in carico e profilati». Le occasioni di lavoro pubblicate online dall’inizio del progetto sono poco più di 17 mila. Ma al di là dei numeri, che pure da soli già raccontano di un’iniziativa a scartamento ridotto, la verità è che Garanzia Giovani sta vivendo come fosse una procedura ministeriale. Al dicastero ammettono le lentezze, parlano di realtà «a macchia di leopardo» (vuol dire che al Sud non si è mosso niente), della difficoltà di far dialogare per via telematica Centro per l’impiego (Cpi), Regioni e Stato e dell’intenzione del ministro Giuliano Poletti di fare il punto con gli enti locali a metà novembre. Auguri sinceri.

La verità è che doveva trattarsi di una grande mobilitazione di energie e persino di un’operazione pedagogica. I giovani fino a 29 anni dovevano essere chiamati a fare uno sforzo culturale, a rendersi occupabili. La comunicazione è stata invece debole, non ha colpito i ragazzi e non li ha messi in movimento. Occorreva spiegare loro che non basta volere un posto di lavoro ma oggigiorno diventa decisivo mettersi in grado di conquistarlo e allora bisogna considerare il curriculum come un tesoretto che si accumula e sul quale si investe di continuo. Niente di tutto questo è stato fatto e non vale la considerazione che pure si sente ripetere spesso ovvero che i nostri Centri per l’impiego contano 9 mila addetti e l’Agenzia nazionale tedesca 100 mila. Di un altro carrozzone pubblico facciamo volentieri a meno. Debole come capacità di mobilitazione il ministero lo è stato anche nel coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati. Il terzo settore, ad esempio, poteva essere mobilitato per tempo per la capacità di offrire tirocini ai giovani. Più in generale bisognava creare una coalizione di organizzazioni che si facevano promotrici di Garanzia Giovani e lo inserivano in agenda tra le priorità. Vi risulta che qualche associazione di categoria abbia organizzato iniziative in merito o assicurato un’informazione puntuale? E non valeva la pena incalzare anche i sindacati e i loro centri di assistenza? Anche questa capacità è mancata e nei territori questo vuoto si sente. Al Sud non ne parliamo. I ragazzi non vengono interessati nemmeno per via indiretta, non sentono che attorno i «grandi» si sono mobilitati. Così quando vengono chiamati finiscono per adempiere a un obbligo burocratico e non si responsabilizzano. E poi aspettano che il telefono suoni.

Garanzia Giovani poteva essere un test di politiche attive per il lavoro e invece sta perpetuando l’equivoco dei Cpi. Si comincia dal paradosso che a dar lavoro ai disoccupati dovrebbero essere dei co.co.pro. che lavorano a intermittenza nei Centri e poi si arriva alla mancata collaborazione con le agenzie private. Non si contano gli ostacoli che sono stati frapposti alle collaborazioni con le varie Adecco, Gi Group, Manpower, Quanta. Disposizioni regionali di 20-30 pagine, doppio accreditamento nazionale e regionale, impossibilità di avere rapporto diretto con i ragazzi. Accanto ad alcuni assessori regionali più aperti e moderni ce ne sono altri che continuano a pensare che occuparsi di lavoro «sia un compito dello Stato e basta». Il risultato di queste incomprensioni è che Garanzia Giovani alla fine trascura il contatto con le imprese. Non è un caso che la Nestlé voglia assumere qualche migliaio di giovani senza passare di lì o che la McDonald’s in Italia non abbia trovato la collaborazione giusta. Bastava copiare quello che molte università fanno con il placement ovvero i colloqui diretti giovani-aziende e si sarebbe innovato profondamente. Invece sul portale girano sempre gli stessi annunci, lo stesso fotografo viene cercato da settimane e settimane e comunque le richieste puntano su profili esperti e non alla prima prova. E come ha detto il giuslavorista Michele Tiraboschi «basta scavare un po’ più a fondo per accorgersi che il sito governativo non fa altro che rimbalzare offerte presenti su altri siti».

Che fare adesso per evitare che il flop demotivi tutti, le strutture e soprattutto i giovani disoccupati? Tiraboschi ha steso addirittura un decalogo di miglioramenti pratici per far funzionare il portale. Dall’inserire un filtro che selezioni subito i giovani per condizioni occupazionali/formative a permettere una ricerca avanzata tra i diversi annunci che oggi si affastellano in 400 pagine di visualizzazione. Si cominci pure da qui ma è proprio il caso di dire che bisogna cambiare marcia. Non si può lasciare tutto in mano ai ministeriali, se non altro perché non possiamo buttare dalla finestra un miliardo e mezzo.

Ps. Anche questa settimana a Roma ci sarà il solito e inutile mega convegno su Garanzia Giovani.

Nel Jobs Act la mossa per abbattere l’ultimo tabù

Nel Jobs Act la mossa per abbattere l’ultimo tabù

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Finora l’attenzione di merito sul Jobs act governativo si è concentrata quasi esclusivamente sulla riscrittura dell’articolo 18, cannibalizzando così un’altra scelta di grande discontinuità contenuta nel provvedimento sostenuto da Matteo Renzi: il salario minimo. In molti Paesi, europei e non, è in vigore da tempo, basta pensare allo Smic dei cugini francesi. In Italia, invece, l’introduzione del salario minimo è stata vista sempre come fumo negli occhi dai sindacati, gelosamente attaccati alla tradizione del contratto nazionale.

In linea di principio non c’è contraddizione tra una legge che stabilisca il salario minimo e un Ccnl stipulato tra le parti, ma in una fase di forte polarizzazione del sistema industriale finisce per rappresentare un’alternativa. Le differenze di mercato e di capacità di creazione di valore non sono più solo tra settori: passano all’interno dello stesso comparto. Dopo sei anni di Grande Crisi la distanza tra un’azienda che esporta stabilmente e un’altra che vivacchia di domanda interna è diventata abissale, come altrettanto ampia è la differenza tra industrie technology o labour intensive. Nello stesso settore metalmeccanico ci sono elettrodomestici e auto, che in virtù del basso valore aggiunto delle lavorazioni sono molto sensibili al costo del lavoro, ma anche le macchine utensili, in cui il livello delle paghe non è certo il principale dei problemi.

Con l’introduzione del salario minimo il contratto nazionale verrebbe fortemente limitato mentre ne uscirebbe esaltata la contrattazione aziendale. Il minimo stabilito per legge avrebbe poi un’altra valenza: far emergere il lavoro sommerso e combattere il caporalato in settori nei quali la rappresentanza sindacale tradizionale è evaporata e vige la pratica degli appalti al massimo ribasso. Si pensi, ad esempio, ad un business di grande rilievo come la logistica dove si è andato creando un far west di rapporti illegali, Cobas, false cooperative, sfruttamento degli extracomunitari e ricatto dei lavoratori. Costretti a retrocedere al datore di lavoro una parte del salario nominale stampato sulla busta paga. È chiaro che in situazioni come questa il salario minimo non è la panacea (servono anche tanti ispettori del lavoro!) ma potrebbe segnalare – specie agli stranieri – che le istituzioni non sono né cieche né sorde.

Le inutili ipocrisie sulle tasse

Le inutili ipocrisie sulle tasse

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Fino ad ora il governo non ha inserito nell’agenda delle sue priorità il lavoro autonomo e le partite Iva. Quando si è trattato di aumentare il reddito disponibile sono state privilegiate le fasce medio-basse del lavoro dipendente e il Jobs act ha come riferimento un laburismo tutto sommato tradizionale, anche se declinato in chiave di flexsecurity. Il tutto è stato gestito con lo strumento della legge delega che si sta rivelando un contenitore ipocrita: inizialmente appare utile per allargare lo spettro dell’azione di riforma senza generare conflitti, ma nel prosieguo mostra tutti i suoi limiti. Accumula contraddizioni e non è in grado di scioglierle se non con un atto d’imperio finale.

Qualcosa del genere rischia di accadere anche con la delega fiscale, lo strumento «largo» con il quale il governo pensa di riprendere a dialogare con gli autonomi. In linea di principio non si può che essere d’accordo con questo riallineamento di attenzioni perché il lavoro indipendente è destinato a crescere ed è la strada che prendono molti giovani in cerca di prima occupazione, di fatto costretti a «inventarsi» il proprio lavoro. Ma il famoso diavolo continua a nascondersi nei dettagli.

Vale la pena ricordare come l’apertura di nuove partite Iva resta sempre sostenuta, al ritmo di 40-50 mila al mese e la percentuale di quelle che mascherano un rapporto di lavoro dipendente si può stimare attorno al 15-20%. Non di più, come pure lasciano pensare i sindacati confederali che ne hanno fatto – come nel caso della Cisl – un punto focale di propaganda e comunicazione. Il guaio maggiore, caso mai, è che molte di queste nuove partite Iva chiudono la loro attività dopo qualche mese, come si può dedurre dalla dinamica delle cancellazioni che rimane sempre molto elevata (80 a 100 nel rapporto con le nuove iscrizioni) e da una rotazione molto frequente in alcune attività economiche giudicate a bassa barriera d’ingresso, segnatamente la ristorazione nei grandi centri urbani.

Detto questo, l’ipotesi di provvedimento che il ministero dell’Economia e finanze ha in gestazione per le mini-imprese (un milione di contribuenti) e che dovrebbe approdare nella delega fiscale appare, nelle intenzioni, ambiziosa perché punta a semplificare drasticamente le procedure, a limare la pressione fiscale e a introdurre nuovi criteri di equità tra i contribuenti di diverse fasce di ricavi. Tre obiettivi in uno, non facili da raggiungere in contemporanea perché da una parte il gettito che proviene da queste attività non può calare di brutto e nello stesso tempo bisogna dare un segnale di riduzione delle tasse. Come se non bastasse occorre affrontare anche alcune contraddizioni che si sono prodotte nel tempo come quella che, proprio a causa del regime forfettario, fa sì che le nuove imprese non siano incentivate a crescere per il rischio di dover pagare a caro prezzo (fiscale) le commesse aggiuntive conquistate. È giusto, quindi, affrontare le strozzature erariali e normative che oggi penalizzano le piccolissime imprese, ma non va sottovalutato il rischio che il messaggio possa non arrivare chiaro e limpido. Il governo, dunque, si occupi degli autonomi e delle partite Iva ma stia attento allo sperimentalismo fiscale. Le cavie potrebbero non gradire.

Articolo 18, le tante (facili) illusioni sugli altri modelli

Articolo 18, le tante (facili) illusioni sugli altri modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

In materia di articolo 18 il dibattito di questi giorni si sta focalizzando attorno al modello tedesco e in particolare sulla possibilità che ha il giudice del lavoro di ordinare il reintegro del dipendente licenziato. Questa disposizione della legge tedesca, come spesso accade in Italia, è diventata quasi simbolica: una sorta di diga politico-culturale eretta da ampi settori del mondo sindacale e da una parte della minoranza pd per stoppare i provvedimenti del governo. Ma proviamo a capirne il perché.

L’orientamento della magistratura tedesca è rimasto abbastanza coerente nel tempo e porta nella stragrande maggioranza dei casi a ordinare il risarcimento monetario del licenziamento. Solo in pochi casi di palese discriminazione i giudici del lavoro sanciscono il reintegro in azienda. In questo modo in Germania si concilia la presenza nella norma di un diritto in più e un’applicazione, quasi quotidiana, che favorisce la flessibilità (in uscita) del rapporto di lavoro.

Da noi, in base alle norme vigenti adesso e quindi non prendendo a riferimento le novità contenute nel Jobs act governativo, la prassi giurisprudenziale risulta molto difforme da tribunale a tribunale e si arriva per casi simili anche a sentenze molto diverse tra loro, se non opposte. La causa, secondo il parere dei giuslavoristi, risiede nel dispositivo introdotto dalla legge Fornero che produce massima incertezza e concede un’eccessiva discrezionalità al magistrato. Più in generale si può aggiungere che la cultura economica prevalente tra i magistrati del lavoro li porta a concepire il diritto come uno strumento di riequilibrio democratico rispetto al rapporto di forza asimmetrico tra datore di lavoro e dipendente. Per l’insieme di questi motivi i sindacalisti sono portati a sostenere la bontà del modello tedesco e sarà bene quindi scrivere bene la formulazione della nuova legge, o avremo una nuova Babele del diritto.

La modernità delle nuove partite Iva ma il legislatore se ne dimentica

La modernità delle nuove partite Iva ma il legislatore se ne dimentica

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Senza voler minimamente sottovalutare le novità contenute nel Jobs Act e le discontinuità che mette in moto, va detto che ancora una volta il lavoro autonomo è rimasto fuori dalla porta. Culturalmente il legislatore resta sempre ancorato alla vecchia diarchia del Novecento imperniata sul rapporto imprenditori-dipendenti, la società moderna invece non sta ferma e cammina assai più velocemente.

Le ristrutturazioni industriali legate alla Grande Crisi hanno portato ad esternalizzare molti servizi, le filiere si sono allungate e le relazioni di fornitura ampliate. Professioni, come quella dei giornalisti, che una volta erano totalmente strutturate nel rapporto di dipendenza vedono ormai una crescita esponenziale dei freelance. Il tutto avviene tra mille difficoltà legate alla stasi del mercato interno, alla contrazione dei compensi e anche al ritardo dei pagamenti laddove il committente è la pubblica amministrazione. Aggiungo che il trend in direzione del lavoro autonomo lo si riscontra ormai anche nella ricerca della prima occupazione; si può stimare che un giovane su quattro invece di mettersi in fila nei centri per l’impiego il lavoro se lo inventa o nei settori più tradizionali (commercio e ristorazione) oppure dando vita alle start up. L’apertura di nuove partite Iva va avanti, nonostante tutto, al ritmo di 40-50 mila al mese.

Insomma il lavoro autonomo non è un residuo storico che un giorno o l’altro verrà spazzato via ma diventa una delle forme della modernità perché socializza il rischio e la responsabilizzazione in un’epoca in cui Pantalone non paga più. Ed è lampante che si tratta di un mercato del lavoro irregolare dove il coinvolgimento individuale non è minimamente paragonabile alle tutele presenti e future. Anzi si riscontra la beffa di contribuzioni previdenziali più alte rispetto ai dipendenti con una scarsissima probabilità di avere, al termine della carriera, pensioni dignitose. Allora quando la politica tira in ballo la sacrosanta esigenza di rimodernare lo Statuto dei lavoratori non può cadere vittima di una clamorosa amnesia e dimenticare gli indipendenti.

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Probabilmente quello di ieri sarà ricordato come il discorso delle Isole Tonga per l’affermazione, paradossale ma non troppo, che è più facile fare impresa in Polinesia che in Italia. Sergio Marchionne dopo il meeting di Rimini ha voluto marcare la sua presenza anche a Cernobbio e ha fatto l’en plein. E non solo per la lunga ovazione che ha salutato la fine del suo intervento. Innanzitutto ha dato sostanza e adrenalina a un’edizione del workshop Ambrosetti che rischiava di passare agli annali esclusivamente per le polemiche a distanza con il premier Matteo Renzi e le rubinetterie bresciane. Poi l’amministratore delegato della Fiat Chrysler ha avuto anche la capacità di riportare al centro della riflessione di Villa d’Este l’economia reale, laddove nei giorni precedenti avevano dominato ancora una volta gli economisti-scenaristi e gli eurocrati di Bruxelles, entrambi restii ad appassionarsi di fabbriche e di tecnologie. Mancava la voce degli imprenditori e con Marchionne è finalmente arrivata, senza lesinare sui decibel. Per completare il quadro varrà la pena ricordare che in questo settembre 2014 si discuterà in Italia di riforma del lavoro, mezza Europa vigilerà sui tempi dell’approvazione parlamentare del Jobs act e Marchionne ha detto la sua. Ha invitato la politica a ripensare profondamente il rapporto tra Stato, lavoratore e imprese senza dover per forza importare questo o quel modello straniero ma tentando di costruire una via italiana alla flexicurity.



Per tentare di capire ancora meglio l’affondo di Marchionne può avere un senso ricordare come diversi imprenditori in questo periodo cerchino di attirare l’attenzione sui mutamenti dei cicli economici dopo la Grande crisi. Mi è capitato di leggere di recente un’intervista al capo-azienda di una delle nostre multinazionali tascabili che raccontava in maniera efficace di “aziende stressate, ordini che arrivano all’ultimo o che all’ultimo vengono cancellati, continue modifiche tecniche, nuovi mercati che esplodono all’improvviso costringendoci a rivedere le strategie”. È questo in sostanza l’ambiente economico in cui si andrà operare e quand’anche la ripresa sarà arrivata avrà comunque queste caratteristiche. I cicli lunghi ce li possiamo scordare e come ieri ha sintetizzato il ministro Federica Guidi, anche lei presente a Cernobbio: «Le aziende non hanno più un portafoglio ordini a sei mesi ma a sei giorni».

Ma ci sono oggi le condizioni per una riflessione di così ampia portata, come quella delineata da Marchionne? E il governo Renzi se ne farà davvero carico a costo di aprire un nuovo fronte polemico dentro il Pd e con la Cgil? Il top manager Fiat evidentemente pensa di sì, spiega che non bisogna privilegiare la difesa statica del singolo posto di lavoro ma la persona favorendone la mobilità sociale e la formazione perché – sia chiaro a tutti – «noi non vogliamo lavoratori usa-e-getta ma persone coinvolte». Tutti concetti che ricordano molto da vicino le eresie del giuslavorista Pietro Ichino, spesso sottovalutate dal mondo confindustriale. E non a caso l’amministratore delegato di Fiat Chrysler ha voluto ancora una volta ricordare come «pur di riconquistare una libertà di contrattazione» con i propri dipendenti l’azienda avesse deciso a suo tempo di uscire da Confindustria. Chiudendo Marchionne ha aggiunto che da sei anni le attività italiane sono in perdita e nonostante ciò non è stato chiuso nessuno stabilimento o licenziato nessuno e il motivo primo è che «siamo fondamentalmente italiani». Una frase che i suoi avversari non gli abboneranno facilmente. A cominciare da Roberto Maroni che ieri sull’italianità della Fiat è stato più caustico dei sindacalisti.