def

I conti in disordine del Governo, debito cresciuto di 138 miliardi

I conti in disordine del Governo, debito cresciuto di 138 miliardi

di Valerio Maccari – Il Tempo

Il debito scenderà? Forse, ma per ora siamo sempre più in rosso. Dal 2014 ad oggi il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro: una cifra incredibile, soprattutto se si confronta con le prestazioni di bilancio della Germania, dove nello stesso periodo il fardello è diminuito di 63 miliardi. A fare i conti – sulla base dei dati Bce – è il Centro Studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dei debiti sovrani delle big 5 dell’economia europea: Germania, Italia, Francia, Spagna e Regno Unito.

«Recentemente – scrive il centro studi – il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha annunciato che già nel corso di quest’anno il rapporto debito/Pil del nostro Paese è destinato a scendere in misura significativa. Uno sguardo retrospettivo sui precedenti DEF approvati dai governi ad aprile può aiutarci, però, a capire quanto siano credibili le stime circa un’inversione di questa tendenza». Secondo i ricercatori di ImpresaLavoro, infatti, sul fronte del debito i governi italiani hanno spesso peccato di ottimismo, immaginando nel DEF scenari spesso smentiti – anche in maniera clamorosa, con scostamenti di 7,5 punti percentuali – dalla realtà. Certo l’Italia non è la sola ad aver visto un incremento costante del debito pubblico. Fatta eccezione per la Germania, risultano in crescita tutti debiti pubblici degli altri grandi partner europei: Spagna (+121 miliardi), Regno Unito (+197 miliardi) e Francia (+209 miliardi). Sì, la Francia – finora – ha fatto peggio di noi. Ma parte da una posizione migliore, e occorre considerare che l’analisi si ferma al primo trimestre 2017: da allora Bankitalia ha confermato che da aprile ad agosto il nostro debito è cresciuto di altre 18,6 miliardi, arrivando a quota 2.279 miliardi.

Nei primi otto mesi del 2017 il debito è aumentato di 61,2 miliardi di euro, un dato superiore allo stesso periodo del 2016 (+52,4 miliardi) e del 2015 (+50,6 miliardi). «Nonostante le ripetute rassicurazioni del Governo sull’andamento del nostro debito pubblico, questo continua purtroppo a crescere inesorabilmente», osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Il tema è molto serio perché rappresenta uno degli indicatori più preoccupanti del Paese: gli aumenti ci dicono che gli obbiettivi di riallineamento ai principali partner europei sono un puro miraggio, la timida ripresa in atto non è sufficiente a invertire il trend».

Negli ultimi 3 anni il debito pubblico di Berlino è calato di 63 miliardi, il nostro è invece cresciuto di 138 miliardi

Negli ultimi 3 anni il debito pubblico di Berlino è calato di 63 miliardi, il nostro è invece cresciuto di 138 miliardi

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Dal 2014 ad oggi il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro, mentre quello della Germania è diminuito di 63 miliardi.  È questo uno dei dati che emergono da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, elaborando dati Bce, ha analizzato l’andamento dei debiti sovrani dal 2014 al primo trimestre 2017 delle cinque principali economie europee.

Fatta eccezione per la Germania, che riduce il rapporto debito/Pil dal 76,3% del 2014 al 66,9% di marzo 2017, tutti gli altri Paesi europei vedono crescere questo indicatore. La Spagna supera la soglia psicologica del 100%, passando dal 98,1% del 2014 al 100,4% del 2017 mentre il Regno Unito fa salire il proprio indebitamento statale dal 86,5 all’88% del Pil. Peggio dell’Italia – che dal 131,6% del 2014 è passata al 134,7% del 2017 – ha fatto solo la Francia, che ha visto crescere il rapporto tra debito e Pil di 4,5 punti raggiungendo quota 98,7%: un aumento considerevole ma che va comunque a incidere su un debito percentualmente molto inferiore al nostro.

In valori assoluti, negli ultimi tre anni la Germania ha, come detto, ridotto il suo indebitamento di ben 63 miliardi di euro. Risultano invece in crescita i debiti pubblici degli altri grandi partner europei: Spagna (+121 miliardi), Italia (+138 miliardi), Regno Unito (+197 miliardi) e Francia (+209 miliardi).

L’analisi comparata di ImpresaLavoro si ferma al primo trimestre 2017, data in cui sono disponibili i numeri relativi a tutti i Paesi europei. Un dato questo che rischia di risentire di alcuni aspetti congiunturali tipici dei primi mesi dell’anno in cui storicamente le amministrazioni pubbliche vedono aumentare il proprio stock di debito che va poi riducendosi verso la fine dell’anno.

L’analisi delle storie storiche mensili di Bankitalia conferma tuttavia il trend di crescita del nostro debito: da aprile a luglio il debito pubblico italiano è infatti cresciuto di ulteriori 39,4 miliardi, toccando quota 2.299 miliardi di euro. Nei primi sette mesi del 2017 il debito è aumentato complessivamente di 82 miliardi di euro, un dato in linea con lo stesso periodo del 2016 (+83 miliardi) ma nettamente superiore a quello del 2015 quando il nostro debito era cresciuto “soltanto” di 64 miliardi.

Uno sguardo retrospettivo sui precedenti Def approvati dai governi ad aprile può aiutarci, invece, a capire quanto siano credibili le stime circa un’inversione di questa tendenza. I documenti di programmazione economica hanno infatti, storicamente, il vizio di sottostimare la corsa del nostro debito. Negli ultimi sei anni soltanto in un caso (il 2015) l’esecutivo ha immaginato un rapporto debito/Pil superiore a quello che poi si è effettivamente realizzato. Tutti gli altri Def hanno sempre ipotizzato scenari ottimistici che poi sono stati smentiti dai bilanci consuntivi: gli errori vanno dai 7,5 punti del 2013 allo scostamento tra previsioni e realtà di quest’anno quando il rapporto debito/Pil finale dovrebbe essere “solo” di 0,7  punti superiore a quello ipotizzato da Padoan ad aprile.

«Nonostante le ripetute rassicurazioni del Governo sull’andamento del nostro debito pubblico, questo continua purtroppo a crescere inesorabilmente: da marzo a luglio sono ben 5 i mesi consecutivi in cui il debito statale è aumentato per cifre mensili che vanno dai 2,1 miliardi di giugno ai 20,4 miliardi di marzo» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Il tema è molto serio perché questo rappresenta uno degli indicatori più preoccupanti del nostro paese: se volessimo traguardare il nostro debito ai livelli di quello spagnolo o francese dovremmo auspicare una riduzione pari rispettivamente a 575 e 603 miliardi di euro. Gli aumenti che abbiamo invece riscontrato in questi mesi ci dicono che gli obbiettivi di riallineamento ai principali partner europei sono un puro miraggio: la timida ripresa che pure è in atto, quindi, non è sufficiente a invertire questo trend».

Il debito tedesco cala di 63 miliardi, il nostro salirà al 134,7% del Pil

Il debito tedesco cala di 63 miliardi, il nostro salirà al 134,7% del Pil

di Claudio Antonelli – La Verità

Inarrestabile. Con questo aggettivo il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha definito il calo del debito rispetto al Pil. L’esclamazione non condiva una televendita, tipica della parte bassa del telecomando, ma la Nota di aggiornamento al Def, il documento programmatico per l’economia italiana. Nel testo, sulla quale si basa la manovra da presentare a Bruxelles entro il 20 ottobre, il governo prevede un taglio del debito fino al 129% del Pil. Peccato che arrivi a tale risultato senza tenere conto dei valori assoluti di spesa (in crescita del 3% in tre anni) e soltanto con la speranza di ulteriori impennate dell’industria e del prodotto interno lordo.

Uno sguardo retrospettivo sui precedenti Def approvati dai governi ad aprile può aiutarci, invece, a capire quanto siano credibili le stime circa un’inversione di questa tendenza. I documenti di programmazione economica hanno infatti, storicamente, il vizio di sottostimare la corsa del nostro debito. Negli ultimi sei anni soltanto in un caso (il 2015) l’esecutivo ha immaginato un rapporto tra debito e Pil superiore a quello che poi si è effettivamente realizzato. Tutti gli altri Def hanno sempre ipotizzato scenari ottimistici che poi sono stati smentiti dai bilanci consuntivi: gli errori vanno dai 7,5 punti del 2013 allo scostamento tra previsioni e realtà di quest’anno quando il rapporto tra debito e Pil finale dovrebbe essere “solo” di 0,7 punti superiore a quello ipotizzato da Pier Carlo Padoan ad aprile.

Il che offre pure l’occasione per sfatare un mito dell’antiausterity. Ovvero che tutte le economie Ue in ripresa abbiano spinto il piede sull’acceleratore della spesa per stimolare l’andamento del Pil. Dal 2014 ad oggi il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro, mentre quello della Germania è diminuito di 63 miliardi. La Danimarca ha lasciato per strada ben undici miliardi nello stesso lasso di tempo. L’Olanda 18 e l’Irlanda poco meno di sette. È questo uno dei dati emersi da una ricerca del centro studi ImpresaLavoro che, elaborando dati Bce, ha analizzato l’andamento dei debiti sovrani dal 2014 al primo trimestre 2017 delle cinque principali economie europee. In termini relativi, la Germania è riuscita a ridurre il rapporto tra debito e Pil dal 76,3% del 2014 al 66,9% di marzo 2017, l’Irlanda addirittura del 4,3%, Malta dell’11% e l’Ungheria del 6,9%. Al contrario, tutti gli altri Paesi europei hanno visto crescere questo indicatore. La Spagna supera la soglia psicologica del 100%, passando dal 98,1% del 2014 al 100,4% del 2017 mentre il Regno Unito fa salire il proprio indebitamento statale dal 86,5 all’88% del Pil. Peggio dell’Italia – che dal 131,6% del 2014 è passata al 134,7% del 2017 – ha fatto solo la Francia, che ha visto crescere il rapporto tra debito e Pil di 4,5 punti raggiungendo quota 98,7%: un aumento considerevole ma che va comunque a incidere su un debito percentualmente inferiore al nostro.In valori assoluti, negli ultirui tre anni, la Germania ha, come detto, ridotto il suo indebitamento di ben 63 di euro. Risultano in vece in crescita i debiti pubblici degli altri grandi partner europei: Spagna (+121 miliardi), Italia (+138 miliardi), Regno Unito (+197 miliardi) e Francia (+209 miliardi). L’analisi comparata di ImpresaLavoro si ferma al primo trimestre 2017, data in cui sono disponibili i numeri relativi a tutti i Paesi europei. E può risentire di variazioni a causa di aspetti congiunturali tipici dei primi mesi dell’anno in cui di solito lo stock di debito aumenta.

Un’analisi delle serie storiche mensili di Bankitalia, tuttavia, conferma il trend di crescita del nostro debito: da aprile a luglio il debito pubblico italiano è infatti cresciuto di ulteriori 39,4 miliardi, toccando quota 2.299 miliardi di euro. Nei primi sette mesi del 2017 il debito è aumentato complessivamente di 82 miliardi di euro, un dato in linea con lo stesso periodo del 2016 (+83 miliardi) ma nettamente superiore a quello del 2015 quando il nostro debito era cresciuto “soltanto” di 64 miliardi. «Nonostante le ripetute rassicurazioni del governo sull’andamento del nostro debito pubblico, questo continua purtroppo a crescere inesorabilmente: da marzo a luglio sono ben 5 i mesi consecutivi in cui il debito statale è aumentato per cifre mensili che vanno dai 2,1 miliardi di giugno ai 20,4 miliardi di marzo» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «Il tema è molto serio perché questo rappresenta uno degli indicatori più preoccupanti del nostro Paese: se volessimo traguardare il nostro debito ai livelli di quello spagnolo o francese dovremmo auspicare una riduzione pari rispettivamente a 575 e 603 miliardi di euro. Gli aumenti che abbiamo invece riscontrato in questi mesi ci dicono che gli obbiettivi di riallineamento ai principali partner europei sono un puro miraggio». Se non bastasse, c’è anche l’Fmi a smontare il dati «inarrestabili» di Padoan. Secondo le ultime previsioni macroeconorniche redatte dal Fondo monetario, il debito pubblico italiano salirà quest’anno al 133% in rapporto al Pil, in rialzo rispetto al 132,6% registrato nel 2016. Il prossimo anno, quindi, l’errore di sottovalutazione del Tesoro risulta pari a 1,4 punti percentuali. Ne deriva che la Germania resta un esempio. Mentre l’Italia è un benchmark costantemente negativo. Con qualunque valuta i nostri bilanci sarebbero allo sbando.

Il “finto” Def che serve a Renzi  per vincere le elezioni

Il “finto” Def che serve a Renzi per vincere le elezioni

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In un contesto in cui si stabilizzano 100.000 “precari” della scuola, e per incoraggiare la trasformazione di contratti un tempo chiamati “atipici” in contratti a tutele crescenti si aggravano i contributi sulle imprese (penalizzandone la competitività), non deve scandalizzare che si scovi qualche nuovo “precario”.

Il Governo ha puntato sulla “precarizzazione” del binomio Def-Pnr la cui vita durerà, più o meno, sino alla elezioni regionali per poi essere rifatto da cima a fondo al fine di produrre una documentazione che serva il vero obiettivo delle norme che lo hanno istituito: predisporre, all’inizio dell’autunno, il disegno di legge di stabilità.

Continua a leggere su IlSussidiario.net.
Def, perché Renzi si è scavato una trappola burocratica

Def, perché Renzi si è scavato una trappola burocratica

Giuseppe Pennisi – Formiche

Matteo Renzi forse non ha visto il vecchio film Il Portaborse o perché troppo giovane o perché poco interessato a un lavoro che essenzialmente ironizzava sul Psi guidato da Bettino Craxi. Non si accorge, quindi, che nella vicenda Def-Pnr è sembrato assomigliare al politico interpretato da Nanni Moretti.

Chi ha visto il film, ricorderà che pur preoccupato unicamente dai risultati elettorali (preoccupazione lecita e logica per chi è nel Palazzo e vuole restarci a lungo in piani sempre più alti) e pur avendo costruito all’uomo una grande macchina acchiappavoti, tale politico se la prende con una non meglio specificata burocrazia ogni volta che qualcosa va storto.

Continua a leggere su Formiche.
Def e amuleti

Def e amuleti

Davide Giacalone – Libero

Siate di buon umore e tirate fuori gli amuleti. Martedì scorso il Consiglio dei ministri avrebbe dovuto approvare il Def (Documento di economia e finanza), ma lo hanno rinviato ad oggi, venerdì. Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan, però, ne hanno illustrato i contenuti. Da allora a oggi abbiamo fatto conti ed elaborato opinioni su quelle loro parole. Ieri Piero Fassino ha riferito: il presidente del Consiglio dice che non c’è un testo pronto, quelle in giro sono solo bozze. Di che discutiamo, da martedì? Divertente. Fassino ha aggiunto: ci ha garantito che nel Def non ci saranno tagli nei trasferimenti agli enti locali. Certo che non ci saranno, perché quello è un documento d’indirizzo. Se ne riparlerà a settembre, dovendo preparare la legge di stabilità.

Gli amuleti servono dopo avere letto quel che ha detto Padoan, da Singapore: la crescita italiana potrà essere del 2% nel lungo periodo. John Maynard Keynes (il più influente economista del secolo scorso), a chi gli chiedeva cosa sarebbe successo nel lungo periodo, rispose: saremo tutti morti. Oso supporre che Padoan si riferisca a un orizzonte più prossimo, ma i conti non tornano: se l’Italia cresce la metà della media dell’eurozona, proprio nel momento in cui esce dalla più profonda recessione ed è attiva la spinta monetaria della Banca centrale europea, cosa mai dovrebbe accelerarne lo sviluppo, quando le migliori condizioni immaginabili saranno alle spalle? Questo è l’andazzo: rinviare e tirare a campare. Servirebbe, invece, un’operazione shock, capace di dimostrare che l’Italia ha capito il pericolo della crescita rallentata. Della spesa pubblica, della pressione fiscale e del deficit (quindi del debito) che aumentano anziché diminuire.

Sostiene Padoan che la Commissione europea promuoverà il nostro Def. Certo che lo farà, ma continuare a pensare all’Europa come ad un vincolo conduce a commettere un cumulo di errori. Supporre che i conti pubblici di Roma debbano convincere Bruxelles distrae dalla questione più importante: dovrebbero convincere gli italiani. Il punto non è che il Def sventi aggravi dell’Iva, sicuramente depressivi. Il punto è che si approfitta di una ripresina indotta dalle politiche espansive europee (altro che eurorigore!) per continuare a non fare quello che da anni è urgente: tagliare la spesa pubblica. Ci stiamo prendendo in giro da soli, immaginando che le non scelte siano buone cose se solo si riesce a farle deglutire alla Commissione.

Vedrete che tutta la discussione finirà con l’incentrarsi sullo scattare o meno delle clausole di salvaguardia. Se saranno sventate, il governo griderà vittoria. Se scatteranno, gli oppositori strilleranno. Modo bislacco di vedere le cose. L’Iva è solo l’imposta messa (da questo governo) ad automatica difesa dei saldi. Che vanno rispettati non perché “ce lo chiede l’Europa”, ma perché, altrimenti, sale il prezzo del debito, superando il valore di ogni furbata. Se i saldi si difendono in altro modo, ad esempio facendo crescere l’imposizione su altro (la casa è l’oggetto più gettonato: +178% in tre anni), l’Iva non sale automaticamente, ma noi stiamo ugualmente dandoci la zappa sui piedi. Porsi come obiettivo il non far scattare l’Iva significa avere già perso la partita, concentrandosi sulle conseguenze.

Se non vogliamo svegliarci, nell’autunno 2016 (quando si fermerà la Bce), avendo accresciuto il nostro svantaggio competitivo, la pressione fiscale deve diminuire. Altro che non aumentare. Tale risultato, favorito dalla discesa dei tassi d’interesse, può essere agguantato se si taglia la spesa pubblica. Che, invece, come l’Istat ha documentato e qui abbiamo raccontato, continua a crescere. Né si pensi di cavarsela premendo sul deficit, per il quale s’invoca la corda “elastica”. Cui impiccarsi. Noi continuiamo a cumulare deficit più alti di quelli programmati, con il risultato di far crescere il debito. Significa che il nostro problema s’aggrava. Si fa credere a quattro beoti propagandisti che la spesa pubblica sarebbe anticiclica e pro sviluppo, scomodando l’anima di Keynes. Ma nessuna spesa improduttiva ha mai prodotto sviluppo. Semmai produce debito e tasse. I veleni che uccidono la crescita. Forse propiziano voti, ma poi devi portarli in qualche santuario, invocando miracoli impossibili e immeritati. Fin qui il miracolo l’ha fatto l’Italia che produce ed esporta. Quella che ancora si munge.

Consigli non richiesti a Yoram Gutgeld

Consigli non richiesti a Yoram Gutgeld

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il Consiglio dei Ministri del 7 aprile ha all’ordine del giorno l’esame e l’approvazione del Documento di Economia e Finanze (Def) con cui delineare l’azione di governo nel breve e medio termine. Il Def dovrebbe ricevere i pareri delle Commissioni Parlamentari del simulacro del CNEL (esistente ma reso nell’impossibilità di funzionare da una norma che fa a pugni con la Costituzione) e della Commissione Europea. Sulla base del Documento che, ci si augura, verrà approvato domani e, con le osservazioni che il Governo vorrà recepire, costituire la base della prossima Legge di Stabilità.

Naturalmente il Def all’ordine del giorno presuppone tanti altri argomenti: dal patto di stabilità interno, alle tax expenditures per imprese e famiglie, alla previdenza e all’assistenza, alle missioni militare di pace all’estero, e via discorrendo.

Continua a leggere su Formiche.
L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Il Documento di Economia e Finanza (modificato in seguito a scambi di veduti con le autorità europee) è all’esame delle Camere. C’è stata, sulla stampa e nel dibattito pubblico, molta attenzione sugli aspetti macro-economici e una certa disattenzione su liberalizzazioni e privatizzazioni. In effetti da anni il programma che le prevede sembra bloccato. Il Governo Monti non riuscì a privatizzare neanche il Touring Club, pur avendoci provato: le Camere vennero sciolte e si andò al voto prima che l’iter parlamentare venisse espletato.
Un programma a breve termine (12-18 mesi) per l’Italia è stato delineato nel discorso dell’allora presidente del Consiglio Letta alle Camere, nel quale si precisava che nel 2014 la cessione di quote societarie avrebbe dovuto far entrare nelle Casse dello Stato una cifra complessiva tra i 10 e i 12 miliardi di euro. Le prime dismissioni avrebbero riguardato una partecipazione di controllo di Poste Italiane e Enav (deliberata il 24 gennaio 2014 dal Consiglio dei Ministri) a cui avrebbero fatto seguito quelle di Sace e Grandi Stazioni (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane) nonché di quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri, Cdp Reti ed Eni. A queste indicazioni, occorre aggiungere la privatizzazione per almeno 500 milioni l’anno di patrimonio immobiliare. Secondo un’analisi effettuata dall’Università Bocconi), l’ipotesi di ricavi dalla cessione di quote societarie dello Stato può potenzialmente raggiungere i 90 miliardi di euro (ovviamente su un arco pluriennale); ciò non tiene conto di circa 6000 Spa, Srl, Fondazioni ed altro partecipato da un numero analogo di enti locali.
Glocus e l’Istituto Bruno Leoni hanno tracciato un percorso possibile per attuare un programma di denazionalizzazioni più ambizioso di quello sino ad ora annunciato dal Governo. Dopo tre anni di virtuale stasi nel programma di privatizzazioni si stava creando il clima e ponendo le basi per un rilancio della nazionalizzazione del patrimonio pubblico – quanto meno di quello ‘statale’ – sia delle partecipazioni societarie sia delle proprietà immobiliari. La caduta del Governo Letta ha provocato una frenata se non un vero e proprio arresto del programma.
Nel Def si prevede la cessione delle quote di minoranza in Poste Italiane, Enav e l’intera cessione della quota di SHT, holding di controllo della società operativa STMicroelectronics. Gli advisors sono al lavoro. È presto per effettuare stime. In una prima versione, si sarebbero dovute cedere anche quote di Enel e di Eni – come dichiarato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze – ma lo stesso presidente del Consiglio ha precisato in un’intervista al ‘Corriere della Sera’ che, per il momento, non se parla: Enel ed Eni apportano utili considerevoli alla pubblica amministrazione e i mercati sono tali che si potrebbe pensare ad una ‘svendita’. A mio avviso, anche il modesto programma delineato prende l’avvia da un’ottica ristretta ove non errata: fare cassa per ridurre lo stock di debito pubblico. Un obiettivo lodevole ma occorrerebbe uno schema molto più vasto (almeno 3-400 miliardi) di quanto preconizzato. Inoltre, lo scopo primario dovrebbe essere quello di ridurre la sfera pubblica e i lacci che comporta per l’economia italiana.
È uscito in questi giorni un saggio di un giovane professore aggregato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma III. Si chiama Cosimo Magazzino e si è dato un compito difficile: studiare – non a chiacchiere, ma sulla base di dati quantitativi – il nesso tra le dimensioni della macchina pubblica e la crescita dell’economia italiana dalla nascita del Regno d’Italia alla vigilia della crisi più recente. Il lavoro, “Government Size and Economic Growth in Italy: an Empirical Analysis Based on new Data (1861-2008)”, è apparso sull’ultimo fascicolo dell’International Journal of Empirical Finance (pp.38-54) e ha suscitato notevole interesse presso la Commissione Europea, la Banca centrale europea, l’Ocse ed il Fondo monetario; ossia coloro che, per dovere più che per diletto, studiano le nostre politiche ed i nostri conti. La conclusione è che in Italia non c’è una relazione lineare tra la dimensione del settore pubblico (misurata in termini di spesa pubblica in percentuale del Pil) e la crescita economica. In generale, negli ultimi vent’anni dell’analisi il nesso è una “curva a U invertita”: ciò vuol dire, in parole povere, che “riduzioni delle spese possono sveltire la dinamica del Pil”. Dallo studio si evince anche che negli anni del Regno Sabaudo, il “pareggio di bilancio” raggiunto per breve periodo ha rallentato l’aumento del prodotto nazionale.
Occorre tenerne conto ed aprire un dibattito, non passarlo sotto silenzio come si è fatto con l’Appello Politico agli Italiani dell’Osservatorio Internazionale Cardinal Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, pubblicato alcuni mesi fa dall’Editore Cantagallo. Pochi conoscono questo Osservatorio, intitolato all’expresidente del Pontificio Consiglio Justitia et Pax. Un’alta personalità ecclesiastica vietnamita che non lasciò i suoi fedeli alla caduta di Saigon e venne imprigionato in isolamento per diversi anni (nella sua cella un altoparlante suonava musica marziale 24 ore su 24). San Giovanni XXIII lo volle al suo fianco quando venne finalmente liberato perché contribuisse alla pace ed alla giustizia nelle aree più lontane del mondo. Il dicastero da lui diretto produsse, tra l’altro, il Catechismo sulla Dottrina Sociale della Chiesa. L’Osservatorio, composto da personalità di alto livello, ha redatto l’Appello perché vede nell’Italia un Paese smarrito, con un popolo alla ricerca di speranza. Le sue proposte sono articolate. Il volume (86 pagine) inizia con la visione di un popolo che ritorna a credere in sé stesso e delinea un nuovo patto costituzionale sostanziale. Contiene naturalmente proposte puntuali di politica istituzionale ed economica: da una legge elettorale per evitare un eccessivo premio di maggioranza a una riforma della giustizia che dia certezze a libertà di educazione, da un nuovo patto di solidarietà e di produzione a una politica di privatizzazioni che prenda l’avvio con quella della Rai.
Privatizzare la Rai vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Quello dell’età anagrafica: quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: il pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento superasse certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano, tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il “Partito Rai” vorrebbe tornare a tempi leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In alternativa, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora si potrebbero adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali, come già avviene con successo nel settore del cinema.
Quella della Rai è ‘la madre di tutte le privatizzazioni’ per il ruolo che ha l’informazione nel mercato dei beni e dei servizi. Se un tempo la statalizzazione della Rai poteva essere giustificata come monopolio tecnico da forze politiche non democratiche, il passaggio dall’analogico al digitale terrestre ha reso questo argomento risibile. Lo ha ribadito lo stesso Romano Prodi in un convegno a Bologna nel corso del quale ha ricordato i tentativi fatti nel 1997, falliti a ragione dell’opposizione del “Partito Rai”. In nessun Paese, neanche nelle dittature dell’Asia centrale, esiste una radio-tv di Stato con 15 canali; la stessa BBC (che ha governance ben differente da quella della Rai ed un pubblico mondiale dato che opera in inglese) ha soltanto cinque canali e pochissima pubblicità.
Fingere di tagliare aumentando le spese

Fingere di tagliare aumentando le spese

Mario Baldassarri – Panorama

Firmando la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def), Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno onestamente detto quattro verità. La prima verità è che il maggiore Pil stimato dall’Istat, che aveva indotto qualche buontempone a parlare di «maggiori margini di manovra», ha un peso del tutto irrilevante. Affiancato alla revisione al ribasso, sia della crescita che dell’inflazione, l’effetto Istat si esaurisce subito e dal 2016 in poi l’andamento del Pil è «inferiore» a quello previsto prima della rivalutazione.

La seconda è forse una verità contabile, che però pone domande e attende spiegazioni. Rispetto al Def di aprile, nella Nota di aggiornamento di settembre i dati del 2013 della spesa e delle entrate pubbliche sono stati cambiati in misura rilevante. Ad aprile il consuntivo per lo scorso anno riportava una spesa pubblica totale pari a 799 miliardi di euro balzata a 827 a settembre, con un aumento di 28 miliardi. Il totale delle entrate era pari a 752 miliardi balzato a 782, con un aumento di 30 miliardi. Senza la rivalutazione Istat del Pil la spesa sarebbe volata oltre il 52 per cento e le entrate avrebbero sfiorato il 50 per cento. I 28 miliardi di maggiori spese sono dovuti per 17 miliardi a spesa corrente al netto degli interessi, per 4 miliardi a minori spese per interessi e per 15 miliardi a maggiore spesa in conto capitale. I 17 miliardi in più di spesa corrente al netto degli interessi risultano per 15 miliardi alla voce «altre spese correnti» (?) che, per lo stesso anno 2013, passa da 61 a 76 miliardi di euro.I 15 miliardi in più delle spese in conto capitale sono dovuti per 11 miliardi a investimenti fissi lordi (nel 2013 abbiamo fatto più investimenti di quelli che risultavano a consuntivo ad aprile!) e 4 miliardi a contributi in conto capitale (abbiamo cioè erogato più fondi perduti?). I 30 miliardi in più di entrate risultano provenire per 18 miliardi da quelle tributarie (più 4 dalle dirette e più 14 dalle indirette) e per 12 miliardi da «altre entrate» (ma cosa sono le altre entrate?). In sintesi, abbiamo scoperto a settembre che, nel 2013, abbiamo avuto più Pil, più spesa pubblica e più tasse! Certo, ci potranno essere ragioni «tecnico-contabili», ma che queste spostino i numeri in modo così rilevante merita certamente «spiegazioni e approfondimenti».

La terza verità conferma la mistificatoria metodologia che si applica in Italia da oltre trent’anni quando si parla di tagli alle spese. Infatti, come si dimostra in tutti i Def, quando si parla di tagli alle spese ci si riferisce ai dati «tendenziali previsti» per gli anni futuri e scritti sulla carta. Non si fa cioè riferimento alla spesa storica e vera di quest’anno che è effettivamente «entrata» nell’economia. Pertanto, se quest’anno ho speso 100 euro, i tagli non sono riferiti a questi 100 euro, bensì alla previsione di spesa per il prossimo anno che magari è «stimata» (come? da chi?) pari a 130 euro. Allora se si propone un taglio di 20 euro rispetto a quei teorici 130, si sta riducendo l’aumento di spesa «previsto» di 30 euro, ma di fatto si aumenta la spesa da 100 a 110 euro!

La controprova di questo è data dagli stessi numeri della Nota di aggiornamento. Infatti, nel 2018 rispetto al 2013, la spesa totale «aumenta» di 69 miliardi (se ci si riferisce al dato del Def di aprile), e 41 miliardi (se ci si riferisce al dato di settembre), con dentro una spesa corrente al netto degli interessi che aumenta di 63 o 46 miliardi nei due casi. Quest’ultima differenza è tutta dovuta ai 15 miliardi di maggiori «altre spese correnti» scoperte per il 2013 tra aprile e settembre. Queste «altre spese correnti» rappresentano un calderone ignoto e intonso che cresce nei prossimi anni fino a poco meno di 80 miliardi all’anno. Cosa c’e dentro? Per contro, le entrate totali «aumentano» di 102 miliardi sempre in riferimento ai dati di aprile e di 72 miliardi rispetto a quelli di settembre. In sintesi, da qui al 2018, avremo più tasse, più spesa corrente, minori investimenti, nonostante la minore spesa di interessi sul debito.

Per questo è facile spiegare la quarta verità. In queste condizioni, è corretta e onesta la stima degli effetti della politica economica che vengono indicati in una tabella della Nota di aggiornamento (tav. II. 4 a pagina 18). Stima, però, talmente prudente e oggettiva da rappresentare quasi una dichiarazione di impotenza. Nella suddetta tabella si indica che:
– il bonus degli 80 euro (stimato a 7 miliardi invece dei precedenti 10) aumenterà il Pil dello 0,1 per cento all’anno fino al 2017 e zero nel 2018;
– la riduzione fiscale per le imprese determinerà un aumento di Pil dello 0,1 nel 2015 e nel 2016 e zero negli anni successivi;
– il resto della legge di stabilità ridurrà il Pil dello 0,1 per cento l’anno prossimo e avrà effetto zero sugli anni successivi;
– le quattro riforme «strutturali» (giustizia, pubblica amministrazione, competitività, Jobs act) avranno effetto zero nel 2015, attiveranno un aumento di Pil dello 0,2 nel 2016 e dello 0,4 dal 2017 in poi;
– nella stessa tabella, viene reiterata la famigerata clausola di salvaguardia, di tremontiana invenzione. Ma che cos’è? Semplice, ci si impegna, se i conti non tornano, a far scattare automaticamente una riduzione delle detrazioni e deduzioni fiscali. Si chiama «tax expenditure», ma i comuni mortali capiscono che, se le detrazioni si riducono, si pagheranno più tasse. Ebbene, questa clausola di salvaguardia, già incorporata nelle stime, riduce il Pil del 2016 dello 0,2 per cento, quello del 2017 dello 0,3 e quello del 2018 dello 0,2. Ecco allora che gli effetti della politica economica vengono indicati in una maggiore crescita del Pil dello 0,1 per cento nel 2015 e dello 0,2 negli anni successivi. Come direbbero gli anglofoni di casa nostra… peanuts, cioè bruscolini!

Questi sono i dati «ufficiali» scritti nero su bianco dal governo dieci giorni fa. Poi ci sono i numeri sparati come fuochi artificiali nelle conferenze stampa: una legge di stabilità di 30 miliardi, tagli di spesa per 16 miliardi, tagli di tasse per 18 miliardi ecc.. Ma questi numeri sono riferiti alle previsioni future o ai dati storici del 2013? Sono tutti in un anno o sono la somma dei prossimi tre o quattro anni? Solo con il testo finale della legge di bilancio sarà possibile avere una risposta. Nel frattempo… incrociamo le dita!