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Una dote ridotta

Una dote ridotta

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

Rispetto al target di 16 miliardi di tagli indicato nel Def di aprile, sarà una “spending” in formato ridotto quella che troverà posto nella legge di stabilità. A confermarlo è l’obiettivo minimo di 3 miliardi, come effetto sull’indebitamento netto Pa, che si sono dati i ministeri con le loro proposte di riduzione della spesa.

A sostenere il peso maggiore dei tagli sembrano destinati ad essere, ancora una volta, le Regioni e gli enti locali. Dopo aver deciso di azionare la leva del deficit per 11,5 miliardi, rimanendo comunque sotto il tetto del 3%, il Governo per completare la prossima legge di stabilità da 23-24 miliardi dalla fisionomia “espansiva” conta di recuperare almeno 10 miliardi dalla spending. E quasi la metà dei questa dote, ovvero 4-4,5 miliardi, dovrà essere garantita dai Governatori e dai sindaci. Questi ultimi avranno comunque in cambio un allentamento del Patto di stabilità interno per un miliardo. Il risultato dei ministeri, anche se dovesse essere superiore all’obiettivo minimo di 3 miliardi, appare quindi al di sotto delle aspettative, anche alla luce del pressing del premier per rendere operativa sulla maggior parte delle voci di spesa la regola del taglio secco del 3%. Regola che comunque in molti casi è stata recepita, come al ministero dell’Economia dove proprio con questo strumento sono fine nel mirino Agenzia fiscali e Guardia di finanza.

La mappa, ancora non definitiva, confezionata sulla base delle ipotesi di intervento mese a punto dai singoli dicasteri, e sulla quale sono chiamati a operare le scelte finali il premier Matteo Renzi e il ministro Pier Carlo Padoan, mette comunque in evidenza un atteggiamento non passivo come in passato rispetto alla necessità di scovare sprechi e spesa inefficiente. Non a caso le proposte di intervento arrivate a palazzo Chigi produrrebbe un effetto superiore ai 6 miliardi sul saldo netto da finanziare. Anche se con contributi diversi: molto più alto e con scelte non sempre semplici da parte di ministeri come il Lavoro e l’Istruzione che hanno elaborato un pacchetto di tagli non del tutto soft, e a volte non proprio mirati, come dimostra l’ipotesi di intervento sugli sgravi contributivi per la contrattazione di secondo livello; ridotto al minimo e con proposte di intervento non proprio numerose da parte dei ministeri della Salute e delle Infrastrutture.

In cinque anni pagheremo oltre 45 miliardi di tasse in più

In cinque anni pagheremo oltre 45 miliardi di tasse in più

Il Giornale

«Oltre 45 miliardi di euro di tasse in più in cinque anni. Le entrate tributarie nel nostro Paese correranno molto più del Pil e aumenteranno, complessivamente, tra il 2014 e il 2018, di 45,7 miliardi di euro». La previsione deriva dal rapporto del Centro studio di Unimpresa, basato sulla nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Il gettito raggiungerà quota 487,5 miliardi alla fine di quest’anno e crescerà costantemente, negli anni successivi, fino a raggiungere i 531,6 miliardi del 2018.

Già dalla fine di quest’anno, infatti, lo Stato incasserà 1,6 miliardi in più da imprese e famiglie, «un incremento lieve – sottolinea Unimpresa – lo 0,34% in più, ma che va nella direzione opposta rispetto all’andamento dell’economia, prevista in calo dello 0,3% secondo il Def approvato dal governo». Una doppia velocità che si registra costantemente anche nelle previsioni degli anni successivi. Nel 2015 tasse in crescita dell’1,27%, mentre il Pil dovrebbe salire solo dello 0,5%; nel 2016 rispettivamente tasse +2,68% e Pil +0,8%; nel 2017 gettito tributario in aumento del 2,19% e prodotto interno lordo in crescita dell’1,1%. Chiude il conto il 2018, quando le tasse saranno in aumento del 2,42%,mentre il Pil sarà ben più lento (+1,2%). In tutto, secondo il rapporto, nel quinquennio 2014-2018, le tasse pagate dai contribuenti in Italia arriverebbero a toccare 2.540,1 miliardi di euro.

«Ci sentiamo presi in giro, come imprenditori e come cittadini» afferma il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. «Si è perso tempo – aggiunge – avevamo segnalato subito, dopo la nascita di questo altro esecutivo delle larghe intese, la necessità di intervenire sul fisco: l’alleggerimento dei tributi è cruciale per sperare di portare il Paese fuori dalla recessione». Invece «i dati dimostrano che il dibattito sulle tasse è solo propaganda», commenta Longobardi, il quale conclude: «In questi giorni ascoltiamo esponenti della maggioranza e del governo di Matteo Renzi avanzare ipotesi di abbattimento del cuneo fiscale, ma il peso delle tasse è destinato a salire e le misure varate in questi ultimi mesi non hanno fatto altro che incrementare il carico sulle famiglie e sulle imprese».

Piccole misure senza ambizioni

Piccole misure senza ambizioni

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Il governo sta compiendo un errore che potrebbe costarci un altro anno (sarebbe il quarto consecutivo) di crescita negativa con conseguente, ulteriore aumento della disoccupazione. Nessun Paese industriale, almeno negli ultimi 70 anni, ha avuto una recessione tanto lunga. Se non cresciamo, il debito (già al 131,6% del Pil ) rischia di diventare insostenibile, almeno nella percezione degli investitori internazionali, che ne detengono oltre 600 miliardi. Se non ricominciamo rapidamente a crescere rischiamo una crisi finanziaria.

La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicata dal governo la scorsa settimana assume che la crescita miracolosamente aumenti di quasi un punto: dal -0,3 previsto per il 2014 a +0,6 nel 2015. L’Ocse invece prevede un misero +0,1. Da dove verrà quel mezzo punto di crescita in più? Previsioni ottimistiche sono un vecchio trucco per fare apparire più roseo il bilancio. Se la crescita non dovesse raggiungere il livello previsto dal governo anche l’obiettivo di un deficit inferiore al 3% verrebbe mancato, salvo una correzione dei conti in corso d’anno che in parole semplici vuol dire un aumento di imposte. E comunque il ministro Padoan ha detto che già nella legge di Stabilità gli ammortizzatori sociali «saranno coperti dalla spending review e da alcune misure di efficientamento delle entrate». Ecco come si sta sotto il 3%: con un aumento della pressione fiscale!

Deve essere chiaro che c’è un solo modo per sperare di poter riprendere a crescere: ridurre la pressione fiscale. Abbassare le tasse sul lavoro pagate dalle imprese italiane al livello di quelle tedesche significa tagliarle di 40 miliardi. Tagliare immediatamente le spese di una cifra corrispondente non è possibile perché per ridurre la spesa serve tempo. Se solo si fosse cominciato prima! Nei prossimi due, tre anni quindi supereremmo la soglia del 3%. Se sforiamo, entreremmo nella procedura prevista per chi viola le regole europee, ma senza effetti significativi se già avessimo approvato un programma vincolante di tagli alla spesa e varato per decreto una riforma seria del mercato del lavoro. È ciò che fece la Germania nel 2003 quando Schröder varò la sua riforma del lavoro. La Francia ha annunciato per il 2015 un deficit del 4,3%, ma finora Hollande non ha fatto alcuna riforma significativa.

Certo, è più facile per il ministro dell’Economia fare poco o nulla cercando di resistere sotto il 3%, magari con un aumento mascherato della pressione fiscale, e farsi applaudire nei consigli europei. Un piano complesso e innovativo di tagli di tasse, riduzioni di spesa e riforme richiederebbe un massiccio investimento di credibilità politica. Ma è l’unica via per salvare il governo di Matteo Renzi e, ciò che è più importante, l’Italia.

I nuovi 51 miliardi di tasse: pane, latte e ancora case

I nuovi 51 miliardi di tasse: pane, latte e ancora case

Franco Bechis – Libero

È un giochino che ormai procede da quattro anni buoni di finanza pubblica. Dall’ultimo anno del governo Berlusconi in poi: lo fece Giulio Tremonti nel 2011, l’ha ripetuto Mario Monti nel 2012 e visto che non c’è due senza tre, è toccato pure ad Enrico Letta nel 2013. Il giochino è questo: si scrive una super manovra dettata dall’Europa, ma non si ha voglia né coraggio di presentare ai propri elettori un salasso senza precedenti. Quindi per fare tornare i numeri si infilano molte norme in assoluta libertà, ben sapendo che in gran parte non daranno nessuna entrata o risparmio di spesa reale. Lo sanno bene i ministri dell’Economia italiani, ma ovviamente lo capiscono anche i super-controllori dell’Ue a cui bisogna chiedere il via libera per ogni manovra economica. Così come finisce il giochino? Con l’inserimento di una clausola di salvaguardia: a fronte di norme-fuffa si mette una copertura vera in caso di fallimento (pressoché certo) delle prime. Scattano sempre l’anno successivo, nella speranza di avere tempo nei 12 mesi di trovare altre soluzioni buone. Nelle ultime tre manovre era previsto in caso di fallimento delle previsioni che scattassero due aumenti delle aliquote Iva e nell’ultima versione il taglio lineare delle detrazioni e deduzioni fiscali.

Il giochino deve essere piaciuto anche a Matteo Renzi, perché ha infilato nella manovra che sta per presentare una superclausola di salvaguardia. Agli italiani presenterà in pompa magna le sue splendide supercazzole. Agli sceriffi della Ue invece dice: «Non state a perdere troppo tempo sul mio libro dei sogni. Perché se tanto non funziona ho una carta di riserva sicura che stangherà gli italiani con nuove tasse per 51,6 miliardi di euro in un triennio». L’avvertimento ai signori che contano è scritto nella nota di aggiornamento al Def appena presentata dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Nella legge di Stabilità 2015 è ipotizzata una clausola sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette per un ammontare di 12,4 miliardi nel 2016 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Gli effetti di tale clausola, genererebbero una perdita di Pil pari a 0,7 punti percentuali a fine periodo dovuta da una contrazione complessiva dei consumi e degli investimenti per 1,3 punti percentuali e un aumento del deflattore del Pil di pari importo». Una botta pazzesca sulle tasche degli italiani. Su cui ovviamente il governo minimizza, come se la fuffa fosse quella scritta per gli sceriffi della Ue e la verità invece quella contenuta nelle norme che accarezzano la pancia all’elettorato. «Ma è così», assicura il viceministro dell’Economia, Luigi Casero, che su quella plancia di comando siede ormai da molti anni, attraversando i vari governi, «quando mai sono scattate davvero le clausole di salvaguardia? Qualcuno ha toccato le detrazioni, che per altro sono state sostituite proprio da questa formula che trovate nel Def?».

No, la clausola delle detrazioni non e scattata. Ma quella sull’Iva sì, almeno in parte. Un paio di aumentini sono stati rinviati di qualche mese, ma alla fine grazie al giochino ci troviamo con l’aliquota al 22% invece che al 20%. Questo dimostra che ci sono ottime probabilità che quella clausola di salvaguardia possa entrare in vigore, anche perché fin qui di previsioni economiche il governo Renzi non ne ha azzeccata nemmeno mezza, e il terreno è proprio il principale tallone di Achille dell’esecutivo. Che cosa colpirà quella possibile stangata da 51,6 miliardi di euro? Le aliquote Iva marginali, e cioè quelle al 4% e quelle al 10%, che sono le uniche in grado di fornire incassi notevoli. Rischiano così di rincarare sensibilmente quasi tutti i generi alimentari: latte e latticini, farina, riso, pasta, pane, olio, occhiali da vista, case assegnate dalle cooperative, mense scolastiche (tutti questi sono al 4% oggi), e poi ancora yogurt, birra, uova, miele, tè, spezie, bevande al bar, elettricità, biglietti di cinema, teatro, concerti, servizi di trasporto pubblico (hanno tutti l’Iva al 10%).

Oltre l’Iva, secondo quanto scritto nell’aggiornamento del Def, si rischia un aumento anche delle imposte indirette. Di che si tratta? Tolta l’Iva che è già citata a parte, le principali imposte indirette vanno a toccare tanto per cambiare il mercato della casa: sono le imposte di registro, quella ipotecaria e quella immobiliare. Nell’elenco ci sono pure le accise, che significa nuovo aumento della benzina. Scatteranno? Qualcuna sì di sicuro. Anche perché c’è un piccolo trucco appena perfezionato che consentirà a chi sta al governo (presumibilmente Renzi) di mettere nuove tasse e poi dire che la pressione fiscale con lui non è aumentata. Il trucco è quello del recente belletto ai conti pubblici fatto per calcolare nel Pil il fatturato delle belle di notte, delle spese in armamenti e dello spaccio di stupefacenti. Con quella manovra (ma nessuno se ne è accorto) sono state cambiate anche le poste dell’entrata e magicamente già nel 2014 (e per gli anni successivi) la pressione fiscale è scesa di 0,3 punti percentuali senza levare nemmeno una tassa…

Pareggio anticipato, stretta su 3mila Comuni

Pareggio anticipato, stretta su 3mila Comuni

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Mentre allontana al 2017 il pareggio di bilancio complessivo, la nota di aggiornamento al Def lo anticipa al 2015 per quel che riguarda Regioni ed enti locali. Nelle 144 pagine del documento, questa mossa occupa solo quattro righe, ma può avere effetti dirompenti per quasi 3mila Comuni.

Il pareggio di bilancio in salsa locale, finora in programma dal 2016, impone di cancellare il rosso sia dalla parte corrente, fatta da tributi, trasferimenti e tariffe sul lato delle entrate, e dalle spese non di investimento su quello delle uscite, sia dal saldo finale di bilancio: il tutto va garantito sia per la competenza, cioè per le entrate e le uscite scritte nei bilanci, sia per la cassa, cioè peri flussi finanziari realizzati davvero. L’applicazione tour court di questi obblighi, secondo le elaborazioni che il Sole 24 Ore ha avuto modo di consultare e che sono al centro del confronto fra i tecnici dell’Economia e di Ifel, significherebbe chiedere una manovra aggiuntiva da 1,5 miliardi a quasi 3mila Comuni. Un’introduzione “a tappe” delle nuove regole, partendo dal pareggio di bilancio di parte corrente per rimandare al 2016 quella sui saldi finali, chiederebbe invece circa un miliardo a 2mila Comuni (fra i quali la presenza di qualche grande città aumenta la popolazione interessata).

Il nuovo calendario scritto nel Def per far partire sul territorio l’articolo 81 della Costituzione votato dal Parlamento nel 2012 è però solo una delle variabili in gioco nella costruzione della manovra 2015 per gli enti locali. Sul piatto delle buone notizie c’è la “liberazione” dai vincoli del Patto di stabilità di un miliardo di euro per gli investimenti, mentre sul lato di quelle cattive per i sindaci, ma ottime per l’Economia, c’è l’ingresso in campo della riforma della contabilità: queste regole, che impongono ai Comuni di accantonare un fondo di garanzia proporzionale alle loro difficoltà di riscossione, blocca nei conti degli enti circa tre miliardi di euro, diminuendo la capacità di spesa dei sindaci e quindi dando una mano al bilancio pubblico.

Su questo punto, secondo i Comuni l’impatto del fondo potrebbe addirittura superare i 3,5 miliardi, e anche queste cifre sono al centro di un confronto con Via XX Settembre. Nella manovra in cantiere, i tre elementi sono collegati. Il miliardo svincolato per gli investimenti, e ribadito ancora ieri dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, è il primo passo per il «superamento» del Patto di stabilità interno , reso possibile proprio dall’avvio della riforma della contabilità (con i suoi fondi di garanzia) e dalla prospettiva del pareggio di bilancio.

Naturalmente, quel che conta è il risultato finale per la finanza pubblica: se il fondo di garanzia si rivela più ricco del previsto, quindi, ci potrebbero essere spazi per un pareggio di bilancio più graduale, magari limitato nel 2015 ai saldi di parte corrente. Sulle scelte finali potrebbero pesare anche le prospettive di tenuta del sistema. A differenza del Patto tradizionale, sia la riforma della contabilità sia l’obbligo del pareggio di bilancio concentrano tutti gli sforzi sui Comuni che oggi hanno più difficoltà nei bilanci: la mossa è corretta per il “risanamento” della finanza pubblica, ma senza un dosaggio corretto solleva più di un rischio sul piano dell’applicazione effettiva.

E ora spunta lo spettro dell’aumento dell’Iva

E ora spunta lo spettro dell’aumento dell’Iva

Il Giornale

Nuova batosta in arrivo. I conti non tornano. E così per il pareggio di bilancio nel 2017 il governo ha previsto la clausola di salvaguardia da introdurre nella legge di stabilità che ipotizza l’aumento dell’Iva. Che cosa significa? «Una perdita di Pil pari a 0,7 punti percentuali a fine periodo dovuta a una contrazione complessiva dei consumi e degli investimenti per 1,3 punti percentuali e un aumento del deflatore del Pil di pari importo», recita la Nota di aggiornamento al Def trasmessa dal governo al Parlamento. La legge di stabilità, riporta il documento, «conterrà una clausola di salvaguardia automatica con la quale il governo si impegna ad assicurare la correzione necessaria a garantire il raggiungimento del saldo strutturale di bilancio in pareggio a partire dal 2017». In particolare, «è ipotizzata una clausola sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette per garantire il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine per un ammontare di 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi e 21,4 miliardi nel 2017 e nel 2018».

Insomma, la stangata sui consumi è assicurata. Ed è subito rivolta tra le associazioni di categoria, da Confcommercio a Confesercenti. «Un eventuale nuovo inasprimento della pressione fiscale, già a livelli da record mondiale, attraverso l’ennesimo aumento delle aliquote Iva e delle imposte indirette, acuirebbe la crisi strutturale che caratterizza il sistema Italia», ha affermato il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. «In Italia è stato commesso l’errore di aumentare la pressione fiscale in un contesto già depresso. I margini delle imprese – ha sottolineato – sono al limite della sopravvivenza, i redditi e la ricchezza delle famiglie hanno subito una riduzione di entità senza precedenti nella nostra storia economica». «Mantenere il raggiungimento del pareggio di bilancio è un obbligo – ha aggiunto Sangalli -, ma è altrettanto evidente che per raggiungere questo obiettivo la via da seguire è tagliare la spesa pubblica improduttiva, visto che ci sono circa 80-100 miliardi di spesa ritenuti aggredibili».

Il ricorso alla clausola di salvaguardia è stato bocciato senza mezzi termini anche dalla Confesercenti. «Sarebbe una mossa sbagliata, non è questa la strada», ha detto il presidente Marco Venturi, che ricorda come la categoria si sia già lamentata per i due precedenti aumenti dell’Iva al 21% e al 22%. «In una situazione di crisi, con i consumi che vanno male e il commercio in fortissima difficoltà, se l’Iva dovesse aumentare, le famiglie sarebbero indotte a stringere ancora di più i cordoni della spesa. E se non ci sono i consumi si potrebbe verificare un’ulteriore frenata della crescita». Occorre piuttosto, secondo Venturi, «creare condizioni di fiducia, altrimenti si rischiano ripercussioni anche sul mercato del lavoro e dell’occupazione». Quanto alla possibile disponibilità del Tfr in busta paga Venturi commenta «non so a cosa possa servire se non a pagare più Iva».

Fortemente critici anche gli esponenti di Forza Italia e Ncd. «La clausola sull’Iva salvaguarda la Ue, salvaguarda il governo, ma non le tasche dei cittadini», ha scritto su Twitter il deputato di Fi Luca Squeri. Sulla stessa lunghezza d’onda Raffaello Vignali, responsabile Sviluppo economico del Ncd: «L’Ue smetta di guardare solo ai bilanci pubblici. L’ipotesi di una clausola di salvaguardia da inserire nel Def resta un’eventualità preoccupante, un clamoroso autogol per il Paese».

Conti pubblici, scompare la spending review. Nel Def i tagli del 2015 si fermano a 5 miliardi

Conti pubblici, scompare la spending review. Nel Def i tagli del 2015 si fermano a 5 miliardi

Mario Sensini – Corriere della Sera

Nelle 144 pagine del documento viene citata solo un paio di volte, e sempre per inciso. E nei numeri del bilancio si vede assai poco, anzi quasi per niente. Della «spending review», a cui il governo Renzi affidava il finanziamento di buona parte dei nuovi programmi di spesa, a cominciare dal bonus degli 80 euro ai lavoratori dipendenti, si è persa la traccia. Nella Nota di Aggiornamento al Documento di economia e finanza, varata martedì, quasi non se ne parla, mentre il bilancio programmatico, che tiene conto delle misure da varare con la prossima Legge di Stabilità, prevede solo una minima riduzione della spesa pubblica. La correzione dovuta alle nuove misure di bilancio, per l’aggregato della spesa della pubblica amministrazione, è pari ad appena 0,3 punti di Pil. Una misura molto lontana dalle attese sulla spending review.

I nuovi tagli del 2015 si fermano a 5 miliardi di euro, quando solo fino a poche settimane fa si ipotizzava, con la spending review, una sforbiciata di almeno 13 miliardi, obiettivo già ridotto rispetto a quello di 15-16 da cui si era partiti. Nel 2016, addirittura, la spesa tendenziale e quella programmatica coincidono, quindi non è previsto nessun taglio. Però, per il 2016, è spuntata fuori una clausola di salvaguardia che prevede un aumento dell’Iva e delle imposte indirette per 12,4 miliardi destinata a garantire il raggiungimento del pareggio, che nel 2017 sale a 17,8 e nel 2018 a 21,4 miliardi di euro.

Non è detto che finisca così, ma allo stato c’è un aumento delle tasse al posto di quello che avrebbe dovuto essere un taglio di spesa. Sicuramente ha inciso la necessità di offrire garanzie solidissime a Bruxelles, già preoccupata per la decisione di rallentare il risanamento: uno scatto automatico dell’Iva o delle accise deciso già ora con la legge di bilancio tranquillizza molto più di un taglio di spesa scritto solo sulla carta. Può esserci anche un’altra ragione: un aumento delle tasse di quella dimensione, come dice il governo, ridurrebbe il Pil di 0,7 punti l’anno, ma un pari taglio della spesa farebbe danni quasi doppi, alla crescita. E oggi non sarebbe un buon segnale per un governo che, per avere più tempo per risanare, deve convincere Ue, partner e mercati che questa sua politica economica porterà il Paese a crescere molto di più in futuro.

Fatto sta che oggi almeno nelle carte la revisione della spesa si è sgonfiata. La manovra 2015, cioè i soldi del bonus, gli sgravi Irap, i fondi alla scuola e ai Comuni, i nuovi ammortizzatori sociali, si farà per 11,5 miliardi in deficit. Altri 3 miliardi nel 2015 verranno, spiega la Nota, dai risparmi di spesa già decisi, che quest’anno porteranno 2,1 miliardi. Poi ci sono i tagli ai ministeri. Si parlava di un 3% del budget, per almeno un paio di miliardi, ma dalle nuove carte del governo vengono fuori non più di 240 milioni. E in un biennio. Di più, sui tagli, non si dice.

Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale

Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

La Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014, approvata dal Consiglio dei Ministri del 30 settembre, è stata diffusa in sintesi (nove pagine essenzialmente di diapositive per la illustrazione alla stampa) il primo ottobre e posta (nel suo testo integrale di circa 135 pagine) sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Occorre dare atto che il documento non solo è presentato in modo pregevole ma aiuta il lettore differenziando graficamente le misure ‘in itinere’ da quelle che rappresentano un ‘focus’ per le decisioni di politica economica. La Nota sarà in gran misura la base della legge di stabilità e questo commento riguarda due suoi aspetti:
a) l’analisi della situazione attuale con pertinenti previsioni a medio termine;
b) le indicazioni di politica economica che se ne possono ricavare.
L’analisi della situazione attuale corrisponde, in linea di massima, a quella delle principali organizzazioni internazionali (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, OCSE), dei 20 principali istituti internazionali privati di previsioni macro-economiche e dei maggiori istituti di ricerca italiani (Cer, Irs, Prometeia) operanti in questo campo. In estrema sintesi, siamo al sesto anno di una recessione contrassegnata da leggere indicazioni di ripresa spesso seguite da nuovi tassi di crescita negativa. Un dato che caratterizza l’intera eurozona, anche se presenta aspetti più severi della media in Italia a ragione della fragilità di un tessuto imprenditoriale costituito in gran misura da piccole e medie imprese con elevato tasso di autofinanziamento e difficile accesso al credito.
In materia di analisi del quadro attuale, la critica principale è che non si sottolinea adeguatamente come la situazione dell’eurozona, e in particolare quella dell’Italia, dipenda in larga misura dalla politica economica e monetaria americana. Un fenomeno analogo si è verificato alla fine degli anni Novanta, ai tempi di quella che è stata chiamata ‘la crisi asiatica’. Da allora, i Paesi asiatici si sono, almeno in parte, svincolati dalla politica economica americana applicando politiche di cambio flessibili. All’interno dell’eurozona questo non è né fattibile né concepibile. Tuttavia, in generale l’eurozona potrà leggermente avvantaggiarsi dal leggero riallineamento del cambio tra euro e dollaro. Questo sortirà però effetti asimmetrici tra i vari Paesi dell’area dell’euro a ragione delle differenze in composizione merceologica e direzioni degli scambi totali (importazioni ed esportazioni).
L’Italia, in breve, avrà vantaggio modesti a ragione di un orientamento dell’interscambio fortemente orientato sugli altri Paesi dell’eurozona. La dipendenza dalla politica economica e monetaria americana comporta, comunque, un elemento di incertezza sulle scelte di politica economica europea, e in particolare italiana, di cui la Nota avrebbe avuto tenere maggiore conto delineando una risposta flessibile all’andamento del quadro internazionale (in specie al non inverosimile aumento, nei prossimi mesi, dei tassi d’interesse a medio e lungo termine negli Stati Uniti) e all’accentuarsi di riduzione dei prezzi nel resto dell’eurozona così come all’associato timore di una deflazione che aggravi ulteriormente la situazione dell’economia reale.
Dove la Nota delude è nella parte propositiva poiché non delinea né una strategia differente da quella degli ultimi tre anni (che con un aggravamento della pressione tributaria e contributiva ha accentuato le determinanti interne della recessione e dei segnali di deflazione in Italia) né una tattica che tenga conto degli elementi di incertezza provenienti dal resto del mondo (specialmente dagli Stati Uniti) sino al 30 settembre e da ieri primo ottobre anche dall’interno dell’eurozona (con la decisione della Francia di non considerarsi vincolata al limite del 3% del Pil per l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni. Non solo. Le principali misure per la crescita sembrano essere un’estensione a una più vasta platea del ‘voucher’ o ‘bonus’ di 30 euro in busta paga da aumentare, per il settore privato, con un ipoteco versamento di parte del Tfr al fine di favorire una crescita dei consumi. Sino ad ora, le analisi anche econometriche rilevano che il ‘voucher’ o ‘bonus’ non ha avuto alcun effetto apprezzabile. L’operazione, peraltro non precisata, relativa al Tfr avrebbe implicazioni disastrose soprattutto per le piccole e medie imprese nonché sulla previdenza integrativa, e i suoi ipotetici impatti sulla domanda aggregata sono quanto meno dubbi.
È urgente delineare una strategia alternativa. Essa deve essere caratterizzata su quello che può essere chiamato ‘uno sgabello’ a tre pilastri:
– una riduzione della pressione fiscale sul lavoro (Iperf) e sull’impresa (Irap) di circa 40 miliardi da attuarsi già nel 2015;
– una riduzione della spesa iniziando dai 20 miliardi individuati dal commissario alla Spending Review Carlo Cottarelli e dalla sua équipe (che includeva la Ragioneria generale dello Stato) nella recente operazione di ‘revisione della spesa’;
– un rilancio degli investimenti pubblici e privati come individuato con grande chiarezza nel rapporto di Chatham House Building Growth in Europe Innovative Financing for Infrastructure datato settembre 2014 , tenendo conto che esiste notevole liquidità, specialmente presso le famiglie, alla ricerca di investimenti di lungo periodo.
Una strategia di questa natura porterebbe a superare, almeno temporaneamente, il vincolo relativo all’indebitamento delle pubbliche amministrazioni rispetto al Pil ma avrebbe il vantaggio di riattivare la crescita, facendone diventare l’investimento il suo motore, e di avere un buon grado di flessibilità per rispondere a evoluzioni della politica economica e della situazione americana.
Italia in recessione e senza lavoro

Italia in recessione e senza lavoro

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

L’Italia avrà un deficit pari al 3% del prodotto interno lordo per quest’anno e del 2,9 nel 2015. Che nel 2014 la tanto attesa ripresa dell’economia non fosse possibile, al di là di qualche piccolo segnale positivo, lo ha confermato ieri sera l’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) 2014-2016, approvato dal Consiglio dei ministri. Del resto le primissime stime dell’Istat diffuse ieri indicavano un dato negativo del Pil anche per il terzo trimestre di quest’anno.

In base alle nuove stime di Palazzo Chigi, il rapporto tra debito e Pil si attesterà al 131,7% nel 2014 e al 133,4 nel 2015: il pareggio strutturale di bilancio slitta così al 2017, un anno in più rispetto alle previsioni del Def illustrate dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ad aprile. Per quanto riguarda il Pil, il governo Renzi ipotizza nel 2014 un dato negativo (-0,3%), per poi crescere dello 0,6% il prossimo anno grazie «all’impulso positivo della Legge di Stabilità», spiega il ministro Padoan secondo il quale nel Def il tasso di disoccupazione si attesterà al 12,6% nel 2014 e al 12,5% nel 2015.

Altre cattive notizie per l’occupazione vengono dall’Istat che «nonostante qualche segnale positivo», non vede «nel mercato miglioramenti significativi». Preoccupa soprattutto il tasso della disoccupazione giovanile: ad agosto è pari al 44,2% (+ 1% rispetto a luglio e +3,6 nel confronto tendenziale), facendo così registrare il peggior risultato dal 1977. Piccolo segnale positivo arriva dal tasso di disoccupazione generale che ad agosto si attesta sul 12,3%, facendo segnare una piccola diminuzione in termini congiunturali (0,3) e rispetto agli ultimi 12 mesi (0,1): i senza lavoro sono 3 milioni e 134 mila (82 mila in meno rispetto al mese precedente). In pratica ci sono 32 mila occupati in più rispetto a luglio, fa notare il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, e il numero dei disoccupati diminuisce del 2,6%.

Altro indicatore che spinge l’Italia in deflazione è l’indice nazionale dei prezzi al consumo che a settembre diminuisce dello 0,3% rispetto ad agosto e dello 0,1 se lo si paragona a settembre 2013. In questo quadro a dir poco negativo il Cnel definisce «una ipotesi irrealizzabile» una discesa del tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi (7% nel 2007) perché questa operazione «richiederebbe la creazione da qui al 2020 di quasi 2 milioni di posti di lavoro».