deficit

Terno perso

Terno perso

Davide Giacalone – Libero

La pressione fiscale sarebbe dovuta scendere, sia per promesse fatte che per convenienza, invece è salita. La spesa pubblica sarebbe dovuta diminuire, invece è cresciuta. Il deficit avrebbe dovuto ridursi, invece è aumentato. Sono questi i tre dati che se ne infischiano delle chiacchiere. I tre numeri con cui fare i conti. Anche perché, se si fa finta di niente, sono tre piaghe già infette, ma destinate a peggiorare.

Della pressione fiscale, salita dal 43,4 del 2014 al 43,5 del 2015, hanno parlato in tanti. Con animo mesto. Molti, però, hanno dimenticato due dettagli: a. l’indice misura la pressione totale sulla ricchezza prodotta, ma non tutti pagano tutte le imposte e tasse, il che vuol dire una pressione che supera il 50% in capo al parco dei paganti; b. per far tornare i saldi, fra gettito e spesa pubblica, il governo ha promesso di aumentarle ancora. Di quanto? Presto detto: il differenziale fra gli interessi da pagare (grazie alla Banca centrale europea in netto calo), sul debito pubblico, e la crescita del prodotto interno lordo, che il governo ora stima allo 0,7%, con un tasso d’inflazione che, se va bene, si collocherà all’1% (ma al momento siamo ancora in deflazione, quindi è ottimistico), quel differenziale è di circa 3 punti di pil. E si tratta di un calcolo ottimistico. Fin troppo. Quei 3 punti o sono tagli della spesa o sono coperti da gettito fiscale.

Veniamo alla spesa, dunque. Sono anni che ci rintontoniamo con i tagli. Li abbiamo definiti lineari o mirati, considerandoli macelleria o chirurgia, poi li abbiamo chiamati in inglese (spending review), che fa più fico, infine abbiano nominato cinque successivi commissari, incaricati di programmarli e praticarli. A esito di questa interminabile ammuina, la spesa cresce. Un tempo si dava tutta la colpa agli oneri del debito, che da venti anni bruciano gli avanzi primari. Ma da un paio d’anni quegli oneri diminuiscono, pur restando enormi (figli dell’enorme debito). Allora, dove se ne va tutta questa spesa, crescente? Scorre nei canali della spesa corrente, sommando interessi sul debito, pensioni, stipendi e consumi intermedi della pubblica amministrazione. Del debito si è detto (abbatterlo con le dismissioni di patrimonio pubblico sarebbe saggio, ma qui vediamo solo vendite destinate a coprire la spesa!). Sulle pensioni si è già tagliata la spesa, ma futura, di quelli che ancora non la prendono, mentre su quella presente si attende che Tito Boeri, dall’Inps, presenti qualche idea. Gli stipendi aumenteranno, sia perché aumentano le assunzioni, sia perché anche gli scatti automatici sono fermi da anni. In quanto ai consumi della pubblica amministrazione, non ricordo più da quanti anni sento dire che le stazioni appaltanti dovrebbero diminuire drasticamente, gli acquisti debbano essere centralizzati e così via annunciando. Effetti reali: tanti convegni. E anche tanti numeri dati a caso, perché dietro molti risparmi sbandierati si nasconde uno spostamento delle voci di spesa.

A tutto questo aggiungete che i mitici 80 euro in busta paga altro non sono che una spesa. Il governo se ne lamenta, perché vorrebbe contabilizzarli fra gli sgravi fiscali. Gema pure con comodo, ma le regole della contabilità sono chiare: una roba che non è permanente e che non è oggettiva e generale (un autonomo che guadagna meno di un dipendente non ha visto e non vedrà gli 80 euro), non è uno sgravio, ma un regalo. Il governo ha scelto un preciso pezzo della società e gli ha regalato dei soldi, il che comporta, ogni anno, una copertura pari a 10 miliardi. Sicché non si stabilizzano, non si allargano e la spesa cresce. Così anche il deficit. Che forse è il punto più delicato, sicché qui lo scrivo e che nessuno lo legga: non solo è cresciuto al 3%, segnando un +0,1 rispetto al 2013, ma nel 2014 sarebbe dovuto scendere al 2,6. Quindi, rispetto al programmato, è cresciuto dello 0,4. E che sia veramente al 3% è un articolo di fede cui tutti hanno convenienza a credere, perché l’Unione europea sa bene che avviare una procedura d’infrazione può avere effetti disastrosi, ma cui nessuno crede.

La settimana prossima vedremo i conti del Def (documento di economia e finanza), ma già immagino quel che si dirà: il deficit non cresce. Peccato che dovrebbe quasi dimezzarsi, scendendo all’1,7. Il deficit è la contabilizzazione, in corso d’anno, del maggior debito l’anno successivo. E un Paese con un debito mostruoso dovrebbe farlo scendere, non salire. Sappiamo tutti cosa è stato detto alla Commissione europea: se le cose dovessero andare storte compenseremo, con nuovo gettito fiscale (Iva, in primis). Ebbene: le cose sono storte. È incosciente un governo che prova a negare l’evidenza e continua a far propaganda a tre palle un soldo (naturalmente a debito). È sciocco supporre che si possa risolvere la faccenda dando tutte le colpe al governo (80 euro e assunzioni sì, però). Ma è perso un Paese che supponga di scansare la realtà producendosi nella tarantella delle polemicuzze da cortile.

Potere dell’immaginazione

Potere dell’immaginazione

Davide Giacalone – Libero

Evitiamo di passare dal rigorismo immaginario all’altrettanto immaginario espansionismo. Gli accademici del sentito dire hanno già maledetto qualche milione di volte la dottrina eurorigorista. Peccato che la spesa pubblica continui a crescere (ottime le considerazioni di Alberto Mingardi). Hanno invocato un maggiore deficit, con l’impareggiabile festival della “flessibilità”. Peccato che assieme al deficit, mai mancatoci, cresce il debito, assieme al debito il suo costo, il che porta in alto le tasse. Hanno predicato che l’Unione europea sia la landa della lesina. Peccato che nel frattempo si siano sviluppati stimoli enormi e che l’operazione Ltro abbia ristretto la suicida divaricazione degli spread. Ora, però, si rischia il ribaltamento dell’immaginazione.

Leggo che secondo il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, dopo il varo del Quantitative easing, è bene che le famiglie spendano di più e le imprese maggiormente investano. No, non funziona così. Non basta la pioggia, che cade dal cielo, per passare al raccolto. Dopo anni d’impoverimento non basta dire: sentitevi ricchi e scialate.

Sul lato delle famiglie i dati ci dicono che la forbice s’è allargata. C’è una parte del ceto medio che ha contratto i consumi per potere aumentare il risparmio. Condotta suggerita non solo dalla paura, ma dalla razionale e contabilizzata constatazione che il governo continua a togliere ricchezza tassando il patrimonio più diffuso: la casa. E tassa senza neanche avvertire per tempo. Quindi meglio essere pronti. E c’è un’altra parte del ceto medio che è smottato nella precarietà, trasformando la paura in terrore della povertà. A tutti loro non basta dire: spendete. Perché c’è chi non può e chi non si fida. Si devono prendere i proventi del QE, che porta minore spesa per il debito, unirli a politiche di contenimento e riqualificazione della spesa e tradurli in sgravi fiscali sicuri e permanenti. Altrimenti son chiacchiere.

Sul lato imprese sarà bene ricordare che non veniamo mica da anni in cui sia scarseggiata la liquidità, nei mercati. Anzi, era ed è abbondante. Qui scarseggia il mercato interno (vedi sopra, circa i consumatori) e scarseggia il credito. L’altro programma espansionista, sempre di marca Bce, è il Tltro, finalizzato a fornire liquidi da trasferire alle imprese. Ma da noi rischiano di fermarsi in banca, per debolezza sia delle banche (dal punto di vista patrimoniale) che dei clienti (dal punto di vista dell’affidabilità). Scarseggia anche la certezza del diritto e, tanto per dirne una, dopo mesi di discussioni sulla legislazione del lavoro, ancora oggi un imprenditore non sa in quale regime fiscale e regolamentare assumere. Quindi aspetta. Abbondano, invece, la pressione fiscale e la perversione burocratica. Se non si mette mano a queste cose gli investimenti non ci saranno, o non nella quantità e diffusione tali da lasciare intendere che la ripresa è una realtà, non uno slogan.

Ergo, evitiamo di prenderci in giro da soli. L’operazione della Bce è ottima, per giunta senza limiti di tempo e quantità. Chi si ferma all’80% delle garanzie nazionali non coglie la portata rivoluzionaria del 20% federato. Un passaggio storico. Ma, oltre a essere tutto bancario, che già non è bello, è escluso che provochi quel che si vorrebbe far credere. La saggezza popolare diceva: aiutati che dio ti aiuta. E qui, comunque, non c’è alcun dio intento ad aiutare.

Il governo e la psicosi da decimale: basta poco per sballare

Il governo e la psicosi da decimale: basta poco per sballare

Franco Mostacci – Il Fatto Quotidiano

Molto si è detto sull’opportunità di fissare un valore massimo di indebitamento rispetto al Pil. Se l’Italia sfora il tetto del 3 per cento, la Commissione europea avvia la procedura per deficit eccessivi e si rischia di perdere i possibili benefici derivanti dalle nuove regole sulla flessibilità negli investimenti. Nella Nota di aggiornamento al Def il governo ha previsto per il 2014 un indebitamento netto della pubblica amministrazione di 49,212 miliardi di euro e un Pil nominale di 1.626,516 miliardi di euro (+0,5% sul 2013). Il rapporto tra le due grandezze è 3,03%, arrotondato a 3%. Con questi numeri il vincolo imposto dal Patto di stabilità e crescita sarebbe rispettato. La stima del Pil nominale appare, però, troppo ottimistica. Alla luce di una flessione del Pil reale (-0,4%) e di un’inflazione al consumo di 0,2%, è plausibile ritenere che il Pil nominale rimanga sugli stessi livelli dello scorso anno e non superi i 1.620 miliardi. Il rapporto deficit/Pil ne risentirebbe ben poco: perfino una leggera diminuzione non sarebbe comunque sufficiente a far scattare il fatidico decimale in più.

Diverso è il discorso se è l’indebitamento ad essere peggiore del previsto. Il margine a numeratore è, infatti, di appena 200 milioni. Le entrate per il 2014 dovrebbero essere di 786,1 miliardi (+0,5% rispetto al 2013), per il 90% dovute a imposte e contributi. I dati disponibili, aggiornati a novembre, evidenziano 600 milioni in meno di tasse e 900 milioni in meno di contributi rispetto all’obiettivo. A meno di un recupero nel mese di dicembre, mancheranno all’appello 1,5 miliardi di gettito. Le uscite, invece, ammonterebbero a 835,3 miliardi (+1% rispetto al 2013),di cui quasi il 7O% senza margini di manovra: 163 miliardi di stipendi dei pubblici dipendenti, 332 miliardi per il pagamento di prestazioni sociali e 76,7 miliardi di interessi passivi sul debito pubblico. Se le entrate dovessero essere inferiori al previsto, sarà necessario conseguire una corrispondente contrazione delle spese, per non peggiorare il saldo. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha garantito che il deficit del 2014 non supererà il 3% del Pil e – anche se i margini sono ristretti – non ci sono motivi per mettere in dubbio le sue affermazioni. Non resta che attendere il verdetto finale dell’Istat il 2 marzo.

Investimenti fuori dal deficit per 3,5 miliardi nel 2015

Investimenti fuori dal deficit per 3,5 miliardi nel 2015

Giuseppe Chiellino – Il Sole 24 Ore

Le nuove linee guida della Commissione europea sulla disciplina di bilancio che dovrebbero rendere più flessibile la governance economica e spingere l’Europa verso la ripresa, per l’Italia contengono una notizia buona e una meno buona. La prima è che per beneficiare della cosiddetta “clausola degli investimenti” non sarà più necessario rispettare la regola di riduzione del debito pubblico. E questo è decisamente un passo avanti. Resta però l’altro vincolo, ed ecco la notizia meno positiva , rappresentato dal limite del 3% del rapporto deficit/pil. In parole povere, gli Stati membri potranno escludere dal computo del deficit gli investimenti realizzati per cofinanziare progetti europei dei fondi strutturali o dei programmi Connecting Europe, TEN, disoccupazione giovanile e del nuovo fondo EFSI. Questo però non significa che sarà consentito sforare il fatidico tetto del 3%. Sarà tollerato soltanto un «temporaneo scostamento» dall’obiettivo a medio termine del pareggio di bilancio.

Quanto vale, allora, per l’Italia la decisione presa ieri a Strasburgo e dibattuta dai tempi del governo Monti, al netto dei futuri- e per ora ipotetici – investimenti nazionali al fondo EFSI? Secondo le stime della banca dati della Commissione, per il 2015 l’importo complessivo di cofinanziamento già previsto nei programmi è pari a poco più di 3,5 miliardi di euro, quasi tutti per la programmazione 2007-2013. Solo pochi spiccioli (11 milioni) riguardano il periodo 2014-2020 di cui nei prossimi giorni Bruxelles dovrebbe approvare una dozzina di programmi italiani. In percentuale sul Pil stiamo parlando dello 0,2 per cento. In valore assoluto è di gran lunga la cifra più importante tra i 28 paesi dell’Unione che in totale quest’anno cofinanzieranno progetti europei per 13,8 miliardi. Al secondo posto c’è la Francia con meno di 1,8 miliardi, seguita dalla Spagna (1,4 miliardi), dal Regno Unito (1,1 miliardi) e dalla Germania, appena sotto il miliardo e poco sopra la Polonia, primo paese beneficiario dei fondi strutturali europei che però ha dimostrato finora di saper spcndere bene. Per gli anni a venire le cifre varieranno parecchio. Fino al 2020, la nuova programmazione prevede per l’Italia 39 miliardi di cofinanziamento ma è prevedibile che le risorse si concentreranno nella seconda parte dei 7 anni di programmazione. L’applicabilità delle nuove linee guida sarà tutta da veríficare. Per l’Italia molto dipenderà dalla capacità di regioni e ministeri di spendere le risorse disponibili, pari solo per quest’anno ai 3,6miliardi di euro (si veda il Sole 24 Ore del 9 gennaio).

Da queste valutazioni emerge un paradosso. Stando alle cifre, infatti, l’Italia potrebbe essere il principale beneficiario del nuovo corso che sta assumendo la disciplina di bilancio comunitario. Ma solo per demerito proprio e per i ritardi accumulati negli anni scorsi. Quei 3 miliardi e mezzo, infatti, fanno parte dei 13,6 miliardi che restano ancora da spendere e che, come ha ricordato il sottosegretario Graziano Delrio a questo giornale, devono essere necessariamente spesi entro la fine dell’anno, pena il disimpegno automatico della consistente quota comunitaria.

Il cammino quindi non è tutto in discesa. E non solo per le difficoltà tutte italiane di utilizzare le risorse comunitarie. La decisione di ieri della Commissione, infatti, è un passo importante e cercato da tempo dall’Italia, ma per beneficiare della “nuova” clausola degli investimenti è necessario che i conti pubblici superino il nuovo”esame” comunitario, fissato a marzo, quando Bruxelles dovrà valutare la legge di stabilità nella versione definitiva e soprattutto l’attuazione delle riforme strutturali. La Commissione dovrà decidere se è necessario proporre al Consiglio europeo l’apertura di una procedura contro l’Italia per il mancato rispetto della regola di riduzione del debito. Se ciò dovesse accadere l’Italia si ritroverebbe nel cosiddetto “braccio correttivo” del Patto di stabilità e di crescita, perdendo così il diritto di scorporare il cofinanziamento degli investimenti dal deficit. Per ora però il bicchiere è mezzo pieno.

Deficit, dubbi della Ue sulle promesse italiane

Deficit, dubbi della Ue sulle promesse italiane

Roberto Petrini – La Repubblica

«Tutto normale, contatti di routine», dice Pier Carlo Padoan in occasione dell’Eurogruppo. Mentre Renzi continua ad incrociare le spade con Juncker. Ma in realtà la questione che è emersa negli ultimi giorni sui conti pubblici italiani rischia di trasformarsi in una ennesima grana e acuire la tensioni tra Roma e Bruxelles. Le ultime valutazioni di autunno della Commissione, pubblicate martedì scorso, se guardate con attenzione, fanno emergere che il rafforzamento dell’ultima ora di 4,5 miliardi varato da Padoan il 27 ottobre in risposta ai rilievi dell’allora commissario agli Affari monetari Katainen, non è servito a molto. Il mega-assegno, pari allo 0,3 per cento del Pil, firmato dal nostro ministro dell’Economia, è stato considerato praticamente «a vuoto».

Come si ricorderà infatti il contrasto tra Roma e Bruxelles verteva sull’intervento sul deficit strutturale: l’Italia si era presentata con una correzione dello 0,1 per cento (1,5 miliardi) ma la Commissione voleva almeno lo 0,5 (circa 7,5 miliardi). Alla fine Renzi e Padoan dovettero cedere a Bruxelles chiudendo con un intervento dello 0,3 del Pil, i famosi 4,5 miliardi fatti con stretta all’evasione, fondi europei e rinuncia alla riduzione delle tasse. L’emendamento alla “Stabilità” è stato formalizzato ieri.

La «correzione», secondo le previsioni italiane, avrebbe dovuto ridurre il deficit-Pil strutturale, quello che conta ai fini del raggiungimento del pareggio di bilancio dopo la firma del Fiscal Compact: dallo 0,9 per cento contestato da Bruxelles si sarebbe scesi allo 0,6 per cento come cifrato dalla «Relazione di variazione alla nota di aggiornamento al Def» del 28 ottobre. L’intervento avrebbe avuto effetto anche sulla variabile tradizionale di Maastricht: dal 2,9 previsto in settembre al 2,6 post-rafforzamento stimato dal governo. Invece, con un certo stupore emerso tra i palazzi del governo, le previsioni della Commissione hanno ritenuto che l’intervento da 4,5 miliardi abbia avuto effetto sulla riduzione del deficit-Maastricht anche se la discesa viene cifrata al 2,7 (non al 2,6 come sperava il governo). Ma non ha avuto effetto sul deficit strutturale che dallo 0,9 proposto a settembre dall’Italia scenderà per Bruxelles solo dello 0,1 per cento del Pil attestandosi nel 2015 allo 0,8 (e non allo 0,6 come contava Roma).

Questa valutazione si abbatte sulla variabile cruciale che dobbiamo portare a zero nel 2017, dopo aver chiesto il rinvio di due anni del pareggio di bilancio, e anche il giudizio sulla legge di Stabilità potrebbe risentirne: segnali di strada in salita per Italia e Francia sono giunti ieri dal presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem che ha annunciato lo slittamento del verdetto a fine mese. Perché lo sforzo sul «3 per cento di Maastricht» non transita sul deficit «al netto della congiuntura del Fiscal compact»? Il tema è stato posto dal Tesoro italiano da settimane: è stato sollevato dal Cer, oggetto di osservazioni dell’Upb e di un articolo della voce.inf a firma Cottarelli (Fmi) e Giammusso (Tesoro). Il problema è di modelli economici: la Commissione pensa che l’Italia non abbia le potenzialità per crescere più di tanto e dunque, visto che il deficit viene depurato dalla mancata crescita rispetto a quella possibile, lo «sconto» si riduce. L’Italia invece la vede in modo diametralmente opposto.

La scommessa con Bruxelles e il giro di boa

La scommessa con Bruxelles e il giro di boa

Oscar Giannino – Il Messaggero

La legge di stabilità varata ieri dal governo è una sfida: all’Europa, ai mercati e, in chiave interna, soprattutto alle imprese italiane. È una sfida che in Parlamento non avrà vita facile, come si è visto già dal singolo voto di margine con cui è stata approvata la nota di variazione del Def. Ma per Renzi è la sfida complessiva del suo governo. Vedremo presto se l’Europa – la vecchia commissione Barroso, la nuova Juncker – accetteranno il criterio avanzato da Renzi e Padoan. Quanto ai mercati, è un’incognita vera, come si è visto dalla traumatica giornata di ieri. Per le imprese, al contrario, l’occasione c’e. Ma bisogna stare attenti a non sopravvalutarla.

Il problema con l’Europa è che la sospensione unilaterale adottata dall’Italia della riduzione del deficit per mezzo punto annuo, e di un ulteriore margine di quasi 2 punti di Pil per ridurre il debito pubblico – che continuerà ad aumentare – si fonda su un criterio statistico di identificazione dell’ouput gap, cioè del divario tra andamento reale del Pil e quello potenziale, effetto della perdurante recessione italiana. Il criterio condiviso sin qui tecnicamente in Europa ci metteva al riparo da interventi su un deficit 2014 che sara superiore al 3%, ma non da quelli richiestici nel 2015. Com’è ovvio, il problema non è tecnico, ma politico. La scommessa di Renzi e Padoan è che la Francia sta peggio di noi, visto che noi rinviamo al 2017 l’azzeramento del deficit corretto per il ciclo mentre la Francia fino al 2017 non scende sotto il 3%. Ma il problema resta. Se l’Europa ci farà obiezioni dure non a caso il governo si tiene a disposizione un fondo di riserva quantificato in 3,4 miliardi di euro nella legge di stabilità varata ieri. Ma la scelta forte è di rinviare il ritorno a manovre incisive antideficit al 2016-2018, mentre nel 2015 ben 11 miliardi dei 36 di spesa della manovra sono finanziati in deficit. Se non basterà neanche il fondo di riserva, Renzi e Padoan terranno duro: pronti adire che l’Europa – e naturalmente la Germania, dipende tutto da lei – sbagliano, e l’Italia no. A costo di farne un cavallo di battaglia elettorale, drenando il terreno sotto i piedi degli anti euro, da Grillo alla Lega al resto della destra.

La scommessa sull’Italia è di un ritorno delle imprese ad assumere e a investire. Per questo la manovra è cresciuta nei giorni, e domenica scorsa Renzi ha convinto Padoan della necessità di aggiungere ai poco meno di 10 miliardi necessari a confermare – senza estendere – il bonus 80 euro, anche i 5 miliardi di totale abbattimento della componente Irap che tassa gli occupati (e che le imprese pagano anche quando sono in perdita), e i quasi 2 miliardi necessari per l’azzeramento dei contributi per tre anni ai nuovi assunti a tempo indeterminato. Qui il rischio c’e, insieme alla grande occasione.

L’abbattimento dell’Irap è la misura più saggiamente pro-crescita adottata da anni a questa parte. Aiuta le imprese ad alta densità di occupati, dalle banche alle multiutilities pubbliche ai grandi gruppi, ma non è detto che la ripresa dei margini che consente (per alcuni di un paio di punti percentuali, per altri fino al 4-6%) davvero si traduca subito in investimenti e assunzioni. Come nel caso degli 80 euro ai lavoratori dipendenti (e del Tfr che ora i lavoratori dipendenti privati, non pubblici, potranno ora chiedere in busta, garantito dallo Stato e dall’Inps e anticipato dalle banche), per larga parte ricostituirà margini pesantemente erosi, più che alimentare nuovi consumi. La differenza vera può farla solo un quadro diverso della domanda interna ed estera, ogni entrambe per ragioni diverse differentemente sofferenti. La scelta di reiterare il maxi incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato rischia il bis del flop già realizzato col decreto Letta-Giovannini, ma è il prezzo da pagare al fatto che il governo sia di sinistra, e dunque creda di decidere lui al posto delle imprese quali contratti siano preferibili.

I 18 miliardi di meno tasse, a cui il governo tiene molto, dimenticano di sottrarre i 3,6 miliardi di entrate aggiuntive da risparmiatori, previdenza integrativa meno agevolata e fondazioni bancarie, il miliardo previsto dalle slot machine, i 3,8 miliardi contabilizzati ex ante dall’evasione fiscale (a proposito: ma l’impegno di restituire parte del gettito da evasione ai contribuenti invece di usarlo per pagare spesa di Stato, quando lo manteniamo?). Ma dall’altra parte il governo prevede anche 800 milioni di sgravi alle piccole partite Iva, e mezzo miliardo di aumento delle detrazioni alle famiglie, per i carichi familiari numerosi. Ed è un bene.

Su alcune poste rilevanti della cosiddetta spending review – che purtroppo non è quella di Cottarelli – c’e ancora molto da capire. Mentre i 4 miliardi di risparmi dei ministeri sono credibili, e altrettanto i 3 da procedure centralizzate sugli acquisti, i 6 da Regioni, Comuni e Province sommati sono invece tutti da verificare. Sulla riduzione drastica delle partecipate locali e sulla riduzione dei Comuni, promesse quest’estate nella legge di stabilità, al momento sembra non esserci nulla. E il rischio molto forte è di un deficit 2015 non solo fuori linea rispetto agli impegni europei, ma oltre il 3% che il premier tanto invece smentisce.

I mercati sono sopravvalutati, ha detto ieri il ministro Padoan. Sorprendendo molti, perché non tocca a un ministro dirlo. I mercati ieri hanno ricordato a tutti che basterà una sorpresa negativa sugli stress test bancari, una debolezza greca, una sorpresa negativa italiana, perché il rallentamento della crescita tedesco e americano, sommato a quello cinese e brasiliano, alla crisi mediorientale e a quella russo-ucraina, rifacciano innalzare il premio al rischio del debito dei paesi eurodeboli. Non solo l’Italia può ritrovarsi a quota 300 di spread in men che non si dica. Ma, soprattutto, Draghi e la Bce a differenza del 2012 e 2013 hanno oggi le polveri bagnate. Padoan e Renzi queste cose le sanno benissimo, eppure hanno deciso di rischiare forte. Forti del fatto che sono soli in campo, attualmente, nella politica italiana.

Sul lavoro meno leggi e sentenze, più mercato

Sul lavoro meno leggi e sentenze, più mercato

Giulio Sapelli – Il Messaggero

Il summit europeo di Milano sui temi del lavoro non deve essere sottovalutato o addirittura dileggiato, come taluni hanno fatto. Perché ha segnato l’inizio di un possibile punto importante di svolta delle politiche economiche europee. Jean-Claude Juncker e il suo vice finlandese sono stati richiamati alla realtà e al rispetto dei patti, ossia a dettagliare l’annunciato ma non ancora varato piano di investimenti per il lavoro. Tali investimenti devono essere uno strumento non monetario ma strutturale, ossia fondato sulla creazione di stock di capitali governati dalla mano pubblica europea anziché nazionale che ora è sottoposta a inaudite e assurde limitazioni.

Un cambiamento neokeynesiano? Non è questione di nominalismi, ciascuna forza politica europea e ciascuna cultura nazionale interpreta la situazione con i suoi valori e i suoi strumenti culturali. E la cancelliera Angela Merkel può pure continuare ad attaccare Mario Draghi sulle misure non convenzionali che ha in animo la Bce, l’importante è che la Germania riconosca la gravità della crisi e agisca di conseguenza. Del resto, la crisi da deflazione si sta radicando sempre più e inizia a essere chiaro a tutti, anche ai falchi del Nord, che occorre cambiare linea economica in Europa. La Francia si sta risvegliando dall’immenso torpore in cui era caduta dopo l’eliminazione politica di Jacques Chirac e del gollismo di combattimento che ispirava i suoi fedeli. E Nicolas Sarkozy è stato una meteora che non ha spostato di un etto lo squilibrio dell’asse franco-tedesco, ormai tutto orientato verso la Germania.

Certo, la crisi economica è devastante e da qui il guizzo di orgoglio nazionale con la sfida francese sul superamento del parametro del 3% che l’Italia renziana si è affrettata a rilanciare, ricevendo prima un richiamo duro dalla Merkel e ora, con un cambiamento di toni radicale, un abbraccio caloroso per l’iniziativa parlamentare in corso sui temi del lavoro. Un’apertura di fiducia che non è casuale o solo frutto dell’iniziativa italiana: segnala che la crisi morde anche una Germania che esporta il 57% del Pil in Europa – sì, proprio in Europa – e che sta comprendendo che ora deve cambiare politica. Renzi può approfittarne, purché non fallisca sugli stessi terreni di gioco che si è scelto.

Qui siamo dinanzi alla tipica situazione del cosiddetto bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Mi spiego. Se sono gli investimenti che creano lavoro, bisogna credere sino in fondo in questa battaglia e l’Europa deve fare da volano e da corona. Ma poi ogni Stato deve fare la sua parte. In primo luogo con intermediari e istituzioni finanziarie pubbliche che allarghino il fronte degli investimenti a livello appunto nazionale. Ma se si accettano i parametri nuovi dell’investimento creatore di lavoro come strumenti essenziali anticrisi, non si può contestualmente continuare a sostenere che la liberalizzazione del mercato del lavoro di per sé sola crea occupazione.

A questo assunto, chiunque non abbia interessi di parte, non ci crede più. E i primi a non crederci sono gli imprenditori cui non piace licenziare tanto per farlo, se lo fanno ci sono costretti. Succede quanto capita in guerra. I militari – salvo qualche eccezione – sono gli ultimi a volerla fare perché sanno quanto sia terribile. Lo stesso vale per i licenziamenti: ciò che l’impresa chiede è poter decidere quando e chi assumere e, per converso, chi eventualmente licenziare. Due secoli di lotte sociali in Occidente hanno affermato il principio universale che anche i lavoratori debbono dire la loro su questo tema, allorché si tratta del loro futuro. È scritto nella storia: i sindacati dei lavoratori sono nati per questo, così come quelli dei datori di lavoro.

L’alternativa inevitabile a questo modello di confronto negoziale, se non si vuole sprofondare nel caos della microconflittualità e dello scontro sociale, è trasformare il modello di negoziazione e di confronto in un modello statualistico di regolazione del mercato del lavoro fondato sulla iperlegiferazione, la giurisprudenza, gli avvocati e i magistrati con danni immensi ai fattori di lavoro e di produzione. Non è un caso se l’Italia sino agli anni Settanta ha avuto alti tassi di crescita pur con forti livelli di negoziazione sindacale.

Certo, i dati macroeconomici non vanno ignorati ma vorrà pur dire qualcosa se dopo lo Statuto dei lavoratori l’Italia non ha più avuto una pace sociale vera, un sindacato negoziale associativo prevalente su quello classista e una rappresentanza imprenditoriale fondata sul self help e non invece sull’infausta cultura statualistica come quella dell’accordo del 1974 tra Giovanni Agnelli e Lucio Lama che portò al punto unico di scala mobile con le conseguenze drammatiche che conosciamo. Renzi e i suoi ministri, in primis quello del Lavoro, devono avere chiaro l’obbiettivo finale: costruire finalmente un sistema di relazioni industriali di modello anglosassone, ossia intersindacale a più livelli di contrattazione non confliggenti e sovrapposti. Per fare ciò occorre una moratoria di tutte le leggi e leggine che uccidono un Paese di piccole imprese con decine di modelli di assunzione che fanno, altresì, dimenticare al sindacato che deve essere in primo luogo un agente contrattuale e non un portatore dell’invadenza statuale. I lavoratori l’hanno già capito.

Coloro che ricorrono al famoso e infausto articolo 18 in caso di licenziamento scelgono non il magistrato (con anni di attesa) ma il risarcimento economico. Senza questo il bicchiere di Renzi e Poletti resterà mezzo vuoto. Se non si farà questa svolta, che è l’unica vera modernizzazione, continueremo a essere nelle mani di avvocati, magistrati e parlamentari. Ma se ci sarà la svolta, si vedrà allora che più che il conflitto prevarrà l’ordine e la ragionevolezza. Anche queste virtù fanno aumentare il Pil.

La causa delle cause

La causa delle cause

Enrico Cisnetto – Il Foglio

L’Europa non sta collassando. Non ancora, quantomeno, e comunque non perché Francia e Italia non rispettano i vincoli di bilancio. Lo deduco non dall’esito del vertice Ue sul lavoro, del tutto inutile, ma da un’analisi sulla vera origine dei problemi dell’eurosistema. Che non risiedono nei vincoli di bilancio imposti dai trattati, o nelle politiche di austerità volute dai tedeschi e neppure in quelle opposte predicate dai paesi mediterranei, o nei limiti statutari della Bce, e in tutti quegli errori che con faciloneria disarmante vengono dati in pasto a opinioni pubbliche che, di conseguenza, sollecitano atteggiamenti sempre più nazionalistici alle proprie classi politiche. O meglio, tutti questi sono sì errori, ma nessuno è quello decisivo. L’errore epocale, da cui tutto discende, è aver preteso di dare una moneta unica a paesi che non avevano e tuttora non hanno una governance democratica comune. E senza mettere rimedio a questa tara genetica, poco importa se prevale la linea del rigore o quella espansiva: l’eurosistema è comunque destinato a non funzionare. Anzi, più si discetta intorno alla presunta dicotomia, risalendo fino allo scontro Hayek-Keynes, e più si stende un velo omertoso sulla causa della cause della crisi europea.

Prendete la scelta della Francia di far slittare il contenimento del deficit. Il grave non sta nell’aver violato patti che in quanto “stupidi” meritano questo e altro, ma di non avere il coraggio di metterli apertamente in discussione, ponendo il problema politico nei vertici Ue.E sapete perché non lo fanno? Perché sanno che la risposta sarebbe quella di andare oltre i trattati, ed essendo autolesionistico farlo tornando indietro alle monete nazionali, l’unico modo sarebbe andare oltre, cedendo definitivamente sovranità politica e istituzionale a un governo eletto direttamente dai cittadini che hanno la stessa moneta in tasca. Ma per i francesi esistono solo gli interessi nazionali. E pazienza se debito federale, Bce leader of last resort e così via, vanno a farsi benedire. D’altra parte, è falsa la convinzione secondo cui la loro sarebbe una prova di forza muscolare contro la Germania e la Ue a trazione tedesca. No, si tratta solo di una mossa di politica interna nel tentativo (utile ma un po’ disperato) di tagliare la strada all’ascesa della Le Pen all’Eliseo. Per carità, bene che riesca, meglio un po’ di deficit in più di quella funesta eventualità – così come meglio gli inutili (dal punto di vista economico) 80 euro di Renzi piuttosto che Grillo a Palazzo Chigi – ma se la destra populista e nazionalista è arrivata a insidiare socialisti e gollisti è colpa di una politica che, tanto con Sarkozy quanto con Hollande, è stata fallimentare. La Germania si è solo limitata a farsi i suoi interessi, e meglio di quanto gli altri non abbiano fatto i propri.

E veniamo a noi. Il semestre europeo a guida italiana ha superato la metà della sua durata senza aver lasciato alcun segno, nonostante si fossero alimentate grandi aspettative. Né s’intravede all’orizzonte nulla che possa far pensare che nella seconda parte la musica cambi. Inoltre, sul deficit stiamo facendo persino peggio della Francia: sforiamo rispetto agli impegni presi, ma facciamo tinta che non sia così. Invece, ora si affaccia un’opportunità straordinaria, che Renzi dovrebbe cogliere al volo: partire dall’inevitabile processo che in Commissione si aprirà nei confronti di Italia e Francia, per lanciare la proposta di una riforma strutturale dei trattati europei, una riscrittura finalizzata a rimettere in moto l’arenato – ma sarebbe più giusto dire, mai partito – processo di integrazione politico istituzionale ed economico-finanziaria dell’area euro.

Attenzione, non si tratta di costituire improbabili cartelli mediterranei “espansivi” contro i maledetti “rigoristi” del nord. Anche perché entrambe le politiche hanno buone ragioni, e sono necessarie entrambe in un mix che non sarà mai ottimale se ciascuno stato rimane pienamente sovrano. Chi mi segue sa che la mia e una posizione “liberal-keynesiana” – e non è un ossimoro, se si evita un approccio dogmatico – ma sa anche che ho sempre sostenuto che non si poteva uscire con nuovi surplus di spesa corrente dalla crisi causata da un eccesso di debito privato (la bolla scoppiata nel 2007 negli Usa e trasferitasi immediatamente al sistema bancario mondiale) è tamponata con una moltiplicazione di debito pubblico (quello servito a immettere liquidità ed evitare il default creditizio). Spesa sì, ma solo in conto capitale (investimenti pubblici), e non senza mettere in gioco il patrimonio degli stati, sottoponendoli così a un sano dimagrimento (senza per questo sposare le tesi ultra dello “stato minimo”). Dunque, evitiamo la puerile polemica anti tedesca e non illudiamoci che domattina possa nascere l’asse Parigi-Roma. Invece, Renzi prenda un’iniziativa forte: convochi a Roma, nella sua veste di presidente di turno dell’Unione, i leader continentali che pesano e sparigli un gioco in cui rischiano di finire stritolati prima di tutto gli italiani, ma con noi l’euro e l’Europa intera. La Merkel è una ragioniera? Bene, si dimostri di saper fare di meglio.

Il deficit di Renzi

Il deficit di Renzi

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

La decisione improvvisa e unilaterale del governo francese di avere per due anni in più uno sforamento del 3 per cento nel rapporto deficit/pil, attestandolo sopra il 4 per cento, dimostra non solo la crisi in cui si dibatte l’Unione europea e in particolare l’Eurozona ma anche una sorta di fallimento del semestre italiano ormai agli sgoccioli. Tutti sapevano delle crescenti tensioni sulle politiche economiche e di bilancio di Bruxelles e Renzi, in qualità di presidente di turno, avrebbe dovuto convocare una riunione dei capi di stato e di governo per affrontare per tempo la delicata questione in termini concreti incardinandola come priorità nell’agenda di lavoro. In realtà il governo italiano, focalizzato sui rapporti tra l’Italia e Bruxelles, ha perso di vista la dimensione comunitaria delle tensioni che si stavano accumulando. Dopo la svolta francese tutto sarà più complicato per l’Europa e per l’Italia. Anzi, forse, sarebbe utile rallentare anche alcune partite già in dirittura d’arrivo come l’Unione bancaria che presenta non pochi aspetti problematici. Ma ciò che accade in Europa accade anche in Italia, e cioè una incertezza crescente sulle politiche sinora perseguite e su quelle annunciate.

Forse per qualcuno è stata una sorpresa la Nota di aggiornamento del documento finanziario approvato dal governo per i tragici numeri emersi sulla crescita sulla occupazione e sui conti pubblici, ma per noi è stata solo una conferma di ciò che diciamo da mesi. Anzi il governo non ha detto tutta la verità! Non è vero che alla fine dell’anno la crescita del prodotto interno lordo sarà ne- gativa solo per lo 0,3. Se dovesse intervenire un miracolo forse ci fermeremo a 0,5/0,6 ma deve cambiare il vento nell’ultimo trimestre e le previsioni non sono in quella direzione. La stessa cosa vale per la striminzita crescita prevista dal governo per il 2015 (+0,6) che inizierà con l’effetto di trascinamento negativo del 2014. Il pareggio di bilancio si allontana nel tempo sino a scomparire all’orizzonte e il debito continuerà a salire (il governo pre- vede di far scendere il rapporto debito/pil di uno 0,1 cioè niente) mentre il rapporto deficit/pil si dovrebbe mantenere al 3 per cento grazie alla ricchezza prodotta dalla prostituzione e dalla economia illecita e criminale. Da venti anni l’economia italiana non cresce e da ventidue anni èe affidata esclusivamente a tecnici di indubbio valore ma che con la politica economica hanno scarsa dimestichezza. Anche per l’economia vale quel vecchio aforisma di Georges Clemenceau secondo il quale la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari.

Ciò che vogliamo dire è che da venti anni manca una visione di politica economica e di politica industriale, pur essendo l’Italia il secondo paese manifatturiero dell’Europa dietro la Germania. Abbiamo la netta impressione che anche il governo Renzi si sia avviato su questa strada, al di là dei fuochi di artificio sull’articolo 18 e sulle tante riforme ordinamentali messe in pista. Renzi ha una forza politica che altri governi non avevano, per contingenze oggettive e per le modalità con le quali ha conquistato prima il Pd e poi il governo, ma rischia di sciuparla per non avere l’umiltà di capire e di operare dopo aver capito. Una cosa è il consenso e la popolarità, altra cosa è l’arte del governare che richiede visione non onirica, strumenti di conoscenza della macchina dello stato e dei processi economici e una squadra all’altezza. Così non è stato e Renzi ha sbagliato l’agenda di lavoro anticipando le riforme istituzionali a quelle economiche.

Per spiegarci meglio, è come se si volesse curare in pronto soccorso un uomo ferito da uno sparo affrontando prima la sua epatite cronica e poi aggredendo la ferita sanguinante. Il tutto avendo, peraltro, un partito alle spalle che ha due anime profondamente diverse. Bisogna dare atto a Renzi di non nascondere questa diversità genetica, tanto da dire nel dibattito in direzione che lui è un cattolico liberale. Musica per le nostre orecchie, ma cosa ci fa un cattolico liberale alla guida di un partito iscritto al Partito sociali- sta europeo? Certo, vi sono sempre stati socialisti cattolici (vedi Jacques Delors) ma in quegli uomini il termine cattolico non era una cifra politica ma solo la testimonianza di una fede religiosa. Ed è anche vero che il cattolicesimo politico ha nel suo Dna un’idea riformatrice e progressista ma profondamente diversa dal socialismo democratico. Di qui, dunque, la debolezza strutturale nell’azione di governo. Davvero Renzi ritiene di fare uscire l’Italia dal tunnel della recessione o della crescita bassissima nella quale è stata relegata da 20 anni con 10-15 mld di euro da spendere e mettendo in busta paga una parte del tfr, come si appresta a fare con la prossima legge di stabilità? Non scherziamo col fuoco. L’Italia è in grande affanno e l’idea che si possa uscire dalle difficoltà gettando la furia popolare contro gli stipendi alti a cominciare da quelli delle Camere che sono un “unicum” nelle società nazionali è un altro errore, perché accanto all’applauso vociante emerge la triste direzione di marcia: siamo tutti più eguali nella povertà.

Per dirla in maniera semplice: o si aggredisce il debito con una manovra finanziaria straordinaria recuperando decine di miliardi dalla spesa per interessi che oggi vanno alla finanza nazionale e internazionale, per darli all’economia reale, o lentamente il paese morirà e i suoi asset migliori saranno acquistati da quanti si sono riuniti qualche giorno fa riservatamente in un albergo di Milano per discutere sugli acquisti migliori da fare nel nostro paese a prezzi stracciati. Per fare operazioni di questo genere, però, non servono tecnici ma politici che abbiano visione e coraggio per chiamare la grande ricchezza nazionale a uno sforzo congiunto e salvare il paese e con esso la ricchezza che gli italiani hanno prodotto nel corso di tanti decenni, battendo nemici come il terrorismo e l’inflazione a due cifre e mantenendo intatto quel profilo democratico senza il quale non si va molto lontano.

I compiti a casa dell’Italia

I compiti a casa dell’Italia

Bruno Vespa – Il Mattino

A scuola i primi della classe non sono mai stati troppo popolari, a meno di una visibile generosità nei confronti dei compagni. Angela Merkel non ha questa fama. Perciò la risposta piccata («Fate i compiti a casa») all’annuncio che la Francia sarebbe rientrata soltanto nel 2017 nel limite del 3 per cento tra deficit annuale e prodotto interno lordo non è stata gradevole. Non siamo sicuri peraltro che l’invito – apparentemente senza destinatario – non riguardasse anche l’Italia, che resta sotto il 3 per cento, ma non scende vicino al 2 come avrebbe dovuto e soprattutto ha rinviato al 2017 l’applicazione del pareggio di bilancio. (La lettera inviata dalla Banca centrale europea a Berlusconi il 5 agosto 2011 anticipava al 2013 questo vincolo previsto inizialmente per il 2014). A parte un debito pubblico elevatissimo (ma di cui abbiamo sempre pagato le rate degli interessi), l’Italia ha i conti più in ordine della Francia, a cominciare dall’avanzo di bilancio pubblico positivo, (più entrate che spese, al netto degli interessi) che la mette in testa alla classifica del G7 insieme proprio con la Germania. Sulla Francia pesa inoltre il tabù delle 35 ore, del tutto anacronistico nel mondo globalizzato, la mancata riduzione della spesa pubblica di 50 miliardi, un mercato del lavoro senza i vincoli del nostro articolo 18, ma complessivamente ancora ingessato.

Matteo Renzi ha subito espresso la propria solidarietà a Hollande ricordando di guidare il più votato partito europeo e di rispettare il vincolo del 3 per cento. Questa mossa lascia intendere che i due paesi nelle prossime settimane rammenteranno alla prima della classe che compiti a casa pesanti come quelli assegnati alle nazioni in difficoltà, se non svolti un poco alla volta, rischiano di ammazzare anche lo studente più volenteroso. (E l’Italia lo è più della Francia). Ma proprio perché ha il debito così alto, l’Italia deve presentarsi al confronto con i compiti fatti meglio della Francia, più forte di noi per ragioni storiche, politiche, strategiche e perché l’euro è nato da un accordo tra Mitterrand e Kohl per dimenticare il sangue procuratosi a vicenda negli ultimi due secoli.

Qui casca l’asino della riforma del lavoro. Per chetare la sinistra del suo partito, Renzi ha promesso che nel nuovo statuto del lavoro si potranno reintegrare, oltre ai lavoratori discriminati, anche quelli licenziati per ragioni `disciplinari’. Questa normativa può essere scritta in tanti modi diversi,da quella che non lascia margini interpretativi a quella che consente di vanificare l’intera riforma dell’articolo 18. Il Nuovo centrodestra ha già fatto sapere al presidente del Consiglio che su questo punto sarà inflessibile, anche perché sente il fiato sul collo di Forza Italia, a sua volta costretta ad irrigidirsi da una rivolta interna antigovernativa che va ben al di là del caso Fitto (basta leggere in controluce i franchi tiratori nelle elezioni alla Corte costituzionale). Se vuole presentarsi al vertice sul lavoro dell’8 ottobre con un testo non ancora votato, ma radicalmente diverso dal passato, Renzi sarà costretto stavolta ad ascoltare più Alfano che Bersani. Guai a sedersi al tavolo in cui ciascuno presenterà i compiti a casa con un tema scritto con calligrafia cattiva e incomprensibile.