delega fiscale

Delega fiscale, il verso dell’avvoltoio

Delega fiscale, il verso dell’avvoltoio

Davide Giacalone – Libero

Prima era agghiacciante, ora è devastante. Il decreto legislativo nato sotto al titolo “certezza del diritto” non riesce ad assicurare neanche la certezza della data, in compenso è già garantito che per inseguire quella certezza si dovrà venire meno a quanto prevede la legge, ovvero la scadenza della delega fiscale, fissata al prossimo 27 marzo. Un anno di tempo non è stato sufficiente al governo, altrimenti noto per voler fare tutto velocemente e a passo di carica. Prorogare è meglio che perdere del tutto l’occasione di riformare, certo. Ma guai a far finta di non capire cosa questo significa. Se neanche la delega fiscale prende corpo, essendo un atto governativo e non dipendendo dalle maggioranze parlamentari, vuol dire che attraverseremo l’anno iniziato fidando solo sulle spinte esterne, senza coinvolgimenti economici e legislativi interni, e ciò porterà a chiuderlo senza modificare le previsioni, che ci vedono in crescita meno della metà dell’eurozona. Non è robetta, è robaccia.

La semplificazione fiscale, essenziale per la crescita quanto la discesa della pressione, è direttamente connessa alla materia degli accertamenti, della certezza del diritto, della giustizia tributaria, del coinvolgimento penale e delle modalità di riscossione. Tutto questo è rinviato a maggio. Decretare a maggio significa avere rinunciato a vedere i risultati delle novità nel 2015. Nel frattempo continueranno a essere avviati procedimenti penali che poi cadranno nella zona delle depenalizzazioni, quindi a far svolgere lavoro inutile. Il tempo perso non è solo guadagno mancato, ma anche spesa sprecata.

La delega fiscale, e il conseguente riassetto della materia, è anche l’occasione per non rendere devastanti gli effetti del reverse charge Iva. È una materia che a molti non dice nulla, ma i cui effetti riguardano tutti. In settori che vanno dalle costruzioni alle forniture verso la pubblica amministrazione, puntando anche a quelle verso la grande distribuzione (i supermercati, si attende solo il via libera Ue), l’Iva non è più messa nella fattura che il cliente paga, ma scorporata da quella e versata dal cliente direttamente al fisco. Apparentemente non cambia nulla ma nella realtà cambia tutto, perché i fornitori si ritrovano con il 22% in meno di cassa, sebbene per cifre da gestire finanziariamente e dover poi sborsare. Ciò li porta, tutti, ad andare pesantemente a credito d’Iva. Poco male, se non fosse che lo Stato non paga i suoi debiti, che consistono in quei crediti. Quindi l’Iva diventa, per quelle società, un costo da sopportare per un tempo troppo lungo. In queste condizioni saltano.

Nei giorni scorsi abbiamo parlato di quella che, impropriamente, è chiamata “Bad Bank”, in pratica uno strumento per sgravare le banche di crediti incagliati e deteriorati, in modo che possano fornire più credito al sistema produttivo. Ma il rischio grosso è che il maggior credito andrà a finanziare proprio l’inefficienza dello Stato: che prende e non restituisce, non paga e ritarda le riforme. Quel credito, dunque, almeno per sua parte consistente, non genererà produzione sviluppo ma galleggiamento in attesa che l’elefante state decida di togliere le terga dal groppone di chi lavora. E mentre questa attesa consuma le settimane, i mesi e gli anni, i concorrenti che lavorano in altre parti dell’eurozona (non dico mica in Asia, no, qui in Ue) si muovono con meno zavorre e pesi morti. Ecco (anche) perché cresciamo la metà degli altri.

La notizia è: in campo discale possiamo ancora aspettare fino a settembre, sicché gli effetti si vedranno nel 2016, quando, secondo i dati della Commissione europea che abbiamo già pubblicato, il nostro svantaggio relativo si sarà ulteriormente accresciuto. Non s’è mai capito cosa significhi “cambiare verso”, ma temo che questo sia il verso dell’avvoltoio.

Con la nuova delega la caccia agli evasori è più difficile

Con la nuova delega la caccia agli evasori è più difficile

Paolo Baroni – La Stampa

Altro che soglia del 3%, si potrebbe dire. Nel decreto sulla certezza del diritto, quello della famigerata norma salva-Berlusconi, alla luce delle novità sulla lista Falciani, c’è un altro “buco” grande come un paradiso fiscale. È la norma che elimina il raddoppio degli anni di indagini in caso di reati fiscali. Oggi, infatti, se il Fisco ha 4 anni di tempo per richiedere il pagamento di una tassa evasa e notificarlo al contribuente infedele, sul piano penale i tempi sono doppi, 8 anni. E questo perché tra quando è stato commesso il reato in questione e quando lo si scopre, occorre molto più tempo per disporre delle relative prove, condurre le indagini, attivare rogatorie internazionali, indagare su paradisi fiscali e triangolazioni internazionali, e misurarsi con marchingegni contabili alquanto complessi e sofisticati.

E per venire al caso Falciani-Swissleaks, acclarato che chi era presente nella prima lista di 5439 nomi (ora lievitata a 7437) e non è stato pizzicato per tempo vede il suo reato prescritto, va detto che anche i nuovi nomi presenti nella lista di qui a breve non potrebbero assolutamente più essere perseguiti penalmente, come ad esempio ha già annunciato di voler fare la Procura di Roma.

La nuova strategia contenuta nei decreti delegati in via di approvazione, che parte dal sacrosanto bisogno semplificare i rapporti col fisco e affermare in questo campo la certezza del diritto, potrebbe avere l’effetto di spuntare le armi contro eventuali reati. Introducendo, al rovescio, nel nostro ordinamento una norma pro-evasori. Le nuove norme, che avevano già ricevuto il via libera del consiglio dei Ministri, contenevano infatti un articolo che di fatto in pochi hanno notato (e contestato) con «modifiche alla disciplina del raddoppio dei termini» per presentare le denunce penali. «Il raddoppio – recita il nuovo testo – opera a condizione che la denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza dei termini ordinari».

La lista Falciani purtroppo è del 2009, la magistratura e il fisco italiano l’hanno acquisita poi l’anno seguente. Il Fisco nel passato ha già attivato controlli e contestazioni e ieri la Guardia di Finanza ha presentato il suo rapporto sull’attività di riscossione svolta (su 740 milioni di evasione accertata, 30 milioni di tasse da incassare ma appena 3,3 già messi a ruolo), ma sul piano penale (senza tornare alla questione della possibilità o meno di utilizzare dossier ottenuti in maniera fraudolente), di fatto non si può combinare nulla. La preoccupazione che circolava in ambienti tributari, raccolta ieri dall’Agenzia Ansa, è che se dovessero emergere nuovi nomi o nuovi reati il tempo risulterebbe scaduto: non potrebbero essere più contestati davanti al giudice. L’unica chance rimasta è quella di una corsa contro il tempo, prima dell’approvazione delle nuove norme che torneranno al consiglio dei ministri del 20 febbraio: una corsa ad ostacoli impossibile vista la complessità tecnica degli adempimenti necessari per avviare una contestazione penale.

L’Agenzia delle entrate, informalmente, nelle scorse settimane aveva fatto presente che il riallineamento dei termini di prescrizione avrebbe creato grossi problemi nel campo delle indagini, ma le sue proteste sono rimaste inascoltate. Oltre alla vicenda che tiene banco in questi giorni infatti c’è un problema generale, di prospettiva, visto che in questo modo si complica in maniera esponenziale la vita ai magistrati chiamati ad indagare sugli evasori fiscali. L’ex ministro Vincenzo Visco, in più occasioni, ha segnalato il problema: non solo sarebbe molto più complicato istruire i processi, ma questo cambiamento – tra l’altro – rischia di provocare una perdita di gettito davvero ingente, una perdita sia immediata (e poi permanente) di molti miliardi in quanto verrebbero vanificati moltissimi accertamenti.

Se l’incertezza diventa la regola

Se l’incertezza diventa la regola

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Il 20 febbraio il Consiglio dei ministri esaminerà un pacchetto di provvedimenti attuativi della delega fiscale. Il tema della certezza del diritto è destinato, dunque, a rimanere all’ordine del giorno. Non stupisce, dunque, che il Consiglio nazionale dei commercialisti, nei giorni scorsi, sia intervenuto stigmatizzando «il susseguirsi di riforme che pongono la professione davanti a situazioni nelle quali incertezza interpretativa e stretti tempi di attuazione delle norme, spesso addirittura retroattive, rendono difficile l’attività di consulenza». Questa è una delle cause della incertezza che caratterizza il sistema tributario.

Ma il quadro delle incertezze (come condizionamento esterno della legislazione) è molto più ampio. Lo ha tracciato Antonio Berliri, uno studioso attento alla pratica. Ricorso eccessivo alla decretazione d’urgenza, anche quando manchi l’urgenza. Susseguirsi a breve distanza di norme che modificano le precedenti. Il contribuente ha tempo per conoscere la nuova legge. Scadente tecnica legislativa, con leggi che poi vengono precisate nelle circolari. Esempio di questa tecnica è il richiamo, vietato nello Statuto del contribuente, a leggi precedenti mediante numeri e date dai quali è difficile ricostruire la nuova normativa. Mancato coordinamento fra norme, quindi contraddizioni e incertezze che regolarmente vengono riempite dalle circolari. Norme restrittive e interpretazione autentica di leggi tributarie. Vi sono sentenze della Consulta nelle quali si afferma che l’interpretazione autentica non può violare il principio di affidamento.

Eccessivo numero delle circolari. È pur vero che la Cassazione sostiene che le circolari non hanno efficacia legislativa e che quindi non vincolano nessuno, neppure la stessa amministrazione. Questo in teoria, ma in pratica il diritto vivente lo fanno le circolari. Davanti al giudice si discute la legge interpretata dalle circolari. E quando dall’inosservanza di un obbligo viene fatta discendere una sanzione penale il contribuente preferisce pagare per evitare il processo penale e propone domanda di rimborso: rivive la regola del solve e repete. Bisognerebbe, come ha proposto Capaccioli, che l’emanazione di una circolare puntualizzi l’interesse a ricorrere con l’accertamento negativo da parte del giudice tributario. Ma l’incertezza più rilevante introdotta dalle circolari si ha quando l’amministrazione cambia opinione su una legge, proponendo la tassazione che in un primo momento aveva escluso. Qui viene in discussione il principio di buona fede.

Impossibilità per contribuenti e amministrazione di assicurare il tempo necessario per assimilare le disposizioni che sono chiamati ad applicare. Imperfetto coordinamento fra Governo e Parlamento che non presenta emendamenti migliorativi ma solo dilatazione della legge per interessi corporativi. Scarsa efficienza dell’amministrazione. È un punto rilevato fin dalla riforma del 1971. In sintesi, c’è confusione fra Governo e amministrazione. Il Governo come guida della legislazione non esiste, perché non esiste una politica tributaria. Poche cose vengono proposte dal Governo, alcune sacrosante perché attendono alle grandi linee della politica tributaria. Ma la legislazione ordinaria, quella diretta a combattere l’evasione, viene fatta dall’amministrazione con leggi che sono per lo più inasprimento della tassazione. Ma il vizio principale dell’amministrazione è culturale, quel vizio di interpretare solo in un senso la legge, l’ostinazione fiscale anche in presenza di una legge non favorevole al fisco. Il Governo si limita a interventi propagandistici come gli 80 euro e la dichiarazione precompilata che non sarebbe stata approvata da Vanoni per la responsabilità che il contribuente deve assumere di fronte allo Stato.

Delega fiscale contro il tempo

Delega fiscale contro il tempo

Beatrice Migliorini – Italia Oggi

Recuperare il comitato ristretto per licenziare nel più breve tempo possibile tutti i decreti legislativi già pronti e scongiurare il fantasma della proroga a fine anno. Questa, in base a quanto risulta a Italia Oggi, la strategia che governo e parlamento starebbero mettendo in campo per dare forma entro la scadenza di fine marzo al contenuto della legge 23/2014 (delega fiscale). A quasi un anno dall’approvazione della legge delega sono, infatti, solo tre i dlgs che hanno ricevuto il via libera delle camere: il semplificazioni fiscali, la riforma delle commissioni censuarie e la riforma della tassazione delle accise sui tabacchi. Di questi, solo i primi due sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale non, però, senza qualche difficoltà. Un ritmo a dir poco insostenibile per un testo che nasce con l’ambizione di essere quanto meno un’opera di manutenzione straordinaria del sistema fiscale italiano. Ecco, quindi, che per ottimizzare il fattore tempo la soluzione comitato ristretto potrebbe tornare utile.

L’idea, su cui il cui governo dovrà pronunciarsi in queste ore, sarebbe quella reinstaurare il gruppo di lavoro trasversale alle due camere e ai partiti politici. Questa operazione potrebbe, infatti, consentire un rapido esame preliminare dei testi una volta licenziati da palazzo Chigi, in modo tale che una volta giunti all’esame delle Commissioni finanze a ranghi completi siano sufficienti un paio di sedute per esprimere il parere al testo. Ammesso e non concesso che il meccanismo funzioni, sarà poi compito dell’esecutivo non apportare ulteriori modifiche ai testi dei decreti, per evitare di ricadere in dinamiche simili a quelle che hanno dettato le sorti del dlgs sulle semplificazioni fiscali (cambiato dal governo in seconda lettura). Un lavoro che, se ben strutturato, potrebbe portare a licenziare quasi dieci decreti (tra cui, il dlgs contenente i punti cardine della riforma del catasto, il dlgs sulla fatturazione elettronica, sulla certezza del diritto e sui giochi) entro la fine di marzo.

Una missione ai limiti dell’impossibile ma che potrebbe concretizzarsi laddove il governo volesse con ogni mezzo possibile evitare la strada della proroga che assomiglierebbe molto ad una sconfitta. Ma per non rischiare un’altra stoccata a vuoto e lasciare comunque aperta la strada dello slittamento dei termini restano ancora in piedi le altre due opzioni incardinate alla Camera: il ddl di proroga a firma di Marco Causi (Pd) e Daniele Capezzone (Fi) i cui lavori inizieranno questo pomeriggio e il dl Milleproroghe al vaglio delle Commissioni affari costituzionali e bilancio di Montecitorio. E proprio la mancata presentazione di un emendamento ad hoc contenente la proroga sia da parte dell’esecutivo, sia da parte di esponenti della maggioranza, suggerisce che palazzo Chigi e via venti settembre stiano cercando ogni strada per evitare lo slittamento dei termini.

Delega fiscale, in 10 mesi attuazione ferma al 15%

Delega fiscale, in 10 mesi attuazione ferma al 15%

Saverio Fossati – Il Sole 24 Ore

I tempi non ci sono proprio e una proroga sembra necessaria. Ma quello che va rivisto è il sistema della comunicazione tra Governo e Parlamento, che ha subito un evidente corto circuito e che è stato, in sostanza, all’origine del pasticcio ma anche dei ritardi. Attualmente la delega è stata realizzata al 15,5% in dieci mesi, quindi appare davvero difficile che venga completata in tempo. Più in dettaglio, solo un decreto legislativo è entrato in vigore: quello sulle semplificazioni, mentre quello sulle commissioni censuarie catastali (prodromico alla riforma del catasto) è ancora nei cassetti di Palazzo Chigi a un mese dall’approvazione definitiva; stessa sorte è toccata a quello sui tabacchi, per il quale non sono mancate le polemiche a causa di un ritocco sulle accise.

Per gli altri provvedimenti che devono dare attuazione ai principi della delega, invece, siamo in alto mare. A partire dalla riforma del catasto, il cui decreto chiave, quello sulle «funzioni catastali» che devono assicurare nuovi valori a 60 milioni di immobili, è stato elaborato dall’agenzia delle Entrate sulla base di una sconsolante considerazione: dato che non ci sono abbastanza dati per costruire una statistica territoriale, si devono ampliare a dismisura gli ambiti territoriali stessi.Tutti aspetti di cui la mini bicamerale non è stata informata ma che, al momento in cui la bozza del decreto vedrà la luce, susciteranno un vespaio. O dal principio sulla lotta all’evasione, che per ora ha prodotto solo l’obbligo (previsto in modo estemporaneo dal Dl 66/2014) di inviare un rapporto alle Camere sulle strategie adottate.

L’ambizioso obiettivo di impiegare un solo anno per rinnovare il sistema fiscale italiano aveva trovato da subito l’assist dei presidenti delle commissioni Finanze della Camera e Finanze e Tesoro del Senato, che avevano costituito una mini bicamerale informale con i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari. Questo organo ha il compito di esaminare le bozze dei decreti legislativi in via preventiva e di farne emergere le criticità prima che arrivino all’esame ufficiale delle Commissioni, in modo che il Governo possa poi contare su un’approvazione senza problemi. Il meccanismo ha funzionato a fasi alterne per i primi quattro provvedimenti, suscitando anche malumori per il modo approssimativo in cui a volte le bozze venivano portate alla bicamerale. Ma, in sostanza, il meccanismo di filtro è servito. Tranne che nel caso del decreto sulle commissioni censuarie catastali, che ha visto due ribattute di ping pong sulla questione della rappresentanza obbligatoria delle associazioni di categoria del mondo immobiliare: il Governo non voleva garantirla ma le commissioni parlamentari hanno tenuto duro. Del resto i tempi sono lunghi anche perché è proprio la delega a prevedere un parere parlamentare delle commissioni competenti entro i 30 giorni della trasmissione del decreto e un eventuale secondo parere qualora il Governo decida di non conformarsi alle indicazioni arrivate dalle Camere.

Le reazioni dei presidenti delle commissioni parlamentari sono diversi nel tono. Daniele Capezzone (Camera) in una lettera aperta ha invitato il premier «a riprendere il meccanismo informale ma di grande buon senso, che era stato politicamente accettato dal Governo e che era stato rispettato per i primi tre decreti, a indicare un cronoprogramma preciso e far sapere alla commissione e al Parlamento se il Governo intenda avvalersi delle proposte di proroga della delega che sono state presentate». Mauro Marino (Senato) ribatte che «Capezzone sbaglia nel definire deludenti i decreti delegati già in Gazzetta ma ha ragione nell’invocare la continuità del metodo della consultazione informale sugli schemi di decreto legislativo in preparazione»; e sulla proroga invita a a una valutazione «solo dopo aver vagliato l’adeguatezza dei tempi necessari al completamento della delega».

Il premier non può sequestrare un decreto legge

Il premier non può sequestrare un decreto legge

Davide Giacalone – Libero

È agghiacciante l’idea di congelare un decreto legislativo. Equivale alla demolizione delle regole che disciplinano il sistema legislativo. S’è capito che al governo non avevano capito quel che facevano o non si aspettavano di dover fronteggiare un pubblico dissenso. Due ipotesi che presuppongono ottusità legislativa o furbizia da sciocchi. Il guaio (ulteriore) è che, ad ogni parola che aggiungono, non fanno che allargare il buco e rendere multicolore la pezza. Matteo Renzi ha sostenuto che il decreto sarà congelato fino al 20 febbraio. Se ancora esistessero i presidenti delle Camere dovrebbero essere essi a fargli osservare che non c’è la possibilità di sottrarre al Parlamento l’esame di un decreto già approvato dal Consiglio dei ministri.

Il calendario è una prerogativa del Parlamento, non del governo. E se esistesse ancora uno straccio di cultura delle regole i giornali stessi non pubblicherebbero l’annuncio di congelamento senza aggiungere che si tratta di un’idea improponibile. Attenti, non c’è solo la materia fiscale. Fin qui sono state approvate, dal Parlamento, non due riforme, ma due leggi delega: una in materia di diritto del lavoro e l’altra di diritto tributario. Un buon successo, per il governo, che deve dare attuazione alla delega. Dopo avere approvato il primo decreto legislativo (leggasi «attuativo»), in materia di lavoro, s’è aperta la discussione sul comprendervi o meno i lavoratori del settore pubblico. Non discussione teorica, ma sullo scritto: taluni vi leggevano la comprensione, altri l’esclusione.

Disse Renzi: ci rimettiamo alla volontà del Parlamento. Sbagliato, perché il Parlamento si era già espresso, aveva già delegato. Il governo doveva attuare, dando sostanza alla delega. Il delegato non può rimettersi al delegante, altrimenti è un inferno degli specchi. La faccenda è stata presto insabbiata, rinviando tutto alla (ennesima) riforma della pubblica amministrazione. Ma è poi arrivata la mostruosità del decreto legislativo in materia fiscale. Comprendendo, fra le altre cose, alcune depenalizzazioni, con aumento di ammenda, è coerente che si trovino affiancate le fatture false (sotto i 1.000 euro), alcune evasioni (sotto i 150.000) e la non penalizzazione per chi evada meno del 3% di quanto effettivamente versa. Si può essere a favore o contro (io sono a favore), ma ha un senso.

Da lì è partita una collana di bischerate. 1) Prima Renzi dice: se la cosa favorisce Berlusconi la ritiriamo (come se le regole sono buone o cattive a seconda di chi salvano o dannano). 2) Poi dice che non si farà valere la nuova regola per i procedimenti in corso o in giudicato (con pernacchie al diritto romano e a uno dei pilastri della civiltà giuridica, il favor rei). 3) Quindi interviene Graziano Delrio e afferma che il decreto va bene, ma loro sono pronti a ridiscuterlo (e con chi? con sé stessi, visto che si tratta di un atto del Consiglio dei ministri). 4) Torna Renzi e corregge: va bene il testo, ma lo congeliamo (in questo modo sovvertendo il senso della regola e umiliando non solo il Parlamento ma il banale buon senso).

Può darsi che io abbia l’epidermide troppo sensibile, adusa all’idea che il diritto non sia solo un colpo del tennis, ma mi pare sia stato superato il limite. Per meno di un millesimo, in altre circostanze, avremmo sentito il severo richiamo del presidente della Repubblica. Che è ancora incarica, benché pubblicamente dimessosi. Il governo ha solo due strade, per uscire dal pasticcio: a) confermare il testo e spedirlo subito al Parlamento; b) convocare immediatamente il Consiglio dei ministri, rimangiarsi il testo e produrne uno diverso. In nessun caso salverà la faccia, ma, almeno, avrà fatto finta di conoscere le regole.

Postilla: la Commissione europea ha già cominciato il riesame dei nostri conti, i francesi hanno chiesto una ulteriore proroga, noi no (che si sappia); senza il decreto legislativo non sono neanche ipotizzabili i suoi fantasiosi vantaggi per le casse pubbliche; il che comporta la clausola di salvaguardia: aumenta l’Iva. A quel punto non sarà la faccia il solo lato a subire qualche danno.