dino pesole

Flessibilità e coperture

Flessibilità e coperture

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Se la scommessa della manovra “espansiva” da 36 miliardi varata dal governo è provare a invertire il ciclo negativo, non ha molto senso limitare la partita con Bruxelles a una «promozione» o a una «bocciatura». Certo va salvaguardato il rispetto formale delle regole, preoccupazione che sembra nutrire soprattutto la Commissione uscente, ma l’impressione è che ancora non si sia colto il vero problema: con gli attuali tassi di crescita, con la miscela esplosiva di stagnazione e deflazione, occorre imboccare in fretta una strada fatta di investimenti, regole di bilancio più flessibili, sostegno deciso alla domanda interna.

Per quel che riguarda l’Italia, la strategia che il governo sta imbastendo nei contatti di queste ore con Bruxelles non è evidentemente priva di rischi e incognite. Il ricorso alle «circostanze eccezionali» motiva la scelta di rallentare il percorso di consolidamento fiscale, con l’obiettivo di evitare manovre restrittive che avrebbero effetti ulteriormente depressivi del ciclo economico. Poi la scommessa delle riforme. Infine il confronto certamente tecnico ma con risvolti evidenti di policy, sulle stime utilizzate da Bruxelles in particolare per quel che riguarda il calcolo del pil potenziale. Tutti temi al centro della trattativa che si aprirà tra breve con la nuova Commissione Juncker. Nell’immediato – e dunque da qui al 29 ottobre, data in cui la Commissione uscente dirà la sua – si tratta di trovare la sintesi su una posizione di compromesso, anche per non trasformare (è il timore del presidente permanente anch’egli uscente Herman Van Rompuy) il vertice europeo di domani e venerdì in un pericoloso braccio di ferro tra la Commissione e i paesi cui sono dirette le missive, in primis l’Italia, e poi Francia, Slovenia, Malta.

Per salvare la forma, può bastare allora una lettera di richiesta di chiarimenti di Bruxelles, cui seguirà una probabile lettera di risposta in cui vengano riassunti gli intendimenti programmatici del governo e la ratio della legge di stabilità, se necessario mettendo in campo la “dote” di 3,4 miliardi di euro appostata ad hoc nella legge di stabilità? Questione che diverrebbe secondaria, qualora venisse accordata al nostro paese non una cambiale in bianco, ma un’apertura di credito sul versante delle riforme e su una manovra “espansiva” che prova a scommettere sulla crescita. L’alternativa non è nei fatti perseguibile, se ispirata a logiche esclusivamente rigoriste. Per avere una qualche chance di successo, la manovra che ieri sera è approdata al Quirinale finalmente corredata della “bollinatura” della Ragioneria, deve poter contare su coperture certe, soprattutto per quel che riguarda l’effettiva realizzabilità dei tagli alla spesa. In caso contrario, sarebbe arduo difenderla in sede europea. La vera partita con Bruxelles potrebbe così essere direttamente rinviata alla prossima primavera, quando la legge di stabilità comincerà a dispiegare i suoi effetti e si potrà fare il punto sulle riforme approvate.

Entrate, in aumento Iva e rendite

Entrate, in aumento Iva e rendite

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Nell’anno in cui il Pil registrerà una contrazione dello 0,3%, le entrate tributarie per ora mostrano una sostanziale tenuta. Stando ai dati diffusi ieri dal ministero dell’Economia, nel periodo gennaio-agosto le entrate tributarie erariali, accertate in base al criterio della competenza giuridica, si sono attestare a quota 266 miliardi, in lieve flessione dello 0,4% rispetto allo stesso periodo del 2013. Un segnale positivo si evidenzia sul fronte dell’Iva che segna un incremento del 3,1% (due miliardi in più di gettito). Nel complesso, le imposte dirette registrano un gettito di 142,6 miliardi, in calo del 3,5% (-5,1 miliardi) nel confronto con i primi otto mesi dello scorso anno. L’Irpef – rileva il Mef – presenta una leggera variazione negativa dello 0,8% (-928 milioni di euro), che riflette gli andamenti delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore privato (-0,8%), delle ritenute sui redditi dei dipendenti del settore pubblico (-1%) e dei lavoratori autonomi (-2,5%), parzialmente compensati dall’aumento dei versamenti in autoliquidazione (+0,8%).

Quanto all’Ires, i dati diffusi ieri evidenziano un calo del 18,7% (-3,5 miliardi), «essenzialmente riconducibile ai minori versamenti a saldo 1013 e in acconto 2014, effettuati da banche e assicurazioni a seguito dell’incremento della misura dell’acconto 2013 fissato», per questi contribuenti, al 130% nel novembre del 2013. In calo anche l’imposta sostitutiva su interessi e altri redditi di capitale (-10,3%) e sul risparmio gestito e amministrato (-26,2%). Un effetto in qualche modo “compensativo” dell’aumento della percentuale dell’acconto dovuto nei mesi scorsi. Il bollettino segnala, invece, un aumento del 110,7% (465 milioni) del gettito dalle ritenute sugli utili distribuiti da persone giuridiche: la spiegazione è riconducibile sia all’aumento dei dividendi dovuti nel 1014 sia a un primo effetto dell’aumento della tassazione sulle rendite (passata dal 20% al 26% dal 1 luglio scorso).

Per quel che riguarda le imposte indirette, il gettito è pari a 123,4 miliardi, con un incremento del 3,4% (+4,1 miliardi), rispetto ai primi otto mesi dello scorso anno. Il Mef conferma che per l’Iva l’andamento positivo riguarda in particolare gli scambi interni (+4,1%) mentre il gettito dell’accisa sui prodotti energetici (oli minerali) registra un incremento del 6,8%, principalmente per effetto dell’abolizione della riserva destinata alle regioni a statuto ordinario, che dal mese di dicembre 2013 viene contabilizzata tra le imposte erariali. Le entrate relative ai giochi presentano infine una lieve crescita dello 0,5% (+36 milioni di euro), mentre gli incassi da attività di accertamento e controllo risultano in crescita del 14,2% (+681 milioni di euro).

Manovra in deficit, aspettando Bruxelles

Manovra in deficit, aspettando Bruxelles

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

In attesa che la nuova Commissione Ue dica la sua sulla legge di stabilità, il governo gioca d’anticipo con la mossa congiunta Tfr e bonus Irpef (i 180 euro promessi da Matteo Renzi) e prova a impostare una manovra “espansiva”, per finanziare riduzioni di imposta e nuove spese. Il via libera di Bruxelles tuttavia non è del tutto scontato.

Il nuovo quadro macroeconomico contenuto nella Nota di aggiornamento del Def (Pil a -0,3% quest’anno e a +0,6% nel 2015) con il deficit che staziona tra il 3 e il 2,9%, non offre a bocce ferme grandi margini di azione. Si prova a utilizzare quei margini di deficit che potrebbero aprirsi l’anno prossimo tra il valore del “tendenziale” e quello del “programmatico”, tenendo conto che al momento la manovra da 20-22 miliardi risulta coperta solo per 13 miliardi. Spending review, sforbiciata alle agevolazioni fiscali, maggiore Iva attesa dallo sblocco dei debiti commerciali della Pa, lotta all’evasione, ma anche risparmio in conto interessi. Il tutto senza sforare il tetto massimo del 3% del Pil.

In poche parole, da Roma parte questo messaggio diretto a Bruxelles: l’economia italiana è alle prese con la miscela esplosiva di recessione e deflazione, come confermano le anticipazioni diffuse ieri dall’Istat relativamente al terzo trimestre del 2014. La legge di stabilità non opera correzioni ai saldi di finanza pubblica, ma è interamente “espansiva”. Serve cioè a rendere strutturale il bonus Irpef da 80 euro per i redditi entro i 26mila euro annui, a ridurre di 2 miliardi l’Irap e a finanziare nuove spese: 1 miliardo per allentare il patto di stabilità interno, 1,5 miliardi per gli ammortizzatori sociali, 1 miliardo per la scuola. Si prova in poche parole a scommettere sull’auspicato aumento del Pil, per ora inchiodato nel 2015 attorno a un modesto +0,6%, grazie appunto alle misure che stanno per essere inserite nella legge di stabilità, e all’effetto atteso dalle riforme strutturali in cantiere, in primis il lavoro.

Schema che ha indubbiamente una sua logica, percorso che in parte il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ha già anticipato nelle grandi linee al nuovo presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, e che ora dovrà essere “validato” da Bruxelles. Non mancano gli elementi di rischio, poiché sulla carta (qualora prevalesse un orientamento più restrittivo all’interno della Commissione) a novembre la Commissione potrebbe anche invitare il governo a “riscrivere” in tutto o in parte la legge di stabilità. D’accordo le circostanze attenuanti in presenza di una prolungata fase recessiva – potrebbe obiettare l’esecutivo comunitario – ma l’Italia risulterebbe inadempiente rispetto ai parametri europei, che possono e devono essere interpretati in modo flessibile ma che tuttavia (fino a quando non verranno modificati) potranno sempre essere posti nuovamente con decisione sul tavolo del confronto bilaterale con il nostro paese. Pur rispettando il tetto del 3%, il deficit nominale resterebbe sempre nei dintorni del tetto massimo. Inoltre non sarebbe rispettata la regola del debito, saremmo comunque in presenza di squilibri macroeconomici eccessivi, non assicurando che la riduzione del deficit strutturale converga verso l’obiettivo di medio termine nei tempi concordati. Lettura eccessivamente ortodossa della disciplina di bilancio, certamente, ma non la si può escludere a priori.

Viceversa – ed è auspicabile che la decisione di Bruxelles vada in questa direzione – verrebbe concessa una sorta di apertura di credito, se pur condizionata e a tempo, nei confronti del nostro paese. Via libera in sostanza alla manovra “espansiva”, soprattutto se accompagnata dalla riforma del mercato del lavoro, e sospensione del giudizio fino alla prossima primavera quando si potranno cominciare a verificare sul campo gli effetti della strategia di politica economica messa in campo dal governo. Un sì condizionato, dunque, e questa pare al momento l’ipotesi più probabile. Sbocco atteso della trattativa con Bruxelles, che tuttavia non ammette ulteriori deviazioni. C’è da chiedersi ad esempio quale sarebbe il giudizio di Bruxelles qualora la riforma del lavoro perdesse pezzi fondamentali nel corso dell’esame parlamentare, o se il fuoco di fila degli emendamenti alterasse l’impianto di partenza della stessa legge di stabilità. Percorso a ostacoli, dunque, meta incerta, obiettivo arduo la cui realizzazione presuppone una forte determinazione politica e un deciso sostegno parlamentare.

Per i conti italiani la scommessa del Pil

Per i conti italiani la scommessa del Pil

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Con una prospettiva di crescita per il 2015 che al momento non va oltre un modesto 0,5%, l’unica strada è provare a “forzare” sul “denominatore” e scommettere su un risultato che possa quanto meno avvicinarsi all’1 per cento. È lo schema implicito sul quale pare basarsi la legge di stabilità che il governo si appresta a definire, dopo aver approvato il nuovo quadro macroeconomico con la Nota di aggiornamento al «Def». Ed è al tempo stesso lo scarto che potrà separare il quadro “tendenziale” (a bocce ferme) da quello “programmatico” (con le azioni di politica economica incorporate). E quindi, da un lato la flessibilità che andrà concessa – vi ha fatto cenno ieri alla Camera il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – per effetto della prolungata fase di contrazione dell’economia. Più tempo a disposizione, in poche parole, per rientrare nella «regola del debito». Dall’altro, quella che potremmo definire la «scommessa del Pil».

Certo, occorre superare le diffidenze che permangono, soprattutto a Berlino e nelle capitali dei paesi più rigoristi, sull’effettiva capacità del nostro paese di portare a termine le riforme già approvate e quelle in itinere, ma in presenza di una legge di stabilità con un profilo più ambizioso rispetto a quello che – per condizioni oggettive – va emergendo, sarebbe più arduo da parte della Commissione europea continuare a opporre il rigido ed esclusivo rispetto delle regole. Anche il tabù del 3%, per quel che riguarda il rapporto deficit/Pil, potrebbe essere in teoria momentaneamente scalfito, se servisse a finanziare una robusta operazione di riduzione fiscale in buona parte concentrata sul fronte del costo del lavoro. Matteo Renzi ha parlato ieri di «danno reputazionale», che sarebbe per noi più grave del beneficio, in caso di sforamento del tetto del 3 per cento. Ragionamento certamente fondato.

In realtà la vera incognita, che si può immaginare freni soprattutto Padoan, riguarda non tanto le conseguenze immediate della procedura d’infrazione che ne seguirebbe, quanto la reazione dei mercati. Se lo sforamento del 3% venisse percepito come l’ennesimo tentativo del nostro paese di risolvere «via deficit» quel che non riesce a ottenere «via riforme», il conto in termini di aumento del costo del debito potrebbe essere salato. Preoccupazione fondata, ma c’è da chiedersi se abbia un senso logico continuare a rispettare il target del 3%, quando poi non si riesce comunque a ridurre il deficit strutturale dello 0,5% l’anno, come previsto dalle regole europee, tanto che si è costretti a far slittare in avanti il pareggio di bilancio (2018?). Deviazioni e scostamenti dal percorso programmato che, se prevalesse un’improvvida e ortodossa interpretazione dei Trattati, dovrebbero comportare anch’essi l’apertura di una procedura di infrazione per debito eccessivo. Senza considerare che formalmente continua a pendere sull’Italia la spada di Damocle degli «squilibri macroeconomici eccessivi», certificati lo scorso marzo da Bruxelles (alto debito, bassa produttività). Ma in qualche modo occorre provare a uscire dalla gabbia della disciplina di bilancio europea, così come costruita – lo ha ricordato Padoan – quando il quadro macroeconomico era diverso. Ora la miscela esplosiva di stagnazione e di quella che il ministro dell’Economia con un neologismo definisce «bassa inflazione» richiede risposte non “ragionieristiche” ma “ragionevoli”.

Sulle imprese record di tasse e contributi

Sulle imprese record di tasse e contributi

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Il Governo – lo ha confermato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi nell’intervista di ieri al «Sole24Ore» – si accinge a stabilizzare con la prossima legge di stabilità il bonus Irpef da 80 euro, e a tentare per quanto possibile di estenderlo alle categorie finora escluse. Nessun nuovo intervento per alleggerire il peso del fisco sulle imprese, a partire dall’Irap. Di certo, se si esaminano dati e statistiche, l’urgenza di un intervento a sostegno del mondo produttivo è pienamente confermata.

Secondo il rapporto «Paying taxes» della Banca mondiale, il livello complessivo del prelievo a carico delle aziende italiane (il cosiddetto total tax rate) ha raggiunto l’astronomico livello del 65,8 per cento. Un primato indiscutibile in Europa, se si considera che i dati del «Doing business 2014» mettono in luce come in Germania la pressione fiscale complessiva sulle imprese si attesti a un livello decisamente più basso, il 49,4% dei profitti. Alto livello di imposizione, ma anche eccesso di adempimenti: da noi le imprese effettuano mediamente 15 versamenti l’anno impiegando 269 ore, contro le 130 delle aziende danesi, le 132 di quelle francesi, le 167 della Spagna il cui livello di total tax rate al 58,6 per cento. Se si esamina la scomposizione del prelievo italiano a carico delle imprese, un peso determinante va ai contributi (34,8), mentre la corporate tax vera e propria è del 21,2%, cui vanno aggiunte l’Irap e l’Ires.

Come finanziare un’operazione che comunque, per essere efficace, dovrebbe essere “visibile”? Da un lato, attraverso la riduzione selettiva della spesa, dall’altro con una lotta senza quartiere all’economia sommersa, al lavoro nero, all’evasione fiscale. Mali endemici del nostro Paese, che sottraggono risorse, solo per quel che riguarda l’evasione, per non meno di 130 miliardi l’anno. Da questo punto di vista, occorrerà attuare in pieno il dispositivo della delega fiscale in cui si dispone la «misurazione dell’evasione fiscale», attraverso la messa a punto di un rapporto annuale che stimi e monitori il «tax gap», il livello accertato di evasione per tutte le principali imposte.

Del resto – lo sottolinea Eurostat – l’Italia dopo l’Ungheria è il paese europeo che in un solo anno, tra il 2011 e il 2012, ha accresciuto di più il peso della tassazione (dal 42,4 al 44%). Secondo i calcoli del Centro studi di Confindustria, se si guarda al parametro dell’aliquota implicita (quale emerge dal rapporto tra il gettito fiscale e la relativa base imponibile), la tassazione dei redditi d’impresa da noi è superiore sia alla media dell’eurozona che a quella dell’intera Unione europea. In sostanza l’onere che grava sui profitti è pari al 2,8% del Pil, contro il 2,5% dell’eurozona e il 2,6% della Ue a 27. L’aliquota implicita da noi è del 24,8%, inferiore, tra i paesi euro, solo a Portogallo (36,1%), Francia e Cipro (26,9%).

Quanto all’incidenza del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro, l’Italia si colloca al secondo posto nella classifica europea, con il 42,3% (il Belgio è al 42,8%). La Francia è al 38,6%, la Germania al 37,1 per cento. Da metà degli anni Novanta – rileva il CsC – il livello dell’imposizione sul lavoro «si è innalzato in modo netto al di sopra di quello dei principali partner europei, aprendo così un divario sostanziale, in termini di costo del lavoro, che ha effetti negativi sulla competitività delle imprese».
Del resto, se si calcola il peso del sommerso, la pressione fiscale effettiva supera e di molto il livello fotografato dalle statistiche ufficiali, attestandosi nei dintorni del 53 per cento.

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Primo step il pacchetto di misure all’esame del Consiglio dei ministri del 29 agosto: il decreto «sblocca-Italia», la riforma della giustizia civile e le linee guida sulla scuola con i nuovi meccanismi di reclutamento degli insegnanti per superare l’emergenza precari e il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro (mentre potrebbe slittare il provvedimento su «quota 96» per sanare la posizione di 4mila docenti pensionandi). Secondo step il 30 agosto, quando il Consiglio straordinario dei capi di Stato e di governo affronterà il nodo delle euronomine, con un focus sulle ricette per affrontare la congiuntura negativa che investe i big dell’eurozona, Germania, Francia e Italia in primis. Consiglio europeo “cruciale”, secondo quanto il premier Matteo Renzi ha fatto sapere ai suoi ministri.
Poi, a partire dall’Ecofin informale di Milano in programma il 13 settembre, l’avvio vero e proprio della trattativa per rendere esplicito «il miglior utilizzo della flessibilità», secondo le intese raggiunte nel Consiglio europeo di fine giugno, con l’obiettivo di chiudere il semestre di presidenza italiana della Ue con un pacchetto di proposte concrete, preventivamente concordate con la nuova Commissione europea che si insedierà in novembre. Mese in cui l’esecutivo comunitario renderà note le sue nuove stime sull’economia dell’eurozona, con annesse le prime valutazioni sulle manovre di finanza pubblica predisposte dai singoli paesi. Nel caso dell’Italia, la legge di stabilità che il Governo sottoporrà all’esame del Parlamento a metà ottobre. È già partita la caccia alle risorse per stabilizzare il bonus Irpef, all’interno di una manovra che si attesterà attorno ai 20 miliardi: tagli alla spesa, ma anche riordino delle agevolazioni fiscali e maggiori introiti attesi dalla lotta all’evasione.

Fonti di palazzo Chigi negano che sia in atto una sorta di trattativa pubblica o segreta sui conti italiani con l’Europa e che sia in arrivo un piano taglia debito, come riportato da alcune indiscrezioni giornalistiche. L’Italia, sottolineano le stesse fonti, «farà la sua parte come più volte ribadito dal premier, rispettando il vincolo del 3% senza aumentare la pressione fiscale. Non esiste, ribadisce palazzo Chigi, un problema Italia in Europa: esiste un problema dell’eurozona che l’Italia contribuirà ad affrontare». E il premier Matteo Renzi ai suoi collaboratori ricorda: «Abbiamo sempre detto che l’Europa non è solo spread e Maastricht, ora che la guidiamo noi è giusto dimostrarlo». La linea del Tesoro non cambia: le varie ipotesi di operazioni taglia debito circolate in questi giorni, e approdate fin nei corridoi di Via XX Settembre, presentano «problemi». Non esistono di fatto scorciatoie per il Tesoro, come ha ripetuto più volte Padoan, e quindi la via maestra per ridurre il debito pubblico al Mef è e resta una soltanto, ed è quella della crescita «sostenibile e sostanziale abbinata alla fiducia dei mercati». Fiducia che si conquista sul campo con uno sforzo continuo nell’implementazione delle riforme strutturali, con l’aggiustamento del bilancio, con un avanzo primario che sia considerevole e con i conti pubblici tenuti costantemente sotto controllo. Le privatizzazioni possono certamente contribuire ma in maniera minore, non sono decisive, hanno alti e bassi: il Tesoro conta di avvicinarsi molto all’obiettivo dello 0,7% di Pil programmato per quest’anno, con le privatizzazioni (senza Poste, la vendita di azioni Eni ed Enel integra la voce delle dismissioni) e con la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico per il quale grandi aspettative sono riposte nel decollo in autunno di Invimit, la SGR immobiliare posseduta al 100% dal Tesoro. La fiducia dei mercati, che è fondamentale per la riduzione del debito, è alimentata da un ventaglio di forme di intervento tra le quali non figurano operazioni taglia debito come quelle proposte in questi giorni. Una crescita non fiacca, le riforme strutturali, un avanzo primario importante restano il sentiero principale per ridurre il debito pubblico, dal quale l’Italia e il Tesoro non si discostano ma lungo il quale il Paese dovrà essere aiutato dall’Europa, che deve fare la sua parte (con nuove politiche per rafforzare la crescita) e dalla Bce che con la sua politica monetaria deve fare anch’essa la sua parte anche per combattere i rischi di deflazione.

Lo schema resta quello più volte enunciato da Renzi e Padoan: riforme in cambio di flessibilità nel timing di rientro dal debito, tenendo conto che rispetto allo scenario ipotizzato in primavera i due trimestri consecutivi di crescita sotto lo zero rendono di fatto obbligata la strada del ricorso alle «circostanze eccezionali» previste dal Fiscal compact. La contemporanea, brusca frenata di Germania e Francia rafforza la linea avanzata dall’Italia: solo attraverso azioni concordate e coordinate a livello europeo si potrà tentare di invertire il ciclo. Se, differentemente dalla Francia, l’Italia conferma che non vi saranno sforamenti al tetto del 3% per quel che riguarda il deficit, il focus si sposta sul percorso di rientro dal deficit strutturale (depurato dagli effetti del ciclo economico e dalla una tantum) così come delineato dalla disciplina di bilancio europea.
La frenata del Pil rende per noi di fatto impossibile, a meno di ricorrere a manovre restrittive di bilancio, rispettare la richiesta di Bruxelles in direzione dell’obiettivo di medio termine. Il pareggio di bilancio non potrà essere conseguito nel 2015, slitta al 2016 se non al 2017. La trattativa con Bruxelles dovrà a questo riguardo puntare in primo luogo a evitare il ricorso a misure aggiuntive già nel 2014 (in sostanza una manovra correttiva) chiesto dalla Commissione fin dalle raccomandazioni del 2 giugno. Richiesta motivata dallo scarto tra la stima del deficit strutturale calcolata da Bruxelles per il 2015 (0,7%) e lo 0,1% assicurato dal governo. A quel punto la trattativa si concentrerà proprio sul 2015 e sugli anni a venire e la carta che Renzi e Padoan si accingono a giocare, per quanto riguarda le politiche nazionali, punta sull’effetto atteso dalle riforme strutturali, che lo stesso Padoan fissa in almeno un biennio. L’auspicata flessibilità, da estendere evidentemente erga omnes, sarebbe dunque strettamente connessa alle riforme strutturali messe in campo, puntualmente monitorate dalla Commissione. Il giudizio di Bruxelles è atteso su questo punto non prima della prossima primavera.

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Renzi liquida Cottarelli, Legge di Stabilità ora in forse

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Senza tagli alla spesa, o in presenza di un drastico ridimensionamento, la prossima legge di stabilità perderebbe la sua principale fonte di finanziamento, rendendo di fatto impossibile onorare tutti gli impegni in lista di attesa. Si va dalla stabilizzazione del bonus Irpef, ai nuovi capitoli di spesa che sarà necessario affrontare (dal costo delle missioni internazionali al finanziamento di altre spese inderogabili), per finire con gli impegni già contenuti nella legislazione vigente. Dulcis in fundo, la necessità di garantire – come chiede Bruxelles – che il deficit strutturale venga ridotto già dal 2015 in modo da garantire il rispetto dell’obiettivo di medio termine, in sostanza il pareggio di bilancio. La somma dei diversi addendi fa salire l’importo complessivo della manovra d’autunno nei dintorni dei 20 miliardi. E sono almeno 14 miliardi i tagli strutturali alla spesa corrente da realizzare tutti con la prossima legge di stabilità, che salgono a 17 miliardi se si aggiungono gli impegni finanziari già assunti dal governo Letta, quando ancora devono essere realizzati i tagli da 2,6 miliardi inseriti sotto forma di copertura di parte del bonus Irpef per l’anno in corso. La mission che attende il Governo è questa, e la partita si annuncia a dir poco complessa, ora che i dissensi tra il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, Palazzo Chigi e parte del Parlamento sono emersi in tutta la loro evidenza.

Impensabile realizzare interventi di tale portata senza l’apporto decisivo dell’azione complessiva di razionalizzazione della spesa pubblica, che comunque dovrà garantire risparmi strutturali e a regime per non meno di 32 miliardi. Il punto di rottura e il vero banco di prova per la tenuta del governo è proprio qui, su questo terreno, perché va a investire frontalmente scelte politiche (non certo indolori, anche sul fronte del taglio delle agevolazioni fiscali), da adottare e difendere in Parlamento, quando in autunno Camera e Senato saranno chiamate ad approvare un così consistente piano di revisione dei meccanismi stessi che presiedono alla formazione della spesa. Il ruolo di Cottarelli, o di chi sarà chiamato a sostituirlo, è tutt’altro che secondario, e non si limita a un semplice esercizio ricognitivo.

Si tratta – ed è quello che lo stesso Cottarelli si accingeva a fare – di indicare con precisione dove e come far scattare il bisturi dei tagli selettivi. Così da creare di conseguenza gli spazi finanziari per ridurre le tasse sul lavoro. Ma se si esclude – per evidenti ragioni politiche e di consenso – di intervenire in settori nodali come la sanità (materia di intese bilateraili tra governo e Regioni all’interno del Patto della salute), la previdenza (argomento ad alta valenza politico-elettorale), se il disboscamento delle municipalizzate si riduce a una semplice azione di “manutenzione”, dove intervenire? Possibile ipotizzare che si agisca in via esclusiva sul fronte degli acquisti di beni e servizi, settore in cui magna pars è costituita proprio dalle spese sanitarie? Possibile intervenire senza riaprire il dossier dei costi e fabbisogni standard? Se poi – come ha denunciato lo stesso Cottarelli – si prenotano ex ante risparmi ancora da realizzare per finanziare nuova spesa corrente (la cosiddetta «quota 96» per 4mila insegnanti), il vero rischio è che la stessa mission della spending review venga vanificata, aprendo di fatto la strada alla vecchia, abusata prassi dei tagli lineari. Ecco perché il vero nodo è tutto politico, e non sarà agevole districarlo. Sono interrogativi che andranno sciolti in fretta, la cui soluzione va oltre la «questione personale» che sta dietro il caso Cottarelli, come definita ieri dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio. L’impegno – fa sapere Delrio – è a continuare sulla spending review «senza nessun problema. È un obiettivo del governo e non dipende dalle persone che la conducono». E il premier Matteo Renzi aggiunge: la spending si farà anche senza Cottarelli.

Il punto è che dal lato del deficit non vi sono margini. In attesa che l’Istat renda noti, il prossimo 6 agosto, i dati relativi al Pil del secondo semestre, al ministero dell’Economia si stanno già facendo i conti con una previsione di crescita che – se andrà bene – risulterà almeno dimezzata rispetto alle stime del Def di aprile (0,8%). Ne consegue che il deficit nominale scivolerà di fatto verso il limite massimo del 3%, contro il 2,6% previsto in primavera. Ogni ulteriore sforamento imporrebbe il ricorso a una manovra correttiva dei saldi di finanza pubblica, che a ottobre con ogni probabilità dovrebbe concretizzarsi in aumenti d’imposta. Ipotesi da scongiurare, per non aggravare ulteriormente gli andamenti attuali dell’economia reale. Scenari che impongono massima vigilanza e determinazione, anche nel caso in cui possa venire in soccorso una minore spesa per interessi grazie al calo dello spread.

Semplificare a metà non serve allo sviluppo

Semplificare a metà non serve allo sviluppo

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Nel suo ultimo rapporto «Going for growth», l’Ocse invita il nostro paese a migliorare l’efficienza della struttura del fisco semplificando le norme e combattendo l’evasione. E al tema delle semplificazioni è dedicato proprio il primo decreto attuativo della delega fiscale, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri lo scorso 20 giugno e attualmente all’esame delle competenti commissioni parlamentari. Apprezzabile l’intento, poiché è del tutto evidente che un fisco più semplice e a «misura di contribuente» è la precondizione per accrescere quella che i tecnici definiscono la «tax compliance», vale a dire l’adesione spontanea all’obbligo tributario. Potente antidoto antievasione, al tempo stesso, almeno di quella fetta di evasione che sicuramente va imputata a un sistema fiscale complesso e caratterizzato da un eccesso di adempimenti. Se l’obbligo tributario si trasforma in una corsa a ostacoli per i contribuenti onesti, in un confuso e contraddittorio rincorrersi di norme, accresce la propensione ad evadere.
La semplificazione fiscale è in effetti la madre delle riforme fiscali. Presuppone in primo luogo che i relativi decreti legislativi vengano attuati pienamente, ed è questa – come del resto per gran parte della legislazione primaria – l’incognita maggiore. Senza un’attenta vigilanza, senza un monitoraggio costante dell’intero processo attuativo (a partire dai regolamenti), anche i più apprezzabili intenti di snellimento di adempimenti e procedure rischiano di non produrre gli effetti sperati. Pare quindi quanto mai opportuno l’invito, rivolto ieri da Andrea Bolla, presidente del Comitato tecnico per il Fisco di Confindustria, in un passaggio dell’audizione davanti alla Commissione Finanze del Senato: per semplificare il sistema fiscale non basta eliminare adempimenti inutili o razionalizzare quelli onerosi, occorre una normativa lineare, coerente e di facile interpretazione. In questa direzione dovranno muoversi gli ulteriori decreti delegati, a partire da quelli sui temi della stabilità e certezza del diritto relativi, in particolare, alla revisione del sistema sanzionatorio e alla necessità di introdurre una norma generale che definisca l’abuso di diritto.
Se – come ha documentato il Sole 24Ore – la mancata attuazione delle riforme costa almeno 5 miliardi, di certo le semplificazioni fiscali consentirebbero di accrescere la base imponibile, sia per effetto dell’accresciuta tax compliance che grazie al recupero implicito di evasione. L’intera partita delle semplificazioni amministrative, se effettivamente si traducesse nell’eliminazione dei vincoli che soffocano l’intero sistema imprenditoriale, di certo immetterebbe linfa finale nel motore inceppato della crescita. È lo stesso Governo, nel «Programma nazionale di riforma» presentato a Bruxelles lo scorso aprile, a indicare nello 0,8% l’effetto sul Pil delle misure di semplificazione e liberalizzazioni nel 2015, che salirebbero al 2,2% nel 2020 e al 4,5% nelle stime di «lungo periodo».
All’interno di questo percorso, le semplificazioni fiscali giocano un ruolo determinante. Rendere meno complessi gli adempimenti fiscali per famiglie e imprese – si legge nel «Pnr» – «è la precondizione per un riavvicinamento del fisco ai cittadini». Nel 2015 partirà in via sperimentale la trasmissione diretta del 730 precompilati, che di certo semplificherà la vita a milioni di contribuenti persone fisiche, ma che rischia – come ha rilevato Bolla – di complicare quella delle persone giuridiche («occhio che queste norme non implichino maggiori oneri per i sostituti d’imposta»). Un motivo in più per vigilare attentamente su tutti gli aspetti e le implicazioni delle novità in arrivo.
Perché le semplificazioni producano pienamente i propri effetti, occorre un’amministrazione pronta ed efficiente. Non a caso fin dal 1965, in vista del varo della «grande riforma» del 1973, un personaggio del calibro di Cesare Cosciani ammoniva: «Rimontare la corrente che ha portato gli uffici in tale delicata situazione è opera difficile, paziente, lunga e ingrata per il ministro che deve attuarla. Ma è il presupposto per ogni riforma». Come dire che reiterati interventi legislativi possono anche naufragare, se non sostenuti da una profonda riorganizzazione della macchina fiscale. Strada imboccata alla fine degli anni Novanta con la nascita delle Agenzie, e che ora va ulteriormente rafforzata.