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Presidenziali USA: una situazione irripetibile o il segno di una crisi profonda?

Presidenziali USA: una situazione irripetibile o il segno di una crisi profonda?

di Pietro Masci

Lo scorso 1 novembre due giornalisti, Aaron Williams e Tim Meko, hanno pubblicato un articolo sul Washington Post nel quale spiegano che gli americani preferiscono quasi ogni cosa ai due candidati Presidenziali Hillary Clinton e Donald Trump. Putin, la Corea del Nord e l’Iran sono tra i pochi a situarsi saldamente dietro Clinton e Trump. Il giorno dopo il Club Economico di Washington ha organizzato un dibattito sulle elezioni durante il quale il moderatore ha chiesto: «Se Hillary Clinton sarà eletta presidente, qual è l’evento che l’ha maggiorente favorita?» La risposta è stata unanime: «La scelta dei Repubblicani di candidare Donald Trump». Il moderatore ha fatto la stessa domanda riferita a Donald Trump. Anche in questo caso la risposta è stata unanime: «La scelta del Democratici di candidare Hillary Clinton». Questa situazione di due candidati alla Presidenza americana che raccolgono la disapprovazione del pubblico non è emersa ora. Un paio di mesi fa, una mia cara amica italiana che ha vissuto negli Stati Uniti mi ha inviato una foto che sollecita gli americani a cambiare la residenza in Canada, dato il livello dei due candidati presidenziali. E’ l’equivalente di uno sfottò tra vicini, ma dimostra uno stato d’insoddisfazione.

L’insoddisfacente livello della campagna presidenziale

Come avevo sottolineato alcuni mesi fa su questo sito, il malcontento nei confronti di Clinton e Trump è parte di una più generale frustrazione per i principali candidati alla Presidenza. Quelli repubblicani (Jeb Bush, Carson, Christie, Cruz, Kasich, Rubio) non erano al’altezza e non avevano una proposta convincente. Il Presidente della Camera Paul Ryan – che considero un politico di livello – non ha avuto il coraggio di candidarsi e non è stato in grado di comprendere l’avanzata di un candidato come Trump, per molti versi antitetico ai valori del Partito repubblicano. Trump ha condotto una campagna elettorale fatta di battute (anche pesanti), minacce, offese, mancanza di contenuti e di serie proposte. La rete televisiva NBC ha dimostrato che dall’annuncio della sua candidatura (16 giugno 2015) a oggi ha cambiato 138 posizioni su 23 temi di estrema rilevanza. Quando Trump parla dei cambi che intende introdurre – tra questi una profonda revisione dei trattati commerciali e del concetto stesso di globalizzazione – trasmette l’impressione che si materializzeranno come miracoli in grado di migliorare immediatamente la vita degli americani. Il Partito repubblicano non è stato in grado di comprendere e gestire una situazione nella quale pressoché qualsiasi candidato avrebbe vinto contro una Clinton mal vista da una gran parte degli americani e ha confidato nella circostanza che Trump sarebbe stato sconfitto alle primarie.

Un’analisi analoga vale per il Partito democratico, che non poteva non conoscere gli aspetti negativi della Clinton, che tuttavia ha l’appoggio del Presidente Obama. Elizabeth Warren, senatrice per il Massachusetts e nota per le posizioni contro gli interessi precostituiti, si è defilata. Bernie Sanders, un candidato indipendente non iscritto al partito democratico, è andato allo sbaraglio (e peraltro ha dimostrato con una piattaforma di “sinistra” le difficoltà della Clinton).

Occorreva dare una risposta efficace alla gran parte degli americani insoddisfatti con la situazione economica, l’immigrazione, il terrorismo. In effetti, Trump dà voce alla profonda rabbia di tanti milioni di elettori che vogliono un miglioramento concreto nelle loro vite. Trump interpreta la convinzione di molti americani che il sistema è “truccato”; che i politici non si preoccupano dei cittadini, ma dei loro guadagni. Trump sta ridefinendo il Partito repubblicano, facendo appello agli elettori repubblicani e democratici pronti per una seconda rivoluzione americana. Guarda caso molti degli stessi elettori ai quali si rivolgeva l’indipendente Bernie Sanders, il candidato democratico che parlava di “rivoluzione” ed è battuto da Clinton nelle primarie. In tale contesto, il divario tra l’élite politica e i cittadini è in crescita. La gente si domanda quale motivo spinga entrare in politica invece che in studio legale o in altra attività imprenditoriale. Forse perché la politica permette di guadagnare bene, considerato che i politici decidono le sorti dei ricchi con i quali i politici sono continuamente in contatto e dai quali ricevono contributi finanziari. L’ultimo decennio ha visto l’1 per cento più ricco crescere, il divario tra ricchi e poveri allargarsi, la classe media impoverirsi. In tal senso, la battaglia tra Donald Trump e Hillary Clinton offre un contrasto paradossale. L’outsider Trump si è arricchito nel settore privato e – come lui stesso ammette – “acquistando” favori dai politici ai quali ha offerto vari contributi finanziari. Il politico Hillary Clinton ha ricevuto ingenti contributi finanziari e sembra dimostrare che il percorso attraverso il settore pubblico può ugualmente produrre milioni di dollari. Trump declama che l’America è attraversata da disastri e problemi (spesso non evidenti o non definibili come disastrosi e non corroborati dai dati macro-economici su occupazione, inflazione e livelli salariali). Clinton pensa invece che le cose vadano sostanzialmente bene e che per ridurre le disuguaglianze ci sia solo bisogno di alcuni aggiustamenti.

Molte persone ritengono che le leggi non siano applicate in modo uniforme. L’esempio è che nessuno ha sostanzialmente pagato per le crisi finanziaria degli ultimi anni originata negli Stati Uniti; nessuno è responsabile per le guerre degli ultimi 10-15 anni e per la gestione della politica estera. Trump ha beneficiato di procedure che gli hanno permesso di non pagare le imposte e offende e maltratta chi non è d’accordo; Clinton nei suoi anni nel Congresso e come segretario di Stato ha commesso errori enormi (per i quali si è puntualmente scusata) che hanno favorito l’emergere di seri problemi in Iraq, Libia, Siria, Ucraina nonché il continuo confronto con la Russia. ISIS è cresciuto dopo l’invasione dell’Iraq e il ritiro delle truppe americane (deciso dall’amministrazione Obama) che ha lasciato un vuoto di potere. Inoltre, la Clinton non viene mai incriminata, particolarmente per la gestione secreta della posta elettronica con un server nello scantinato di casa egli anni in cui era Segretario di Stato.

Le negatività di Trump e Clinton

La negatività che i due candidati raccolgono è senza precedenti, come dimostra un articolo di Mike Czuchnicki. Alcuni accusano Clinton di essere una bugiarda congenita e di aver dimostrato di non avere quella capacità di giudizio fondamentale per un Presidente degli Stati Uniti. La difesa di Hillary Clinton è che il suo avversario è peggio. Nel frattempo, Trump sembra essere in lotta contro tutti, compreso sé stesso. L’elenco di coloro che offende è lungo e comprende molti della struttura del Partito repubblicano, alcuni dei quali – ad esempio il senatore e già candidato presidenziale McCain – evitano pubblicamente di sostenerlo. Un recentissimo sondaggio conferma che gli americani sono disgustati dall’attuale funzionamento del sistema attuale e ritengono che il vincitore non sarà in grado di unificare il Paese. E’ probabile che il prossimo Presidente avrà una fortissima opposizione e ostruzionismo da parte del partito avverso, senza considerare la possibilità che il perdente non accetti il risultato delle elezioni. A questo proposito è sufficiente ricordare come, per molto meno, tanto Gary Hart (favorito alle elezioni nel 1984 e scoperto a mentire su una sua relazione extra-coniugale) quanto l’attuale Vice Presidente Joe Biden (candidato democratico alle primarie del 1988 e accusato di aver plagiato un discorso di Neil Kinnock del Partito Laburista inglese) furono costretti ad abbandonare la corsa alla Presidenza.

I media – soprattutto la televisione – hanno responsabilità per come la campagna presidenziale è presentata. Dopo aver facilitato la vittoria di Trump alle primarie perché gli veniva dedicato un eccesso di tempo in video, le televisioni si sono interessate in modo sproporzionato degli scandali di Trump e non si sono preoccupati di dedicare un’attenzione analoga alle rilevanti mancanze di Hillary Clinton. Una ricerca indipendente dell’Harvard Kennedy School’s Shorenstein Center on Media, Politics and Public Policy sottolinea che soprattutto le televisioni hanno dato rilievo agli scandali di Trump e particolarmente al video della conversazione offensiva contro le donne, ma hanno trascurato i problemi di Hillary Clinton come ad esempio quello della gestione della posta elettronica. L’ultima “perla” è costituita dalla circostanza che Donna Brazile – già Presidente ad interim del Comitato nazionale del Partito Democratico e collaboratore della rete CNN – ha passato alla Clinton le domande che sarebbero state fatte ai candidati durante i dibattiti televisivi delle primarie.

La corsa finale

I colpi di scena si susseguono. Ho l’impressione di assistere alla nota trasmissione radiofonica “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” con continue interruzioni dai campi con notizie che ribaltano i risultati. L’ultima riguarda la notizia sulle indagini del FBI nei confronti della Clinton e della sua Fondazione. Lo scorso 5 luglio il suo direttore James Comey annuncia che Hillary Clinton non sarebbe stata incriminata per la gestione della posta elettronica. Dieci giorni prima del voto, in una lettera a senatori e membri del Congresso, comunica la riapertura del caso a seguito dell’individuazione di nuove mail rilevanti per l’inchiesta. Infine, a meno di 48 ore dal voto, ha riconfermato la decisione di non incriminare Clinton.  Inoltre, il FBI sta indagando se i donatori alla Fondazione Clinton (che nel giro di pochi anni ha accumulato miliardi di dollari) abbiano ricevuto considerazioni particolari dal Dipartimento di Stato quando era in carica Hillary Clinton. Non solo. Il FBI ha pubblicato gli atti della grazia che il Presidente Bill Clinton (a fine mandato il Presidente degli Stati Uniti può graziare cittadini che sono stati condannati o accusati di crimini) ha concesso nel 2001 a favore di Marc Rich, un gestore di fondi d’investimento e altre attività finanziarie – fuggito in Svizzera e morto nel 2013 – accusato di evasione fiscale, frode, collusione con il crimine organizzato. A questo si aggiunga che un numero significativo di persone che ha già votato vuole cambiare il proprio voto (in alcuni Stati e in determinate circostanze coloro che hanno votato in anticipo possono infatti chiedere di rivotare). Un’ulteriore sorpresa è poi scoprire che, dopo una campagna di slogan, Donald Trump si sta in questi ultimi giorni presentando al pubblico con uno stile completamente diverso, con più sostanza, presidenziale e con la moglie Melania che anticipa come il suo ruolo di first lady sarà quello di combattere il bullismo, soprattutto quello online.

In questo contesto non poteva mancare il ruolo del mercato. Da quando è venuta fuori la notizia della riapertura dell’inchiesta su Hillary Clinton e sono quindi aumentate le probabilità di un’elezione di Trump, l’indicatore di borsa Dow Jones è sceso di oltre l’1,6 per cento. A proposito, uno studio di Justin Wolfers e Eric Zitzewitz (University of Michigan and NBER Dartmouth College and NBER) sembra sostenere che il mercato abbia più timore che Trump diventi Presidente che non che la Federal Reserve alzi i tassi d’interesse. Normalmente Wall Street è a favore dei repubblicani, ma non questa volta. La circostanza che Clinton ha sempre sostenuto Wall Street non appare insignificante.

Insomma, gli americani devono scegliere (come si dice con un’espressione caratteristica) tra il diavolo che conoscono e l’altro sconosciuto. Oltretutto l’8 novembre l’elettorato americano voterà anche per l’elezione di 469 suoi rappresentanti (34 per il Senato e 435 per la Camera) e l’esito di questa consultazione avrà un impatto fondamentale sulle prospettive di governo nazionale almeno per i prossimi due anni.

Del resto gli altri due candidati per la Presidenza degli Stati Uniti non appaiono essere in grado di costituire un’alternativa a Trump e Clinton. Il candidato del Partito Libertario Gary Johnson presumibilmente sottrarrà consensi ai repubblicani ma non sembra avere la statura e la sostanza necessaria. Stesso discorso vale per il candidato del Partito Verde Jill Stein, che presumibilmente penalizzerà i democratici. In aggiunta, il sistema americano non permette a questi due candidati – anche per la loro bassa rappresentatività – di avere accesso alla televisione e portare il loro messaggio al vasto pubblico. Sono entrambi condannati all’insuccesso.

L’esito finale

L’esito della contesa presidenziale è molto incerto, anche se i sondaggi a livello nazionale attribuiscono ancora un piccolo margine di vantaggio a Clinton (46,6% contro il 44,8% di Trump) per quanto riguarda il voto popolare. Tuttavia l’elezione dipende dai risultati ottenuti nei singoli Stati che conferiscono i c.d. voti elettorali. Per diventare Presidente occorre infatti raggiungerne 270 e Clinton resta ancora il candidato favorito (216 contro i 164 di Trump) anche se il suo margine va riducendosi negli Stati in bilico (che ne attribuiscono altri 158). Per vincere, il candidato repubblicano dovrebbe infatti aggiudicarseli tutti e strappare alla Clinton almeno uno Stato tradizionalmente a maggioranza democratica. I sondaggi non riescono comunque a identificare facilmente ex ante tre categorie di elettori che risulteranno comunque decisive: coloro che voteranno Trump senza dirlo, coloro che voteranno controvoglia Clinton perché temono il salto nel vuoto determinato da una vittoria di Trump, coloro infine che si asterranno dal voto perché non intendono essere complici di un sistema che mostra crepe evidenti.

Conclusione

Come mai in una grande democrazia come quella degli Stati Uniti, dove un certo numero di controlli ed equilibri esistono per promuovere i migliori ed evitare risultati non democratici e dove le persone hanno l’ultima parola, due personaggi così negativi riescono a diventare i candidati alla Presidenza degli Stati Uniti? Ci sono due possibili risposte: o questo è un evento casuale che non potrà ripetersi oppure è un segnale che qualcosa è sbagliato nel sistema statunitense e deve essere riparato. Sono orientato verso la seconda risposta. Ma, allora, chi potrà riparare il sistema? Forse la generazione dei c.d. Millenials oppure quella ancora successiva troverà una soluzione.

Nell’anno in cui i Cubs di Chicago hanno vinto per la prima volta, dopo 108 anni, le World Series di Baseball, è pressoché certo che per la prima volta sarà Presidente degli Stati Uniti o una donna oppure uno sconosciuto totale. Però è solo la vittoria dei Chicago Cubs che appare degna di essere celebrata. Chi diventerà Presidente degli Stati Uniti non sembra essere in grado di ricompattare il Paese e far fronte ai problemi giganteschi dell’America e dell’intero pianeta.

Dopo le elezioni sarà così cruciale verificare se, e in che misura, le tre categorie di elettori sopra menzionati – insoddisfatti e critici dell’attuale situazione, quelli che voteranno uno o l’altro dei candidati senza una grande convinzione o gli astenuti – costituiranno una forza compatta in grado di riportare il sistema americano ai valori, ai principi e alle regole originarie che il lento accumularsi nel tempo di posizioni di rendita e privilegi sta rendendo vuoti e retorici.

Primarie Usa verso la conclusione: il probabile scontro e il mancato confronto

Primarie Usa verso la conclusione: il probabile scontro e il mancato confronto

di Pietro Masci*

Dopo il voto alle primarie negli stati di New York, Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania, Rhode Island, le posizioni dei candidati alla Presidenza degli Stati Uniti nei due campi repubblicano e democratico non sono cambiate sostanzialmente dalla metà di marzo (vedi articolo del 21 marzo:  http://impresalavoro.org/elezioni-usa-meta-primarie/).

La situazione dei delegati è la seguente:

Delegati Repubblicani (1.237 per ottenere la nomina)
Donald J. Trump, 996
Ted Cruz, 565
Marco Rubio, 171
John Kasich, 153
Delegati da assegnare: 571.

Delegati Democratici (2.383 per ottenere la nomina)
Hillary Clinton, 1.645
Bernie Sanders, 1.318
Super delegati: Clinton 520, Sanders 39
Delegati da assegnare: 1.243.

Le rimanenti primarie – nei prossimi mesi di maggio e giugno- per democratici e repubblicani includono gli stati del, Indiana, Guam, Nebraska, West Virginia, Kentucky, Oregon, Washington State, Virgin Island, Puerto Rico, California, Montana, New Jersey, New Mexico, North Dakota, South Dakota, District of Columbia.

Tra i repubblicani, ad eccezione di Donald Trump, nessun altro candidato ha una reale possibilità di assicurarsi i delegati necessari per vincere la nomina. Anche se dovesse vincere tutti i restanti delegati, è impossibile per Ted Cruz raggiungere 1.237 delegati. Trump è in una posizione di forza, anche se il raggiungimento dei delegati richiesti per ottenere la nomina al Congresso Repubblicano alla prima votazione non è ancora garantito. Per raggiungere 1.237 delegati, Trump dovrà mantenere nelle primarie a venire lo stesso livello di sostegno degli elettori finora ottenuto. La strategia del senatore Cruz e del governatore dell’Ohio, John Kasich, di operare insieme e guadagnare delegati, nelle prossime primarie, non sembra funzionare. Pertanto, l’obiettivo di arrivare al Congresso repubblicano, il 18-21 luglio, a Cleveland, senza che Trump abbia raggiunto la maggioranza necessaria per ottenere la nomina alla prima votazione non appare raggiungibile. Per inciso, secondo le regole, dopo la prima votazione, i delegati non sono più vincolati al candidato per il quale sono stati prescelti e possono votare un candidato diverso. Peraltro, non è ancora assolutamente da scartare la possibilità che Trump non riesca – anche per le pressioni del partito- a raggiungere la maggioranza dei delegati e la prospettiva di un Congresso, per la nomina, a Cleveland, diviso e in cui può accadere di tutto.

Tra i democratici, negli Stati che hanno finora votato, Hillary Clinton ha vinto più della metà dei voti. La mancanza di stati che nelle prossime primarie attribuiscono tutti i delegati al vincitore, rende più difficile per Bernie Sanders eliminare la differenza di delegati che esiste con Clinton.  Inoltre, Sanders è in svantaggio in modo significativo rispetto a Clinton per quanto riguarda i c.d. super-delegati, circa 700 funzionari del Partito Democratico che sono orientati verso Clinton (vedi sopra). Sanders avrebbe bisogno di una serie di grandi vittorie nelle prossime primarie aumentando la sua quota di voto oltre il 60 per cento, in media ed appare poco probabile che riesca ad ottenere la nomina al Congresso di Filadelfia del 25-28 luglio.

Pertanto, lo scenario più probabile rimane quello che Clinton e Trump, rispettivamente per i democratici e i repubblicani, ottengano la nomina e che l’elezione generale sarà uno scontro tra questi due candidati.

I due probabili candidati alla Presidenza, Trump e Clinton, presentano una caratteristica comune estremamente interessante. Sono certamente i due candidati che hanno raccolto il maggior numero di consensi (e Trump sta portando a votare elettori prima disinteressati), ma sono anche i due candidati che attraggono, nello stesso tempo, una forte negatività – vale a dire elettori che esprimono giudizi negativi su Clinton o Trump come Presidente degli Stati Uniti.

Vari recenti sondaggi a livello nazionale misurano il gradimento dei due candidati Trump e Clinton. Secondo un sondaggio NBC-Wall Street Journal (condotto il 6-10 aprile tra i votanti registrati), i giudizi negativi verso Trump superano i giudizi positivi di 41 punti. Un sondaggio di ABC News /Washington Post – condotto il 6-10 di aprile tra i votanti registrati- indica che Donald Trump è il più impopolare candidato alla presidenza degli Stati Uniti degli ultimi 30 anni: il 67% degli americani ha un’opinione sfavorevole di Trump, secondo solo al leader del Ku Klux Klan David Duke, candidato presidenziale nel 1984. Per inciso, Sanders ha un netto positivo di 9 punti – anche se occorre sottolineare che una delle ragioni di ciò è che Sanders ha ricevuto molto meno attacchi e critiche da repubblicani o anche democratici.

Secondo un sondaggio di CBS – condotto l’8-12 di aprile – il 54% dell’elettorato registrato a votare ha un’opinione negativa di Clinton. Lo stesso recente sondaggio NBC-Wall Street Journal, indica che i giudizi negativi verso Clinton sono aumentati e ora superano i giudizi positivi di 24 punti. L’immagine di Clinton tra i principali gruppi demografici è pari o vicina a minimi storici. Tra gli uomini, è a meno 40; tra le donne, è a meno 9; tra i bianchi, è a meno 39; tra le donne bianche, è a meno 25; tra gli uomini bianchi, è a meno 72. Gli elettori che provengono da minoranze costituiscono il perno della strategia di Clinton per raggiungere la nomina e sono stati fondamentali per il successo a New York.

Tra gli afro-americani, il sondaggio NBC – Wall Street Journal mostra per Clinton un netto positivo di 51 punti. Ma questo dato è sceso di 13 punti rispetto a quello del primo trimestre di quest’anno e sta al livello più basso di sempre. Tra i “latini”, il netto positivo per Clinton è di soli 2 punti, in calo da oltre 21 punti durante il primo trimestre.  La percezione degli elettori per quanto riguarda la conoscenza e l’esperienza di Clinton per essere Presidente rimane fortemente positiva e immutata rispetto allo scorso autunno. Su altri aspetti, ad esempio, se “è in grado di portare un reale cambiamento nel paese”, o “è onesto e diretto”, Clinton ha visto la sua posizione erosa dallo scorso autunno.  “Clinton è un candidato che gli elettori hanno squalificato ad essere Presidente“, dice Bill McInturff, uno stratega Repubblicano che ha condotto il sondaggio per NBC-Wall Street Journal assieme al Democratico Peter Hart. McInturff ha anche aggiunto: “I numeri negativi di Clinton sono terribili e non sono emersi chiaramente perché c’è un candidato che ha numeri negativi peggiori. Donald Trump ha attratto così tanto l’attenzione che Clinton è scivolata sotto il radar per quello che dovrebbe costituire una circostanza di grande rilievo e che fa notizia: i numeri negativi di Clinton sono passati da terribili a storici e squalificanti“.

Naturalmente i diversi sondaggi hanno margini di errore e sono variabili nel tempo. Tuttavia, con l’elevato livello di elementi negativi che i sondaggi evidenziano per Clinton e Trump risulta molto complicato compattare il paese. In un momento tanto delicato per gli Stati Uniti e per il mondo, non emerge un candidato capace di unire e guidare il paese più importante del pianeta.

Se esaminiamo con maggiore attenzione la campagna presidenziale, ci si rende conto che i vari candidati – non solo Clinton e Trump – non riescono a rispondere alle richieste degli elettori e alle esigenze della gente.

Da parte repubblicana, Trump si esprime sempre in termini generali e attraverso slogans; non presenta un’impostazione articolata sulle misure che intende prendere se diventerà Presidente. Trump sembra quasi esclusivamente puntare sulla sua capacità di negoziare e fare affari con chiunque applicando alla politica la formula del suo successo come imprenditore. Lo slogan che attrae molti consensi è quello di fare l’America di nuovo grande.  Non emergono i principi ispiratori delle politiche di Trump. Pur con molti distinguo, Trump rischia d’incarnare la versione statunitense dell’autoritarismo democratico che si sta diffondendo in molti paesi.

Il principale avversario di Trump nel campo repubblicano, in questo momento, Ted Cruz, si rivolge all’elettorato conservatore: ha sposato le rivendicazioni dei gruppi religiosi; osteggia le iniziative in politica interna (la riforma sanitaria) e in politica estera (l’accordo con l’Iran e l’apertura verso Cuba) del Presidente Obama; dimostra intolleranza verso musulmani ed emigranti in genere (anche se continuamente ripete la storia del padre fuggito da Cuba negli Stati Uniti negli anni ‘50); nel 2013 è stato in prima linea a favore della chiusura, per la mancata approvazione del bilancio, degli uffici e servizi governativi.

Analogamente, candidati che si sono ormai ritirati – come Bush e Rubio- hanno ripetuto gli slogans contro Obama, ma senza articolare proposte alternative che stimolino gli elettori.

A proposito dell’incapacità di entrare in sintonia con l’elettorato, un aspetto significativo è la circostanza del dibattito del 9 marzo tra Clinton e Sanders trasmesso dalla rete “latina” Univision in collaborazione con la CNN. Nessuno dei due candidati democratici parla spagnolo e il dibattito si è svolto in inglese. L’aspetto sconcertante di questo avvenimento è che i repubblicani, che hanno due candidati “latini” (Cruz e Rubio sono di origini cubane) e Jeb Bush un candidato praticamente bi-lingue, non sono stati in grado di allestire un analogo dibattito che sarebbe stato accattivante per la platea “latina”. Questo per due ragioni: le offensive dichiarazioni di Trump nei confronti dei messicani; la circostanza che Cruz e Rubio non hanno un seguito significativo nella comunità “latina” dalla quale provengono.

I repubblicani, quindi, hanno candidati che avrebbero potuto aspirare a mobilitare il voto “latino” – avendo la relativa comunità una propensione maggiore di altre verso valori conservatori piuttosto che liberali – su temi a loro cari come la famiglia, la religione, ma non sono riusciti a cogliere quest’opportunità.

Da parte democratica, Clinton punta molto sulla circostanza che sarebbe la prima donna Presidente degli Stati Uniti. Durante la sua vita politica, Clinton si è schierata in molte circostanze, a fianco delle minoranze di colore e a favore delle donne. Però Clinton si è spesso disinteressata dei lavoratori che hanno perso il posto con gli accordi di libero scambio e sui quali – grazie alla spinta di Sanders – ora si mostra molto più cauta. Quando era senatrice, Clinton ha votato a favore della guerra in Iraq – posizione per la quale si è scusata. Quando è stata Ministro degli Esteri – durante la prima Presidenza Obama – ha favorito l’intervento in Libia. Inoltre, l’utilizzo di un sistema di posta elettronica personale mentre era Ministro degli esteri – e per il quale è in corso un’inchiesta dell’FBI- non depone a favore della trasparenza e della capacità di giudizio. Anche in questo caso, Clinton si è dovuta scusare. Infine, gli elevatissimi contributi alla sua campagna elettorale – oltre che alla Fondazione Bill Clinton – da parte di grandi corporazioni che rappresentano potenti interessi finanziari e industriali, accentuano il clima di sfiducia che circonda Clinton.

Sanders, una persona semplice e coerente, che nella sua vita politica non ha ottenuto grandi risultati, emerge come un candidato serio, solido, credibile. Si basa, forse in modo eccessivo, sulle insoddisfazioni della classe media e sulle aspirazioni dei giovani; lascia dei dubbi su come potrà realizzare le sue politiche progressiste e la sua “rivoluzione”.

Il probabile scontro Clinton-Trump emerge come una scelta tra il consumato politico e il non-politico che rompe gli schemi esistenti e attrae consensi per un cambio di direzione. Lo spettacolo è assicurato e gli esiti incerti (anche se molti sondaggi indicano Clinton favorita). In tale contesto, viene spontaneo immaginare i potenziali candidati repubblicani e democratici che avrebbero potuto partecipare alla selezione per diventare Presidente degli Stati Uniti, ma che probabilmente hanno perso l’occasione.

Paul Ryan, repubblicano, Presidente del Congresso degli Stati Uniti succeduto a Boehner nell’ottobre 2015, candidato a vice Presidente con Romney nel 2012 che s’ispira all’autorevole Jack Kemp – un repubblicano dell’epoca di Reagan favorevole alla riduzione delle tasse, all’economia di mercato e con un’attenzione particolare verso i ceti meno favoriti e l’immigrazione– è il personaggio di statura che, malgrado le smentite, potrebbe emergere come il candidato presidenziale repubblicano in caso si verifichi, a luglio, un Congresso diviso.

Paul Ryan sarebbe in grado di unire il partito repubblicano con un programma diretto al risanamento economico e finanziario e ispirato a principi libertari e di libero mercato. Tuttavia, egli non ha compreso che questo poteva essere il suo momento e che si sarebbe dovuto presentare come candidato fin dall’inizio delle primarie, evitando al partito la situazione difficile nella quale si sta mettendo.

Elizabeth Warren, senatrice democratica del Massachusetts, già professoressa di Diritto Fallimentare nella prestigiosa Scuola di Giurisprudenza di Harvard  – un solido personaggio ugualmente carismatico e di prestigio – avrebbe potuto essere un candidato ideale per il partito democratico e sarebbe stata probabilmente in grado di abbracciare l’appello alle nuove generazioni di Sanders, l’essere donna e le posizioni contro interessi precostituiti, come testimoniano le battaglie in Congresso contro le lobbies – soprattutto quella finanziaria – e per la protezione del consumatore. Anche in questo caso, Elizabeth Warren non ha avuto l’intuizione e il coraggio di candidarsi alla Presidenza.

Un confronto Ryan-Warren sarebbe stato molto ricco di contenuti; avrebbe focalizzato in modo profondo sui temi principali con i quali gli Stati Uniti debbono confrontarsi: il restringimento della classe media; le diseguaglianze; la concentrazione della ricchezza; e come immigrazione e crisi mondiali interagiscono con le problematiche interne. In definitiva, Ryan e Warren avrebbero affrontato il tema di fondo di come rivitalizzare il c.d. “sogno americano” dell’uguaglianza delle opportunità che porta al raggiungimento delle più elevate aspirazioni individuali. Sarebbe stato interessante confrontare la risposta che repubblicani e democratici intendono fornire a questi temi di grandissima valenza. C’è da auspicare che, oltre all’inevitabile spettacolo, lo scontro che si preannuncia tra Clinton e Trump affronti con serietà temi fondamentali per il futuro degli Stati Uniti e del mondo.

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma

Le elezioni Usa, a metà del ciclo delle Primarie

Le elezioni Usa, a metà del ciclo delle Primarie

di Pietro Masci*

Con il voto del 15 marzo in Florida, Illinois, Missouri, North Carolina e Ohio – dopo che avevano votato Iowa, New Hampshire, South Carolina, Nevada, Alabama, Alaska, Arkansas, Georgia, Massachussets, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont, Virginia, Kansas, Kentucky, Louisiana, Maine, Hawaii, Idaho, Washington DC, Wyoming – oltre la metà  degli stati ha espresso le sue preferenze.

Nel campo repubblicano, Donald Trump ha finora ottenuto 678 delegati, Ted Cruz 423, Marco Rubio (che ha sospeso al sua campagna presidenziale dopo la sconfitta nel suo stato, la Florida) 164, John Kasich 143.

Nel campo democratico, Hillary Clinton ha finora ottenuto 1614 delegati, Bernie Sanders 856. I voti comprendono 573 c.d. super-delegati (scelti dal partito), 467 dei quali si sono schierati per Clinton e 26 per Sanders.

I delegati necessari per ottenere la nomina del partito repubblicano sono 1237 e i delegati ancora disponibili nelle prossime primarie sono 1134. Pertanto Trump (ottenendo circa il 50% dei delegati ancora disponibili), Cruz (ottenendo circa il 75% dei delegati disponibili) e teoricamente anche Kasich possono raggiungere il numero di delegati necessario per ottenere la nomina del partito repubblicano come candidato alla Presidenza.

Nel caso del partito democratico, i delegati necessari per ottenere la nomina sono 2383, e i delegati ancora disponibili nelle prossime primarie sono 2295. Pertanto la nomina è alla portata di Clinton, ma è piu’ difficile da raggiungere per Sanders.

L’elemento comune ai due partiti è che tutti i candidati attualmente in corsa hanno dichiarato che intendono arrivare ai rispettivi Congressi che si terranno il 18-21 luglio a Cleveland per i repubblicani,e il 25- 28 luglio a Filadelfia per i democratici. Cio’ significa che i candidati non ritengono chiusa la corsa alla nomina –malgrado il chiaro vantaggio rispettivamente di Trump e Clinton. Si apre la possibilità  – maggiormente per i repubblicani, ma anche per i democratici – di arrivare ai Congressi senza che nessun candidato abbia raggiunto un numero di delegati sufficiente ad assicurare la nomina.

Tale situazione è legata all’incertezza che circonda i candidati  principali.

Trump deve fare i conti con l’insofferenza di gran parte dell’apparato del partito repubblicano che osteggia la sua candidatura. Mitt Romney – il candidato republicano che si era presentato nel 2012 contro Obama – ha affermato che Trump è un “truffatore”. Addirittura, Romney ha dichiarato che esiste una competizione tra “Trumpismo” e “Republicanismo” e che il Trumpismo è associato a caratteristiche che non appartengono al Partito Repubblicano (razzismo, misogenia, bigotteria, volgarità e violenza). Altri autorevoli rappresentanti del partito repubblicano si muovono tra due opzioni: fermare Trump prima del Congresso di Cleveland (ed in tale prospettiva Cruz emerge, anche se con una certa riluttanza, come il candidato del partito), o addirittura creare un terzo partito. A tali impostazioni, Trump risponde che se si tenterà di fermare la sua nomina al Congresso, si rischia di scatenare sommosse.

Quanto a Clinton, esistono due circostanze che possono influenzare la sua nomina: la presenza dei c.d. super-delegati designati dal partito che potrebbero determinare la scelta del candidato presidenziale a suo favore, rafforzando l’immagine di un sostegno da parte dell’apparato, ma non dei cittadini. Tuttavia, l’aspetto piu’ significativo è la possibilità che Clinton venga rinviata a giudizio per l’utilizzo – durante il periodo nel quale era Ministro degli Esteri sotto la Presidenza di Obama – di un sistema privato di posta elettronica e pertanto non potrà partecipare come candidato.

Il processo del voto americano per l’elezione del Presidente è molto lungo, pieno di sorprese e stavolta come non mai. Durante il percorso, la maggioranza dei candidati si perde (ad esempio i candidati repubblicani erano inizialmente 17); coloro che rimangono si modificano, si affinano, articolano meglio il loro messaggio. La campagna presidenziale negli Stati Uniti consente di analizzare a fondo le posizioni dei candidati – ed il loro passato – e verificare l’impatto che determinate proposte ha sulle diverse componenti della popolazione (ad esempio l’elettorato femminile, quello etnico, incluso i c.d. latinos) oltre che nei diversi stati.

Però, il rischio rimane che si verifichi – o si accentui – la polarizzazione e che non emerga un candidato in grado di unire il paese. Le divisioni aumentano con la recente nomina da parte del Presidente Obama di Merrick Garland come giudice della Corte Suprema per sostituire il conservatore Antonin Scalia. La maggioranza dei senatori repubblicani, che controllano il Senato che decide sulle nomine, ha già affermato che non prenderà  in considerazione la nomina di Garland.

Gli Americani comunque si rendono conto della grande importanza di queste elezioni e stanno accorrendo numerosi a votare, come mai in passato, ad eccezione del 2008 (elezione del Presidente Obama, ugualmente storica). Tuttavia, rispetto al 2008, la situazione si è ribaltata: sono i repubblicani che accorrono più numerosi alle urne nelle primarie.

In tale contesto, Trump e Sanders – in modi diversi – stanno portando nuovi elettori alla politica. Sanders attrae i giovani – i c.d. Millenials – e una parte di coloro che sono stati penalizzati dalla globalizzazione e dalla crisi economica e finanziaria. Trump richiama gli indipendenti che preferiscono come rappresentanti persone comuni e con esperienza e non i politici; gli attuali c.d. Reagan democrats – i democratici di Reagan (elettorato democratico che negli anni 80’ voto per Reagan) – vale a dire i colletti blu, lavoratori che incontrano varie difficoltà economiche e sociali derivanti dalla globalizzazione e dall’emigrazione. Questo fenomeno è complesso e non è unidirezionale, ma trasversale nel senso che anche Trump attrae i giovani e anche Sanders attrae i democratici di Reagan e gli indipendenti; e indica che Trump e Sanders sono apprezzati da cittadini che non presentano significative differenze e che sono rimasti, in passato, ai margini della politica e probabilmente non hanno votato.

Una parte significativa dell’elettorato percepisce di essere danneggiata dall’emigrazione; dagli accordi commerciali di libero scambio che accellerano la de-localizazzione delle imprese; e dalla crisi economica e finanziaria. Molti americani sono impauriti dal terrorismo e delusi dall’incerta politica estera del governo, sopratutto nel Medio Oriente. Inoltre, mentre circolano numerosi studi economici, e sociali che descrivono la situazione drammatica degli emigranti e dei rifugiati, non si trova un’analoga attenzione sopratutto sotto il profilo economico e politico verso quei segmenti della popolazione che hanno pagato – e pagano – per gli eventi sopra indicati.

Alcuni analisti identificano nella rabbia la caratteristica comune di questi elettori. In effetti, una buona parte dei cittadini americani che si dirigono verso Trump e Sanders sono delusi e arrabbiati (la tentazione di utilizzare un altro aggettivo piu’ colorito e’ grande) per i bassi salari, la disoccupazione o l’occupazione parziale, i bassi salari, le disuguaglianze, l’insicurezza,  l’incapacita’ degli Stati Uniti di operare con efficacia sulla scena internazionale; e ritengono i politici e gli apparati burocratici i maggiori responsabili.

Mark Muro and Siddharth Kulkarni del Metropolitan Policy Program della Brookings Institution pongono in relazione la rabbia crescente di una quota importante dell’elettorato Americano con la caduta dell’impiego nell’industria manifatturiera negli ultimi 35 anni. Il grafico che segue visualizza il declino dell’impiego nel manifatturiero negli Stati Uniti determinato principalmente da de-localizzzione, globalizzzione, e automazione.

graficoUSA

Trump e Sanders prestano attenzione a questa parte dell’elettorato e rappresentano le novità nella politica americana. Sanders parla apertamente che il denaro compra le elezioni; propone il finanziamento pubblico dei partiti (un’affermazione che equivale a una bestemmia negli Stati Uniti); non rinnega le parole positive che negli anni 80’ ha avuto nei confronti di Fidel Castro e Ortega (pur riconoscendo che sono due dittature da non imitare).Trump polemizza aspramente e con un linguaggio espressivo con la television, la stampa, e i partiti. Peraltro il comportamento vistoso e le affermazioni e immagini iperboliche di Trump, se da una parte accentuano l’opposizione dell’apparato del Partito Repubblicano, dall’altra gli garantiscono il sostegno dei cittadini che si ribellano all’inazione dei “politici“. La principale ragione del sostegno a Trump è: “non è un politico e ci si puo’ fidare di lui”. Anche se non nella stessa misura, anche Sanders – senatore indipendente, non democratico, del Vermont – è percepito come un outsider.

I principi di questi due candidati sono certamente diversi: Trump s’ispira alla competizione aspra; Sanders alla realizzazione di opportunità per tutti. Tuttavia, le loro posizioni non sono completamente all’opposto, come si potrebbe credere (e per inciso questa è la ragione per la quale l’apparato del Partito Repubblicano ritiene che Trump snaturi il partito). Entrambi si oppongono alle guerre (ma Trump dichiara che aumenterà le spese militari); entrambi sono contrari al ruolo del denaro nella politica e alla decisione della Corte Suprema che consente contributi illimitati e anonimi (anche se Trump è meno specifico di Sanders su questo tema); entrambi si oppongono agli accordi di libero scambio. Trump e Sanders divergono sostanzialmente sulle politiche dell’emigrazione. Trump ripetutamente dichiara che con lui gli Stati Uniti faranno sempre affari vantaggiosi in ogni campo (e sopratutto nel commercio con paesi come Cina, Messico, Corea) e torneranno grandi e vincitori; incessantemente proclama che costruirà un muro al confine tra Stati Uniti e Messico (e il Messico pagherà  il costo della costruzione); deporterà gli immigrati illegali; e apertamente afferma che non consentirà ai mussulmani di entrare, almeno per un certo tempo, negli Stati Uniti. Sanders, invece, intende introdurre una nuova legge sull’immigrazione e permettere agli illegali che sono negli Stati Uniti (oltre 11 milioni) di poter perseguire la cittadinanza americana, naturalmente pagando le imposte.

Se eletto, Trump dichiara che eliminerà le riforme di Obama, inclusa la legge sulla copertura assicurativa per le malattie; e annullerà gli ordini esecutivi dell’attuale Presidente (ad esempio quello con il quale è stato ratificato l’accordo nucleare con l’Iran). D’altra parte, Sanders propone di aggiustare le disparità attraverso la tassazione fortemente progressiva.

Trump e Sanders sono accomunati dal non dipendere dai contributi dei grandi gruppi d’interessi che accentua l’indipendenza dei due candidati: Trump finanzia la campagna presidenziale con i suoi soldi; Sanders con milioni di piccoli contributi.

A proposito della base che appoggia Trump e Sanders, viene in mente Ralph Nader- un ottantenne attivista politico di sinistra e autore concentrato nell’area della protezione del consumatore, dell’ambiente e della democrazia effettiva – che nel 2000 si presento’ alle elezioni presidenziali come terzo candidato. La presenza di un candidato di sinistra come Nader tolse voti al candidato democratico Gore e non gli consenti – più del pasticcio della conta dei voti in Florida – di vincere l’elezione presidenziale contro Bush. Nel 2014, Nader ha scritto un libro – Unstoppable: The Emerging Left-Right Alliance to Dismantle the Corporate State – L’inarrestabile alleanza della destra e della sinistra contro lo stato corporativo al servizio delle grandi imprese. Nel libro, Nader s’incentra sulla reazione del pubblico americano – di destra e sinistra – contro l’apparato di potere. Le aree di comune interesse di destra e sinistra sono principalmente le politiche in tema ambientale, energetico, industrial-farmaceutico e militare, determinate dallo strapotere delle grandi imprese che controllano le scelte dei politici. Nader sostiene che è nell’interesse dei cittadini di diverse etichette politiche ad unirsi nella lotta contro lo stato corporativo che, se lasciato incontrollato, sarebbe portato a ignorare la Costituzione, eliminare i diritti fondamentali e le libertà del popolo Americano.

L’intuizione di Nader di un’alleanza tra destra e sinistra – che può apparire tanto improbabile – si può realizzare in un confronto a novembre tra Trump e Clinton. In effetti, nel caso la competizione presidenziale sia tra Trump e Clinton – che sembra lo scenario più probabile – non è affatto inconcepibile che i sostenitori di Sanders durante le primarie votino per Trump nell’elezione di novembre piuttosto che per Clinton, riversando verso Hillary l’avversione contro l’apparato dei partiti, i politici senza passione e autenticità. Cominciano a circolare interviste e piccole inchieste che sembrano confermare che il passaggio di elettori da Sanders sconfitto nelle primarie al candidato presidenziale Trump rappresenti una possibilità concreta. E la strategia della campagna di Trump – piena di generalità e slogans e con poche specifiche indicazioni delle politiche proposte – sembra perseguire l’obiettivo di attrarre vecchi e nuovi elettori insoddisfatti.

Queste considerazioni fanno sorgere una riflessione: può Trump vincere l’elezione presidenziale sostanzialmente con i soli voti dei “bianchi” (religiosi sopratutto evangelisti, conservatori, libertari, indipendenti, e insoddisfatti, vecchi e nuovi)? Le affermazioni di Trump sul muro al confine con il Messico e gli attacchi ai mussulmani – intercalati da rassicurazioni del tipo: “ho tanti amici ispanici e mussulmani” – non sembrano spianare la strada per costruire una larga e diversa coalizione e per evitare una spaccatura nel Paese.

D’altro canto, se la strategia di Trump non funzionasse, e Clinton venisse eletta, sarebbe in grado la prima donna Presidente degli Stati Uniti di superare il significativo clima di sfiducia che comunque l’accompagna?  E creare coesione tra le diverse componenti del Paese?

La domanda di fondo rimane la stessa: sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti in grado di ricompattare il paese? Naturalmente, la risposta a tale interrogativo ha implicazioni non solo per la politica interna, ma anche per la politica estera degli Stati Uniti.

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma