economia

Tagli, ritagli e frattaglie

Tagli, ritagli e frattaglie

Davide Giacalone – Libero

Da una parte il governo nega, su questo formalmente unanime, la necessità di una correzione dei conti 2014, dall’altra si ricorda di Carlo Cottarelli e gli chiede di predisporre tagli per 17 miliardi (già inseriti nei conti del Documento di economia e finanza, ma ancora non realizzati). A quelli se ne dovrebbero aggiungere altri 10, se si vogliono stabilizzare maggiori spese e minori entrate già decisi e propagandati (mitici 80 euro compresi). Ciò fornisce un punto di riferimento circa lo spessore non della manovra da farsi, ma di quella già in corso: 27 miliardi. Siccome i tagli, per giunta in questa quantità, stanno passando da favola a leggenda, il pericolo concreto è che scattino le clausole di salvaguardia. Che, tradotto in linguaggio prosaico significa: tasse.

Se il governo riuscirà a evitarlo, se cioè l’aggiustamento avverrà con tagli e non con ulteriore fisco, sarà un bene. Andrà riconosciuto, con piacere. Dovrà accadere, però, al netto dei trucchi. Prendiamo, per esempio, il pagamento dei debiti pubblici verso fornitori privati: spostarli al 2015 è, al tempo stesso, una sconfitta e un trucco. Sconfitta perché il governo viene meno a quanto garantito. Trucco perché si sposta contabilmente una partita e non si risolve alcun problema. Un tempo la chiamavano “finanza creativa”, ora è solo cosmesi tardiva.

I tagli, per avere una caratteristica positiva, non recessiva e risolutiva devono essere stabili nel tempo e relativi a funzioni pubbliche che si cancellano. Occorre distinguere, quindi, fra i risparmi e i tagli. I primi si possono ottenere, anche in misura assai significativa, ottimizzando le procedure e rendendo trasparente la spesa. I secondi, invece, richiedono non una momentanea apnea, ma il soffocamento di interi comparti dello Stato apparato, nelle sue varie articolazioni societarie e locali. Quando la Corte dei conti (che già di suo è un organismo in gran parte disfunzionale) certifica la perdita annua di 26 miliardi nella gestione di 7500 aziende partecipate dal pubblico, occorre stabilire a quale numero guardare con maggiore preoccupazione: gli sciocchi guardano il 26, i saggi il 7500. Non solo quelle società sono troppe, non solo perdono, ma il loro costo reale non è dato dal saldo finale, negativo, bensì dal trombo crescente che rende difficile la circolazione produttiva. Limitarsi a risparmiare 26 miliardi significa adottare una terapia che porta alla trombosi. Più che di un medico sarebbe opera di una chiromante. Lavorare nello sfoltimento delle società e delle funzioni significa praticare tagli promettenti. Concentrarsi sul mero sbilancio significa accontentarsi dei ritagli, lasciando al loro posto le frattaglie.

Ma si può fare di peggio: lasciare lo Stato a occupare grassamente e inefficientemente il mercato, salvo portare in quotazione alcune sue società. In qualche caso delle perle, che vanno liberate dal guscio, in altri dei gusci che contengono roba incompatibile con il mercato, ovvero economia sussidiata. Non contenti di questo si completa l’opera prendendo quei soldi e mettendoli al servizio della spesa pubblica, magari mascherata da “investimenti”. Una delle cose che dovrebbero essere chiare, un punto sul quale varrebbe la pena di misurare la trasparente convergenza di ciascuna forza politica, è: quando si vende patrimonio si deve far scendere il debito. Altrimenti ci si ritrova con meno patrimonio, un debito crescente e una spesa fuori controllo.

Quindi: se la richiesta di tagliare 17+10 miliardi, entro la fine dell’anno, è da considerarsi totalmente alternativa all’imporre nuove tasse e imposte, che la si saluti con soddisfazione; se è un modo per coprire altra spesa corrente, in un gioco dilapidante delle tre carte, che la si avversi con determinazione, perché porta dritto a più alta pressione fiscale. Posto che, come mettevamo in evidenza giusto ieri, dall’interno del governo si manifestano linee diverse e incompatibili fra loro, forse varrebbe la pena di farne oggetto di un dibattito parlamentare. Perché si può anche conservare l’immunità dalle inchieste giudiziarie (e si dovrebbe farlo senza ipocrisie), ma nessuno sarà immune dall’avere taciuto il rischio che corrono i conti di un Paese in cui la spesa è variabile indipendente dalla (de)crescita.

Divergenze collidenti

Divergenze collidenti

Davide Giacalone – Libero

Nella gestione degli affari economici il governo mette in evidenza posizioni non solo divergenti, fra i suoi più importanti componenti, ma incompatibili fra loro. È in atto un moltiplicarsi di divergenze collidenti. È capitato anche ad altri governi ed è sempre finita male. Il fatto è che, questa volta, nella squadra non c’è solo qualche fantasista solitario, qualche giocatore che non passa mai la palla e qualche altro che non riesce neanche a toccarla: qui c’è gente che galoppa verso la propria rete.

Guardiamo alcuni fatti, per meglio comprendere l’accelerazione di queste ore. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, promise il pagamento di tutti i debiti della pubblica amministrazione, verso privati fornitori, entro settembre. Tecnicamente non era impossibile, usando la garanzia bancaria della Cassa depositi e prestiti. Ma intervenne il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ovvero il teoricamente più stretto collaboratore del presidente, Graziano Delrio, è chiarì che sarebbe andata già bene se si fosse pagato entro marzo del 2015. Renzi non ha ritenuto di tornarci su, segno che ha ragione Delrio. Aggiungo che quando si dice “marzo 2015” si dice una sola cosa: a valere sul bilancio dell’anno prossimo, “marzo”, a quel punto, non è neanche una previsione, ma una mera speranza.

Durante tutta la tornata degli incontri europei, resi necessari dal rinnovo della Commissione e degli altri incarichi, Renzi non ha fatto altro che parlare di “flessibilità” e di contenuti che devono precedere i nomi. I giornali italiani lo hanno quasi tutti seguito, mentre noi abbiamo osservato che la conquistata flessibilità era già nei trattati. Nulla di nuovo, quindi. Ora, nel mentre l’unica posizione italiana fissa sembra essere la richiesta di un incarico per il nostro ministro degli esteri, Federica Mogherini, quindi una nomina che prescinde da un contenuto (inesistente in quel posto), il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, conferma la nostra tesi: basta leggere i trattati per sapere che abbiamo margini da sfruttare, ma anche impegni da mantenere. Appunto.

E qui arriva la questione più grossa. Renzi ripete che i conti tornano, non ci sono problemi, e la flessibilità da lui agguantata ci consentirà di fare bidibodibù sul soffice materasso di deficit e debito. Ma Delrio interviene a gamba tesa e prima afferma che si devono usare gli euro-bond per federare il debito pubblico, poi mette il piede in un terreno terribile e minato: sarà il presidente del Consiglio a valutare se necessaria una ristrutturazione del debito, magari anche tenendo conto dell’esperienza greca. Questa è una bomba atomica, tanto potente quanto potenzialmente credibile (al Corriere della Sera, non a caso il quotidiano che ha raccolto quelle parole, hanno anche fatto un seminario, per approfondire i dettagli di un simile possibile sprofondo). Quella sui debiti verso i fornitori sembra una sfumatura d’opinione, rispetto all’enormità di questo contrasto. Interviene Padoan e sostiene che della flessibilità e del caso italiano non s’è neanche parlato e che gli euro bond non erano e non sono all’ordine del giorno. Semmai i project bond, per i quali ci vogliono i progetti. Quindi Delrio delirava. E aggiunge che se il prodotto interno lordo dovesse avere un andamento diverso da quello previsto, allora anche il resto dei conti andrebbero rivisti (ed è ovvio). Siccome il pil, a volere essere ottimisti e salvo novità, si mostra in crescita al massimo per la metà di quel che il governo ha previsto, ne deriva la certezza di una manovra correttiva. Padoan lo nega, ma pro forma.

Quindi, riassumendo: per Renzi va tutto bene; per Padoan si devono rifare i conti; per Delrio non è escluso il default. Mettiamo che siano vere le voci che vogliono Renzi impegnato a trovare un incarico europeo, o internazionale, per Padoan, in modo da liberarsi dal controllo quirinalizio sulle faccende economiche, e mettiamo che ci riesca: resterebbero lui e Delrio, ovvero il tutto va bene e non è esclusa la bancarotta. E, pensate, senza neanche le slides, che visto il successo della prima volta hanno opportunamente pensato di ritirarle dal commercio.

Al contrario di altri, probabilmente più intelligenti e veloci di me, non ho coltivato alcuna prevenzione nei confronti di questo governo, nato, sebbene in modo bislacco, da un accordo di larghe intese sulle riforme costituzionali. Ma osservo non tanto che le riforme ancora non ci sono, o che quelle che si profilano sembrano frutto di una riffa, bensì che le divergenze collidenti mettono pericolosamente in dubbio l’esistenza di una linea sul governo del debito. Senza quella il resto non è neanche illusionismo: è come se fosse antani.

Antitrust: le lobbies ostacolano la crescita

Antitrust: le lobbies ostacolano la crescita

Roberta Amoruso – Il Messaggero

Soltanto la concorrenza, quella basata sui meriti e non sulle rendite di posizione, può salvare la crescita. Ma va eliminato il nemico peggiore, mette subito in chiaro il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, presentando al Senato la relazione annuale dell’Authority: va «scardinato» quel capitalismo di relazione fondato su «alcuni grandi poteri economici», sui «rapporti privilegiati con gli apparati pubblici», sulle lobbies ma anche sulla protezione dai concorrenti, compresi quelli esteri. Pitruzzella ce l’ha con gli ex-monopolisti, con quei «privilegi» tutt’ora sanciti da norme di legge e da atti amministrativi e con quei meccanismi complessi che favoriscono «intrecci perversi tra pubblico e privato». Gli interessi dei «cacciatori di rendite» allargano le disuguaglianze e sono responsabili della crescita del debito pubblico e di pesanti «danni» all’economia, per il numero uno dell’Antitrust. Certo, «un cambiamento significativo è in atto», ammette Pitruzzella. Ma è inutile farsi «illusioni»: le politiche di stimolo fiscale non bastano, non funzionano «per uno Stato debitore». Soltanto riforme strutturali e liberalizzazioni possono spingere su competitività e crescita. E se poi ci sono dei costi sociali da pagare (questa è la principale critica) per la concorrenza, ci pensi un welfare migliore a tamponarli, dice a chiare lettere l’Antitrust. Che poi insiste ancora: energia, trasporti, servizi, comunicazioni elettroniche, commercio online e servizi finanziari sono i settori più controllati dai «poteri forti» e anche quelli con maggiori potenzialità di crescita. Nel dettaglio. il Garante della concorrenza e del mercato punta il dito sul capitalismo municipale che blocca la crescita delle utilities. Ecco perché è necessario un riordino «radicale» delle società pubbliche, con tanto di dismissioni da mettere in calendario o comunque con lo stop «al rinnovo degli affidamenti per le società che registrano perdite o forniscono beni e servizi a prezzi superiori a quelli di mercato». Nello stesso tempo, sembrano «maturi i tempi per inserire nell’agenda delle riforme la disciplina dei servizi pubblici locali». Il modello generale andrebbe «superato» con l’elaborazione «di discipline particolari adeguate alla natura dei diversi servizi, in modo da aprire spazi alla concorrenza in quegli ambiti in cui non trova giustificazione tecnica il mantenimento di diritti di esclusiva». Per il resto, Pitruzzella è convinto che sia arrivato il tempo di una riforma della legge sul conflitto di interessi ma anche del mercato della Rc auto, visto che «i prezzi pagati dai consumatori sono tra i più alti d’Europa». Sul fronte bancario, rescindere «i legami personali» tra diversi istituti rimane una missione. Ma va anche «rafforzata» la separazione tra Fondazione e banca conferitaria, estendendo il divieto di detenere partecipazioni di controllo in società bancarie anche ai casi in cui il controllo è esercitato, di fatto, congiuntamente ad altri azionisti. Un punto molto caro anche al governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Quanto alle Fondazioni, anche qui va introdotto il divieto di sedere in diversi cda degli stessi enti.

Al di fuori degli ambiti tradizionali di azione dell’Antitrust c’è poi un altro insidioso mondo sul quale la vigilanza non può mollare: l’e-commerce, dove si annidano nuove forme di «sfruttamento del consumatore». Internet, insomma, per l’Antitrust non può essere un Far West. Più in generale, però, l’apertura del mercato nazionale è «insufficiente», avverte l’Antitrust, se non inserita in un quadro europeo. Insomma, se l’Italia fa la sua parte l’Ue non può tirarsi indietro, dice Pitruzzella. Lo stesso che, non a caso, ha appena aperto un’istruttoria su Google, Apple, Amazon company.

Tutti i numeri dello stato famelico

Tutti i numeri dello stato famelico

Pierluigi Battista – Corriere della Sera

Sì, certo, avere speranza, l’Italia può uscire dalla palude, uno sforzo tutti insieme, e va bene. Ma poi i numeri di un’invadenza statale asfissiante e senza limiti uccidono senza speranza. E allineare le cifre dell’oppressione statalista raccontate da Paolo Bracalini nella “Repubblica dei mandarini” pubblicata da Marsilio toglie il fiato. Non per le tante bizzarrie surreal-burocratiche che fanno dell’Italia un Paese bellissimo, un Paese ridicolo. Ma per la scientifica e pervicace volontà di mortificare, di soffocare gli spiriti animali del mercato, ogni desiderio di fare, ogni audacia, ogni energia imprenditoriale, ogni voglia di uscire dal pantano.

«Lo Stato parassita è vorace quando deve incassare, ma lentissimo quando deve pagare». Se sei in credito con lo Stato, mettiti in fila e aspetta 450 giorni, la media del tempo che ci vuole per farsi restituire i propri soldi. Se invece paghi in ritardo anche di un solo giorno, il Moloch pubblico, l’aguzzino fiscale ti sequestra i beni, guadagna indebitamente sull’«aggio» e sbaglia addirittura nel 48,3 per cento delle volte in cui i tartassati fanno ricorso. Il giurista Sabino Cassese calcolò in circa 150mila leggi l’abnorme carico di regole che paralizzano l’Italia, contro le circa 10mila di Francia e Germania: e ogni volta si chiedono in aggiunta «nuove regole». Per aprire un negozio devi adempiere per legge a 118 procedure. Una nuova manifattura, tra autorizzazioni, concessioni, «subingressi», comunicazioni richiede soltanto 84 obblighi di legge da rispettare. Nella giustizia civile bisogna attendere in media 1.210 giorni per recuperare un credito. Le imprese sono costrette a 15 pagamenti annui che richiedono mediamente 269 ore l’anno per «inghiottire», annota Bracalini, il 65,8 per cento dei profitti. Per complicarci ancora più la vota dal 2008 al 2013 «sono state approvate ben 491 norme fiscali, di cui 288 con impatto burocratico sulle imprese». Per gli adempimenti tributari è necessario ogni anno un tempo pari a 36 giorni lavorativi.

A Firenze un mercato dell’Esselunga ci ha messo 44 anni per aprire. Il titolare dell’omonimo pastificio, Giovanni Rana, ha raccontato che per aprire uno stabilimento a Chicago ci ha messo un settimo del tempo impiegato in Italia, sette anni, per dare lavoro a centinaia di persone. La British Gas, dopo undici anni di paralisi e di attese inconcludenti, ha rinunciato al progetto di rigassificatore di Brindisi: 125 milioni di euro buttati, un migliaio di posti di lavoro anch’essi buttati. Con le tasse occulte la pressione fiscale raggiunge quasi l’80 per cento: leggete bene le bollette e ve ne accorgerete. E vi accorgerete che catastrofe è stato il discredito verso un’espressione ormai sputtanata, «rivoluzione liberale», ma che era l’unica speranza di mettere a dieta uno Stato prepotente e oppressivo, l’unica speranza di ripartire davvero, l’unico modo per uscire dal pantano. Chissà come, oramai. Chissà quando.

Fare impresa. La mappa dei disagi

Fare impresa. La mappa dei disagi

Marco Biscella – Il Sole 24 Ore

Fare impresa in Italia – come ci ricordano le classifiche internazionali – è molto difficile, ma in Sicilia e in Umbria gli imprenditori incontrano disagi «molto alti», mentre è il Trentino-Alto Adige la regione italiana che li fa «soffrire di meno». E se è vero che un ambiente sfavorevole all’impresa è un denominatore comune per il Mezzogiorno (cinque delle sei regioni del Meridione-Isole occupano i primi sei posti di questa classifica negativa), è altrettanto vero che le performance di Puglia, Abruzzo, Toscana, Lazio, Campania e Sardegna lasciano intravvedere alcuni segnali positivi che per il Centro-Sud che rappresentano una «vera sorpresa».

A fotografare la mappa delle criticità del contesto economico, con particolare attenzione alle piccole imprese, attraverso l’analisi e il trend di 12 indicatori, è l’Indice di disagio imprenditoriale 2014, giunto alla terza edizione e curato da Fondazione Impresa. «A livello generale – afferma Daniele Nicolai di Fondazione Impresa – Sicilia e Umbria presentano il grado di disagio imprenditoriale più alto, collocandosi nettamente al di sopra della media italiana (52,9), con punteggi rispettivamente pari a 64,2 e 63,5. Segue poi un gruppo di sette regioni, cinque del Sud e due del Centro, il cui indice di disagio è “alto”, con punteggi superiori di almeno quattro punti rispetto alla media, intorno alla cui soglia ruotano invece Puglia e Lombardia, mentre in un range di punteggi compresi tra 48,8 e 43,3 si ritrovano, con un disagio definito “medio basso”, cinque regioni del Nord (Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Veneto, Liguria e Piemonte), l’Abruzzo e la Toscana. Infine, nella parte bassa della classifica, ovvero nelle posizioni in cui il disagio imprenditoriale risulta inferiore, ritroviamo la Valle d’Aosta, che con 38,1 punti presenta un disagio “basso”, e il Trentino Alto Adige, che con 26,4 punti è la regione più virtuosa, con un indice di criticità “molto basso”».

Al di là della classifica, è interessante analizzare le dinamiche temporali rispetto al 2013, che penalizzano soprattutto l’Umbria (dal quarto “sale” al secondo posto tra le regioni più disagiate, affossata soprattutto dai tassi d’interesse praticati alle imprese fino a 5 addetti e dal credit crunch alle piccole aziende) e la Basilicata (dal 6° al 3° posto, colpa del deficit da banda larga e dalla più bassa quota di imprese innovatrici).

Al contrario, le variazioni più sensibili in positivo riguardano la Toscana (che “scende” dal 12° al 17° posto, quindi nella parte “meno cattiva” della graduatoria) e l’Abruzzo, che con il suo 15° posto (era al 19° l’anno scorso) occupa «un ranking migliore rispetto a quanto fanno registrare regioni del Nord come Lombardia (pesano l’elevato numero di fallimenti e condizioni più sfavorevoli nell’accesso ai finanziamenti per le piccole aziende), Emilia-Romagna (stretta creditizia più soffocante) e Veneto (forte riduzione delle piccole imprese attive). Sempre al Nord va segnalato il buon risultato del Piemonte, spinto dal calo delle procedure concorsuali e dalla quota di imprese innovatrici».

A far da zavorra alla Sicilia concorrono i risultati negativi in nove indicatori su 12 e le performance peggiori riguardano «il sensibile calo delle imprese attive (-6,48% dall’inizio della crisi), abbinato a una profonda recessione: dal 2008 al 2013 sono andati persi 11,6 punti percentuali di Pil».
Alto tasso di sopravvivenza delle imprese, recessione meno pesante e bassi tassi di interesse, invece, sono gli atout del Trentino-Alto Adige (in questi tre indicatori è la migliore), che si conferma di gran lunga come la regione meno critica per gli imprenditori, tanto da raccogliere un Indice di disagio imprenditoriale pari sostanzialmente alla metà della media italiana.

Tagli, privatizzazioni e immobili. Ora il governo deve accelerare

Tagli, privatizzazioni e immobili. Ora il governo deve accelerare

Enrico Marro – Corriere della Sera

Manca un miliardo dalla spending review. In ritardo il processo di vendita di Poste

Europa o non Europa, flessibilità o non flessibilità del patto di Stabilità, su tre capitoli il governo è in ritardo rispetto ai suoi stessi obiettivi: taglio della spesa pubblica (spending review), privatizzazioni, dismissioni immobiliari. Il primo capitolo è fondamentale per tenere il deficit sotto il 3% del Prodotto interno lordo, specialmente e quest’ultimo, come possibile, crescerà meno dello 0,8% previsto dall’esecutivo per il 2014. Ils econdo e terzo sono importanti per mandare quel segnale atteso dall’unione Europa sulla capacità dell’Italia di invertire l’andamento del debito pubblico, in crescita anche quest’anno (135% del Pil). Ecco perché è su questi tre fronti, che insieme valgono 15-16 miliardi, che il governo dovrà accelerare, fin dai prossimi giorni. A sei mesi dalla fine dell’anno, infatti, meno di un terzo del bottino appare assicurato.

Spending review

Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan continua a ripetere che il commissario per la revisione della spesa pubblica Carlo Cottarelli prosegue il suo lavoro. Resta il fatto che mentre il Def (Documento di economia e finanza) del governo indica per il 2014 l’obiettivo di tagliare 4,5 miliardi la spesa pubblica, il governo ha deciso finora tagli per 3 miliardi e mezzo. Manca quindi all’appello un miliardo. Cottarelli, parlando qualche giorno fa in audizione alla Camera, lo ha ammesso, aggiungendo che non sono per ora previsti altri tagli. Il commissario ha quindi spiegato che si sta concentrando sulla riuscita delle decisioni prese, per esempio sulla riforma della spesa per beni e servizi della Pubblica amministrazione. Basti pensare che ben 2,1 miliardi dovrebbero venire da questa voce in sei mesi, 700 milioni a carico delle amministrazioni centrali ed il resto da Regioni ed enti locali. Risultati per nulla scontati. Allo stesso tempo Cottarelli dovrebbe suggerire al governo i 17 miliardi di tagli per il 2015 e i 32 miliardi per il 2016 indicati nello stesso Def e necessari a garantire il mantenimento del bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti a basso reddito e a finanziare l’ulteriore taglio del cuneo fiscale: Irap per le imprese ed eventuale estensione del bonus a incapienti (redditi fino a 8mila euro), compresi pensionati e partite Iva. Nessuno ha capito come si potranno fare tagli così grandi senza intaccare il perimetro dello Stato sociale (pensioni, sanità, assistenza). Ed è appena il caso di ricordare le resistenze incontrate rispetto ai tentativi di riorganizzare le forze di polizia e le forze armate.

Privatizzazioni

Anche qui gli obiettivi del governo Renzi sono ambiziosi. Basti dire che l’esecutivo Letta, prudentemente, aveva stimato per il 2014 e per gli anni seguenti introiti da privatizzazioni pari a circa lo 0,5% del Pil, cioè 7-8 miliardi all’anno. Renzi e Padoan, nel Def, hanno alzato l’asticella allo 0,7% del Pil nel periodo 2014-2017, cioè circa 11 miliardi all’anno. Una goccia rispetto a un debito pubblico che viaggia oltre 1.200 miliardo, ma un passo necessario verso Bruxelles e utile, secondo il governo, ad avere «uno Stato più leggero». Per il momento però è stata avviata solo la vendita del 40% di Poste e del 49% dell’Enav. Si stima un incasso di 4-5 miliardi nel primo caso e di un miliardo nel secondo. Ma è difficile che i soldi arrivino entro la fine dell’anno. Ci sono state le elezioni e il cambio dei vertici delle Poste (Caio al posto di Sarmi) e quindi un certo ritardo è comprensibile. Ma le difficoltà non sono finite. Sia per le Poste sia per la società di assistenza al volo sono stati individuati gli advisors ma per le Poste deve ancora essere sciolto il nodo della valutazione, che dipende tra l’altro dalla nuova convenzione con Cassa depositi e prestiti (ancora da chiudere, che dovrebbe assicurare un miliardo e mezzo l’anno alla società per 5 anni) e dai contributi pubblici per il servizio universale (700 milioni all’anno chiesti da Poste) subordinati alle decisioni che l’Authority per le comunicazioni prenderà a fine luglio. L’Enav, invece, è ancora in attesa del rinnovo dei vertici, dopo due anni di commissariamento per lo scandalo appalti. L’assemblea, già rinviata due volte, è aggiornata per ora all’8 luglio.

Tra queste incertezze tornano dunque a galla sia le altre privatizzazioni elencate nel Def sia quelle nuove ipotizzate di recente, prima fra tutte quella di Ferrovie dello Stato, visto che al nuovo presidente Marcello Messori il Tesoro ha affidato anche il compito di studiare un’eventuale quotazione in Borsa, mente il vecchio piano di privatizzazioni già prevedeva la cessione del 60% di Grandi stazioni in mano alle Fs. Per il resto il menu contempla quote di quote di Eni e di Enel senza scendere sotto il controllo pubblico, Stm (colosso dei semiconduttori partecipato al 50% dal Tesoro e al 50% dalla Francia) e quote di società detenute indirettamente attraverso Cdp quali Sace (vendita del 60%), Terna, Fincantieri (l’operazione è partita in queste settimane ma sta andando meno bene del previsto), Cdp Reti (49%), Tag (89% del gasdotto).

Dismissioni immobiliari

Qui l’obiettivo del governo non pare ambizioso. Si tratterebbe infatti di portare in cassa 500 milioni l’anno. Eppure il traguardo sembra lontanissimo. La legge di Stabilità 2014 del governo Letta prevede un programma straordinario di cessione di immobili pubblici, in particolare caserme ed altri edifici della Difesa non più utilizzati. Ma il piano non è decollato, nonostante il ministro della Difesa Roberta Pinotti avesse annunciato la vendita di 385 caserme. Per sbloccare la situazione sono allo studio norme per superare gli ostacoli burocratici. E non è ancora decollata Invimit, la società del Tesoro costituita nel maggio 2013 per la valorizzazione e la cessione di immobili pubblici. La società guidata da Elisabetta Spitz ha ottenuto a ottobre l’autorizzazione della Banca d’Italia alla gestione collettiva del risparmio e lo scorso marzo ha istituito un fondo di investimento in due comparti, dove è previsto l’apporto di immobili delle amministrazioni centrali e locali, la loro valorizzazione e il collocamento di quote sul mercato secondario.

Per accelerare su privatizzazioni e dismissioni Padoan ha convocato una riunione dei vertici del ministero nei prossimi giorni. Anche sul fronte della spending Cottarelli potrebbe annunciare qualche novità. Ci vuole una scossa, visto che il bottino di una quindicina di miliardi da privatizzazioni e spending previsto per il 2014 è lontano. E se non si corre ai ripari lo spettro della manovra aggiuntiva, ancora ieri negata dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta («non ci sarà, la escludiamo»), potrebbe prendere forma.

La spending review inciampa sui comuni. Le centrali d’acquisto sono ferme al palo

La spending review inciampa sui comuni. Le centrali d’acquisto sono ferme al palo

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

È uno dei simboli della spending review. Ed è un progetto partito quando quelle due paroline inglesi erano ancora roba da convegno di esperti e non linguaggio (quasi) comune. Ma la sempre invocata riduzione delle centrali d’acquisto rischia di essere rinviata ancora una volta. Dal primo luglio, tra due giorni appena, dovrebbe riguardare più di 8mila Comuni, tutti tranne i capoluoghi di provincia. Ma – complice una norma con qualche buco – rischia di paralizzare l’attività di tutte le amministrazioni. E per questo il governo si rigira tra le mani l’ipotesi di una proroga, tutt’altro che semplice.

L’idea delle cosiddette centrali uniche di committenza nasce da un principio di buon senso: se cinque Comuni comprano le loro penne e loro matite ognuno per conto proprio le pagheranno 100; se gli stessi Comuni si mettono insieme per comprare le stesse penne e le stesse matite probabilmente le pagheranno 90. Il gruppo spunta un prezzo migliore del singolo, regola antica che applicata al bilancio dello Stato significa un certo risparmio di denaro pubblico. Per questo già il governo Monti – con il decreto Salva Italia del dicembre 2011 – introdusse la regola degli appalti di gruppo per i Comuni più piccoli, quelli al di sotto dei 5 mila abitanti. L’obbligo doveva partire dal primo aprile del 2012 ma è stato rinviato più volte e non è ancora operativo. Poi è arrivato il commissario straordinario alla spending review Carlo Cottarelli, con il suo progetto di ridurre le centrali d’acquisto di tutta la pubblica amministrazione dalle 32mila di oggi a 30/40. Il governo Renzi accelera e nel decreto legge sul bonus da 80 euro infila una norma che obbliga all’acquisto di gruppo non solo i paesini sotto i 5mila abitanti ma tutti i Comuni, con l’eccezione dei soli capoluoghi di provincia. Nel frattempo è stata eliminata anche la deroga per i piccoli appalti, che consentiva ai Comuni di muoversi da soli per le spese al di sotto dei 40mila euro. L’Anci – l’associazione dei Comuni – dice che così si rischia il blocco totale degli appalti. La solita resistenza ad ogni cambiamento? Insomma.

La norma che allarga l’obbligo ai Comuni sopra ai 5mila abitanti ha qualche contraddizione. I Comuni dovrebbero creare dei consorzi di acquisto, ma anche questo richiede un minimo di preparazione e il decreto è stato convertito in legge appena 10 giorni fa. Nell’immediato ci sono due alternative, ma entrambe zoppicanti. La prima è rivolgersi alla Consip, la società per gli acquisti della pubblica amministrazione, che però nel suo catalogo non ha tutti i prodotti che servono ai Comuni. Mancano gli appalti di lavori pubblici, ad esempio, i più importanti. La seconda è rivolgersi alle “nuove province”, gli organi senza più politici che funzionano come centro di coordinamento del territorio. Solo che al momento sono commissariate, di fatto paralizzate, e torneranno operative nella loro nuova veste dal primo ottobre. «Il risultato – spiega Mario Guerra, deputato del Pd che ha seguito la vicenda fin dall’inizio – è che un Comune grande come Sesto San Giovanni, 80mila abitanti, rischia di non poter muovere foglia. Mentre quattro paesini da 800 abitanti si mettono insieme e aggirano il blocco». Consapevole del problema, il governo studia l’ipotesi di un rinvio che, in caso, andrebbe deciso per decreto legge con il Consiglio dei ministri di domani. Ma ci sono moltissimi dubbi. Non solo perché un altro decreto rischierebbe di non trovare posto in un calendario parlamentare già al limite della capienza. Ma perché l’ennesimo rinvio potrebbe dare un colpo alla credibilità generale della spending review. Già quest’anno dalla revisione della spesa il governo ha ricavato “solo” 3,5 miliardi, un miliardo in meno di quanto previsto. L’anno prossimo ne sono previsti 17, quello dopo addirittura 32. Una salita ripidissima. L’ennesima proroga sugli appalti di gruppo, e quelle che per imitazione potrebbero seguire su altre materie, non aiuterebbero la pedalata.

Sviluppo, il cacciavite non funziona. Le 10 norme ancora ferme sulla carta

Sviluppo, il cacciavite non funziona. Le 10 norme ancora ferme sulla carta

Dario Di Vico – Corriere della Sera

In Italia si è ripreso a discutere con gusto di politica industriale. La Confindustria non smette di battere il chiodo, le proposte di Romano Prodi suscitano sempre grande interesse, il libro dell’economista Marianna Mazzuccato sul ruolo dello Stato nell’innovazione divide accademici e addetti ai lavori, il ministro Federica Guidi ha promesso novità. Il guaio però è che la produzione di parole sovrasta i fatti: la stragrande maggioranza dei provvedimenti adottati dagli ultimi governi per l’innovazione, la ricerca, la crescita di dimensione e la nuova imprenditorialità è rimasta al palo. Il Centro studi della Cna ha steso un’impietosa catalogazione delle misure inattuate ed è arrivato ad elencarne dieci, tutte entrate in vigore tra il 26 giugno 2012 e il 1 gennaio 2014 ma da allora ancora in attesa dei decreti attuativi.

I più vecchi tra i provvedimenti “mai nati” riguardano finanziamenti per progetti di ricerca e sviluppo definiti «di rilevanza strategica» e il credito d’imposta per l’assunzione di personale ad alta qualificazione. Sono stati varati dal governo Monti e in teoria avrebbero dovuto festeggiare proprio ieri il secondo compleanno ma al primo manca il solito decreto di attuazione del ministero dello Sviluppo economico (Mise) e il secondo è fermo perché non è stata ancora realizzata la piattaforma informatica necessaria. Realizzata la stessa comunque ci vorrà un altro decreto per definire procedure e modulistica (!).

I provvedimenti targati 2013 e ancora nel limbo sono cinque e sono stati emessi dal governo Letta al tempo dell’elogio del cacciavite. Il primo risale al giugno e si autodefinisce senza alcuna modestia «interventi straordinari a favore della ricerca per lo sviluppo del Paese». Le risorse per farlo camminare e tener fede al suo nome devono essere ancora individuate e si attende in merito un decreto, stavolta, del ministro dell’Istruzione. I tutti i casi citati i beneficiari avrebbero dovuto essere per lo più le piccole imprese, start up innovative e spin off universitari. Che aspettano e sperano. Datano invece dicembre 2013 altre quattro misure che riguardano credito d’imposta, voucher e mutui agevolati per gli investimenti di nuove attività. In tutti questi casi quello che si aspetta è ancora una volta il decreto del Mise.

Chiudono la lista delle doglianze messa nero su bianco dalla Cna altri provvedimenti entrati in vigore il primo giorno dell’anno in corso. A cominciare dal fondo che dovrebbe sostenere le associazioni temporanee e i raggruppamenti di imprese per passare all’istituzione di una sezione speciale di garanzia per i progetti di ricerca e di innovazione rivolti alle Pmi. In entrambi i casi, manco a dirlo, si attende un fantomatico decreto del Mise così come per il provvedimento di rafforzamento del patrimonio dei Confidi. Per onestà bisogna riconoscere che alcune misure come la nascita dei minibond e l’incentivazione degli investimenti in macchinari (la nuova Sabatini) sono entrati in funzione ma ahinoi rappresentano la più classica delle eccezioni. Due autentiche mosche bianche. E comunque, più che un programma coerente di politica industriale seppur realizzato a tranche, la somma dei provvedimenti ha le sembianze di una lotteria. L’azione governativa appare sminuzzata e a effetto ritardato e, presa nel suo complesso, non è minimamente in grado di indirizzare le scelte di investimento dei singoli nella direzione voluta, tutt’al più accompagna ex post scelte che gli imprenditori hanno già maturato e attuato. Poi nei convegni si trova sempre un dirigente del ministero che si straccia le vesti per il nanismo delle nostre imprese.
Ps. C’era una volta il garante delle Pmi. Esiste ancora?

Balordi del debito

Balordi del debito

Davide Giacalone – Libero

La sola cosa che sbalordisce è che ci siano degli sbalorditi in circolazione, a cominciare dal ministro dell’Economia. Non c’era una sola possibilità al mondo che la Commissione europea non aprisse una procedura d’infrazione, per gli enormi ritardi con cui lo Stato italiano paga i propri debiti verso i fornitori privati. Non c’era perché la conferma di quei ritardi era certificato dal governo e dalle autorità italiane. Perché nessuno si disse sbalordito quando il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sostenne che quei debiti sarebbero stati pagati a partire dal primo trimestre del 2015? Non si accorsero che era cosa del tutto diversa da quanto aveva promesso il presidente del Consiglio, Matteo Renzi? Noi, qui, lo facemmo subito notare. Chiedendo quel che continuo a chiedere: che fine ha fatto l’idea di utilizzare la Cassa depositi e prestiti quale garanzia bancaria per quei debiti? Lo hanno fatto gli spagnoli, lo ha proposto e ripetuto il presidente della Cdp, Franco Bassanini, lo aveva annunciato il capo del governo. Solo Pier Carlo Padoan non se n’era avveduto, sbalordendo.

Ma non basta: il 30 maggio scorso, in occasione delle considerazioni finali, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha detto, papale-papale, che quei debiti ammontano ancora a 75 miliardi (da 90 che erano stati stimati, e già è increscioso che si proceda a stime, non sapendo nessuno a quanto ammonta il totale, perché non si sa quali e quante voci sommare). Posto che i pagamenti fatti erano stati resi possibili da uno stanziamento del governo Letta, mettete assieme la cifra della Banca d’Italia alle dichiarazioni di Delrio e giungerete alla medesima conclusione cui è arrivata la Commissione. Padoan non aveva sentito, o non sbalordiva per buona creanza? Dato, allora, che lo Stato italiano è il peggiore pagatore d’Europa; che i tempi dei pagamenti dovrebbero essere di 30 giorni (60 solo in casi eccezionali); che quelli reali italiani sono fra sei e sette volte più lunghi; che si riconosceva l’incapacità di accorciarli, semmai solo di ridurne parzialmente l’ammontare; era inimmaginabile che la procedura d’infrazione non fosse innescata.

Veniamo alle colpe di Antonio Tajani, commissario europeo uscente ed esponente di Forza Italia rientrante. Confesso di non avere mai capito in base a quale meccanismo egli abbia più volte sostenuto che il pagamento di quei debiti poteva non essere contabilizzato nel deficit. Sarà mia incapacità, ma non mi convinceva. Sta di fatto, però, che quella tesi è stata sostenuta, da commissario, quando insediati erano governi non diretti dal suo capo politico. Di ieri, di oggi e di domani. A nessuno, in Forza Italia o altrove, fortunatamente, è venuto in mente di accusarlo di tradimento o scarso patriottismo di partito, e se avesse avuto ragione sarebbe stato un gran bene, perché i fornitori dello Stato si sarebbero trovati con soldi veri nelle casse. Ma accusarlo di scarso amor patrio perché prende atto che nulla si è fatto e si piega all’avvio della procedura d’infrazione, è grottesco. Tale accusa, oltre tutto, viene lanciata nello stesso giorno e sulle stesse pagine che annunciano il ribadito accordo sulle riforme costituzionali. Può darsi che Padoan si occupi solo di numeri, ma, a parte che non tornano, ammetterà che il suo sbalordirsi è balordo assai.

Tutto ciò senza dimenticare il punto centrale: lo Stato non riesce a pagare perché ha difficoltà di cassa e si barcamena nel tentativo di non sfondare i parametri (e fa bene, perché di tutto abbiamo bisogno, tranne che di pompare altro debito), ma ciò avviene giacché non riesce a tagliare le spese. Quella è la questione decisiva. Noi, che siamo personcine ragionevoli, non ci permetteremmo di farne una colpa esclusiva del governo in carica, ben consapevoli delle difficoltà. Ma è il governo stesso che s’insediò sostenendo che avrebbe pagato tutto e subito, nonché d’essere determinato a quei salutarissimi tagli. Invece: fumo tanto e arrosto nisba. Chiudano la bocca allocchita e asciughino i bulbi piagnucolosi, quindi, e la riaprano per farci sapere quel che seriamente vedono: tempi, modalità e quantità dei pagamenti da farsi.

La pietra al collo

La pietra al collo

Davide Giacalone – Libero

22 milioni di italiani ne mantengono 60. Fra i 22 ve ne sono che lavorano, ma non producono. Fra i 38 ve ne sono che producono, ma ufficialmente non lavorano. Leggere in questo modo il dato sulla disoccupazione aiuta a capire il problema, che consiste nel far lavorare regolarmente più persone, non nel creare più mantenuti. C’è un altro punto, nella lettura corrente, che appare capovolto: si reclamano soldi per creare lavoro, laddove sarebbe più logico lavorare per creare soldi. La mentalità dei mantenuti s’è così diffusa che il lavoro è interiorizzato non come funzione della produzione di ricchezza, ma come strumento per la sua più equa distribuzione. Da qui parte la catena di errori che si continua ad allungare, supponendo che dalla recessione si esca pompando i consumi, anziché rilanciando la produzione. Accettando che si dia una mano all’Italia che fa da zavorra, i cui costi sono la negazione della produttività, anziché una spinta all’Italia che ancora corre e porta a casa 400 miliardi di esportazioni (siamo uno dei cinque grandi con la bilancia commerciale, relativa a manufatti, attiva).
Quando leggo che nella pubblica amministrazione si suppone di potere ancora usare strumenti come i prepensionamenti e gli scivoli, che hanno precipitato l’Italia nel baratro del debito crescente, mi domando se chi ne parla è solo mancante di fantasia o proprio ignora la realtà. Quando sentiamo dire che si dovrebbe sfondare il parametro del deficit mi chiedo se nella mente di chi lo dice il debito ulteriore possa essere ripagato con balzi produttivi del 4-5% (stupefacente, nel senso della sostanza assunta), o suppongono che si possa tassare qualche altra cosa, così sprecando anche il debito ulteriore. Per portare quei 22 milioni a diventare non 23 ma 30 (chiamando al lavoro moltissime donne e moltissimi giovani che ne sono fuori), occorre togliere dal groppone di chi lavora il peso della spesa improduttiva e delle garanzie di cui i più giovani non godranno mai. Sì, anche rivedendo i “diritti acquisiti”, perché divenuti ingiustizia consolidata. L’elasticità e la permeabilità del mercato del lavoro non sono le porte della negazione delle garanzie, ma l’uscita di sicurezza per non avere garantita la disoccupazione odierna e l’impoverimento perpetuo.
Il decreto sul lavoro a tempo determinato, pur con qualche bozzo, va nella direzione giusta. Ma perché accontentarsi di segnali e direzioni? Perché non varare subito la normalità dei contratti con minori oneri fiscali e previdenziali, in cambio di minore stabilizzazione e immobilità? Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, avrebbe ragione nel rispondere: intanto questo lo abbiamo fatto. È così. Ma perché poi sente il bisogno di aggiungere che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori non si tocca? Cancellarlo può anche darsi che sia una bandiera ideologica, ma lo è anche immolarvisi. Ed è una presa in giro, perché è come dire: lo conserviamo, ma dimenticatevelo. Non è onesto. Ed è uno strizzare l’occhio all’Italia zavorra, sputando nell’occhio all’Italia che corre.
Il nostro mercato interno è stato gettato in mare con una pietra al collo, ma reagisce stringendosela al petto e non volendola mollare, quasi fosse l’ultimo scoglio sicuro. La reazione è comprensibile, perché dettata dalla paura. Ma l’unica cosa di cui avere paura è di restare con un terzo degli italiani che ne mantiene due terzi. O con l’elasticità relegata nel mercato che degrada dal grigio chiaro al nero notte, così affidandosi all’illegalità quale valvola di sfogo contro l’immobilità. Il riflesso politico di questa paura è il voto indirizzato a chi promette aumenti di reddito cui non corrispondono aumenti di produttività. Come se non fosse chiaro che quella è la via della perdizione. Non si può ragionare in due tempi: intanto dono, poi riformo. Questa formula porta a un doppio tempo diverso: ora regalo, poi me lo riprendo (con le tasse).
C’è in giro gente che cita Keynes, supponendo sia stato il teorico dello stampare denaro per finanziare i consumi. Figuriamoci: la Teoria Generale è del 1936, mentre la Repubblica di Weimar, e il suo stampificio di moneta, era crollata nel 1933! In un suo mirabile scritto ancora precedente (The End of Laissez-Faire, 1926) avverte di un pericolo: lo stato di povertà e bisogno convince tutti della necessità di cambiare, ma quando non se ne hanno più gli strumenti; mentre lo stato di ricchezza e soddisfazione toglie l’incentivo a cambiare, proprio quando sarebbe più facile e opportuno. Noi siamo in un punto di mezzo, convivendo con la ricchezza diffusa e il diffondersi della paura. Il tempo che stiamo perdendo non ce lo ridarà nessuno.