economia

Il paradosso europeo che difende le sue Pmi meno degli Stati Uniti

Il paradosso europeo che difende le sue Pmi meno degli Stati Uniti

Rainer Masera – Affari & Finanza

Il G20 di Brisbane ha rappresentato l’occasione per il Financial Stability Board (FSB) di rendere pubbliche le proposte sulla schema di “risoluzione” delle grandi banche in difficoltà, quelle “troppo grandi per fallire”. Si tratta di un passo fondamentale del processo di riregolazione bancaria dopo la crisi del 2007-09. Il modello è imperniato sul rafforzamento importante della capacità complessiva di assorbimento delle perdite (TLAC) e sulle procedure di risoluzione per le banche globali sistematicamente rilevanti (GSIB). È rivolto a impedire che si ripetano salvataggi di banche con contributi del taxpayer, per il timore di implosione del sistema finanziario e dell’attività economica in caso di fallimento. Per le 30 banche sistemiche (l’unica italiana è Unicredit) si sostituisce al bail-out dei contribuenti il bail-in di azionisti e obbligazionisti. Le regole TLAC in discussione prevedono che circa il 20% del totale attivo ponderato per il rischio dovrà avere come controparte capitale o debito che possa essere convertito in capitale: prime stime indicano che i fabbisogni aggiuntivi per le banche europee sono dell’ordine di 500 miliardi di euro. In realtà, anche altre forme di debito potranno esser attratte da perdite in caso di risoluzione.

La crisi finanziaria ha sottolineato l’esigenza di affiancare alla sorveglianza microprudenziale (rivolta all’esame delle singole banche) quella macroprudenziale (orientata alla salvaguardia della stabilità dell’intero sistema finanziario). Proprio considerazioni macroprudenziali avevano indotto ad accettare dopo il fallimento Lehman il bail-out di molte banche, ma hanno imposto di modificare le regole per prevenire il ripetersi dell’azzardo morale e dell’iniquità di un assetto dove le eventuali grandi perdite delle GSIB erano socializzate, ma i guadagni connessi a eccesso di rischio o addirittura a malversazioni erano comunque privatizzati. La necessità di una simultanea valutazione della supervisione ai livelli micro e macro può essere declinata secondo due chiavi di analisi naturalmente non esaustive. In primo luogo, il modello FSB si impernia sull’esigenza che le banche globali incorporino e internalizzino la salvaguardia della stabilità finanziaria. La loro stessa impronta sistemica richiede coefficienti di capitale e presidi prudenziali che vanno ben al di là delle regole di Basilea. In secondo luogo, si afferma il principio di un modello di sorveglianza non unitario: su questa fondamentale questione si danno risposte diverse al di qua e al di là dell’Atlantico.

Negli Stati Uniti il Dodd Frank Act del 2010 e la normativa di implementazione di Basilea 3 sono improntati al presupposto che le regole di capitale e di sorveglianza devono essere diversificate a seconda delle dimensioni, del modello di business e della complessità delle banche. Una taglia unica di vigilanza sarebbe inappropriata non solo perché trascurerebbe l’impronta sistemica, ma anche perché sarebbe un fattore di distorsione competitivo. Le piccole/medie banche retail (PMB) dovrebbero far fronte a costi (operativi e di personale) di compliance non proporzionali rispetto a regole sempre più numerose, complesse e articolate. Negli Stati Uniti, ad esempio, le PMB non devono corrispondere alle regole sullo stress testing, sui vincoli di liquidità e sui piani di risoluzione.

In Europa, viceversa, la Commissione ha adottato (e reiterato nella trasposizione di Basilea 3) l’approccio della taglia unica regolamentare. L’obiettivo sarebbe di evitare l’arbitraggio, ma – come si è indicato – si può argomentare l’opposto. Appare paradossale che il ruolo incisivo delle banche di prossimità per le piccole e medie imprese venga sottolineato e valorizzato negli Stati Uniti e di fatto disconosciuto in Europa. Il business model delle banche regionali ben gestite ha un vantaggio comparato nel finanziamento delle piccole/medie imprese locali, anche se inserite in filiere produttive di più ampio respiro. In particolare, il settore delle micro imprese è in Italia e in Europa quello più rilevante in termini di creazione (e di distruzione) di posti di lavoro, con caratteristiche di forte prociclicità.

I nessi tra piccole e medie banche e piccole e medie imprese sono stretti, con significativi effetti di retroazione che amplificano gli andamenti della congiuntura: sono le microimprese quelle che sperimentano le maggiori difficoltà nel finanziamento esterno, per le caratteristiche intrinsecamente meno trasparenti dei bilanci e per l’inevitabile intreccio con la situazione economico- finanziaria del proprietario/imprenditore. Comunque le piccole imprese devono muovere verso modelli non opachi, con maggior attenzione ai profili di redditività e di patrimonializzazione aziendale.

Occorre tuttavia evitare di “gettare il bimbo con l’acqua sporca”. Il modello unitario di regolazione delle banche adottato in Europa ha inciso negativamente sul flusso di credito alle piccole imprese e sulle economie locali. Come dimostra l’esperienza americana, non si tratta di argomenti di retroguardia, che devono cedere il passo a schemi di finanziamento più efficienti ed evoluti. Il sistema finanziario europeo è troppo bancocentrico e deve evolvere verso assetti in cui l’intermediazione di mercato svolga un ruolo molto più significativo. Anche per le piccole e medie imprese il ruolo del finanziamento bancario deve essere ridotto. Ma il processo deve essere graduale, richiede l’attivazione di idonei modelli di cartolarizzazione dei crediti, per i quali si è impegnata la Bce, non deve implicare oneri rilevanti per le economie locali e per le banche regionali.

Il capitalismo senza idee che vede solo i dividendi

Il capitalismo senza idee che vede solo i dividendi

Federico Fubini – Affari & Finanza

A guardarli così, sembra di vivere in un altro Paese. La scorsa settimana ha portato un’infornata di relazioni trimestrali delle società quotate ma, scorrendo i numeri, non emergono molte tracce dell’Italia che ci circonda. Quest’ultima è la sola economia che non ha mai smesso di contrarsi dalla primavera del 2011: da allora Palazzo Chigi ha cambiato quattro presidenti del Consiglio, Mario Balotelli ha cambiato tre squadre e l’Irlanda è passata dalla richiesta di aiuto alla troika a una crescita che a metà di quest’anno superava quella della Cina. In Italia invece la recessione è rimasta tale, ma si fatica a crederlo quando si guarda ai dati delle ultime trimestrali. La maggioranza delle imprese ha aumentato l’utile netto o almeno il margine lordo, quello prima di contare gli ammortamenti e pagare le tasse. Lo hanno fatto in tutti i settori e con tutte le vocazioni, sia all’export che al debolissimo mercato nazionale, sia con azionisti privati che pubblici.

Le imprese del made in Italy sono riuscite a guadagnare qualcosa di più nelle costruzioni, nei servizi urbani in rete, nella moda e nel lusso, nella meccanica, nell’auto, nell’elettronica. Quest’anno un gruppo pubblico controverso come Finmeccanica aumenterà il margine lordo e la protagonista di una privatizzazione (quasi) mancata come Fincantieri accrescerà l’utile netto. Sta guadagnando di più Acea, malgrado le invadenze della politica, e ci stanno riuscendo gruppi ad azionariato tutto privato come Trevi (elettronica di consumo), Brembo (freni per auto), Cementir, Ferragamo o, per i margini lordi, Autogrill. La lista potrebbe continuare. I manager della corporate Italy sanno come difendere gli azionisti e in questo non ci sarebbe niente di male, anzi: il profitto è il dovere di qualunque impresa che voglia andare avanti. Eppure quando si guarda al futuro viene qualche dubbio sulla qualità di quegli utili. Il made in Italy di Piazza Affari, così come quello che non osa affrontare i listini, sembra sempre più allergico agli investimenti.

Oggi un gruppo che aspira ad avere un posto nella competizione internazionale deve impiegare almeno il 6% dei suoi ricavi in ricerca, nuove tecnologie, presìdi nei mercati in crescita. In Italia non si vede niente del genere. A un sondaggio condotto da General Electric all’inizio di quest’anno i capitani d’impresa italiani dicevano che per il 2014 programmavano di ridurre gli investimenti di un quarto (sono stati di parola), mentre in Francia, Gran Bretagna o Spagna aumentavano. Ci sono molte importanti eccezioni nel panorama del made in Italy. Ma la stessa Ge stima all’Italia spetti il record delle «opportunità perdute», per decine di miliardi l’anno, a causa di impianti vecchi e inefficienti. Le tasse, la burocrazia, la giustizia lenta saranno sì degli ostacoli. Ma nessuno è più urgente da superare come quello di un certo capitalismo senza un’idea in testa, se non quella di acciuffare in qualche modo il prossimo dividendo.

Idea folle per l’economia italiana

Idea folle per l’economia italiana

Jim O’Neill – Il Sole 24 Ore

Ho trascorso buona parte dei miei 35 anni di analista economico e finanziario a lambiccarmi il cervello sull’Italia. Studiarne l’economia è stato il primo incarico del mio lavoro. In verità, l’Italia è stato il primo Paese straniero nel quale mi sia recato. Adesso sono tornato da una vacanza in Puglia e Basilicata. Nei decenni, la domanda che mi si è affacciata spontanea è rimasta pressoché invariata: come è possibile che un Paese così meraviglioso abbia così tante difficoltà ad avere successo?

Per tutto questo tempo, l’Italia ha messo in campo un governo debole contro un settore privato straordinariamente adattabile e una competenza speciale nella produzione manifatturiera su piccola scala. Essendo per natura ottimista, in generale ho creduto che questi punti di forza prima o poi potessero avere la meglio e l’Italia potesse prosperare. Prima dell’unione economica e monetaria europea, però, l’Italia aveva un tipo di flessibilità di cui ora è priva: una moneta che poteva svalutare in caso di necessità. Quelle periodiche iniezioni di maggiore competitività furono di aiuto alla Fiat e agli altri grandi esportatori, ma anche alle aziende più piccole.

Il resto d’Europa nutriva sentimenti contrastanti in relazione a questa celerità nel recuperare competitività con la svalutazione, ovviamente a loro spese. Quando si iniziò a parlare di istituire tassi fissi di cambio in Europa e ad avviarsi verso una valuta unica, tra gli altri partner – soprattutto Germania e Francia – le opinioni furono discordanti in merito a cosa sarebbe stato più nel loro interesse. Molti conservatori tedeschi, compresi alcuni alla Bundesbank, diffidarono dell’impegno italiano nei confronti di una bassa inflazione, che loro avrebbero voluto incoronare obiettivo monetario più importante d’Europa.

Lasciare l’Italia fuori dall’euro avrebbe significato rendere attaccabile la loro stessa competitività dalle occasionali svalutazioni della lira. Alla fine, fu presa la decisione di ammettere l’Italia. Le regolamentazioni fiscali adottate in quella medesima circostanza – compresa la promessa di mantenere il deficit di bilancio sotto il 3% del Pil – possono essere considerate come un tentativo per costringere l’Italia a comportarsi come si deve. Più volte mi sono chiesto se per caso da alcuni non fossero considerate un mezzo per rendere impossibile all’Italia entrare a far parte dell’euro.

In ogni caso, l’Italia si è trovata doppiamente vincolata, senza una valuta da regolare a suo piacimento e con uno spazio di manovra fiscale fortemente limitato. I risultati non sono stati positivi. Paradossalmente, tra il 2007 e il 2014 l’Italia ha ottenuto risultati migliori della maggior parte degli altri Paesi nel tenere sotto controllo il proprio deficit ciclicamente corretto. Nonostante ciò, però, il suo rapporto di indebitamento rispetto al Pil è aumentato tantissimo. La causa è da ricercarsi nella costante mancanza di crescita nel Pil nominale, a sua volta dovuta almeno in parte a una moneta sopravvalutata e a rigide restrizioni di bilancio.

L’Italia è la terza economia più grande della zona euro e il terzo Paese per numero di abitanti. Tenuto conto di ciò, dell’entità del suo indebitamento e di ogni altra cosa di cui siamo venuti a conoscenza sulle priorità dell’Europa durante la fase di creazione dell’euro e da allora in poi, ho sempre creduto che, in definitiva, la Germania avrebbe fatto quanto era necessario per difendere l’Italia da quel tipo di dissesto finanziario che ha travolto la Grecia nel 2010. Ormai, però, sto cominciando ad avere i miei dubbi.

Per impedire che il suo indebitamento si aggravi ancora di più, l’Italia ha bisogno di una crescita nel Pil nominale. Certo, ha bisogno anche di riformare la propria economia, di aumentare la produttività, di dare un forte impulso alla forza lavoro affinché questa si impegni in maniera duratura. Ma finché resterà membro del sistema euro, non avrà l’aiuto derivante da una svalutazione valutaria programmata. Ciò significa che ha bisogno dell’aiuto della Germania, e non soltanto per mezzo di una maggiore flessibilità fiscale, che è essenziale, ma anche tramite un aumento dell’inflazione nell’area euro per tornare all’obiettivo della Banca centrale europea di una soglia «inferiore, ma vicina, al 2 per cento». Sarà quasi impossibile per l’area euro riuscirci, a meno che la Germania non riveda lei stessa al rialzo l’inflazione per i prezzi al consumo, portandoli a quel tasso o più in alto.

Mentre attraversavo l’Italia, in questa mia recente vacanza, ho immaginato un tipo diverso di rigidità tedesca. Che accadrebbe se si applicasse il criterio della «tolleranza zero» nei confronti di un’inflazione che cada sotto l’obbiettivo voluto? Forse, i cittadini tedeschi dovrebbero pagare una tassa extra per ogni anno che il loro Paese fa registrare un’inflazione «inferiore, ma non vicina, al 2 per cento», con una sanzione amministrativa crescente in rapporto alla differenza? I soldi così raccolti potrebbero essere distribuiti ai Paesi che hanno un deficit fiscale ciclicamente corretto inferiore al 3 per cento e inferiore rispetto al trend della crescita del Pil. Anzi, a ben pensarci, l’Italia non potrebbe obbligare i turisti tedeschi a pagare una tassa?

Lo so. Sarebbe folle. Ma sarebbe veramente molto più folle rispetto al fatto di continuare a insistere sull’arbitraria regola del vincolo tra economia e deficit, senza revisioni per il ciclo economico, o al fatto di lasciar cadere la domanda così in basso che l’Europa non riesce a raggiungere il suo obbiettivo di inflazione mancandolo di molto, e in modo tale da condannare l’Italia e altri paesi a una recessione senza fine? Direi che, quanto a follie, stanno quasi alla pari.

La terza recessione del Paese malato

La terza recessione del Paese malato

Tito Boeri – La Repubblica

Siamo ufficialmente il malato d’Europa. L’unico Paese, oltre a Cipro, con il segno negativo nel terzo trimestre 2014, l’unico a vivere tecnicamente una terza recessione. Ma non facciamoci ingannare dai decimali, soggetti ai margini cileno-re di queste stime. Il fatto nuovo è che anche la Germania è entrata in stagnazione e fa peggio del resto dell’area euro. Chi conta davvero in Europa non può continuare a far finta di nulla. Mentre il resto del mondo, dalla Cina all’India agli Stati Uniti, continua a crescere a tassi sostenuti. Un anno fa il clima di fiducia di famiglie e imprese volgeva al bello; sarebbe bastata una politica monetaria più espansiva, un accesso al credito meno difficile per imprese e famiglie per tradurre questo cambiamento di aspettative in comportamenti favorevoli alla crescita. Oggi i piani della Bce, anche qualora attuati compiutamente, non bastano più. Prevale l’avversione al rischio, si cerca liquidità, anziché investire in progetti imprenditoriali.

Per contrastare questa depressione delle aspettative ci vorrebbe un piano di investimenti pubblici a livello europeo, finanziato soprattutto da quegli Stati che possono permetterselo. Andrebbe anche a loro vantaggio. Ma chi ha sin qui agitato la bandiera degli investimenti europei, il Presidente della Commissione, Juncker, è oggi, a sole due settimane dal suo insediamento, un’anatra zoppa, delegittimato dalle rivelazioni sui favori fiscali concessi, con accordi segreti, alle imprese che investivano in Lussemburgo quando era alla guida del granducato. E non sarebbe la prima volta che un piano di investimenti pubblici europei si perde nel nulla: è già successo col piano di Delors del 1993, con la strategia di Lisbona del 2000 e con il Growth Compact del 2012. Eppure il vertice europeo che a dicembre dovrà decidere sul piano di investimenti pubblici non deve fallire.

Juncker, nel suo discorso di investitura, ha parlato di 300 miliardi, spalmati su tre anni. Significa circa lo 0,3 per cento del Pil dell’area euro. Troppo poco per stimolare l’economia in crisi, anche considerando moltiplicatori fiscali favorevoli. Ci vorrebbe almeno il doppio e soldi veri, non delegati ai prestiti concessi dalla Banca Europea degli Investimenti che, per ragioni di rating, evita di finanziare investimenti che hanno effetti positivi su tutti gli operatori economici anche se non sono magari molto redditizi. Devono anche essere spesi subito, senza le interminabili procedure che regolano l’accesso ai fondi strutturali. E devono essere spesi bene, da amministrazioni pubbliche non corrotte.

C’è un piano che soddisfa questi tre requisiti. Si tratta di assicurare l’accesso alla banda larga su tutto il territorio dove si paga in euro. Sarebbe un piano gestito a livello di istituzioni sovranazionali europee, facilmente soggette allo scrutinio dell’opinione pubblica. L’accesso alla banda larga permette di migliorare l’ efficienza delle imprese allargando i mercati perché riduce i costi di transazione. In questo modo stimola la crescita. Secondo alcuni studi sui paesi Ocse, un incremento della penetrazione della larga banda di 10 punti percentuali porterebbe ad aumentare il tasso di crescita del reddito pro capite dell’1,5 per cento all’anno. In Germania è stato stimato che l’ampliamento della banda larga comporterebbe una crescita addizionale cumulata di 33 miliardi in dieci anni. È un investimento che favorisce anche i Paesi in cui la banda larga è già ampiamente diffusa, perché permette alle imprese di vendere ai consumatori oggi localizzati in aree in cui il commercio online è meno sviluppato per i limiti della rete. Al tempo stesso sono i Paesi che oggi hanno maggiore bisogno di stimoli fiscali, come l’Italia, quelli più indietro nello sviluppo della banda larga, e in cui gran parte degli investimenti avrebbe luogo. Da ultimo, è un investimento percepibile dai cittadini, darebbe quel senso al fatto di appartenere all’area dell’euro che oggi manca soprattutto nel sud del continente. Al punto che molti demagoghi di professione, a Beppe Grillo si è ieri aggiunto Stefano Fassina, hanno ormai deciso di abbracciare la causa dell’uscita dall’euro.

Il governo Renzi sembra aver compreso la centralità dell’investimento in banda larga, tant’è che sulla carta vuole mobilizzare fino a dieci miliardi attingendo ai fondi strutturali. Ma gli obiettivi dell’Agenda digitale velocizzano l’accesso a chi è già connesso, portandola fibra fino ai palazzi anziché collegare chi oggi è di fatto tagliato fuori. In altre parole, si muovono più nello spirito degli investimenti privati che di quelli pubblici. Proponendosi, invece, di ridurre davvero il digital divide ci si potrebbe presentare a Bruxelles a dicembre con ben altra forza e credibilità. Gioverebbe non poco avere anche una riforma compiuta da esibire. Dovendo esprimere un giudizio sul governo Renzi, viene da pensare a quei candidati a posizioni di professore di ruolo che hanno tanti lavori in corso, ma ancora nessuna pubblicazione. I working paper possono riempire le pagine dei giornali, ma non rientrano nei curricula che vengono presi in considerazione a livello internazionale.

Possiamo evitare la terza recessione?

Possiamo evitare la terza recessione?

Stefano Lepri – La Stampa

Per noi in Italia sono davvero brutte notizie, queste sul prodotto lordo del terzo trimestre. Anche nel resto del mondo pare deludente che le economie dell’area euro avanzino a fatica. Ma perché cambi qualcosa anche in Germania devono convincersi che così non va: mentre quel magro +0,1% registrato dal Pil tedesco basta al vicecancelliere Sigmar Gabriel per scorgere un «rafforzamento». Una vera e propria recessione, la terza, è per ora evitata (tranne in Italia). Ma le cifre di luglio-settembre diramate dall’Istat consentono scarso ottimismo. II quarto trimestre, ora a metà, potrebbe rivelarsi ancora più debole, e il primo trimestre 2015 solo di poco migliore. Il sussulto positivo della Francia (+0,3) ha cause che difficilmente si ripeteranno. In Germania l’umore delle imprese fino alla fine di ottobre ha continuato a peggiorare.

Che fare? Delle due azioni suggerite dalle organizzazioni internazionali come Fmi e Orse, una – nuove misure monetarie della Bee – si fa attendere, l’altra – più investimenti pubblici – al momento non è in vista. Al G-20 che comincia oggi in Australia, dove Renzi insisterà per discutere di crescita, l’Europa sarà guardata come la palla al piede dell’economia mondiale. Ma quando il ministro del tesoro Usa Jack Lew invita ad evitare un «decennio perduto», a Berlino ritengono che esageri (mentre in Italia l’abbiamo già perduto per conto nostro, la crescita si era fermata assai prima della crisi). Nell’immediato la speranza è affidata alla Banca centrale europea. Come da anni fanno Federal Reserve, Banca d’Inghilterra, Banca del Giappone, potrebbe compiere acquisti massicci sui mercati per far salire le quotazioni e scendere i tassi di interesse. Solo in caso estremo si tratterebbe di titoli di Stato, perché la Bundesbank si oppone.

Ancora ieri il governatore della Banca di Francia Christian Noyer affermava che solo «un nuovo shock negativo» o un rialzo dei tassi di interesse che parta dagli Usa potrebbero spingere all’azione. Gli analisti finanziari prevedono che si arriverà a un acquisto di soli titoli privati nel corso del primo trimestre 2015. Troppo tardi? Nel caso dell’Italia, poi, l’ulteriore calo dei tassi di interesse così ottenuto avrebbe risultati limitati, se è vero ciò che dicono i banchieri: i soldi non vengono prestati perché le imprese non ne chiedono o G chiedono solo per restare a galla. Sarebbero favorite solo le imprese grandi, in grado di finanziarsi direttamente sul mercato senza passare per le banche.

Gli ottimisti puntano sul recupero nei Paesi euro che più hanno sofferto dell’austerità: cresce il Pil della Grecia, cresce la Spagna. La cura funziona? Se non altro la Spagna è diventata più competitiva, ha fatto riforme efficaci; se ne indica l’esempio all’Italia. Ma il prezzo politico sembra alto: negli ultimi sondaggi di opinione (si vota tra un anno) è in testa o al secondo posto il movimento di estrema sinistra «Podemos», si profila un Parlamento senza maggioranze omogenee. In Spagna il peso del recupero di competitività è stato sopportato in gran parte dai precari, non dai lavoratori a posto fisso: questo spiega il radicalizzarsi di una protesta soprattutto giovanile. La riforma del mercato del lavoro in Italia è bene dunque miri in un’altra direzione, a ridurre il precariato.

Per offrire subito lavoro e ridare fiducia alle imprese la soluzione da molte parti reputata migliore sarebbe un piano di investimenti pubblici a carico delle istituzioni europee e non degli Stati già troppo indebitati come il nostro. A parole esiste l’impegno per i 300 miliardi del piano Juncker, al quale ieri il ministero dell’Economia italiano ha contribuito con progetti per 40. Ma è dubbio che esista la volontà politica collettiva per far andare il piano Juncker oltre le chiacchiere. No a nuovi debiti anche europei, dicono molti Paesi ancora terrorizzati dal rischio di crack dell’Italia nel 2011. Quando giorni fa la direttrice del Fondo monetario Christine Lagarde ha ipotizzato che nel mondo del dopo-crisi sia irrealistico l’obiettivo del «Fiscal Compact» europeo di far tornare il debito degli Stati al 60% del Pil, dalla Germania è partita una salva di proteste. L’eredità peggiore della crisi è la paura.

Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia

Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia

ABSTRACT

La spesa per ammortizzatori sociali in Italia è arrivata nel 2013 alla cifra record di 23,6 miliardi di euro (nel 2007 erano 7,9 miliardi). Il sistema nel suo complesso è finanziato per una quota di circa 9 miliardi di euro annui a carico delle imprese, le quali sono soggette a contribuzione a diverso titolo e in base a norme specifiche a seconda della diversa tipologia di intervento a cui è riservata la copertura. Di questi 9 miliardi annui, una quota appena inferiore ai 4 costituisce formalmente la contribuzione a copertura della cassa integrazione guadagni, sia essa ordinaria o straordinaria; 600 milioni circa sono le entrate (a carico delle imprese) a copertura dell’indennità di mobilità, mentre la restante parte è destinata all’indennità di disoccupazione e alle neonate ASPI e mini-ASPI. Le uscite eccedenti (nulle nel 2007) vanno a carico della fiscalità generale: l’esborso a carico dello Stato è incrementato nel tempo fino ai 14,6 miliardi del 2013 (38,1 miliardi la spesa del triennio 2011-2013).
Già nel 2010, il MEF rilevava che il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia risulta eccessivamente oneroso (per le imprese e per lo Stato), poco universale, iniquo nei sistemi di finanziamento e inadeguato a fronteggiare il mutato contesto economico e produttivo. Mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono ad un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori), il sistema è finanziato in misura sempre più ampia dalla collettività nel suo complesso; inoltre non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità. Il paper analizza nel dettaglio i costi complessivi del sistema, le modalità con cui essi vengono finanziati, separando il contributo a carico delle imprese da quello a carico della fiscalità generale, ed inoltre analizza la struttura degli strumenti attivati ed alcuni principi e ipotesi di una loro riforma.
Scarica il Paper di ImpresaLavoro: Costi, finanziamento e struttura degli ammortizzatori sociali in Italia
Rassegna stampa
Libero
Il Fatto Quotidiano
L’Italia è una spirale da incubo. Che farà Renzi?

L’Italia è una spirale da incubo. Che farà Renzi?

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

L’Europa potrebbe dirci “no, cara Italia, così non ci siamo, stai deviando troppo dal percorso di rientro dal debito pubblico, correggi la rotta e insisti nel consolidamento fiscale…”. Oppure i mercati, sempre in fiduciosa attesa della svolta della Bce a trazione Mario Draghi, potrebbero improvvisamente svegliarsi facendo un paio di conti: “l’Italia continua a non crescere, l’inflazione è troppo bassa, il debito non si riduce…”. In entrambi i casi potrebbero aprirsi scenari da incubo. Per non dire della terza ipotesi, quella che vedrebbe perfettamente allineati il giudizio negativo di Bruxelles (dal lato del debito crescente) con quello dei mercati (dal lato della mancata crescita).

Quanto prima l’Italia deve uscire da questa spirale, ma non basterà dire “stop alle lezioni di Bruxelles, le vostre valutazioni non ci preoccupano, siamo in linea”. Il Rapporto sui (persistenti) squilibri macroeconomici – alto debito e competitività esterna debole – suona come un primo allarme ancorché basato sui numeri del Def (Documento di economia e finanza) presentato dal Governo Renzi a settembre. Numeri poi corretti dallo stesso esecutivo con il programma di Stabilità per il 2015 e per gli anni a venire. Tra il 24 ed il 25 novembre è attesa (dopo le nuove stime su Pil, deficit e debito di qualche giorno fa) la prima valutazione della Commissione europea sulla Legge di Stabilità e a inizio 2015 scatterà una nuova missione per aggiornare il report sugli squilibri macroeconomici. In primavera ci sarà infine il “verdetto” finale.

Anche il calendario assomiglia insomma ad un “closed loop”, ad un anello chiuso che lascia pochi e sorvegliatissimi varchi. Il Governo squadernerà a Bruxelles le riforme messe in cantiere e cercherà di ottenere la massima flessibilità nel quadro delle regole esistenti riconfermando di stare sotto la soglia del 3% nel rapporto deficit/Pil. Ma potrebbe non essere sufficiente: per l’Europa e per l’esecutivo stesso “a caccia” di crescita per abbassare il debito e rassicurare i mercati. Che Renzi, messo alle strette da dosi crescenti di rigorismo unilaterale, possa trovarsi nelle condizioni di uscire dalla morsa tra mancata crescita e alto debito con un “cambiaverso” sul deficit? Nulla è da escludere.

Ricchi, eguali

Ricchi, eguali

Luciano Capone – Il Foglio

In questi 30 anni – quelli del “liberismo selvaggio” che affama i popoli, distrugge il pianeta, aumenta le disuguaglianze – l’umanità sta vincendo la più grande guerra contro la miseria. La Banca mondiale, lo scorso 9 ottobre, ha pubblicato un rapporto sulla povertà nel mondo. I dati dicono che la percentuale della popolazione mondiale che vive in condizioni di povertà estrema – ovvero con meno di 1,25 dollari al giorno – è crollata dal 36,4 per cento del totale nel 1990 al 14,5 per cento nel 2011. È la più grande riduzione della povertà nella storia dell’umanità, circa 1 miliardo di poveri in meno, una cifra mostruosa, una rivoluzione silenziosa che forse meriterebbe maggiore attenzione del libro glamour di Thomas Piketty, premiato ieri da quei burloni del Financial Times.

La caduta vertiginosa della percentuale di poveri, mentre la popolazione mondiale è cresciuta esponenzialmente, spazza via il malthusianesimo di ritorno, le boiate sulla decrescita felice e il pauperismo no global. Secondo le proiezioni della Banca mondiale, con un tasso di crescita globale pari a quello degli anni 2000, nei prossimi 20 anni la povertà si ridurrà ulteriormente fino a scendere al 5 per cento della popolazione mondiale, che vuol dire altri 600 milioni di poveri in meno. L’ampiezza di questo fenomeno è ancora più impressionante se si guarda allo studio di un economista catalano della Columbia University, Xavier Sala-i-Martin, che dimostra come in un arco di tempo più ampio, dal 1970 al 2006, il tasso di povertà assoluta è crollato dell’80 per cento. Ma non basta: oltre a diventare più ricco il mondo è diventato anche meno diseguale. Sala-i-Martín mostra che sia il coefficiente di Gini sia l’indice di Atkinson (indicatori che misurano la distribuzione dei redditi) segnalano una riduzione della disuguaglianza a livello globale.

Ma a cosa è dovuto questo portentoso progresso? Nazioni Unite? Fondo monetario internazionale? Qualche programma governativo? Aiuti ai paesi in via di sviluppo? No. È merito della globalizzazione, del libero mercato, dei diritti di proprietà, del rule of law, della caduta di barriere interne ed esterne. In una parola, del capitalismo. E questo è evidente anche ai più scettici, dato che il contributo più grande alla riduzione della povertà l’hanno dato i popoli di due paesi fino a poco fa (e in parte ancora oggi) prigionieri dello stato e della pianificazione economica, cioe la Cina e l’India. Come hanno illustrato magistralmente il premio Nobel Ronald Coase e Ning Wang nel loro libro “Come la Cina è diventata un paese capitalista”, pubblicato in Italia dall’Istituto Bruno Leoni, sono stati l’apertura al mercato, la rottura dei monopoli statali, il superamento dei “piani quinquennali” e l’estensione dei diritti di proprietà a garantire una vita più decente a centinaia di milioni di esseri umani, tanto che adesso la povertà estrema sembra essere un problema africano e in particolare subsahariano, riguardante cioè quelle aree dove il capitalismo non ha ancora messo piede.

Questi dati smentiscono gli “intellettuali” che dai pulpiti di paesi ricchi e stanchi da anni parlano di “ritorno a Marx”, crisi del capitalismo, caduta del saggio di profitto e proletarizzazione della borghesia. D’altronde lo stesso Karl Marx, a differenza dei marxisti, era un alfiere entusiasta della globalizzazione e aveva capito bene la potenza rivoluzionaria del capitalismo. E forse, oltre ai marxisti di ritorno, quella che può essere considerata come la più grande moltiplicazione dei pani e dei pesci della storia dell’umanità, seppure di origine non sovrannaturale, dovrebbe indurre a una riflessione anche Papa Francesco sul suo anti capitalismo pauperista esposto nella “Evangelii Gaudium”.

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Carlo Lottieri

Entro questa Europa che sta avvitandosi su se stessa, l’unica vera strategia può consistere nell’allargare gli spazi di libertà. Solo una fuoriuscita dal mito dallo Stato e, di conseguenza, dall’interventismo pubblico può ridare una chance alle popolazioni europee. E in questo senso, una spinta nella direzione giusta potrebbe venire dal TTIP, ossia da quel “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti) che dovrebbe unificare le economie di Stati Uniti ed Europa.
De negoziati in atti, però, si parla assai poco e questo in promo luogo perché ben pochi credono che ampliare gli scambi sia un atto di civiltà e una scelta che favorisce la prosperità. In questo senso dovremmo imparare da chi, negli ultimi decenni (per giunta partendo da una situazione ben peggiore della nostra), ha saputo imboccare la strada giusta. Al riguardo può essere molto utile quanto scrissero Ning Wang e Ronald Coase – quest’ultimo scomparso lo scorso anno – in uno straordinario volume (il libro è stato tradotto in italiano da IBL Libri) volto a spiegare come e perché la Cina sia riuscita a diventare un Paese capitalista. Com’è successo che uno dei Paesi più statici, piegati dallo statalismo e distrutto da progetti folli quali la Rivoluzione Culturale e il Grande Balzo in Avanti abbia saputo mettersi sui giusti binari, tanto da crescere al ritmo del 10% all’anno? Mentre Europa e Nord America vanno perdendo sempre più dinamismo, com’è possibile che la Cina abbia invece imboccato la strada opposta?
Wang e Coase insistono su vari punti, ma in particolare su due. In primo luogo, essi sottolineano il carattere altamente decentrato della Cina, che è un autentico continente e che nel corso dei secoli non è mai stato gestito direttamente da Pechino, poiché nessun regime ha mai preteso tanto. Per giunta, lo stesso Mao evitò ogni dirigismo economico sovietico (basato su piani economici quinquennali) perché riteneva che una struttura di quel tipo avrebbe rafforzato i luogotenenti politici e avrebbe quindi rappresentato un pericolo per la sua leadership. Avere tanti capetti di livello locale era probabilmente meglio che non dotarsi di una tecnostruttura che disponeva dell’economia cinese.
Mao non aveva alcuna delle preoccupazioni che gli studiosi liberali hanno di fronte alla al dirigismo, ma perseguendo in modo assai machiavellico i suoi calcoli bloccò ogni eccessiva concentrazione del potere economico in poche mani. L’altra questione su cui gli autori insistono è il ruolo che hanno avuto i cambiamenti “ai margini”. In definitiva la Cina collettivizzata da Mao si è trovata a dover affrontare una povertà terribile e una disoccupazione di grandi dimensioni. In questo quadro drammatico e, spesso, a migliaia di chilometri dalla capitale, in varie circostanze quella che ebbe luogo fu una privatizzazione di fatto dei terreni che produsse ottimi risultati e poi venne presentata dal regime come l’effetto di una scelta strategia.
Anche nelle città, la nascita di imprese private ebbe luogo nell’illegalità. Non solo il regime comunista non organizzò in alcun modo i primi passi del sistema privato, ma neppure creò un quadro giuridico che favorisse tutto questo. L’afflusso nelle città di masse di disoccupati obbligò però molti ad arrangiarsi: e anche stavolta il Pcc si attribuirà i buoni risultati conseguenti. Il regime subì i cambiamenti, anche se ebbe la furbizia di non ostacolarli una volta che le cose ebbero avuto luogo e, anzi, si attribuì le trasformazioni quali effetti di decisioni “lungimiranti”.
Spesso s’insiste sul pragmatismo di cui diedero prova i comunisti cinesi e, in particolare, Deng Xia-ping, cui poco interessava se fosse meglio adottare Stato o mercato, perché l’importante era che l’economia crescesse. Questo è cruciale per capire l’apertura al mercato della Cina, ma anche Deng avrebbe potuto fare ben poco se – lontano dai centri potere – non ci fosse stata la coraggiosa iniziativa di chi ha osato, sfidando i pregiudizi e gli interessi consolidati. E oggi la partita cinese è assai più aperta – anche sotto il profilo politico – proprio grazie all’espansione di imprese che sfidano il mercato invece che rispondere a esigenze politiche.
Non lo si dice quasi mai, ma l’esperienza cinese è soprattutto quella di un potere che, un po’ alla volta, si è ridimensionato e ha finito per perdere il monopolio sulla società. Oggi – nonostante i molti problemi che persistono: dal partito unico alla situazione tibetana – la libertà individuale in Cina è assai più rispettata e il potere meno ramificato, perché le forze del mercato hanno creato spazi di autonomia e sparigliato le carte.
Se il coraggio d’intraprendere ha condotto entro un ordine capitalistico pure la Cina del marxismo in salsa maoista, perché non dovrebbe poter succedere lo stesso anche nella nostra Europa dominata da iper-regolamentazione, tassazione e redistribuzione? E se l’apertura del mercato cinese ha tanto aiutato quella società, perché mai questo non dovrebbe succedere anche sulle due coste dell’Atlantico?
Soltanto dal lavoro verrà la ripresa

Soltanto dal lavoro verrà la ripresa

Marco Fortis – Il Sole 24 Ore

L’Italia aspetta invano la ripresa da oltre due anni. Immancabilmente ogni trimestre è sembrato essere quello buono per la ripartenza ma le previsioni sono state sempre brutalmente smentite. Il Pil ha continuato a calare, affondato da consumi e investimenti, e fatica a ripartire. La principale ragione di ciò è che l’economia non invertirà la tendenza negativa fintanto che l’occupazione non ricomincerà a crescere. Allora, con la fine dell’agonia del mercato interno, ci sarà la svolta.

Da ottobre 2008 ad aprile 2014 gli occupati, secondo le serie destagionalizzate dell’Istat, sono diminuiti di oltre 1 milione e 100mila unità. Metà dei posti di lavoro persi hanno riguardato i giovani dai 15 ai 24 anni. Ma da aprile a settembre di quest’anno forse le cose stanno finalmente cambiando. Gli occupati totali sono cresciuti di 153mila unità, 82mila dei quali soltanto nell’ultimo mese, dopo la ripresa dalle ferie. Inoltre, la caduta degli occupati tra i giovani sembra essersi fermata.

Che cosa sta succedendo? Valutazioni più precise saranno possibili soltanto tra alcuni giorni quando l’Ista pubblicherà i dati trimestrali sull’occupazione aggiornati a settembre, con un elevato grado di dettaglio sia per macro-settori sia per macroaree geografiche. Per intanto, disponiamo delle rilevazioni Istat relative al secondo trimestre di quest’anno, che già indicavano linee di tendenza piuttosto chiare. Infatti, considerando le variazioni tendenziali, nel secondo trimestre 2014 si rilevava una crescita di 124mila addetti nell’industria in senso stretto rispetto al secondo trimestre 2013 e una crescita di 15mila addetti nell’agricoltura nello stesso periodo. Presentavano invece ancora cali tendenziali significativi i servizi (-92mila addetti) e le costruzioni (-61mila addetti). Se poi analizziamo le statistiche per aree geografiche, notiamo che nel secondo trimestre 2014 il Nord presentava già una modesta crescita degli occupati totali rispetto al secondo trimestre 2013 (+36mila), così come il Centro (+40mila), mentre risultava an cora in forte calo il Mezzogiorno (-90mila).

Da questi dati appare chiaro che l’occupazione italiana non si smuoverà stabilmente dal fossato in cui è sprofondata durante la crisi se non ricominceranno ad aumentare a livello nazionale gli addetti nei servizi e nelle costruzioni, o almeno in uno dei due comparti (fermo restando che industria e agricoltura mantengano i precedenti recuperi). A livello geografico serve invece che riparta l’occupazione nel Mezzogiorno, altrimenti il dato nazionale resterà zavorrato a dispetto dei miglioramenti nel Nord e nel Centro. Incrociando i segnali disaggregati dei dati trimestrali sull’occupazione italiana, fermi per ora a giugno con quelli mensili aggiornati a settembre, possiamo dedurre che qualcosa di positivo sta effettivamente accadendo. E cioè che dopo l’industria e l’agricoltura qualche altro macro-settore (i servizi? le costruzioni?) probabilmente si è ripreso nel terzo trimestre di quest’anno e che forse l’emorragia di posti di lavoro nel Mezzogiorno si è arrestata o è, quantomeno, diminuita.

Se queste impressioni dovessero essere convalidate dalle prossime rilevazioni trimestrali dell’Istat sull’occupazione aggiornate al terzo trimestre 2014, ne risulterà che finalmente l’attesa svolta dell’economia italiana è cominciata. A quel punto l’ attenzione si sposterà sui mesi a cavallo tra la fine di quest’anno e l’inizio dell’anno prossimo. Cruciale sarà il miglioramento del clima di fiducia di famiglie e imprese (con la stabilizzazione degli 80 euro in busta paga, il taglio della componente lavoro dell’Irap e gli incentivi fiscali sulle nuove assunzioni). E non secondario risulterà il prevedibile impatto positivo sul quarto trimestre 2014 e sul primo trimestre del 2015 degli investimenti in macchinari favoriti dalla nuova legge Sabatini. Se tutti gli ingranaggi fin qui inceppati (lavoro, consumi e investimenti) ricominceranno a muoversi nel modo giusto, forse il motore del nostro Pil riuscirà finalmente a scaricare un po’ di potenza sul circuito ad handicap della