edoardo narduzzi

Il QE è una pistola puntata alla tempia del governo italiano

Il QE è una pistola puntata alla tempia del governo italiano

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Tra circa un mese partirà il quantitative easing della Banca centrale europea. Senza limiti predefiniti, inizia con acquisti di 60 miliardi di titoli di stato al mese e dovrebbe durare fino a settembre 2016, ma tutto dipende dall’andamento dell’inflazione: se rimane troppo lontana dal valore target del 2% la Bce andrà avanti con il Qe. Con un limite molto importante, però. La banca presieduta da Mario Draghi potrà comprare solo titoli di paesi membri che abbiano almeno un rating «investment grade». Non, quindi, le obbligazioni classificate come spazzatura dalle agenzie di rating. Il merito di credito della repubblica italiana, com’è noto, è solo un gradino al di sopra della soglia dei junk bond. BBB- è l’ultimo rating del Btp, un notch di distanza dal livello dei junk bond che li renderebbe inacquistabili dalla Bce.

L’Italia, dunque, balla sul ciglio del quantitative easing: senza riforme e senza ripresa economica rischia un nuovo downgrade e con esso l’esclusione dai benefici della manovra varata da Francoforte. Significa che le agenzie di rating hanno ora un vero cannone a disposizione per forzare la mano dei governi della periferia mediterranea dell’Eurozona e costringerli a fare vere riforme dei singoli mercati e le eventuali necessarie privatizzazioni. Per una ragione semplicissima: il ribasso alla categoria C del rating dei Btp si tradurrebbe, automaticamente nei fatti, nell’attivazione del cosiddetto scudo antispread, cioè nella richiesta da parte dell’Italia del programma Omt che permette alla Bce di comprare anche i titoli spazzatura dei paesi che hanno già concordato con Bruxelles e Francoforte un piano di interventi e di riforme. In pratica a Roma sbarcherebbe la Troika.

L’allentamento monetario di Francoforte rappresenta l’ultimo giro di campo per i paesi europei a basso rating ed elevato spread. Devono viverlo come l’ultima spiaggia, l’ultima occasione offerta dalla Bce per aiutare e rendere fattibile un programma di ambiziose riforme, accompagnate da tagli strutturali della spesa corrente, la cosiddetta spending review della burocrazia, e da sensibili cali nella pressione fiscale. Solo così il pil si rimetterà in moto e il rating uscirà dall’area rischiosa del giudizio «spazzatura». Non c’è più possibilità di comprare altro tempo: o Roma fa le riforme oppure perde la sovranità. E farsi distrarre dalla demagogia inconcludente di Alexis Tsipras non serve a nulla per raggiungere l’obiettivo che interessa all’Italia. Roma non è Atene, perché ha una vera manifattura e una vera economia da difendere.

Le riforme solo annunciate non convincono più nessuno

Le riforme solo annunciate non convincono più nessuno

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

I gufi si stanno accanendo sul pil 2015. Dopo Bankitalia e Standard&Poor’s anche il Fondo monetario internazionale ha più che dimezzato le sue previsioni sull’anno in corso portandole a un +0,4%. L’agenzia di rating, a inizio dicembre, nel motivare il downgrade aveva scritto «crescita perennemente debole» e ora il Fmi chiarisce che neppure nel 2016 il pil raggiungerà quota 1%, fermandosi a un misero 0,8%. Insomma l’Italia dei troppi governi emergenziali e di larghe intese, cioè di intese politiche che vanno oltre i risultati delle urne, rimane buona ultima in termini di crescita economica.

Il confronto con la Spagna deve far riflettere. Quello iberico è l’unico pil rivisto al rialzo dal Fmi per il 2015 al +2% a riprova che le riforme dei governi monocolore politici spagnoli sono state efficaci. Madrid, del resto, non ha solo annunciato ma ha anche fatto: abolite le camere di commercio; privatizzata buona parte della sanità; tagliata la tredicesima al pubblico impiego; riformato per tutti e non solo per i neoassunti il mercato del lavoro; tagliate le aliquote sugli utili delle imprese. L’economia spagnola è oggi profondamente diversa da quella del 2008.

Perché in Italia neppure l’ultima legge di Stabilità, presentata dal duo Renzi-Padoan come un taglio storico delle tasse, è riuscita a stimolare il pil? È abbastanza evidente che con queste previsioni di crescita al rating dell’Italia basta un mini incidente di percorso per sprofondare nella categoria dei titoli spazzatura dai quali i Btp sono separati solo da un notch di giudizio. E ciò dovrebbe preoccupare, perché gli agenti del mercato segnalano di non credere più nella capacità riformista italiana poiché tra quanto annunciato a ripetizione dai governi recenti del Belpaese e quanto poi realizzato ci passa troppa differenza. I contenuti delle slide alle primarie sono rivoluzionari, si annacquano una volta preparate a Palazzo Chigi e diventano un brodino inutile a curare la malattia quando vengono pubblicate sulla gazzetta ufficiale. Adesso le aspettative hanno imparato razionalmente a fare la tara alle slide italiche e si incorporano così nelle previsioni sul pil futuro depotenziandone la probabilità di crescita.

Ovvio che un paese come l’Italia, che deve ripagare uno stock di debito pubblico importante, non può permettersi di rinviare al 2017 o al 2018 la possibilità di crescere almeno dell’1%. È vero che il Premier ha contro parte dell’establishment, della burocrazia e del suo stesso gruppo parlamentare, ancora espressione della segreteria welfarista di Bersani, ma è altrettanto vero che se la crisi italiana non fosse stata tanto profonda e critica mai Renzi avrebbe potuto bruciare le tappe verso il potere. Da lui gli italiani e gli investitori non si aspettano quattro slide ma riforme davvero mirabolanti.

Il fisco italiano non merita fiducia: il caso degli investimenti in ricerca

Il fisco italiano non merita fiducia: il caso degli investimenti in ricerca

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Nei paesi avanzati le norme fiscali retroattive non sono pensabili. In sistemi fiscali meno rispettosi dei diritti dei contribuenti può accadere che un contribuente scopra a fine anno che la sua fiscalità è stata modificata con effetti che si iniziano a produrre dal precedente gennaio, mai nei paese dell’Ocse. L’Italia, purtroppo, rappresenta un’eccezione anche a questa regola di civiltà.Il governo Renzi, ad esempio, con l’ultima legge di Stabilità ha modificato con effetto retroattivo almeno tre norme fiscali: quella sulla riduzione dell’Irap del 10%; quella sul regime fiscale di fondi pensione e della casse previdenziali private; quella relativa al credito di imposta sugli investimenti in ricerca. Il caso dell’abrogazione retroattiva per l’intero 2014 del credito di imposta sulle spese di R&D è, poi, perfino paradossale nella sua attuazione. Perché penalizza due volte le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana.

Il governo Letta aveva introdotto, con decreto legge, data l’urgenza e l’importanza della materia, un credito di imposta del 50% sugli investimenti incrementali rispetto alla media del triennio 2011/13 per l’anno 2014. Supponiamo, come è sicuramente accaduto, che un’impresa abbia investito nel 2014 in attività di ricerca 500mila euro per dotarsi di una nuova offerta per vendere all’estero, visto lo stallo della domanda interna. L’impresa, nel fare il calcolo del costo effettivo del suo investimento e del periodo di payback, ha sicuramente incluso i 250mila euro di credito di imposta (supponiamo che non avesse fatto alcun investimento in R&D nel triennio precedente). Ora, in assenza del credito di imposta, il periodo di recupero dell’investimento raddoppia e quindi la convenienza in termini di cash flow generato si riduce di molto. A fine 2014, poi, la stessa impresa ha scoperto che il governo Renzi ha abrogato retroattivamente la norma che era stata determinante per indurla a investire in innovazione e l’ha lasciata da sola nel dover fronteggiare la copertura finanziaria dei 250mila euro che mancano nel suo piano. Con l’aggravante che, avendo creduto nella serietà fiscale dell’Italia, adesso di ritrova anche 500mila euro di investimenti in ricerca che entrano nel computo del nuovo triennio di franchigia introdotto dal governo Renzi. Se investirà altri 500mila euro in ricerca nel 2015 non avrà diritto ad alcun credito di imposta, stante la legge di stabilità attuale, e per recuperare i 250mila, teoricamente a lei spettanti nel 2014, dovrà investire addirittura 1,5 milioni di euro nel 2015: il credito di imposta è stato dimezzato al 25% e va decurtata la franchigia di 500 mila euro. Insomma cornuto e mazziato. Poi Renzi non può meravigliarsi se l’Italia fa poca innovazione e il pil ristagna.

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

L’Irap, dopo l’amputazione di Renzi, è soltanto un mostro da eliminare

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’imposta più odiata dai contribuenti e dalle imprese italiane è stata mutilata dal governo Renzi. Non completamente abrogata e neppure oggetto di una radicale riduzione di aliquota come solitamente accade con le imposte colpevoli della perdita di competitività di un’economia, quale l’Irap da quasi due decenni è, ma più semplicemente amputata nella sua base imponibile. Il premier e il suo ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan, hanno, infatti, preferito lasciare l’Irap in vita, rispristinando con effetto retroattivo l’aliquota ordinaria del 3,90%, ma escludendo il costo del lavoro derivante da contratti a tempo indeterminato dal calcolo della base imponibile del tributo. Significa che dal 2015 quello che rimane in vita dell’Irap è un’imposta davvero mostruosa che sfugge ad ogni analisi di intelligibilità economica.

Il tributo si pagherà su voci di costo aziendale tra loro davvero disomogenee quali: il costo annuo dei contratti di lavoro precari; il costo annuo degli interessi passivi; i ricavi da privative e opere dell’ingegno; il costo annuo del lavoro della pubblica amministrazione (questa è una partita di giro contabile nel bilancio pubblico). Quale logica di politica fiscale è individuabile oggi nell’applicazione dell’Irap? L’unica possibile è quella che rinvia al fatto che il legislatore ha scelto di premiare fiscalmente le imprese con specifiche caratteristiche nell’organizzazione della produzione, quali: l’utilizzo quasi esclusivo di contratti di lavoro a tempo indeterminato e la capitalizzazione del business mediante apporto di capitale proprio o di utili reinvestiti. Penalizzati, invece, sono il ricorso al credito bancario o all’indebitamento e la scelta di forme contrattuali flessibili del lavoro, in controtendenza con il primo intervento di Jobs Act dello stesso governo Renzi che ha reso rinnovabili e più flessibili per le imprese i contratti a termine.

Insomma ora l’Irap, per come è sopravvissuta all’amputazione di Renzi, diventa uno strumento di politica aziendale, nel senso che favorisce l’adozione di talune forme contrattuali rispetto ad altre nell’organizzazione della produzione. Nei fatti si riduce la flessibilità delle scelte, a parità di costo fiscale, per manager ed imprenditori e, quindi, si introduce una distorsione nell’allocazione dei fattori produttivi. L’aspetto positivo dell’amputazione renziana dell’Irap è dato dal fatto che, con queste fattezze, l’imposta non può rimanere vigente a lungo. Renzi, senza dirlo chiaramente, ha già abrogato l’Irap e una prossima legge di Stabilità sancirà la definitiva uscita di scena della peggiore imposta mai applicata in Italia e nell’intera eurozona.

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Dopo tanti annunci e tante promesse la montagna della legge di Stabilità ha partorito meno di un topolino. Il governo Renzi è tornato indietro perfino rispetto a quanto prodotto dall’esecutivo Letta in materia di credito di imposta per la ricerca. Così da un biennio l’Italia, in piena crisi da mancanza di investimenti privati e da competitività dell’offerta, non ha una bonus che incentiva gli investimenti in ricerca ed in innovazione.

L’ultimo intervento in materia è stato quello del governo Berlusconi che aveva introdotto una vera discontinuità per l’Italia: un credito di imposta pari al 90% degli investimenti fatti nel biennio 2011-2012 con università o enti di ricerca, recuperabile per quote paritetiche in tre anni. I 155 milioni di euro a suo tempo stanziati in bilancio non sono stati neppure tutti utilizzati dal mondo produttivo, a riprova che i timori della Ragioneria spesso cozzano con la realtà della recessione. Prima il bonus fiscale, sempre deciso dal governo Berlusconi, era stato commisurato al valore complessivo degli investimenti fatti dalle imprese: il 10%.

A fine 2013 Enrico Letta vara un credito di imposta pari al 50% delle spese incrementali in ricerca a partire dall’esercizio 2014. La burocrazia ha lasciato la norma inattuata e così le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana e hanno fatto nel corso del 2014 investimenti in ricerca confidando nel credito di imposta si ritrovano oggi con un deficit di cash flow da dover finanziare. In pieno credit crunch non è un gap facile da chiudere attingendo al credito bancario.

Ora la legge di Stabilità cambia nuovamente le carte in tavola: credito di imposta dimezzato al 25%, sempre solo per gli investimenti incrementali e con effetti che si produrranno, ragionevolmente, solo a partire dalla seconda parte del 2016 quando i bilanci saranno stati depositati. Sarebbe stato molto più serio, onde evitare di impattare nuovamente sulle aspettative delle imprese, lasciare la norma Letta invariata e non eliminare il 2014, esercizio ormai chiuso e quindi con effetti risibili sui conti pubblici, dall’applicazione della norma. In questo modo si potevano premiare in pochi mesi le imprese che, nel corso del 2014, hanno avuto il coraggio di investire mentre il pil crollava e la deflazione prendeva il largo, cioè già il prossimo maggio.

In Francia per il triennio 2013-2015 il Cir, il credito di imposta per la ricerca francese, varato nel 1983, è stato dotato di un fondo annuo di 5 miliardi di euro perché raddoppiato dal presidente François Hollande. La legge di Stabilità di Renzi è stata coraggiosa sull’Irap e sugli 80 euro ma troppo timida sulla ricerca.

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

È una proposta non nuova per gli italiani. Negli ultimi anni diverse forze politiche hanno proposto l’azzeramento dei contributi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. La peggiore recessione del secondo dopoguerra abbinata alla deflazione e accompagnata da un cuneo fiscale che scoraggerebbe perfino la voglia di fare impresa dei tedeschi hanno prodotto il record italiano della disoccupazione giovanile: +44,2%. Ovvio che un premier di attacco, quale Matteo Renzi sicuramente è, non poteva restare fermo ai soli annunci. Non sorprende, quindi, la sua decisione di varare nella nuova legge di Stabilità la decontribuzione triennale al 100% sui contratti a tempo indeterminato. Decisione, peraltro, accompagnata dall’eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap. Una scossa vera, dunque, al cuneo fiscale italico che punta al cuore delle aspettative di imprenditori e manager per farle girare verso il quadrante positivo della congiuntura economica.

Oggettivamente si tratta di decisioni sempre promesse dal duo Berlusconi-Tremonti e mai realizzate in tanti anni di governo. Renzi con la nuova legge di Stabilità completa l’opa ostile, iniziata con gli 80 euro e il primo taglio dell’Irap del 10%, sull’elettorato un tempo del Cavaliere e indossa, senza se e senza ma, i panni della socialdemocrazia riformista tedesca. Il pericolo per il premier a questo punto è soltanto uno: quello incarnato dalla burocrazia italiana oggettivamente inadeguata a rendere operative rapidamente le politiche anticicliche adottate dai governi. I ministeri fanno marcire nei cassetti le norme pro sviluppo e pro occupazione e quando, dopo vari anni dalla pubblicazione in G.U. del dl che le conteneva, le rendono operative non servono praticamente più a raggiungere lo scopo per cui erano state varate.

Il caso del Mise e del cosiddetto bonus fiscale per le assunzioni altamente qualificate è esemplare. Introdotto con decreto dal governo Monti nel giugno del 2012 è diventato operativo solo il 15 settembre del 2014 (solo per le assunzioni del 2012 ovviamente; quelle fatte quest’anno saranno incentivate nel 2016!). Chi assume un PhD nel 2012 per avere un credito di imposta nel 2015? In pratica nessuna impresa, come ora certificano i dati della stessa procedura. Dei 25 milioni di euro messi a disposizione dal Mise per il 2012, ben 20.125.982, cioè più dell’80%, sono ancora disponibili dopo un mese dall’avvio del clickday. Trattandosi di assunzioni relative al 2012 possiamo già considerare chiusa la procedura. Morale: quando la burocrazia impiega ben 27 mesi per rendere operativa una norma anticiclica ne uccide la capacità di incidere. La vera nemica del riformismo di Renzi, oggi, è proprio questa pubblica amministrazione da terzo mondo.

La pubblica amministrazione è già fallita, l’Agenzia Digitale lo certifica

La pubblica amministrazione è già fallita, l’Agenzia Digitale lo certifica

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Come può essere definita una pubblica amministrazione che non è in grado di gestire l’attuazione delle sue riforme organizzative più recenti adottate per favorire la modernizzazione dei propri processi operativi? Probabilmente come una organizzazione già fallita nella sua capacità di restare agganciata alla modernità, come un soggetto sopravvissuto al suo passato quindi una sorta di armadillo o di ippopotamo della peggiore burocrazia, bloccata dai cavilli prodotti dalla sua incapacità di gestire i bisogni dell’oggi.

Il business case, tanto caro a coloro che si formano nei corsi di Mba anglofoni, offerto dall’Agid, l’Agenzia per l’Italia digitale, è, da questo punto di vista, esemplare. Un caso vivente, quindi studiabile nella sua attualità comportamentale, di cosa significhi per una grande economia del pianeta avere una pubblica amministrazione inadeguata. Inventata, addirittura per dl nel giugno del 2012 dal governo emergenziale di Mario Monti, da quando è nata non ha prodotto praticamente nulla, come certificato dalla stessa Corte dei conti. Anche se, in tempi di sempre annunciata spending review, l’Agid costa ai contribuenti: la spesa pubblica corrente per mantenere un organico di 130 persone è di circa 10 mln di euro.

Ma c’è qualcosa di specifico che rende assolutamente paradossale la situazione. Neppure il governo in carica riesce a mandare a regime il Comitato di indirizzo, perché lo statuto dell’Agid non è intellegibile. Figlio di un processo di produzione di leggi e regolamenti sfuggito a ogni controllo di razionalità e di competenza, adesso gli uffici tecnici di Palazzo Chigi non sanno cosa fare con questa frase: «Dai membri del Tavolo permanente per l’innovazione e l’Agenda digitale italiana». Non è chiaro che cosa si intenda e sono possibili tre interpretazioni: a) ci devono essere in tutto due rappresentanti designati dalla Conferenza unificata e dai membri del Tavolo; b) devono essere due rappresentanti più due; c) ci devono essere tutti i membri del Tavolo (una decina). Discussioni di cavilli, si dirà e quindi non così importanti. Ma non essere in grado di mandare a regime una struttura che dovrebbe occuparsi della modernizzazione della Pa certifica, quasi senza ulteriori commenti, la irriformabilità della stessa macchina pubblica. L’immagine della rottamazione che si interrompe perché cioè che andrebbe rottamato lo è già.

La morale è che le riforme della burocrazia italica, anche quando partono con le migliori intenzioni, producono solo dei mostri. Dei pericolosi carrozzoni che affondano la già scarsa competitività e fanno fuggire il miglior capitale umano e gli investitori. Carrozzoni digitali.

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Non c’è solo il patto del Nazareno a dettare tempi e condizioni del cambiamento. In economia è l’accordo raggiunto tra il premier ed i n. 1 della FCA, Sergio Marchionne, a imporre il ritmo di marcia. Patto di Detroit, si potrebbe chiamare l’intesa siglata tra il boyscout di Firenze e il manager italo-canadese. Un’intesa che punta dritta al cuore dei problemi italiani: far saltare tutti gli intermediari ormai inutili, oltre che eccessivamente costosi, nella gestione dell’economia contemporanea. E tra questi c’è sicuramente la Confindustria, dalla quale Marchionne è già uscito da un paio di anni.

La lobby confindustriale, così come è ancora organizzata, non serve più perché è solo un frenatore del cambiamento e un luogo per parrucconi desiderosi di comparsate a Ballarò o da Bruno Vespa. La velocità del business vero è altrove, non più, da anni, in Viale dell’Astronomia. Così Renzi e Marchionne hanno deciso di procedere all’unisono per rottamare Confindustria. Su art. 18, tfr in busta paga, sul primato della contrattazione aziendale per rilanciare la produttività, sulla lotta all’Irap, sulle molte riforme nell’agenda del governo l’amministratore delegato della Fiat sarà al fianco di Renzi. L’obiettivo è quello di dare all’Italia un capitalismo moderno, con relazioni meno intermediate da poteri sempre meno rappresentativi del mondo del lavoro e di quello dell’impresa perché forgiati nella logica della concertazione a tutti i costi e, soprattutto, autoconvinti di essere l’ombelico del mondo. I templari delle riforme, i guardiani del cambiamento che senza il loro via libera non può farsi realtà.

Renzi e Marchionne vogliono condurre il capitalismo italiano oltre la concertazione e la palude dei negoziati a oltranza e della rappresentanza, sempre più marginale, che ha potere di veto. Oltre lo status quo che ha fatto raggiungere alla disoccupazione giovanile la soglia record del 44,2% e fatto arretrare il pil di 10 punti. L’Italia della concertazione del ‘900 non ce la può fare a tenere i ritmi imposti dalla globalizzazione e dall’eurozona germanizzata. Questo per Marchionne è un concetto chiarissimo; Renzi se lo sente ripetere ogni volta che varca le Alpi. Via, dunque, il fardello Confindustria dalle spalle sempre più gracili del capitalismo del Belpaese, perché la lobby degli imprenditori deve diventare moderna e occidentale. Non più un troppo ambizioso contropotere politico ma una organizzazione capace di seguire bene le poche policy di cui è tenuta ad occuparsi. Anche stavolta Renzi ha scelto con arguzia il suo alleato, perché nessuno meglio di Marchionne incarna nel mondo il volto dell’Italia che lavora 16 ore al giorno e che non si rassegna mai alla sconfitta. E con il suo supporto la rottamazione di Confindustria è cosa già realizzata e i prossimi mesi serviranno solo a registrarlo.

Gli ultimi dati economici certificano che l’Italia è sull’orlo del baratro

Gli ultimi dati economici certificano che l’Italia è sull’orlo del baratro

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Il bollettino è di quelli firmato Cadorna. L’economia italiana prosegue la sua ritirata dalle posizioni avanzate conquistate in decenni di crescita. Terzo trimestre consecutivo con il pil in contrazione; terzo mese con l’andamento dei prezzi in deflazione; nuovo record della disoccupazione giovanile ora al 44,2%; produzione industriale ancora in calo a settembre dello 0,2%; credito bancario in ulteriore contrazione come certificato da Bankitalia.

Nonostante l’Italia abbia un governo con una solida maggioranza parlamentare e una giovane leadership politica di centrosinistra di impostazione riformista e di stampo europeo, incarnata dal premier Matteo Renzi, le aspettative di consumatori, imprenditori e investitori non girano. Restano sul quadrante negativo del barometro senza concedere, almeno questo è il principale messaggio che viene trasmesso, nessuna apertura di credito agli sforzi e all’azione del governo di Roma.
Perché Renzi non riesce, nonostante il suo rilanciare continuo su tematiche importanti come il superamento dell’art.18, a invertire le aspettative italiane? La risposta non è, ovviamente, facile. È come se i vari protagonisti della vita economica ritenessero, quanto fatto o proposto, come «superato», come un programma di riforme importante ma non ancora adeguato al rilancio italiano. Un aspetto che fa emergere gli effetti negativi di medio termine dei governi emergenziali, tecnici o presidenziali che dir si voglia. Non avendo fatto proprio questi esecutivi tutte le riforme che i mercati si aspettavano ed avendo sbagliato a ripetizione gli annunci sull’uscita dalla crisi (Mario Monti già vedeva la luce in fondo al tunnel all’inizio del 2012), ora il tasso di scetticismo medio verso l’Italia ha raggiunto livelli originali.

Non basta più annunciare gli interventi sul mercato del lavoro o sulla riforma della giustizia civile per ottenere un inversione nelle aspettative economiche: Renzi deve davvero realizzare un primo grado del processo civile che dura al massimo 12 mesi ed eliminare definitivamente l’art.18 e fare allo stesso tempo tanto di più se vuole incidere per davvero sulle attitudini di consumo e investimento. Serve una cura alla Margaret Thatcher, nonostante il Premier non ami essere associato all’immagine della migliore politica riformatrice del secondo dopoguerra europeo che, di sicuro, non era culturalmente di sinistra. Ma, per invertire il trend e rilanciare l’economia italiana, Renzi deve andare a fondo nei meccanismi di funzionamento del Bel Paese con la stessa profondità con la quale la Lady di ferro scese nelle antieconomiche miniere gallesi. Non sono più possibili compromessi, non c’è più tempo guadagnabile perché al prossimo ribasso del rating, in mancanza di un’inversione delle aspettative, i Btp diventeranno spazzatura e la Troika realtà a Roma.

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Jobs Act: tanti annunci, pochi fatti e le imprese congelano le assunzioni

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

L’economia vive di aspettative razionali. Robert Lucas nel 1995 ricevette il premio Nobel per aver dimostrato con sofisticati modelli come individui e imprese usino in modo efficiente le informazioni che hanno a disposizione per orientare consumi e investimenti senza commettere errori frequenti. Il governo Renzi nel portare avanti la riforma del mercato del lavoro non appare, invece, eccessivamente preoccupato delle distorsioni che gli annunci ripetuti non seguiti dai fatti possono provocare nel regolare svolgimento di un mercato. Il Jobs Act doveva prendere forma in G.U. dopo un mese, forse due dall’insediamento dell’attuale esecutivo. Ad oggi siamo ancora ai prolegomeni della nuova riforma che nel frattempo è stata data per fatta almeno una ventina di volte tra Tweet e passaggi parlamentari o interviste varie di vari esponenti del governo. Si abolisce l’art. 18 come chiede senza se e senza ma Angelino Alfano. L’art. 18 non si tocca per parte importante del Pd, perché non è al centro del programma. Solo per i neoassunti l’art. 18 sparirà. O ancora diventerà un art. 18 a tutele crescenti con il passare del tempo ma senza obbligo di reintegro per le imprese in caso di licenziamento. Eppoi ancora promesse di bonus fiscali per i neoassunti o di esenzioni Irap per i nuovi posti creati in favore delle aziende.

Passano le settimane e del Jobs Act restano solo gli annunci e le proposte che, in ordine sparso, si candidano a riformare il mercato del lavoro. Risultato? Le imprese hanno smesso di assumere con contratti a tempo indeterminato, restano alla finestra e cercano di capire dove si fermerà il pendolo di questa logorrea riformista. Nel frattempo solo contratti a termine o occasionali vengono conclusi. È la legge delle aspettative razionali applicata alla follia della politica economica italica modellizzata da Lucas tanti anni fa. Razionalmente le imprese, non sapendo cosa succederà nell’immediato futuro, smettono di prendere posizioni contrattuali definitive rispetto al fattore di produzione lavoro. Così agendo, evitano di incorrere in un maggior potenziale costo da minor flessibilità o di perdere potenziali incentivi. Tutto perfettamente razionale, talmente razionale che resta un mistero su come l’esecutivo possa tenere aperto per così tanti mesi un dossier tanto critico come il Jobs Act. Soprattutto perché l’Italia è un paese in deflazione, in recessione da tre anni consecutivi e che vanta una disoccupazione superiore al 12,6%, quindi interessato a inviare ben altri segnali agli investitori potenzialmente capaci di creare nuova occupazione. Morale: crescerà il 52,9% di under 25 già oggi occupati con contratti precari.