edoardo segantini

Stato imprenditore nella Silicon Valley

Stato imprenditore nella Silicon Valley

Edoardo Segantini – Corriere della Sera

Capita spesso di ascoltare opinioni autorevolmente superficiali sull’innovazione tecnologica «made in Usa», giudizi che sembrano attribuirne il successo a un’ondata recente di imprenditori geniali. È questo un quadro pop fatto di distruzione creativa, sregolatezza regolata e start-up rivoluzionarie. E lo Stato? Non esiste. Dalla nuova retorica non è rimasto immune neppure il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al suo ritorno dalla California. Chi conosce quei posti sa bene invece che le cose non stanno così. La Silicon Valley, cuore dell’innovazione americana, è ben altro: nasce da settant’anni di investimenti pubblici e militari nella tecnologia. Trae origine da una politica industriale lungimirante, concepita da uomini come il presidente Franklin Delano Roosevelt, Vannevar Bush e Jcr Licklider. Ora, negli Stati Uniti, esce un bel libro di Walter Isaacson, l’autore della biografia di Steve Jobs, tradotta da Mondadori nel 2011, che ha il merito di spiegare l’«innesto» degli innovatori di oggi nell’albero degli innovatori di ieri. Si intitola, per l’appunto, The Innovators.

Gli eroi di questa storia, esaltante e attuale, sono personaggi straordinari come il Nobel Jack Kilby, autore del primo circuito integrato con Robert Noyce, William Shockley, protagonista dello sviluppo del transistor, e Alan Turing, il leggendario crittografo e informatico inglese del progetto Enigma, che morì suicida. Ma emergono anche altre figure come Doug Engelbart, pioniere dell’interazione uomo-macchina, e Stewart Brand, il futurologo che fece i primi esperimenti con l’Lsd e contribuì a iniettare nella Silicon Valley quella cultura hippie che l’ha resa famosa. Le stelle di oggi – da Page a Bezos, da Jimmy Wales (Wikipedia) a Evan Williams, cofondatore di Twitter – possono brillare, oltre che per indiscussi meriti propri, grazie alla potente luce accesa anni fa da uomini come Fred Terman, il «padre» della Silicon Valley insieme a Shockley, e Vannevar Bush. Quest’ultimo svolse un ruolo chiave nel sistema innovativo a stelle e strisce. Un sistema in cui il talento individuale trova un terreno fertilissimo negli investimenti pubblici e militari in ricerca, nella finanza e nella politica industriale. Direttore del Mit di Boston negli anni Trenta, Vannevar Bush durante la Seconda guerra mondiale è messo da Roosevelt a capo dell’Office of Scientific and Research Development (Osrd) per coordinare seimila scienziati nello sforzo bellico.

Il «trasferimento tecnologico», quel nastro veloce che trasporta il sapere dai laboratori fino alle applicazioni, nasce da uomini e da istituzioni come questi, e sarà, da allora in poi, alla base della potenza innovativa – militare e civile – dell’America. Ed è a una nuova agenzia pilotata da Bush – il National Defense Research Committee – che verrà assegnato il compito di far lavorare insieme il governo, le forze armate, le aziende e le università. Una sinergia che verrà resa permanente con risultati formidabili. L’innovazione «Made in Usa» ha poi un altro, illustre antenato nel National Inventors Council, istituito con l’obiettivo di raccogliere e selezionare le invenzioni utili per la difesa nazionale. L’agenzia è voluta, ancora una volta, dal presidente Roosevelt che ne affida la responsabilità a Charles Kettering, direttore della ricerca alla General Motors, uno dei più eminenti inventori del ventesimo secolo, cui si devono l’invenzione del motorino di avviamento e del frigorifero elettrico. Il ruolo degli investimenti pubblici e militari resta fondamentale anche oggi, in piena epoca di app, accanto a quello delle imprese e del capitale finanziario. Non ci sarebbero gli innovatori di oggi senza i loro antenati di ieri, nei laboratori e nelle aziende, ma anche al Pentagono e alla Casa Bianca. Crearono un «tavolo» in cui i singoli talenti diedero – danno – luogo a un sistema Paese, coordinato dalla politica. I politici di oggi dovrebbero ricordarsene.

Riformare la burocrazia si può, e non solo con la tecnologia

Riformare la burocrazia si può, e non solo con la tecnologia

Edoardo Segantini – Corriere Economia

Di riforme si parla, si sparla e si straparla. Ma non è detto che per cambiare le cose, in un Paese già tanto complicato, la sola strada sia la modifica legislativa, cui magari non seguono decreti attuativi e che spesso aggiunge solo carta ai carta. Il caso della Pubblica amministrazione è l’esempio più eclatante: dimostra, fra l’altro, che invocare «più tecnologia» senza una vera riorganizzazione è una colossale stupidaggine, che finora ha favorito soltanto i venditori di hardware e software.

L’esempio virtuoso più spesso citato è il programma americano di Bill Clinton e Al Gore passato alla storia sotto il nome di «Reinventing Government» che, tra il 1993 e il 1998 ottenne risultati strepitosi: 137 miliardi di dollari di riduzioni di costi; 350 mila pubblici dipendenti ricollocati in funzioni più utili dentro e fuori i pubblici uffici (con trattative sindacali e individuali); 640 mila pagine di regolamenti interni e 16 mila pagine di norme federali abolite. Questi semplici dati dicono con chiarezza che riformare bene vuole dire semplificare le norme, non crearne di nuove.

È l’idea che da sempre muove il lavoro, teorico e pratico, di Federico Butera, che come consulente ha avuto una parte non secondaria nella modernizzazione dell’Inps, dell’Agenzia delle Entrate e che propone di estendere la «reinvenzione» all’insieme della pubblica amministrazione italiana. Nella giustizia, uno dei campi notoriamente più difficili, il sociologo ha lavorato a un programma (Best Practices) che ha coinvolto 190 uffici del Tribunale e della Procura di Monza e ha ricevuto quattro premi internazionali. Dimostrando che, anche nella burocrazia più rocciosa, cambiare si può. Il «Reinventing Government» made in Usa insomma non è stato enunciato e scimmiottato, ma interpretato e adeguato alla realtà italiana. Il processo di cambiamento è stato gestito coinvolgendo gli interessati e dando loro obiettivi misurabili di miglior servizio al pubblico, con il risultato che i tempi e i costi sono stati ridotti, 1’accessibilità e la trasparenza sono stati aumentati e, soprattutto, si è contribuito a far emergere una squadra di magistrati e amministrativi «innovatori» che hanno fatto propri i concetti e le pratiche del miglioramento organizzativo e gestionale.

Esperienze come questa potrebbero essere estese e replicate, coerentemente con gli obiettivi della Spending Review. Tenendo conto di un aspetto che è stato essenziale nell’esperienza americana, realtà non certo sospettabile di «pansindacalismo»: l’obiettivo del cambiamento sono le persone, non le cose, dunque la riorganizzazione va sempre negoziata, pur senza cedimenti alla «concertazione». E il modo migliore per negoziare senza concertare è spostare l’attenzione dalle regole agli obiettivi, ripensando i meccanismi retributivi e di incentivazione.