Elisa Qualizza

C’era una volta il risparmio

C’era una volta il risparmio

di Gianni Zorzi* ed Elisa Qualizza** – Panorama

Fiore all’occhiello del nostro sistema finanziario, simbolo della laboriosità e della capacità di risparmio ma anche calpestata nei mille casi di risparmio tradito e spesso trattata dallo Stato come bancomat a cui attingere per far quadrare i propri conti. È la ricchezza delle nostre famiglie, tanto grande da surclassare nei numeri l’enorme debito pubblico, tanto preziosa da spaventare non appena si affacciano i dubbi sulla tenuta del sistema bancario o rispunta qualche proposta di prelievo patrimoniali.

Un’analisi di ImpresaLavoro basata su dati Banca d’Italia, Sistema Europeo delle Banche Centrali, Ocse ed Eurostat fa il punto sulle tendenze nella ricchezza finanziaria delle famiglie, a dieci anni dall’inizio della crisi più grande della modernità, a 15 dalla fine delle banconote in lire e a 25 dal prelievo straordinario sui conti correnti realizzato in una notte. Dopo anni difficili, in termini nominali il volume di attività finanziarie è sul punto di raggiungere la soglia di 4mila miliardi che era stata registrata per l’ultima volta proprio a fine 2006. Il trend di lungo periodo della ricchezza finanziaria ha seguito in sostanza ciò che è stato per l’economia reale: come il Pil, le attività finanziarie sono tornate a crescere, ma non abbastanza per recuperare il terreno perso dall’inizio della crisi, e ancor meno se nel conto si considera l’inflazione.

In tutta Europa, solo la Grecia è più in ritardo di noi rispetto ai livelli del 2006: alcuni Paesi dell’Europa dell’Est nel frattempo hanno raddoppiato i loro volumi, mentre altri più maturi hanno visto incrementi netti considerevoli. Rispetto a dieci anni fa infatti, in Germania le famiglie sono più ricche di oltre 1.300 miliardi (+31,6 per cento), in Francia di oltre 1.200 (+31,9 per cento) e in Regno Unito di 1.900 miliardi di euro (+30 per cento). L’incremento in termini relativi è molto rilevante anche in Olanda (+55,9 per cento, pari a 800 miliardi) e in Svezia (+72,6 per cento ovvero 500 miliardi). La massa di banconote, depositi, titoli e gestioni in capo alle famiglie nel nostro Paese sta ritornando a circa due volte e mezza il Pil (242 per cento per l’esattezza), vicina ormai ai valori pre-crisi. In questo periodo abbiamo perso la leadership del risparmio privato rispetto ad alcuni dei Paesi più virtuosi: in Danimarca, Olanda, Belgio e Regno Unito le attività finanziarie delle famiglie pesano già oltre tre volte il Pil.

Per ogni euro di debito pubblico avevamo, prima della crisi, circa 2,5 euro in attività finanziarie private, scesi oggi a un livello ben inferiore (1,8), che peraltro non accenna a riprendersi da oltre sei anni. In questi termini, tuttavia, la variabile che si è mossa più rapidamente è quella del debito pubblico. Altri Paesi periferici dell’Eurozona, ad esempio, hanno subìto cali più bruschi poiché si sono nel contempo indebitati in misura maggiore e ora presentano dei coefficienti peggiori dei nostri: è il caso dell’Irlanda e del Portogallo, che assieme alla Grecia e a Paesi dell’Est come Croazia, Slovenia e Slovacchia ora arrancano in questa particolare graduatoria.

Di sicuro, il nostro dato rappresenta una brutta notizia per chi teme una patrimoniale a copertura del debito pubblico: nel malaugurato caso si dovesse ricorrere a questo strumento, l’aliquota dovrebbe essere fissata ancor più in alto di quanto non lo sarebbe stato uno o due decenni fa, per garantire una sua efficacia.

Ma non sono solo le tasse a tormentare il sonno dei risparmiatori italiani. La risoluzione delle quattro banche commissariate nel 2015 con l’azzeramento dei titoli subordinati, nonché l’entrata in vigore del bail-in l’anno dopo con la presa di coscienza sul rischio anche di quelli senior, ha spinto le famiglie a ridurre la propria quota in obbligazioni, specie di natura bancaria.

Nonostante tutto, risulterebbero ancora 440 i miliardi investiti in titoli obbligazionari, compresi quelli del debito pubblico. A fine 2016, secondo i dati Banca d’Italia, più di 136 miliardi sono ancora investiti in bond bancari, di cui oltre 27 a elevato rischio (subordinati). E nonostante i ripetuti default del mondo cooperativo, ci sono ancora più di 11 miliardi di risparmi impiegati nei prestiti sociali alle coop, utilizzati come dei semplici libretti ma senza le tutele che proteggono depositi bancari e postali. Quello delle obbligazioni è un vero e proprio primato italiano: il loro peso è dell’11 per cento sul totale delle attività in portafoglio, quasi il quadruplo rispetto alla media Ocse.

Un altro dato molto significativo riguarda il risparmio gestito: i nostri fondi pensione risultano in netto ritardo rispetto alla media internazionale (pesano appena per il 6 per cento dei portafogli: un terzo rispetto alla media Ocse), mentre al contrario fondi comuni e polizze vita hanno raccolto più del 25 per cento dei risparmi rispetto al 16 per cento della media Ocse. Gli incentivi fiscali sui Pir e la maggiore redditività del business del gestito rispetto ai depositi probabilmente accentueranno il fenomeno.

Su base regionale, è interessante un aumento della concentrazione della ricchezza nel Nord-Ovest (ora al 35 per cento), con una crescita molto rilevante degli asset finanziari tra le famiglie lombarde e una minore concentrazione tra quelle piemontesi e liguri. Si è ridotta negli ultimi anni la concentrazione di attività finanziarie nel Nord-Est, con l’importante eccezione delle famiglie venete che risultano comunque stabili. In aumento invece la ricchezza delle famiglie del Centro, a discapito di quelle del Sud. In generale le famiglie del Mezzogiorno risultano però meno indebitate che in passato, al contrario di quelle del Nord-Ovest e del Centro.

Più rilevanti ancora le variazioni nella distribuzione della ricchezza per classi d’età: rispetto a vent’anni fa si è dimezzata la quota di asset in mano agli under 44, mentre è più che raddoppiata per la classe d’età al di sopra dei 64 anni. Le fasce più anziane della nostra popolazione ora detengono quasi la metà di tutti gli asset finanziari, mentre tre quarti dell’indebitamento privato è a carico di nuclei in cui il capofamiglia ha meno di 54 anni. I dati sull’indebitamento delle nostre famiglie sono comunque in generale rassicuranti: seppur quasi triplicato in vent’anni rispetto al reddito disponibile, ha sostanzialmente tenuto negli anni di crisi fermandosi alla quota del 90 per cento. La crescita rispetto al 2006 è di soli 13 punti.

*docente di finanza dell’impresa e dei mercati

**ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

PIÙ DEBITI, MENO CONSUMI: UN PAESE BLOCCATO

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

L’impoverimento delle famiglie italiane non si evince soltanto dal loro maggiore indebitamento rispetto al passato. A spaventare è innanzitutto l’ormai sistemica crisi economica che da un decennio blocca la crescita del Paese. La mancanza di fiducia nel futuro porta così alla contrazione dei consumi, che la politica dei bonus elargiti a pioggia non ha in alcun modo saputo rilanciare. Chi può decide di mettere da parte i propri soldi, in attesa di tempi migliori, senza però riuscire a eludere la voracità del fisco: negli ultimi anni la tassazione sul risparmio è infatti più che raddoppiata. Più in generale, a impoverire le famiglie è anche la scarsa qualità (specie nel Meridione) di molti servizi pubblici che pure dovrebbero essere assicurati quale corrispettivo delle imposte versate.

I nuovi padroni delle banche italiane

I nuovi padroni delle banche italiane

di Gianni Zorzi * e Elisa Qualizza **

Quali effetti ha avuto la lunga crisi dell’economia sugli assetti proprietari delle banche italiane? Un rapporto di ImpresaLavoro ha provato a fare luce sui cambiamenti intervenuti in dieci anni. Sotto il peso dei crediti deteriorati e in un contesto competitivo sempre più difficile, azionisti storici come le fondazioni bancarie hanno in molti casi perso del tutto il controllo degli istituti. Il risiko stenta a ripartire, la mano pubblica è vincolata dalla direttiva sul bail-in e i gruppi stranieri sembrano stare alla finestra, con l’eccezione dei fondi d’investimento che invece hanno progressivamente incrementato le loro esposizioni.

Ai massimi del 2007 i titoli bancari quotavano in Borsa circa 210 miliardi di euro e valevano quasi il 30 per cento del listino milanese: oggi invece non superano i 67,5 miliardi e raggiungono a malapena al 13 per cento dei valori di Borsa. Questa distruzione di valore è dovuta a più cause. A parte gli episodi di mala gestio, bisognerà citare l’aumento dei crediti deteriorati (giunti al 175 per cento del capitale delle banche), l’inasprimento dei requisiti minimi di capitale, i margini di interesse sempre più risicati. La media del campione di 49 gruppi bancari analizzati da ImpresaLavoro mostra inoltre indici di redditività negativi e in costante calo sin dal 2013. Per effetto delle svalutazioni, molti dei principali gruppi bancari hanno chiuso il bilancio 2016 in perdita. Probabilmente senza l’entrata in vigore della direttiva del bail-in ci saremmo ritrovati a commentare il ritorno dello “Stato banchiere”, un ruolo che si pensava abbandonato con le privatizzazioni degli anni ’90, che avevano fatto seguito alla trasformazione delle casse di risparmio e dei monti di pietà in società per azioni con la scissione tra attività bancaria ed enti proprietari, ovverosia le fondazioni. A un quarto di secolo dalla loro istituzione, sono loro ad aver perso la maggiore influenza sul nostro sistema. Ormai il 30 per cento degli 88 enti nati dalla legge Amato del ’90 non ha più alcuna partecipazione nella relativa banca conferitaria, e un altro 10 per cento ha mantenuta una partecipazione limitata o destinata a diluirsi o dissolversi a breve.

Le banche conferitarie di 24 diverse fondazioni fanno ora capo a Intesa Sanpaolo mentre altre 13 si sono fuse in Unicredit; cinque istituti hanno ceduto alle lusinghe della Popolare dell’Emilia Romagna, altri cinque all’odierno Banco Bpm e cinque ancora a Ubi Banca. Fondazione Cariparma ha mantenuto il 13,5 per cento del relativo gruppo, passato in mani francesi dal 2007 e da poco ribattezzato Crédit Agricole. Solo una parte degli enti rimasti nel capitale dei gruppi ha voluto – e potuto – partecipare agli aumenti mantenendo inalterata così la quota di partecipazione: per esempio Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, proprietarie complessivamente del 17,4 per cento di Intesa Sanpaolo.

Nello stesso gruppo hanno invece ceduto quote la Fondazione Cr Firenze, ora al 2 per cento, e Fondazione Carisbo, obbligata a ridurre la partecipazione in base al protocollo d’intesa con il Ministero dell’Economia del 2015. Dopo il recente maxi-aumento di Unicredit, le fondazioni di Crt e Cariverona sono scese all’1,8 per cento, e assieme agli altri enti pesano ormai in totale non più del 5 per cento (a fronte del 12 del 2008): ben più rilevanti i pacchetti in mano agli istituzionali battenti bandiera straniera. In controtendenza risulterebbero solo la Fondazione Cr Cuneo e la Fondazione Banca del Monte di Lombardia, salite di recente all’11 per cento di UBI Banca, superando così di poco le quote accumulate da fondi esteri come Blackrock e Silchester. Si sono diluite nel tempo Fondazione Mps (dal 58 per cento di dieci anni fa ora è scesa allo 0,1) e le tre che detengono quote di Carige (ormai tutte insieme non pesano più del 6). Più in generale sono rimaste solo otto le fondazioni che detengono una quota maggioritaria nella banca conferitaria: l’ultima a uscire da questo perimetro ormai molto ristretto è stata Saluzzo, che ha ceduto l’anno scorso a Bper il controllo della banca locale, mentre altre con ogni probabilità la seguiranno a breve.

Sono sette le fondazioni “azzerate” nel 2015 (assieme a moltissimi piccoli risparmiatori azionisti e obbligazionisti junior) a fronte dei processi di risoluzione di Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, il primo delle quali ha travolto da solo cinque enti (Loreto, Macerata, Pesaro e Jesi che è stata azzerata pure sulle subordinate, oltre Fano che aveva accumulato una posizione in anni recenti). La parte buona di quegli istituti, assieme a quella di Banca Etruria, è transitata sotto il controllo temporaneo del Fondo di risoluzione e ha trovato acquirenti (Bper e Ubi) solo a inizio 2017 al prezzo simbolico di un euro cadauna. Fondazione Tercas nel 2014 ha perso il controllo dell’ex Cassa di Teramo, poi passata alla Popolare di Bari. Quattro fondazioni sono finite nel vortice delle ex Popolari venete, le cui azioni hanno perso del tutto il loro valore a fronte degli aumenti di capitale del 2016 da Atlante che, dopo essere intervenuto in seguito al fallito tentativo di quotazione dei due istituti, ora rischia già di perderne il controllo. Infatti le ex popolari venete al pari del Monte dei Paschi hanno richiesto l’intervento dello Stato attraverso lo strumento della ricapitalizzazione precauzionale.

Il Parlamento ha da tempo dato il via libera a questi interventi, ancora in attesa del placet europeo, fino a un importo di 20 miliardi di euro. Il settore sembra non esaurire la sua sete di capitale, ed è possibile che nuove piccole grandi rivoluzioni segnino il destino di molti istituti. A breve, per esempio, sarà la volta di Rimini e San Miniato, che assieme alle tre fondazioni che ora guidano CariCesena, attendono di conoscere l’entità degli aumenti di capitale necessari. I grandi gruppi stranieri sono stati sinora alla finestra. Probabilmente scoraggiati dall’ipotesi di consolidare impieghi carichi di crediti dubbi, titoli del nostro debito pubblico e prestiti concentrati su un’economia che ancora mostra bassi livelli di crescita, non hanno fatto acquisizioni significative.

Oltre a Caripanna di cui si è detto, Bnl è interamente partecipata da Bnp Paribas già da oltre dieci anni, mentre Deutsche Bank mantiene la sua ormai storica presenza in Italia e Crediop, travolta nella risoluzione della controllante franco-belga Dexia che l’aveva acquistata nel ’99, da anni è ufficialmente in vendita ma senza trovare acquirenti. Altri gruppi come Barclays hanno deciso di lasciare l’Italia, addirittura accettando di pagare CheBanca! (la divisione retail di Mediobanca) per rilevarne l’anno scorso la rete di sportelli.

Molto diversa la distribuzione dell’azionariato in Borsa. Unicredit è posseduto per oltre il 42 per cento da investitori istituzionali, e un altro 15 e mezzo da investitori non identificati, con meno del 29 per cento in mano al retail. Il pacchetto azionario più importante, pari al 5 per cento, è in mano agli arabi di Aahar, seguito a ruota dal fondo russo di Pamplona; la Central Bank ot’ Libya è invece scesa al di sotto del 3 per cento. In generale chi ha incrementato in misura pressoché costante le quote sono alcuni giganti dell’asset management, a partire da quelli statunitensi. Capital group detiene oltre il 4 per cento di Unicredit e quasi l’1 di Intesa, mentre Blackrock l’opposto. Vanguard ha quasi il 2 per cento di tutte le principali banche quotate, mentre ugualmente diversificati risultano Invesco, Franklin resources, Templeton. Harris è al 3,2 di intesa Sanpaolo, mentre Dimensional fund detiene quote rilevanti in Bper, Banco Bpm, Sondrio e Credito valtellinese per una quota che varia tra il 2,5 e il 4,2 per cento.

Rilevante l’interesse della Banca centrale della Norvegia (Norges Bank) che detiene tra il 2 e il 3 per cento di tutte le nostre quotate. Di recente l’a.d. Di Banco Bpm Giuseppe Castagna ha annunciato che i fondi detengono oltre il 70 per cento del gruppo e che sarà necessario «costruire con loro un rapporto duraturo». Oltre che negli assetti proprietari, i quali appaiono tuttora in evoluzione, ci si attendono dunque cambiamenti importanti anche nei rapporti con gli azionisti e nella governance. È un dramma per il sistema? Ripensando alle cronache di tante gestioni cadute in disgrazia, forse no.

* docente di finanza dell’impresa e dei mercati

** ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

E I “PICCOLI” PAGANO IL CONTO

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

I nostri istituti di credito hanno perso nell’ultimo decennio una quota rilevante del loro valore. Mentre in Paesi più sicuri e più attrattivi per i capitali affluivano ingentissime risorse che si trasformavano anche in impieghi per le banche volti non solo agli investimenti in debito sovrano, ma anche per famiglie e imprese. Risorse importanti posto che da noi la concessione del credito si è andata largamente restringendo negli ultimi anni. La profonda crisi di diversi istituti bancari è stata poi la conseguenza dell’azione opaca di un management disinvolto e non all’altezza, anche perché spesso scelto per l’appartenenza a un partito. A pagarne il conto sono stati migliaia di piccoli investitori, non di rado imprenditori locali, del tutto inconsapevoli dei rischi che stavano correndo.

E il Nord guarda all’estero

E il Nord guarda all’estero

di Elisa Qualizza – Panorama

La fuga degli italiani all’estero è un fenomeno sempre più evidente, notevolmente aggravatosi negli anni della crisi fino a toccare livelli record a fine 2015. Lo scorso anno il numero di italiani andati a vivere oltreconfine ha superato per la prima volta la quota di 100mila unità: due volte e mezza la media registrata tra il 1995 e il 2010, e superiore di oltre 13mila unità al dato relativo all’anno precedente, come testimoniano i numeri presentati da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro basata su dati Istat.

L’equivalente di un piccolo capoluogo di provincia ogni anno, dunque, emigra: un flusso che dal 2010 cresce in media del 21 per cento all’anno, e che potrebbe raggiungere le 123mila unità già nel 2016, a meno che la tendenza recente non si smentisca. Quest’anno, pertanto, a lasciare la propria nazione potrebbero essere oltre due italiani ogni mille, un livello già raggiunto lo scorso anno in Trentino-Alto Adige (ben il 2,5 per mille di italiani emigrati), Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta (per entrambe il 2,1 per mille), Sicilia e Lombardia (2 per mille).

Il fenomeno si sta aggravando ma con dinamiche differenti tra le regioni del Sud e quelle del resto d’Italia. Rispetto alla media 1995-2010, il flusso in uscita si è accentuato molto di più in regioni del Nord come Lombardia ed Emilia-Romagna: assieme a Veneto, Valle d’Aosta, Marche e Umbria, queste regioni hanno infatti visto il proprio tasso di espatrio quadruplicarsi in pochi anni. La crescita delle migrazioni è quindi diffusa ma ben altri numeri ne descrivono le dinamiche nelle regioni del Sud: anche qui i flussi risultano per la gran parte in crescita ma in termini relativi in alcuni casi non sono ancora raddoppiati (come in Sicilia e Puglia), in altri risultano stabili (Basilicata) o addirittura in leggera flessione (Calabria) rispetto alle medie storiche. Sono in linea con la tendenza nazionale (aumento del 150 per cento) invece i dati di Lazio, Liguria e Friuli-Venezia Giulia. La classifica delle regioni da cui si emigra di più verso l’estero si è rivoluzionata negli anni: rispetto al 2002 la Lombardia è passata dal 12° al 5° posto per espatri in rapporto alla popolazione ed è ora tra le regioni più colpite, mentre la Basilicata è scesa dal quarto all’ultimo posto e la Puglia dal quinto al quart’ultimo.

Un ulteriore aspetto riguarda gli italiani che decidono di rimpatriare. Il dato medio di circa 30mila unità all’anno è sostanzialmente stabile dal 2008, anche se inferiore di oltre un quarto rispetto al quinquennio precedente (picco di 47.500 unità annue riferito al 2003). Se si considera il saldo tra italiani che rientrano e italiani che emigrano, il bilancio appare strutturalmente negativo fino al 2001 per quasi 12mila unità annue in media, mentre è positivo nel triennio successivo e, seppur di poco, anche nel 2007. Dal 2008 in poi la tendenza si inverte nuovamente raggiungendo il saldo record di meno 38mila unità nel 2012 per poi arrivare a quello ancor più ampio di meno 72mila nel 2015.

I dati non consentono di rilevare sostanziali differenze tra classi d’età. A emigrare sarebbero più i giovani, ma la tendenza non sembra rilevante e il fenomeno è piuttosto stabile, con la metà degli espatri in una fascia d’età tra i 18 e i 39 anni. Qualche considerazione in più è invece possibile esprimerla sulla destinazione: nel 73 per cento dei casi si tratta di Paesi europei, con una tendenza più forte rispetto al passato. Il Regno Unito sembra aver acquisito maggiore attrattività ricevendo il 15,2 per cento degli italiani che emigrano: è una quota doppia in termini relativi e quintupla in termini assoluti se paragonata alle cifre del 2002. Ha ripreso quota anche la Germania (oltre il 16 per cento), destinazione preferita in assoluto secondo i dati più recenti, e la Svizzera (quasi il 12 per cento), in terza posizione. Per quanto riguarda i giovani, la meta più popolare è decisamente il Regno Unito: la sceglie uno su cinque. Più distaccate Francia (scelta in poco meno del 10 per cento dei casi), Spagna (il 5 per cento, in flessione) e Belgio (meno del 3 per cento).

L’emigrazione rischia di assumere i contorni di un fenomeno strutturale. Un numero sempre maggiore di connazionali sceglie infatti di emigrare e, se questa tendenza si consoliderà ai ritmi che stiamo osservando, lo faranno presto a una velocità tripla rispetto al passato. Un’accelerazione che non riguarda solo le aree più disagiate: già oggi l’aumento sembra colpire maggiormente Nord e Centro. Così come, dal punto di vista demografico, l’emigrazione riguarda, oggi, trasversalmente tutte le fasce della popolazione in età da lavoro e diversi territori: segnali che indicano una tendenza che si sta facendo via via una normalità e che non viene invertita da una ripresa economica debole, da un prodotto interno lordo ancora lontano dai livelli pre-crisi e da un mercato del lavoro che non pare in grado di offrire opportunità di occupazione e crescita.

«IN ITALIA MANCANO LE OPPORTUNITÀ»

di Massimo Blasoni – Imprenditore e presidente di ImpresaLavoro

Andare a lavorare per qualche tempo all’estero di per sé non è un male. Il problema è che poi moltissimi italiani decidono di non tornare in Italia perché privi di una qualsiasi prospettiva. Il nostro mercato del lavoro è infatti asfittico perché prigioniero di regole sbagliate. D’altronde i dati Ocse parlano chiaro, purtroppo. La disoccupazione giovanile in questi anni è aumentata nel nostro Paese di 17,4 punti percentuali, passando dal 21,4% (ultimo trimestre 2007) al 38,8% (ultimo trimestre 2015). Nello stesso periodo di tempo la categoria dei Neet, i giovani non occupati che non frequentano né scuole né corsi di formazione, è inoltre cresciuta di 7,4 punti percentuali (passando dal 19,5% al 26,9%). In entrambi i casi il nostro Paese si colloca ai gradini più bassi nelle rispettive classifiche a livello europeo.