elisabetta gualmini

Non è un Paese per giovani

Non è un Paese per giovani

Elisabetta Gualmini – La Stampa

L’Italia non riesce a fare cose per i giovani. È un paese vecchio, fatto per i vecchi, e si compiace di esserlo. Il surreale dibattito sull’articolo 18 che si presenta puntuale ad ogni cambio di governo ne è l’ennesima dimostrazione. Sì certo, l’articolo 18 è già stato modificato due anni fa, e non saranno né la sua conservazione né il suo superamento (da soli) a spingere magicamente verso l’alto il tasso di occupazione italiano. Ma se la sua rimodulazione avviene dentro a una più ampia ipotesi di riforma che aumenti le probabilità di nuove assunzioni e ampli le tutele per la galassia da anni in espansione dei lavoratori precari, in gran parte giovani, non ci si può limitare a dire che i problemi sono «ben altri» o storcere il naso. Non si capisce perché dovremmo appassionarci vedendo erigere le solite barricate, da parte di chi protegge i già protetti.

Le riforme si fanno spesso grazie a compromessi tra le parti interessate. Il contratto a tutele crescenti che prevede maggiore flessibilità all’inizio della vita lavorativa (la sospensione dell’art. 18, esattamente come in Danimarca) in cambio di tutele che crescono nel tempo è una buona mediazione tra esigenze dei lavoratori e dell’impresa. Dovrebbe sostituire la lotteria delle controversie davanti ai giudici con vincoli stringenti ad assumere con contratti a tempo indeterminato, disincentivi economici a licenziare per gli imprenditori, risorse a vantaggio del lavoratore per l’eventuale ricerca di una nuova occupazione. Se questo compromesso serve a dimostrare all’Europa e agli investitori che le riforme si fanno, che il paese non è bloccato, che non è in mano ai conservatorismi, se serve a dare qualche garanzia in più a chi veleggia angosciato tra contratti intermittenti che ammazzano qualsiasi prospettiva di futuro, è bene andare avanti. Come ha peraltro suggerito – unico «giovane» tra vecchi e giovani-vecchi – il Capo dello Stato.

Non c’è dubbio che i giovani abbiano pagato più di tutti per la crisi degli ultimi 10 anni. Tra loro il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato (dal 17% nel 2004 al 45% del 2014). I giovani e le molte donne senza un’occupazione stabile non sanno nemmeno cosa sia l’articolo 18, né gli passa per la mente di iscriversi al sindacato. Presumo assistano comprensibilmente disillusi all’arzigogolata discussione tra legulei sulle conseguenze e le virtù di uno «Statuto» pensato alla fine degli Anni Sessanta con l’intenzione di trasferire nel settore privato il modello (di allora) del «posto fisso» nel settore pubblico. Per loro sono discorsi che arrivano da un’altra epoca, scritti in caratteri sconosciuti. Indecifrabili. Insomma, di cosa stiamo parlando? Della nostalgia per un mondo che non c’è più?

Una riforma per i nuovi assunti può essere una risposta se tuttavia si verificano due condizioni. Primo se si vuole andare fino in fondo il contratto a tutele crescenti dovrebbe assorbire un bel po’ di contratti atipici, in modo da vincolare gli imprenditori ad assumere con il nuovo contratto a tempo indeterminato abbandonando via via tutte le forme di maggiore precarizzazione (false collaborazioni e partite Iva, lavoro accessorio, etc.). La sfida più grossa infatti nel nostro paese è quella di stabilizzare le carriere lavorative, essendo ampiamente dimostrato che chi entra nel mercato del lavoro con il piede sbagliato, e cioè con contratti non standard, ha davanti a sé un percorso di lavoro decisamente accidentato, da cui è difficile divincolarsi. Secondo, occorre giocare a carte scoperte sul tema delle risorse. A quali categorie verranno estesi gli ammortizzatori, al posto di quali indennità e con quali costi? Questo va chiarito prima e non dopo la riforma. L’erogazione universale dei sussidi non sembra verosimile in un contesto di risorse scarse. Non si può sentir dire dentro allo stesso partito che la riforma costa 2 miliardi, poi 10 e poi 20. La vaghezza con cui si parla della sostenibilità tecnica della riforma è sconcertante. E soprattutto da dove verranno le risorse? Chi se ne occupa e ce lo spiega?

Aspettiamo risposte robuste. Gli slogan, le stilettate e gli attacchi alle tartine hanno francamente stufato. E se poi si riesce a rendere l’ambiente del mercato del lavoro meno ingessato e a offrire qualche brandello di protezione in più a chi non ne ha, è già molto. Per evitare che l’Italia continui a essere un bellissimo paese. Ma solo per i vecchi.

Ottimismo espediente o necessità?

Ottimismo espediente o necessità?

Elisabetta Gualmini – La Stampa

Ha resistito per un po’ Matteo Renzi durante la conferenza stampa di ieri. Prima ha presentato il nuovo slogan della fase 2 del suo governo, passo dopo passo, dando l’idea di voler affrontare con calma, serietà e concretezza i diversi problemi che l’Italia ha davanti, in particolare la riforma della giustizia e le misure per sbloccare le opere pubbliche. Poi pero non ce l’ha più fatta ed è tornato il leader motivazionale di sempre. Il Renzi della rivoluzione, delle cose che nessuno ha mai fatto, di un Paese che tra 1000 giorni sarà completamente trasformato. La riforma della giustizia civile è una ri-vo-lu-zio-ne! E il nuovo codice sugli appalti con norme uguali a quelle degli altri Paesi europei è un’altra ri-vo-lu-zio-ne. E così in una delle giornate più buie dell’economia italiana, in cui recessione e deflazione fanno a gara ad alimentarsi a vicenda, in cui le famiglie non consumano praticamente più e gli imprenditori fuggono a gambe levate da qualsiasi investimento, il Premier riesce a fornire un racconto diverso e a lanciare – ancora una volta – un messaggio rassicurante. D’altro canto, anche l’Europa ha problemi simili, e dalla crisi si esce con uno sforzo comune. C’è da chiedersi se l’ottimismo e il continuo sforzo motivazionale del Premier siano solo un espediente per distogliere l’attenzione dall’enorme complessità dei problemi che devastano il nostro Paese o se – soprattutto finché non ci sarà una vera e propria svolta in Europa verso politiche di crescita – non sia proprio l’unica cosa da fare. Sì, certo, il siparietto con il banchetto dei gelati e il cono offerto ai giornalisti come risposta (stizzita) alla copertina dell’Economist ce lo poteva risparmiare, anche perché nessun giornalista si è sbellicato dalle risate e ha deciso di stare al gioco.

Renzi ci sta provando a mettere in fila una serie di provvedimenti utili ad allentare i vincoli che flagellano i settori più importanti per lo sviluppo del nostro Paese. Con qualche stop-and-go, tra avanzate e retromarce (come quella, che gli deve essere costata molto, sulla scuola), le novità ci sono e, se fossero realizzate, avrebbero un impatto significativo. E’ per questo forse che il premier mantiene livelli di popolarità tuttora molto elevati tra i cittadini italiani, i quali continuano a interpretare la «missione di Matteo» come la lotta di Davide l’innovatore contro la falange armata dei Golia (i poteri forti, gli interessi corporativi, i privilegi diffusi) che vogliono mantenere le cose identiche a sempre. Con lo Sblocca-Italia si cerca di mobilitare fondi già disponibili e sveltire i percorsi di realizzazione (promettendo ad esempio di completare la Napoli-Bari e la Palermo-Messina-Catania nel 2015 invece che il 2017). Si liberano risorse per altre opere cantierabili, di taglia media e mini, che daranno soddisfazione ai sindaci, con l’acqua alla gola tra tagli e patto di stabilità. E poi gli incentivi per la banda larga nelle zone bianche, l’utilizzo dei fondi europei, ancora non spesi, le modifiche alla Cassa depositi e prestiti, il sostegno all’edilizia e gli incentivi all’export delle piccole e medie imprese. Con anche un occhio alla situazione di Bagnoli e agli investimenti per l’estrazione di idrocarburi. Il nuovo codice sugli appalti viene invece affidato a un disegno di legge delega. Sulla giustizia le norme contenute nel Dl sono più che apprezzabili. Il dimezzamento dell’arretrato e dei tempi del contenzioso sarebbe in effetti una rivoluzione. Per i nostri investitori e per quelli internazionali. Questo è il vero cuore della riforma al di la di misure minori come il taglio delle ferie dei giudici e l’iter semplificato per le separazioni senza figli. Anche le norme sul falso in bilancio e sul reato di autoriciclaggio vanno nella giusta direzione. ll decreto legge dunque non partorisce un topolino. E Matteo se lo dice naturalmente da solo: tanta roba eh?

Lo stile del Premier non cambia. Ottimismo e sorrisi contro il buio pesto. Energia e gelati contro rassegnazione. Entusiasmo a palla contro i cantori del declino. O meglio, tentarle tutte invece che stare fermi a guardare. Bisogna dirla tutta. Pure con i rischi del caso (eccesso di promesse e risultati inferiori alle aspettative), siamo sicuri che ci siano alternative?

Le minoranze che soffocano i cambiamenti

Le minoranze che soffocano i cambiamenti

Elisabetta Gualmini – La Stampa

L’Italia è il Paese bloccato dalle minoranze. Ma non nel senso che le minoranze fanno il loro mestiere opponendosi alla maggioranza a colpi di idee e progetti migliori e alternativi. No, ci mancherebbe. Nel senso che le minoranze si rifiutano di accettare l’a,b,c del funzionamento democratico, e cioè che la maggioranza debba, a un certo punto, esercitare il suo diritto a decidere. Per le opposizioni questo è un atto di lesa maestà. Con l’aggiunta della solita tripletta: illiberale, autoritario, un golpe. Tre storie di questi giorni ci dicono la stessa cosa. Il Senato, l’Alitalia e il Teatro dell’Opera di Roma. Non proprio tre cosette da poco, ma tre settori strategici: politica, lavoro, cultura. Il messaggio è il medesimo: meglio il fallimento piuttosto che cambiare.

Alitalia. Dopo sette mesi di trattative per salvare un’azienda sull’orlo del baratro, l’accordo con Ethiad viene di nuovo messo in discussione. Nel momento in cui gli azionisti votavano la ricapitalizzazione, il referendum tra i lavoratori rischiava di bloccare tutto. L’80% dei votanti ha detto sì all’accordo, ma secondo la Uiltrasporti non solo la consultazione non è valida perché non è stato raggiunto il quorum, ma non sarebbe valido nemmeno l’accordo con Ethiad, che a questo punto andrebbe rinegoziato. E conta poco che la maggioranza del sindacato, Cgil, Cisl e Ugl, che rappresentano il 65% dei lavoratori, la pensi in modo contrario; la minoranza, forte dei cavilli offerti dal Tu sulla rappresentanza, chiede che si torni alla casella di partenza. Nel frattempo gli emiri stanno per alzarsi e scappare via, mentre noi continuiamo a ripeterci che il problema più grosso del nostro Paese è che gli investitori stranieri non ci considerano più.

Il Teatro dell’Opera. Dopo ben 19 incontri con la Cgil e gli autonomi della Fials, anche la terza recita della Bohème salta e si va verso la liquidazione coatta dell’ente. Anche qui non è sufficiente che il 70% dei lavoratori abbia accettato il piano di risanamento, che non prevede né licenziamenti né mobilità, ma semmai un aumento della produttività in linea con l’Europa. Le minoranze riottose hanno deciso di scioperare e di far saltare tutto. Reclamando addirittura ampliamenti dell’organico che nello stato di indebitamento dell’ente vuole dire: mandiamo tutto a catafascio.

E poi c’è il Senato. Fino ad oggi la sbandierata volontà di superare il bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari è sempre stata contraddetta, nei fatti, per oltre vent’anni, dalla silenziosa resistenza corporativa di quasi tutto il ceto politico. Il rottamatore ha travolto quel tipo di resistenza e rotto l’incantesimo. Una larga maggioranza di forze politiche dell’establishment ha preso atto che si deve cambiare ed è pronta a mozzarsi un braccio (del Parlamento). Paradossalmente però ora sono proprio i castigatori della casta a mettersi di traverso, insieme ad alcuni eredi del Pci (fieramente monocameralista) e una variopinta compagine di sedicenti protettori della Costituzione. Anche in questo caso le minoranze che si oppongono pretendono non solo di avere una sede istituzionale in cui esporre le loro opinioni, ma di rinviare sine die le decisioni. Chiunque capisce che nelle oltre cinque ore disponibili per i loro interventi i grillini (nella nuova versione salva-casta) avranno tutto il tempo necessario per esporre le loro ragioni. Per quale motivo l’aula del senato dovrebbe essere impegnata ad libitum come teatrino o sfogatoio? Che c’entra questo con la democrazia? Il contingentamento dei tempi, di fronte al palese ostruzionismo di una minoranza, è un dispositivo previsto ovunque, incluso il regolamento del Senato.

In Italia dunque si continua a giocare col fuoco. Ci si attacca a tutto, formalismi, bizantinismi e microemendamenti, pur di rimanere fermi. Meglio se immobili. Peccato però che dall’altra parte i cittadini aspettino riforme e cambiamento. Da 30 anni si sentono dire che si fanno le riforme istituzionali e siamo ancora il Paese in cui è il Parlamento stesso a bloccare tutto e non c’è una legge elettorale decente. Siamo il Paese con più disoccupati in Europa, ma soluzioni ragionevoli con sacrifici tollerabili in fondo non vanno bene, meglio tornarci sopra e aprire infiniti tavoli di discussione. E il Paese in cui per la terza volta si dice al pubblico, scusate questa sera lo spettacolo salta. Statevene a casa. E a forza di blocchi, resistenze e paralisi non rimarrà che stare a casa veramente. A guardare l’inesorabile declino di un Paese che non si muove più.