elsa fornero

Quando semplificare fa rima con complicare

Quando semplificare fa rima con complicare

Giampiero Falasca – Il Sole 24 Ore

Con il Jobs Act il processo del lavoro viene riformato ancora una volta, dopo le novità del 2012, e ancora una volta le nuove norme si caratterizzano per un buon livello di complessità applicativa. Un fardello che il diritto del lavoro italiano si porta dietro da tanti, troppi, anni, e che riemerge sempre, anche quando – come fa l’attuale riforma – vengono approvate regole che mirano a semplificare in maniera importante il sistema normativo.

Il paradosso – che potremmo definire della “semplificazione complessa” – ruota intorno ai concetti di “vecchi assunti” e “nuovi assunti”, che nel Jobs act segnano la linea di demarcazione tra i lavoratori per i quali la riforma non si applica e quelli interessati dalle nuove regole. Chiunque nei prossimi anni avrà l’esigenza di cimentarsi con il processo del lavoro dovrà sempre verificare se un dipendente rientra nell’una o nell’altra categoria.

Se il licenziamento sarà impugnato da un “vecchio assunto”, nulla cambierà rispetto alle regole processuali (e no) oggi vigenti, introdotte nel 2012 dalla riforma Fornero; se invece la causa sarà promossa da un “nuovo assunto” (cioè un lavoratore impiegato a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore della riforma), si applicherà il rito ordinario, tornando a quanto accadeva prima del 2012. I motivi di questo ritorno al passo sono da ricercare nei risultati modesti prodotti dal rito sommario della legge Fornero, che era nato con lo scopo di velocizzare il processo e ha finito per allungare le liti, introducendo di fatto un quarto grado di giudizio. I nuovi assunti saranno interessati anche dall’abrogazione della norma che, prima della causa, imponeva l’attivazione procedura di conciliazione preventiva, in caso di licenziamenti economici: l’obbligo resterà in vita solo per i vecchi assunti, per gli altri verrà meno, ma si apriranno le porte del nuovo istituto della conciliazione volontaria.

Come si vede, la riforma introduce semplificazioni importanti, ma solo per alcuni gruppi di lavoratori, con la conseguenza che per molti anni conviveranno nel mercato del lavoro due processi del lavoro, due procedure conciliative, due regimi di impugnazione dei licenziamenti. Questo doppio binario potrebbe frenare molto la portata innovativa delle nuove regole. Una semplificazione così importante ed efficace come quella contenuta nel decreto attuativo del Jobs act meriterebbe invece di essere applicata a tutti, senza distinzioni, anche per evitare di allungare la lista già corposa dei muri che separano i lavoratori più garantiti da quelli meno tutelati, e per scongiurare l’ennesima sovrapposizione di norme, che crea delle complicazioni poco comprensibili agli investitori, italiani e stranieri.

Un comma sparito cancella il tetto alle pensioni d’oro

Un comma sparito cancella il tetto alle pensioni d’oro

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

Avete presente la leggenda di Sissa Nassir, l’inventore degli scacchi che chiese allo Shah un chicco di grano nella prima casella, 2 nella seconda, 4 nella terza e via raddoppiando? Una misteriosa manina ha ideato un giochino simile, facendo sparire alcune parole chiave per le pensioni più ricche. Nel 2014 il giochino costerà 2 milioni di euro: nel 2024 addirittura 493. In un anno. Per un totale nel decennio di 2 miliardi e 603 milioni di euro. A godere di questo regalo, calcola l’Inps, saranno circa 160 mila persone. Quelle che, pur avendo raggiunto nel dicembre 2011 i quarant’anni di anzianità, hanno potuto scegliere di restare in servizio fino ai 70 o addirittura ai 75 anni. In gran parte docenti universitari, magistrati, alti burocrati dello Stato…

Il regalo agli «eletti» è frutto della cancellazione di quattro righe. La legge 214 del 2011 voluta dal ministro Elsa Fornero, che si riprometteva di «togliere ai ricchi per dare ai poveri», diceva infatti all’articolo 24 che dal primo gennaio 2012 anche i nuovi contributi dei dipendenti che avevano costruito la loro pensione tutta col vecchio sistema retributivo, perché avevano già più di 18 anni di anzianità al momento della riforma Dini del ‘95, dovevano esser calcolati con il sistema contributivo. «In ogni caso per i soggetti di cui al presente comma», aggiungeva però il testo originario suggerito dall’Inps, «il complessivo importo della pensione alla liquidazione non può risultare comunque superiore a quello derivante dall’applicazione delle regole di calcolo vigenti prima dell’entrata in vigore del presente comma».

Arabo, per chi non conosce il linguaggio burocratico. Proviamo a tradurlo senza entrare nei tecnicismi: quelli che potevano andarsene con il vitalizio più alto (40 anni di contributi) ma restavano in servizio potevano sì incrementare ancora la futura pensione (più soldi guadagni più soldi versi di contributi quindi più alta è la rendita: ovvio) ma non sfondare l’unico argine che esisteva per le pensioni costruite col vecchio sistema: l’80 per cento dell’ultimo stipendio. Poteva pure essere una pensione stratosferica, ma l’80 per cento della media delle ultime buste paga non poteva superarlo.

Quelle quattro righe della «clausola di salvaguardia» che doveva mantenere l’argine, però, sparirono. E senza quell’argine, i fortunati di cui dicevamo possono ora aggiungere, restando in servizio con stipendi sempre più alti, di anno in anno, nuovi incrementi: più 2 per cento, più 2 per cento, più 2 per cento… Al punto che qualcuno (facendo «marameo» alla maggioranza dei cittadini italiani chiamati in questi anni a enormi sacrifici) potrà andarsene fra qualche tempo in pensione col 110 o il 115% dell’ultimo stipendio. Per tradurlo in cifre: il signor Tizio Caio che già potrebbe andare in pensione con 33.937 euro al mese potrà riceverne invece, grazie a questa «quota D», 36.318.

Chi le fece sparire, quelle righe, non si sa. E certo non era facile accorgersi del taglio in un testo logorroico di quasi 18 mila parole più tabelle. Un testo cioè lungo quasi il doppio del «Manifesto del partito comunista» di Marx ed Engels, il doppio esatto della Carta Costituzionale, cinque volte di più del discorso di inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Per non dire del delirio burocratese. Con l’apparizione ad esempio dei commi 13-quinquies e 13-sexies e 13-septies e 13-octies e 13-novies e perfino 13-decies. Ciascuno dei quali impenetrabile per chiunque non sia vaccinato contro la burocratite acuta.

«Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare», diceva tre secoli fa l’abate Ludovico Muratori. Parole d’oro: la rimozione di quelle poche righe che arginavano abnormi aumenti delle pensioni d’oro, come ha scoperto l’Inps, hanno prodotto l’effetto perverso che il misterioso autore del taglio doveva aver diabolicamente calcolato. Secondo una tabella riservata fornita al governo dai vertici dell’Istituto di previdenza, infatti, tabella che pubblichiamo, 160 mila persone circa potranno godere sia dei vantaggi del vecchio sistema retributivo sia di quelli del «nuovo» sistema contributivo. E tutto ciò, se non sarà immediatamente ripristinata quella clausola di salvaguardia, causerà un buco supplementare nelle pubbliche casse di 2 milioni quest’anno, 11 l’anno prossimo, 44 fra due anni, 93 fra quattro e così via. Fino a una voragine fra nove anni di 493 milioni di euro. Per un totale complessivo, come dicevamo, di oltre due miliardi e mezzo da qui al 2024. Per capirci: una somma dieci volte superiore ai soldi necessari a mettere in sicurezza una volta per tutte Genova dal rischio idrogeologico e dalle continue alluvioni.

Dello stupefacente meccanismo ideato da Sissa Nassir per farsi dare un’enormità dallo Shah di Persia sorrise anche Dante Alighieri che nella Divina Commedia, per spiegare quanto il numero degli angeli crescesse a dismisura, scrisse «L’incendio suo seguiva ogne scintilla / ed eran tante, che ‘l numero loro / più che ‘l doppiar de li scacchi s’immilla». I cittadini italiani, però, tanta voglia di poetare oggi non hanno. E forse sarebbe il caso che il governo prendesse subito sul serio l’allarme dell’Inps. Andando a ripristinare quelle righette vergognosamente fatte sparire.

Articolo 18, chi vince e chi no

Articolo 18, chi vince e chi no

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Diciamoci la verità sul Jobs Act n. 2. Nell’emendamento presentato dal governo in sostituzione dell’art.4, ci si possono riconoscere tutti: da Maurizio Sacconi a Cesare Damiano, passando per Pietro Ichino. La norma di delega emendata è certamente meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, anche se, a mio avviso, resta inadeguata rispetto a quanto dispone l’articolo 75 della Costituzione. Ma la politica ha le sue esigenze che finiscono sempre per prevalere. E in questo caso occorreva fare in modo che avessero vinto tutti e perso nessuno. Poi si vedrà nel corso dell’iter legislativo e soprattutto al momento della predisposizione degli schemi dei decreti legislativi che dovranno raccogliere i pareri di Commissioni validamente presieduto da due dei protagonisti della mediazione di ieri: Sacconi e Damiano, appunto.

Analizziamo gli aspetti più importanti del nuovo testo. Innanzi tutto, le parole che mancano. Non si parla mai di Statuto dei lavoratori né tanto meno di articolo 18 e di disciplina del licenziamento individuale. Vengono però indicate delle materie che necessariamente richiederanno delle modifiche ad ambedue i santuari della gauche: le norme riguardanti il cosiddetto demansionamento (ovvero la possibilità – ora preclusa – di inquadrare i lavoratori in mansioni inferiori se ciò comporta la salvaguardia del posto di lavoro) e il controllo a distanza, essendo le disposizioni assunte nel 1970 completamente superate dalle nuove tecnologie.

Oddio: non è che i criteri di intervento siano ben definiti, dal momento che essi si limitano a raccomandare al legislatore delegato di tener presenti sia gli interessi dei datori che quelli dei lavoratori. Poi si arriva alla ciliegina sulla torta: «la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Alcune questioni rimangono indefinite. Innanzi tutto, non è detto che dal novero delle tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio sia da escludere la sanzione della reintegra per lasciare il posto soltanto al risarcimento economico. In secondo luogo, noi interpretiamo che i nuovi assunti non coincidano obbligatoriamente con i nuovi occupati, ma che il contratto di nuovo conio si applichi anche a chi cambi lavoro e venga assunto ex novo da un altro datore. Se tali soggetti conservassero, infatti, una sorta di status ad personam (una disciplina del licenziamento “d’annata”), una volta usciti da un impiego stenterebbero a rientrare nel mercato del lavoro per ovvi motivi. Ma avverrà davvero così?

In ogni caso, pare indubbio che dovrà esserci un cambiamento importante: quanto meno la tutela reale – anche se continuerà a essere contemplata e non solo come sanzione del licenziamento nullo o discriminatorio – interverrà a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Per capire, dunque, come finirà questa vicenda bisogna aspettare.

Nel frattempo però sarebbe consigliabile non cantare anticipatamente vittoria. E fare tesoro della prima riforma Poletti. Il contratto a termine ”liberalizzato” rimane ancora la modalità di assunzione più conveniente. E, a nostro avviso, lo rimarrà anche in seguito. La delega emendata prevede, poi, un giro di vite sui contratti flessibili (non era così nell’emendamento Ichino). Questo è certamente un successo di principio della sinistra. Al centro destra è già capitato – ai tempi della legge Fornero – di sopravvalutare qualche giro di valzer (poi rivelatosi inadeguato) intorno al totem dell’articolo 18 e di non accorgersi che gli stavano sottraendo la cosiddetta flessibilità in entrata.

Brunetta al traino della Lega

Brunetta al traino della Lega

Giuliano Cazzola – Italia Oggi

Caro Renato, tra noi esisteva un sodalizio ultradecennale fatto di amicizia, stime e collaborazione che veniva da lontano fin da quando entrambi militavamo nel Psi. L’amicizia e la stima sono rimaste, almeno per me. Con franchezza devo comunque dirti che trovo singolare che una persona della tua levatura intellettuale, delle tua conoscenza dei problemi e del tuo coraggio politico, abbia aderito di fatto (mi auguro solo per banali ragioni di partito) ai referendum della Lega, inserendo l’abolizione della legge Fornero fra i 6 punti programmatici del futuro centrodestra.

Così sono andato a ricercare nel mio archivio un documento che, a mio avviso costituisce il punto più qualificato della nostra collaborazione: la Nota per una «Maastricht delle pensioni» che preparammo insieme nel maggio del 2003 come «Work in progress» in occasione del semestre di presidenza italiana della Ue. Quella «Nota» – ricorderai certamente – ebbe l’accoglienza che meritava soprattutto per merito tuo che, oltre ad essere un vulcano di idee ed iniziative, possiedi le doti e la fantasia di un grande comunicatore. Ma lo studio era serio e ben argomentato, a sostegno di un progetto forte ed innovativo: affidare all’Unione europea un ruolo di coordinamento delle riforme delle pensioni (una nuova Maastricht, con tanto di parametri da rispettare). Il punto chiave della «Nota» era sintetizzato nella seguente proposta: «Si dovrebbe indicare per ciascuno Stato membro, in relazione al suo modello pensionistico, sia il livello ideale in termini di sostenibilità finanziaria sia di adeguata compresenza dei tre pilastri del sistema previdenziale. Il sistema dovrebbe essere progressivo sulla base di un programma nazionale di adeguatezza, sostenibilità e modernizzazione, corredato da piani annuali che saranno oggetto di analisi da parte della Commissione e sottoposti al Consiglio e al Parlamento europeo».

In quello stesso documento denunciavamo con forza che «le riforme fino ad ore attuate sono caratterizzate da una fase di transizione troppo lunga e da misure ancora troppo generose per le generazioni vicine alla pensione, rispetto ai trattamenti previsti, per le generazioni più giovani, nel momento in cui i cambiamenti andranno a regime. In sostanza, il risanamento del sistema pensionistico avviene in larga misura a spese delle nuove generazioni». Questa fase di transizione troppo lunga è dipesa sostanzialmente dalla difesa ad oltranza delle pensioni di anzianità, la prestazione previdenziale che è alla base degli squilibri del sistema e a cui si deve – lo sai benissimo – una quota consistente del debito pubblico. La riforma Fornero andrebbe difesa soltanto perché ha abolito questo istituto.

Ricordi certamente l’estate del 2011, quando la Bce, in quella lettera del 5 agosto che per me è come la Bibbia, chiese al governo italiano di superare i trattamenti pensionistici anticipati. La Lega si mise di traverso. E il governo Berlusconi fece un altro definitivo passo verso la fossa. Abolire la legge Fornero realizzerebbe un solo obiettivo, che è poi quello a cui aspirano i «padani»: ripristinare l’istituto dell’anzianità consentendo a centinaia di migliaia di persone (nel corso degli anni passati sono stati milioni) di andare in quiescenza da cinquantenni e comunque prima di aver compiuto 60 anni. Ancora nel 2010, l’età media dei pensionati di anzianità era di poco superiore a 58 anni. È vero che nella passata legislatura il governo Berlusconi aveva adottato una misura importante di stabilizzazione del sistema attraverso l’adeguamento automatico dell’età di pensionamento all’evoluzione dell’attesa di vita: misura confermata nella riforma Fornero. Ma quel governo e quella maggioranza non erano stati in grado di suturare la piaga infetta del pensionamento di anzianità.

Maurizio Sacconi, in quell’estate drammatica, aveva provato a mettere in discussione il canale di accesso legato al requisito dei 40 anni di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica (che era la scorciatoia per il pensionamento, in barba allo stesso regime delle quote). Ma quel nostro coraggioso amico venne subissato da critiche disoneste a partire dai tuoi sodali della Lega. E, per favore, non farmi la manfrina degli esodati. Da autorevole deputato e presidente di un importante gruppo (oltreché persona competente) sai benissimo che quel «dramma» è esistito soltanto nei talk show di regime (e negli incubi notturni di Cesare Damiano), perché – compatibilmente con le disponibilità finanziarie – la grande maggioranza dei casi meritevoli di tutela ha trovato adeguate risposte in ben sei provvedimenti di salvaguardia, due dei quali (il secondo e il quarto) sono risultati persino più generosi del fabbisogno, al punto di realizzare dei risparmi che permesso il sesto intervento.

Caro Renato, io mi fermo qui. So benissimo che queste mie parole non sortiranno alcun effetto. Ma so anche di non avere più niente da spartire con la Lega e Fratelli d’Italia. Se ti fa piacere, ti confermo i sensi della mia stima e della mia amicizia. Poiché sono più anziano di te, anche se molto meno autorevole, ti ricordo quanto tu mi hai insegnato. La tattica in politica è importante. Ma come diceva Lady Margaret Thatcher i principi lo sono di più.