enrico cisnetto

Meno salvataggi, più investimenti

Meno salvataggi, più investimenti

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Michele Ferrero è stato un imprenditore senza eguali. E non solo perché ha costruito un gigante mondiale dell’industria dolciaria, grazie solo alle sue intuizioni e alle sue proverbiali doti di laboriosità e tenacia. Ma, anche, perché ha fatto tutto questo rifuggendo dai salotti e salottini del capitalismo relazionale e dalle suggestioni della finanza creativa, optando per una visione dell’impresa che cresce in complicità con i dipendenti e il territorio – offrendo loro, negli anni del conflitto di classe, un Welfare sui generis – e affonda le radici nel rapporto di fiducia tra i suoi prodotti e il consumatore.

Pensavo a questa unicità quando, nei banchi della cattedrale di Alba, partecipando al suo funerale, osservavo che tra le tante personalità venute a rendergli omaggio ci fossero meno imprenditori famosi di quanto sarebbe stato doveroso che fosse. E mi è venuto spontaneo rimuginare le pagine dell’ultimo libro di Giuseppe Berta (La via del Nord, Il Mulino), nel quale lo storico dell’economia dice di aver perso ogni residua speranza che gli imprenditori settentrionali riescano ad adattare il vecchio triangolo industriale all’economia del nuovo millennio. E mi è venuto di pensare che non saprei fare un nome di chi, oggi, potrebbe portare un’azienda dalla dimensione locale a quella mondiale, senza passare né per la Borsa né per acquisizioni, come ha fatto Ferrero. Non è un caso che le esportazioni agroalimentari italiane siano inferiori a quelle tedesche: in questa filiera, come in quasi tutto il manifatturiero, l’Italia, a differenza della Germania, non ha puntato sulle produzioni ad alto valore aggiunto, sull’innovazione dei prodotti e dei processi, sul trasferimento di conoscenze ai lavoratori. E non è un caso che il nostro export copra meno di un terzo del pil, mentre quello tedesco oltre la metà.

Purtroppo la politica industriale italiana degli ultimi anni è consistita esclusivamente nel salvare aziende decotte e posti di lavoro inesistenti, in una forma di patologico accanimento terapeutico. Nonostante che dal 2008 ad oggi siano fallite 82mila imprese (con la perdita di un milione di occupati) e si sia bruciato il 25% della capacità produttiva, nuove Ferrero all’orizzonte non sono spuntate. Anzi, ogni anno sono nate sempre meno imprese (nel 2013 -11,1% rispetto al 2007). Perciò vanno nella giusta direzione le misure dell’Investment Compact che allargano per le start-up le agevolazioni legate al concetto di innovazione, comprendendo anche quella non tecnologica; meno quelle che prevedono la creazione di una società per le ristrutturazioni industriali.

Non ci servono salvataggi ma investimenti massicci (anche pubblici) per colmare i buchi di un capitalismo sempre più a macchia di leopardo, con poche eccellenze di nicchie e troppi vuoti nei settori più strategici. Occorre progettare il riposizionamento del nostro sistema produttivo. Avendo coscienza che, visto il nostro declino, da soli non possiamo farcela. Per fare la rivoluzione industriale abbiamo bisogno della grande finanza mondiale – avendo cura di selezionarla, non tutti gli investitori sono uguali – e di alleanze industriali strategiche e solide in Europa. Possibilmente tenendo conto delle scelte geopolitiche che i grandi nodi dello scacchiere mondiali (Grecia, Libia, Russia-Ucraina) comunque ci imporranno di fare.

Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale

Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Per credere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci serve un atto di fede, e io ho sempre preferito i numeri al «credo». Così, quando ho visto che la Confindustria ha sparato al rialzo le previsioni di crescita del pil 2015 dallo 0,5 per cento al 2,1% (e per il 2016 dall’1,1% al 2,5%), rispetto a quelle che aveva diffuso a dicembre, sono saltato sulla sedia. Magari, mi sono detto. Ma queste ipotesi non trovano riscontro in nessuna delle altre stime uscite in questi giorni: né di Bankitalia (+0,4% nel 2015 e +1,2% nel 2016), né di S&P (rispettivamente +0,2% e +0,8%); la più ottimista, Prometeia, non va oltre +0,7% e +1,4%. Allora? Certo, alcuni fattori positivi non mancano. Il commercio mondiale è in crescita e la discesa dell’euro sul dollaro (quasi il 10% negli ultimi 45 giorni. il 16% in sei mesi) spinge il nostro export, che già copre un terzo del pil. Inoltre, se il prezzo del petrolio restasse agli attuali 45 dollari al barile per tutto il 2015 (rispetto ai quasi 100 di inizio ottobre) l’Italia risparmierebbe 24 miliardi, ovvero l’1,5% del pil (occhio, però, perché Claudio Descalzi, numero uno dell’Eni, già prevede che nel secondo semestre le quotazioni tenderanno ai 60 dollari). I tassi d’interesse, poi, sono stracciati. Ma si tratta di positività in atto da tempo, gia ampiamente scontate nelle stime di fine 2014.

E allora. come mai Confindustria ha moltiplicato per quattro? Si dice: le politiche monetarie appena varate dalla Bce sono «manna dal cielo», dovrebbe valere 1,8 punti di pil aggiuntivi. Ma, a parte che nessun altro attribuisce al QE gli stessi effetti taumaturgici, è oggettivamente difficile credere che, da solo, possa generare 30 miliardi di valore aggiunto. Sia chiaro, l’operazione di Draghi è benefica. Ma, intanto, potrebbe saltare per l’Italia se il rating del nostro debito dovesse scendere di un solo gradino (dall’attuale BBB- a C, livello spazzatura). E poi, il permanere della recessione, fin qui, non è certo dovuto a mancanza di liquidità. Se il denaro non affluisce all’economia reale e per la somma di tre ragioni: perché le banche sono costrette a rispettare requisiti patrimoniali sempre più stringenti; perché latitano le imprese con progetti industriali solidi, che non chiedano prestiti solo per tappare vecchi buchi; perché il clima di sconforto e rassegnazione ostacola la spinta agli investimenti, vero motore della crescita.

Ma se la psicologia può anche invertirsi in modo repentino – per l’Istat la fiducia delle imprese a gennaio ha segnato il massimo da settembre 2011 – è difficile che il nostro capitalismo possa liberarsi dei suoi atavici problemi in qualche settimana. Dopo sette anni di crisi un rimbalzo positivo è fisiologico, ma non basta a fermare il declino. Il motore della nostra economia produttiva ha sì bisogno di benzina, ma anche e soprattutto di un’accurata revisione. Serve, dunque, una politica industriale che metta in campo risorse e strategie di lungo termine, che lasci perire le aziende decotte e che spinga su manifatture ad alto valore aggiunto in grado di competere sui mercati internazionali e recuperare quel 35% di competitività tecnologica perduta negli ultimi 15 anni. Le risorse umane ci sono, il vento economico è favorevole. Più che con l’ottimismo di maniera, gli atti di fede o la corsa a prendersi il merito di una ripresa che ancora non c’è, bisognerebbe cogliere l’occasione nei fatti.

Contro i disfattisti

Contro i disfattisti

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non è un bazooka. Ma un colpo di fucile nella direzione giusta, sì. E nell’Europa dei piccoli passi, spesso anche indietro, non è cosa da poco quella che Draghi è riuscito a far passare alla Bce. Certo, condividere solo il 20 per cento dei rischi relativi ai 1,080 miliardi di titoli che la Bce comprerà di qui Fino a settembre 2016 può far storcere la bocca. Ma intanto sono meglio di zero, e poi questa forma di mutualizzazione rappresenta la fine di un tabù che apre la strada, sul piano culturale prima ancora che pratico, a una vera federalizzazione del debito europeo. Tuttavia, è presto per dire se questo Quantitative easing sarà o meno sufficiente a riassorbire la caduta dei prezzi e riportare l’inflazione alla soglia del 2 per cento, così come se spingerà in modo strutturale il cambio dell’euro verso la parità con il dollaro e se sarà capace di bagnare in modo irreversibile le polveri da sparo della speculazione nei confronti della moneta unica e dell’eurosistema. Anche perché rimane il fatto che, come Draghi ha ripetuto fino alla noia, ogni manovra monetaria, per quanto straordinaria, non potrà che restare un palliativo se i governi non si impegneranno nelle riforme nazionali e nell’integrazione delle sovranità. Veri fronti da cui passa, o meno, la possibilità di mettere fine alla più grande crisi economica dell’ultimo secolo anche per 1’Europa, dopo che Obama l’ha dichiarata archiviata per l’America.

Con buona pace degli arruffapopoli che nel Vecchio continente stanno facendo credere alla gente, stremata psicologicamente prima ancora che praticamente da sette anni di crisi, che la fine dell’incubo risiede nel tornare ciascuno sotto il proprio campanile. Gli stessi che ieri, subito dopo 1’annuncio della Bce, hanno tirato le pietre a Draghi per aver tardato. Prendete tale Claudio Borghi, sedicente economista che presta il suo pensiero (sic) a Salvini -“il Qe è la più grande speculazione della storia” – e vedrete chi avremmo dovuto mettere a trattare con l’arcigna Merkel. Questo tizio capeggia un gruppo di “haters”, gente che passa la giornata a intingere il pennino nell’odio. Parlo per esperienza, perché ne ho fatto le spese. “Infame collaborazionista”, “cialtrone”, “#nonseiumano”, “nemico dell’Italia vergognati”, sono solo alcuni degli insulti (tra quelli riferibili) che ho collezionato in poche ore su Twitter dagli infoiati antieuro per aver sostenuto che a oggi, nonostante tutto, credo ancora nell’Unione europea.

Nessun modello econometrico può stabilire con esattezza cosa accadrebbe in caso di fine della moneta unica, ma con fervore integralista gli antieuro sostengono di poter prevedere ogni cosa, insultando chiunque la pensi diversamente (#jesuiseuropeista). Pensate, poi, che pur di tornare alla liretta tra gli ideologi antieuro c’e chi propone di chiudere le banche e congelare i risparmi per settimane, Ma poi, tutta questa ambizione solo per tornare a svalutare? A parte che durante la crisi e con l’euro forte (eccessivamente) il nostro export è cresciuto anche più di quello tedesco, è da rilevare che, nonostante il deprezzamento sul dollaro, a novembre c’è stato un calo congiunturale delle vendite extra Ue dell’1,7 per cento. E poi, non è certo con le svalutazioni competitive che innescano competizione al ribasso che ci risolleviamo. Si tratta di accuse ridicole per me, in quanto i professionisti dell’insulto ignorano (loro, d`altra parte, ignorano per definizione) che mi sono beccato dell’euroscettico e dell’euro-disfattista perché ero contrario a introdurre l’euro senza una preventiva o quantomeno contemporanea integrazione politico-istituzionale (ma avevo anche detto che se si fosse fatto, comunque per l’Italia sarebbe stato un suicidio rimanerne fuori, e lo ribadisco). Ma pazienza. Il fatto è che si tratta di parole d’ordine pericolose per il paese, perché finiscono con l’azzerare le nostre responsabilità – da noi il declino è iniziato ben prima del 2008 – e far credere che sia l’euro la causa di tutti i mali.

L’operazione è semplice: sbatti il mostro in prima pagina, approfitti di ansie e paure (legittime) e gli adepti si moltiplicano. E domani anche i voti. È la strategia dell’ormai ex Lega nord, che fino a ieri voleva creare una moneta sovrana dal Po alle Alpi e ora si è intestata la battaglia contro l’euro con gli slogan di qualche improvvisato ideologo, tipo un “si stava meglio quando il caffè costava mille lire”. Semplificazioni che impediscono di spingere l’opinione pubblica nell’unica direzione possibile, quella di mettere rimedio ai difetti genetici dell’euro, capendo che il difetto non è nella moneta, ma nell’Europa come progetto politico. La sfida è proprio qui: o andare avanti verso gli Stati Uniti d”Europa, o il ritorno al passato, l’illusione di poter restaurare un sistema che in realtà è la globalizzazione e non 1’euro ad aver cancellato per sempre. Meno male che c’è Draghi.

Old economy

Old economy

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Correggendo un errore si limitano i danni, non si risolvono certo i problemi. Matteo Renzi, facendo apprezzabilmente autocritica, ha più volte ripetuto di voler modificare l’inasprimento fiscale introdotto per le partite Iva con la legge di stabilità e Giuliano Poletti ne ha annunciato, di conseguenza, la riscrittura. Bene, ma non basta. Perché l’errore deriva dal perpetuarsi di vetusti schemi ideologici che a parole si vorrebbero superare. Il legislatore, invece, resta ancorato alla vecchia cultura del Novecento imperniata sulla diarchia imprenditori-dipendenti – figlia della separazione marxista tra capitale e lavoro, tra padroni e sfruttati, che privilegia solo il dipendente a tempo indeterminato – che dipinge i liberi professionisti e chi si è fatto imprenditore di se stesso, nel migliore dei casi come un limone da spremere fiscalmente, e nel peggiore come un popolo di evasori, quando invece la società moderna, che cammina assai più velocemente, ha già costruito nuovi modelli.

Il Jobs Act, per esempio: lungi da me sottovalutare le discontinuità che produce, ma ancora una volta il lavoro autonomo è rimasto fuori dalla porta. E gli 80 euro? Una misura da 10 miliardi a favore di chi ha già un lavoro dipendente, stabile e una retribuzione “media”: l’idealtipo dell’elettore di sinistra, insomma, Anche i 5 miliardi di sgravi Irap per i neo assunti, più che generare nuova occupazione, saranno utilizzati dalle imprese per sostituire chi è in uscita, con effetti benefici limitati al turn-over, Stesso discorso per gli under 35 che hanno una partita Iva: dopo aver constatato che nella legge di stabilità (chissà poi perche non è stata utilizzata la delega fiscale) l’aliquota nel regime agevolato dei minimi è stata triplicata (il 15 per cento, contro il 5 per cento deciso dal governo dei tecnici) e aver scoperto che all’innalzamento da 30 a 40 mila euro della soglia di fatturato per l’applicazione del regime fiscale agevolato per artigiani e commercianti, si contrappone l’abbassamento da 30 a 20 mila per lavoratori della conoscenza (addirittura 15 mila nella prima stesura governativa), e dopo aver amaramente visto che i costi saranno definiti in base a coefficienti presuntivi di redditività e non, come sarebbe logico, sulla base delle spese effettivamente sostenute, c’è il rischio che rimpiangano il vecchio Monti.

Perché, in un sol colpo, l’esecutivo dei quarantenni ha ridotto la platea e triplicato le tasse a trentenni che iniziano un’attività da freelance della conoscenza. Senza contare che, mentre si prova a rivoluzionare il sistema degli ammortizzatori sociali, il welfare pubblico per i lavoratori autonomi rimane un tabù e l’aliquota contributiva Inps è appena salita al 29 per cento (e continuerà a farlo fino ad arrivare al 33 per cento nel 2018), mentre per i dipendenti si ferma al 25 per cento. In sintesi, con misure che riducono i contributi previdenziali e ampliano la soglia di applicazione del regime dei minimi, si è dato sostegno al lavoro autonomo più tradizionale (artigiani e commercianti), ma non si è neppure provato a distinguere dentro il variegato mondo del lavoro autonomo, magari premiando chi è completamente rintracciabile nei pagamenti rispetto a chi evade.

Ora bisogna rimediare. L’idea migliore, che era circolata ma è poi stata accantonata, sarebbe quella di varare un veicolo legislativo ad hoc per le partite Iva, completo e soprattutto stabilizzante rispetto alle aspettative future visto che nell’ultima parte del 2014 tanti freelance, consigliati dai commercialisti, hanno deciso che fosse meglio giocare d’anticipo e aprire subito la partita Iva per poter usufruire del “forfettone” (5 per cento di tassazione fino a 30 mila euro) per sfuggire dai nuovi minimi. Meglio arrivare a un regime fiscale e previdenziale più severo ma garantito nel tempo e senza tetti anagrafici, piuttosto che offrire vantaggi spot che velocemente evaporano. Nello specifico, è evidente che diventa difficile per il governo far fare un passo indietro ad artigiani e commercianti dopo aver assicurato loro la gran parte degli 800 milioni stanziati per gli autonomi, Ma proprio per questo, bisogna arrivare a un provvedimento specifico, dove e più facile articolare il dare e l`avere e dove lo spirito liberalizzatore di Renzi (almeno a parole) può essere maggiormente valorizzato.

Nella litania del “largo ai giovani” e dei “millennials pronti a raccogliere le sfide della globalizzazione” non c’e spazio per provvedimenti che spingono i freelance a diventare imprese artigiane o commerciali. Capisco che delle parole di Acta, l’associazione dei freelance che ha lanciato la campagna “#RenzireWind” – “se il presidente del Consiglio è coerente deve bloccare l’aumento dei contributi per la gestione separata Inps e studiare un regime agevolato” – possa esserci una lettura corporativa. Ma è altrettanto vero che non ci sara mai il “nuovo corso” che blairianamente Renzi auspica se l’unico orizzonte resta quello della “old economy”, lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e autonomi “classici”.

Pasticci istituzionali

Pasticci istituzionali

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Prima o poi doveva succedere. Ed è successo. Non si possono svilire procedure istituzionali fondamentali – come quella, sacra, dell’approvazione dei testi di legge, portando in Consiglio dei ministri provvedimenti non del tutto definiti o, peggio, slide di generici documenti assertivi privi di qualsiasi dettaglio – e pensare che tutto ciò non si ritorca come boomerang contro coloro che operano tali stupri istituzionali. È accaduto con il decreto legislativo sul diritto penale tributario. Sul quale governo, Parlamento e l’intero sistema-paese hanno clamorosamente perso la faccia più volte.

Primo: il provvedimento è sostanzialmente giusto, e andava difeso politicamente, non mollato al primo stormir di fronde.

Secondo: come accade spesso a Renzi, le buone intenzioni – in questo caso, emanciparsi dalla demagogia fiscale della sinistra – non sono messe in pratica nel migliore dei modi. Nello specifico, come ha spiegato molto bene il sottosegretario Zanetti, introdurre esenzioni penali (potenzialmente per milioni) sul reato di frode documentale, grave perché presuppone la predisposizione intenzionale di documenti falsi per rappresentare operazioni inesistenti, è cosa sbagliata e indifendibile, mentre è opportuno alzare le soglie di depenalizzazione dei reati tributari meno gravi, come la dichiarazione infedele, e depenalizzare completamente, ferme restando le sanzioni amministrative, le mere omissioni di versamenti dell’Iva in presenza di dichiarazioni fedelmente presentate.

Terzo: non so se c’entri o meno Berlusconi (a naso, non credo) nell’aggiunta del famigerato “l9 bis”, ma bloccare tutto per quella presunzione – passando dall’ipotesi di provvedimento ad personam alla certezza di “non provvedimento” contra personam – è demenziale. Tanto più se poi si commette l’imperdonabile errore di legare il riesame della normativa alla scelta del prossimo capo dello stato, avvalorando l’idea che si trattasse di una furbata.

Quarto: un governo non può congelare un decreto legislativo già approvato dal Consiglio dei ministri sottraendolo all’esame del Parlamento, mentre Camera e Senato (presidenti, se ci siete battete un colpo) non possono accettare che passi ad altri la prerogativa di fissare il calendario dei propri lavori. È lo stesso errore, rovesciato, commesso per il decreto attuativo delle norme sul lavoro: in quel caso, sorta la questione se i dipendenti pubblici erano o meno equiparati a quelli privati, il governo ha detto di volersi rimettere al Parlamento, cosa impossibile visto che si trattata di legge delega e dunque, come dice la parola stessa, le Camere avevano delegato l’esecutivo a prendere decisioni,

Quinto: come magistralmente sottolineato da Davide Giacalone, non si può escludere i procedimenti in corso o in giudicato dalla nuova regola (Renzi dixit) senza buttare a mare il “favor rei”, uno dei pilastri della nostra civiltà giuridica.

Ma la cosa più grave di tutta questa brutta vicenda è e resta lo svuotamento di funzioni del Consiglio dei ministri. Non è certo stato Renzi a introdurre la cattiva abitudine di testi di legge completati o modificati ex post. Ma mai in modo così smaccato. Già per la legge di stabilità erano passati nove giorni tra il testo uscito dal Cdm e quello definitivo, ma almeno il motivo era più nobile: tener conto delle obiezioni del Quirinale, della Ragioneria e, probabilmente, di Bruxelles. Ora si è passato il segno. Anche perché questa maldestra forzatura si somma con il sempre più esplosivo problema dei contrasti – prima era un braccio di ferro, ora è una vera e propria guerra – tra Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia. Ma anche con il reiterato abuso dei decreti legge, con l’ambiguità (voluta) dei disegni di legge omnibus e le maglie troppo larghe delle leggi delega, con l’uso smodato del voto di fiducia. Solo che finora la slabbratura delle procedure aveva conferito all’esecutivo un potere sottratto all’effettivo controllo del legislativo, mentre ora aggiungiamo a questa forzatura costituzionale quella ancor più intollerabile della sottrazione del potere dei ministri (singolarmente e collettivamente intesi) a favore del premier e del suo staff.

Questa non è premiership – né nella forma del cancellierato né in quella presidenziale – ma confusione istituzionale. Ha ragione Renzi quando sostiene che la politica deve reimpadronirsi delle responsabilità che le spettano, e che per questo occorre rivedere gli assetti istituzionali. Ma non si può fare così. E neppure con riforme a spizzichi e bocconi. Al contrario, Renzi si faccia promotore della convocazione di una nuova Assemblea costituente, l’unico luogo veramente deputato a una complessiva riscrittura delle regole e rivisitazione degli strumenti istituzionali. È l’unico modo. Anche per salvare la faccia e il consenso degli italiani.

Basta illusioni

Basta illusioni

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Ci risiamo. Ancora una volta chiudiamo un anno colmo di promesse – profuse a piene mani 12 mesi fa e reiterate fino all’inizio dell’autunno, quando è stato chiaro a chi non aveva voluto vedere la realtà che anche il 2014 avrebbe chiuso con il segno meno davanti – con la sola certezza di aver buttato l’ennesima occasione. Ancora una volta, la realtà dei fatti è peggiore di ogni previsione, bruciando cosi, oltre alla ricchezza, gli ultimi residui di fiducia nella ripresa, individuale e collettiva. Ma, come al solito prima di Natale e Capodanno, ci viene raccontato, proprio mentre rotoliamo senza freni nel declino, che l’anno successivo sara finalmente quello della svolta. Già, ma che credibilità può avere una simile asserzione se il gioco del posticipo all’anno successivo dell’uscita dalla recessione fa a pugni con un consuntivo di 17 trimestri, sui 28 trascorsi da inizio 2008, di pil in caduta libera?

E sì, perché sono anni che incede la litania di un imminente e prossimo ritorno agli antichi fasti: “I ristoranti sono pieni”, ha ripetuto alla noia Berlusconi; “l’Italia sta meglio degli altri”, sosteneva saccente Tremonti per tutto il periodo che, dal 2001, ha fatto il ministro dell’Economia; “l’anno prossimo arriverà la crescita”, vaticinava Monti a dicembre 2012. E se Letta vedeva “la luce in fondo al tunnel”, Renzi ha subito twittato su #lasvoltabuona. Ecco, non so se per imperizia o malafede – temo sia la prima delle due cause, il che rende più grave la cosa – ma avevano tutti torto marcio, con l’ulteriore e grave responsabilità di aver mentito agli italiani, millantando inesistenti riprese dietro l’angolo, Così, anche questo Natale sotto l’albero troviamo sia la recessione – i dati più freschi che lo certificano sono quelli di Confindustria, secondo cui chiuderemo il 2014 con un calo del pil dello 0,5 per cento e la disoccupazione (se si considera la cassa integrazione) al 14,2 per cento, con 8,6 milioni di persone a cui manca totalmente o parzialmente il lavoro – sia la garanzia che nel 2015 s’invertirà la tendenza. Le indicazioni sono prudenti – almeno questo – ma ci assicurano che già nel primo trimestre del nuovo anno registreremo un +0,2 per cento, che poi si consoliderà in un +0,5 a fine 2015, per arrivare a fine 2016 a +1,1. E comunque un po’ tutti fanno previsioni positive: Fmi +0,8 per cento, Ocse +0,2 per cento, Ue +0,6 per cento, Moody’s +0,5, Fitch +0,6,

Víene da chiedere: su che si basano? Ma soprattutto viene da dire che se anche fosse, ci sarebbe ben poco da “stare sereni”. Anzi, suonano sarcastiche le previsioni di 12 mesi prima della stessa Confindustria, quando si ipotizzava una crescita dello 0,7 per cento per il 2014 e dell’1,2 per il 2015. Come anche quelle di fine 2012, quando si annunciava la ripresa alla fine di un 2013 chiuso poi con un triste -1,9 per cento. Ma non è solo colpa dei calcoli di Confindustria se ai tanti annunci dei governi di centrodestra, alle slide di quelli di centrosinistra o all’ottimismo di maniera dei tecnici è poi seguito solo il timoroso immobilismo della politica e la perenne caduta della nostra economia. Le previsioni le hanno sovrastimate tutti. Per esempio, se un anno fa la Ue prevedeva per l’Italia +0,7 per cento nel 2014, ora stima -0,3. E se l’Ocse scommetteva su un +0,6 per cento nel 2014 e +1,4 nel 2015, oggi rispettivamente -0,4 e +0,2 per cento. E non è un caso che tra tanti numeri il più positivo (Bankitalia, +1,3 per cento) sia anche il più lontano nel tempo. Ma le cantonate peggiori, ça va sans dire, sono state quelle dei governi. Letta scrisse che quest’anno avremmo guadagnato un punto di pil (e 1,7 nel 2015, bum!), Monti azzardò l’1,3, la coppia (scoppia) Berlusconi-Tremonti addirittura l’1,6, mentre lo stesso Renzi, solo qualche mese fa, ipotizzò lo 0,8.

Purtroppo questa abitudine degli esecutivi di annunciare rose che non fìoriranno, oltre a mistificare la realtà, esclude una vera presa di coscienza della realtà e ogni possibilità di cogliere le occasioni che si presentano, che non mancano ora come non sono mancate in passato. Dopo il flusso positivo della prima metà del 2014 dovuto alla favorevole congiuntura internazionale e a un’apertura di credito al governo Renzi, i capitali stranieri sono ora tornati a scappare dall’Italia (saldo negativo di 30,3 miliardi ad agosto e di 37 a settembre) e non basteranno le rassicurazioni di Padoan rivolte in un seminario a porte chiuse a decine di grandi investitori internazionali.

Adesso, però, contrariamente agli anni scorsi, c’è da sfruttare una congerie di fattori favorevoli. Prima di tutto il dimezzamento del prezzo del petrolio, che secondo Confindustria potrebbe generare un risparmio di 14 miliardi annui e 3 decimi di punto sul pil 2015 e mezzo punto nel 2016, Poi il cambio dell’euro sul dollaro (dall’1,38 di gennaio all’1,22 odierno, -11 per cento) che ha già spinto l’export extra-europeo (+6,2 miliardi nel 2014, una performance che non si vedeva dal 1993). Quindi i tassi d’interesse, mai così bassi e destinati a rimanere tali (salvo impennate dello spread per ragioni politiche). Nel 2014 il combinato disposto di questi tre fattori ha portato vantaggi esigui rispetto alle potenzialità. Ora tocca a noi metterli a frutto. Come? Una cosa è sicura: evitare di avere già il risultato in tasca. Tanti auguri e arrivederci al 2015.

Oro nero

Oro nero

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Petrolio sotto i 60 dollari: c’è una rivoluzione in corso? No, c’è già stata. Nella storia delle politiche petrolifere si è aperto un nuovo e inedito capitolo: ex uno, plures. Se, infatti, semplicemente aumentando o tagliando l’estrazione del greggio, nei decenni passati pochi produttori stabilivano i prezzi, condizionando i mercati e gli assetti geopolitici del pianeta, oggi non c’è più né il monopolio delle fonti, né un unico canale di trasmissione. La vecchia catena lineare di estrazione, raffinazione e distribuzione è finita schiacciata dalla ruota della modernità e il solo e unico custode del rubinetto mondiale dell’oro nero non è più né unico, né solo, né tantomeno in grado di influire in modo diretto e immediato sull’economia del pianeta. Anzi, il mondo dell’energia in generale, e degli idrocarburi in particolare, si è evoluto in una realta policentrica e poliarchica, stratificata e complessa, con reti interconnesse e interressi incrociati. Le catene di distribuzione dell’energia sono ormai più importanti dei produttori stessi, e proprio in ragione delle novità sono chiamati a svolgere un ruolo strategico, di equilibrio del sistema energetico planetario.

Dal 1973 per ognuna delle sette volte che il prezzo del petrolio è calato oltre il 30 per cento in meno di sei mesi come in questa fase, l’industria manifatturiera statunitense è cresciuta significativamente per almeno un anno e gli indici di Borsa sono saliti in media del 18 per cento in America e del 12 per cento in Europa. Questa volta, per, potrebbe essere diverso, come dimostrano le crescenti tensioni sui mercati dovute a Grecia e Cina. Cosa può fare la differenza?

Innanzitutto, c’è stata la rivoluzione delle rinnovabili: i costi di produzione del fotovoltaico sono calati del 96 per cento in 40 anni, e in Italia, per esempio, il costo del kWh eolico si è ridotto del 58 per cento e quello fotovoltaico del ’78 per cento solo tra il 2009 e il 2014. Inoltre, con il recente accordo sul clima tra Usa e Cina (due nazioni responsabili complessivamente del 40 per cento delle emissioni globali) e la Conferenza sul clima di Parigi del 2015, le emissioni di gas serra dovrebbero calare dal 40 al 70 per cento a livello globale entro il 2050. Nonostante ciò, fino al 2030, il 65 per cento della generazione globale si baserà comunque ancora su fonti fossili. Ma, attenzione, tra le fossili c’è la “novità” dello shale gas americano, che sembra poter reggere la concorrenza dei fossili tradizionali anche con un costo del barile intorno ai 50 dollari, smentendo la teoria dell’Opec che ne riteneva antieconomica l’estrazione sotto i 75 dollari al barile: la produzione americana da “scisto” dovrebbe infatti continuare a crescere, arrivando l`anno prossimo a 9,4 milioni di barili al giorno, un record che in America non si vedeva dal 1972. Quindi mind the fracking, perché la tecnica estrattiva che ha rotto il vecchio oligopolio dei produttori e ha scatenato una guerra ribassista, ha profondamente alterato gli equilibri energetici internazionali.

Con il crollo delle quotazioni, per esempio, piange la Russia, che realizza oltre metà del suo bilancio pubblico dall’esportazione di energia e che ha inoltre, alti costi estrattivi e di trasporto sia economici che politici, come dimostrano la crisi in Ucraina e l’alleanza con la Turchia, acerrimo nemico di Mosca sulla vicenda siriana. Ridono invece i paesi importatori (Corea del sud e Giappone in primis) e con i loro crescenti consumi sorridono gli emergenti (India, Brasile e Cina). L’Arabia Saudita, con le sue immense riserve, ha deciso di non tagliare la produzione, sia per non perdere quote di mercato sia per mettere in difficoltà l’odiato e vicino Iran. E, intanto, gli Stati Uniti cercano di capire quanti danni possa provocare il deprezzamento in corso: con il petrolio sotto i 60 dollari, gli investimenti in shale potrebbero dimezzarsi e la produzione smettere di crescere. In ogni caso, l’unico importatore che subisce contraccolpi è l’Eurozona, che con il deprezzamento degli idrocarburi rischia di alimentare la deflazione. Oltre alle ripercussioni finanziarie, l’Europa paga per la propria incapacità strategica, sia dei singoli paesi sia come continente. Ogni stato membro si è nel tempo singolarmente affidato a fornitori inaffidabili e ballerini (l’Italia, per esempio, a Libia e Algeria), senza così riuscire a programmare nessun investimento a lungo termine. E quando è stato fatto, come nel caso del South Stream, sono sorti problemi.

Sono sempre stato sostenitore di una “unione energetica europea” – ottenibile unendo le rinnovabili italiane, il nucleare francese, l’idroelettrico austriaco, il carbone tedesco – per creare un sistema integrato ed equilibrato dalla grande forza politica e negoziale nella geopolitica mondiale. Oggi, però, nell’inedito scenario che ho cercato di descrivere, le nuove alleanze che possono rivoluzionare i rapporti di forza sono quelle tra i distributori, tra chi gestisce a livello sistemico il mercato. Ora che nessun produttore è più dominus assoluto, infatti, i grandi operatori possono cavalcare la rivoluzione dello shale gas, delle rinnovabili, dell’efficienza energetica, dell’auto elettrica. Uno modo per evitare la restaurazione del potere dei produttori e così smettere di essere, Italia e Ue, totalmente dipendenti da paesi da cui è bene guardarsi le spalle.

Più Stato più mercato

Più Stato più mercato

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Più stato meno mercato (D’Alema). No alla disintermediazione delle rappresentanze, alla delegittimazione degli enti e dei soggetti intermedi, alla rottamazione delle varie forme di concertazione (De Rita)! Dopo un periodo in cui il dibattito politico si è limitato a osservare la prevalenza delle “emergenze”, ora, pur senza essere ancora usciti dalle tenebre della crisi, si torna finalmente a ragionare con un minimo di logica prospettica. La discussione, purtroppo, è inquinata dalla lotta in atto tra Renzi e il resto d’Italia (inteso come somma di tutti i vecchi poteri), ma ciò non toglie che sia il caso – depurandola – di prenderla sul serio. Anzi, il primo che dovrebbe farlo è proprio il presidente del Consiglio, specie se vuole portare fino in fondo il lavoro che ha intrapreso – sempre al netto delle guerre interne – di riconversione culturale (stavo per scrivere ideologica) del Pd.

Credo che non si possano affrontare le questioni sollevate dall’intervista di D’Alema e dall’intervento di De Rita (entrambi sul Corriere della Sera) se non si parte dai molti fallimenti di cui stiamo pagando, tutti insieme, il prezzo. Il primo è quello, generale, dell’Italia, intesa come economia assistita dalla spesa pubblica (improduttiva), come società (fallimento delle élite e più in generale della borghesia) e come sistema politico-istituzionale (la Seconda Repubblica). Il secondo, più specifico, è il default del federalismo, cioè del mantra più ripetuto negli ultimi due decenni, e cioè che la soluzione dei nostri problemi sarebbe consistita nello svuotare lo Stato centrale decentrandone i poteri in una iper ramificata struttura di amministrazioni locali. Il terzo è un fallimento planetario – ma che in Italia ha trovato la sua massima espressione, per via delle nostre contraddizioni – ed è quello del turbo-liberismo, cioè la (sana) cultura liberale del mercato ridotta a ideologia (sì allo stato minimo, no alla politica industriale) e messa al servizio della delegittimazione della politica e delle istituzioni. Siamo riusciti nell’impossibile impresa di predicare il liberismo più sfrenato e di praticare il collettivismo più becero. Abbiamo costruito i mostri del socialismo asociale, dello statalismo antistatale e del satanismo fiscale. Ma lo abbiamo fatto – e la sinistra più di altri, dovendosi purificare per essere stata comunista fino alla caduta del Muro – negando la necessità di investimenti pubblici e la legittimità di scelte di politica industriale.

Allora, è solo partendo da questo tragico consuntivo che si puo valutare la “ropture” di Renzi. E appare assolutamente indispensabile. Forse potrà non essere sufficiente, e certamente lui finora non ha mostrato la necessaria capacità di tradurla gestionalmente e calarla nell’amministrazione, né la sua azione politica (molto politicista) è innestata su un solido impianto teorico e programmatico. È probabile, insomma, che Renzi incarni solo la fase destruens, e che quella costruens sia di là da venire. Ma tutto questo non toglie nulla al fatto che “rompere con il passato” sia un’esigenza assoluta e improrogabile. Nello stesso tempo, è evidente che se fin d’ora si riesce a dare un po’ di ordine concettuale al pensiero ricostruttivo, tanto di guadagnato.

Da parte mia, offro alla riflessione quella che io chiamo la ricetta “liberal-keynesiana”, chiarendo agli scettici che le due definizioni non sono in contraddizione. Perché, da un lato, la componente “liberal” significa avere l’obiettivo di sconfiggere quella modalità burocratica che rende il mercato e l’economia italiana assolutamente arretrati, tagliando i viveri all’assistenzialismo, che genera incapacità a competere e costi economici e sociali alti, per restituire ossigeno a quella parte, purtroppo minoritaria, dell’economia, che ha fatto numeri straordinari nelle esportazioni. Ma, dall’altro lato, è pacifico quanto siano necessari tanto gli investimenti pubblici – che nessun “pensiero unico” cancella, considerato che non si è mai vista una ripresa per decreto o solo grazie ai consumi – quanto la valenza strategica della politica industriale, visto che abbiamo l’assoluta necessità di ricostruire un capitalismo italiano frantumato.

Più Stato e più mercato è dunque la ricetta giusta – che poi sia la “terza via” di vecchia memoria o di nuovo conio, poco importa – all’interno di un progetto che torna a rivalutare lo stato centrale, anche in funzione di una progressiva cessione di sovranità in sede europea che speriamo si metta in moto al più presto (Draghi docet), e asciuga il decentramento improduttivo. Si tratta poi di definire, dentro questo schema, quale ruolo si debba assegnare alle rappresentanze degli interessi e che modalità sia più utile per mediarli in chiave di interesse generale. Qui la fase destruens renziana prevede necessariamente un forte tasso di disintermediazione. Ma non c’è dubbio che il ponte diretto gente-leader produce solo alti livelli di populismo e amplifica le pulsioni di uomini e soluzioni forti, da sempre presenti nella società italiana e da cui occorre rifuggire. Quindi occorre lavorare alla ridefinizione della politica e delle rappresentanze. Domani leggetevi il rapporto Censis e troverete qualche prima risposta.

L’acqua e le balle

L’acqua e le balle

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Ha ragione Renzi: i danni provocati dal maltempo sono da mettere in conto alle regioni. Dico di più: sono il triste epitaffio sul miraggio federalista che per oltre vent’anni ha illuso (quasi) tutta l’Italia. Il “dissesto idrogeologico” non è l’espressione della lotta tra la “natura buona” e “l’uomo cattivo” (Elefantino docet), quanto la condizione prodotta dai mancati interventi di ordinaria prevenzione del territorio (a cominciare dall’assicurazione anticatastrofale) da parte di tutti, ma che più di tutti e imputabile alle regioni. Il malinteso “decentramento”, tra l’altro inadatto all’Italia, che pretendeva di avvicinare il potere ai cittadini e snellire le decisioni, nella realtà ha aumentato gli sprechi, coltivato la già enorme diffidenza degli italiani verso le istituzioni, e, soprattutto, moltiplicato i diritti di veto che ci paralizzano.

Dietro lo psicodramma delle “bombe d’acqua” c’è, infatti, l’ennesima evidenza nella lunga storia dei fallimenti del localismo da campanile che abbiamo chiamato pomposamente federalismo. Come dice Renzi, le regioni non hanno concorso a stilare piani strategici unitari, hanno guerreggiato tra di loro e verso lo Stato centrale su competenze e poteri, hanno speso meno di un quarto dei soldi a disposizione dal 2009, avviando solo il 22 per cento delle opere programmate per la messa in sicurezza del territorio. Certo, non tutto le regioni sono uguali, ma nel complesso il risultato è disastroso. A monte c’è, ovviamente, la responsabilità di una politica nazionale debole, che ha cercato nel decentramento regionale una stampella. Per esempio, sempre per rimanere nel campo della tutela del territorio, fu una follia, anche solo semantica, la divisione delle competenze operata dal Titolo V nel 2001 tra la “tutela dell’ambiente“, affidata in via esclusiva allo Stato, e il suo “governo”, in concorrenza tra stato e regioni. E cosi, poiché ogni regione ha potuto dire la propria, le 120 “grandi opere” necessarie nel 2001 sono diventate oggi 403, con un aumento del 210 per cento dei costi e il nefasto effetto per cui, di fronte a troppe priorità, non c’è nessuna priorità. Inoltre, si potrebbe fare un lungo elenco di infrastrutture di interesse nazionale bloccate per decenni dai veti degli enti locali (di questi giorni l’assurdo diniego trentino contro la Valdastico Nord).

Il Titolo V ha creato terreno fertile per le gelosie e le incompetenze della politica da campanile. Già negli anni passati, i governi hanno nominato alcuni commissari, ai quali pero le regioni hanno ostacolato il lavoro. Adesso, con l’istituzione dell’Unità di Missione contro il dissesto idrogeologico e l’unifìcazione della figura del commissario con quella del governatore, stiamo assistendo a qualche passo avanti, ma eliminare solo un ramo di una pianta che è malata fin dalle sue radici non rappresenta certo la soluzione definitiva. Non è populismo anticasta sottolineare che per la “protezione della natura e dei beni ambientali” le regioni spendono quanto per le indennità di consiglieri e assessori (1,1 miliardi l’anno). Con un andamento tendenziale amaramente inverso: in 4 anni le spese per giunte e consigli sono cresciute del 26 per cento, quelle per l’ambiente diminuite quasi del 39 per cento. Le tasse regionali, poi, dal 2001 a oggi, sono passate da 47 a 81 miliardi, andando a coprire la crescita del 40 per cento della “spesa corrente”, mentre gli investimenti diminuivano dell’1l,3 per cento. Inoltre, le spese in conto capitale dei Comuni sono scese dai 44,1 miliardi del 2009 ai 27,7 del 2013 (-37,1 per cento). Per di più, le Regioni non sono in grado di garantire i cofinanziamenti necessari a liberare i miliardi dei fondi strutturali eiuopei.

Ma se oggi è il combinato disposto tra la mancata tutela dell’ambiente e il blocco delle opere, grandi e piccole, a inchiodare le Regioni a un clamoroso fallimento, tra i capi d’imputazione non è certo da meno la sanità. Perché “nonostante l’efficienza non sia aumentata. con il trasferimento delle competenze alle regioni la spesa sanitaria è esplosa” (Lorenzin dixit). Di quasi il 33 per cento per l’esattezza, pari a 56 miliardi in più in 10 anni. Se le Regioni sono in decadenza, come conferma anche la decrescente affluenza elettorale alle elezioni locali (che sarà confermata domenica in Emilia Romagna e Calabria) e le Province sono assolutamente prive di legittimità, anche i Comuni non se la passano bene, visto che degli 8.100 esistenti ben 479 hanno dichiarato il dissesto finanziario.

La lista delle responsabilità del federalismo è lunga. ll Patto del Nazareno, su cui si regge questo governo, aveva tra le sue priorità anche la Riforma del Titolo V. Oggi sarebbe sufficiente solo a rimetterci una pezza, mentre qui serve “cambiare verso”, per dirla renzianamente. Ci vuole una rivoluzione: abolire le Regioni autonome e tutte le Province; accorpare i Comuni sotto i 15 mila abitanti; cancellare i soggetti secondari, dalle comunità montane agli enti di bacino. E le Regioni? Come minimo devono ridursi a sette e perdere le competenze sanitarie. Ma non mi straccerei le vesti se si decidesse che debbano essere proprio le Regioni a dover sparire del tutto. Speriamo solo che bombe d’acqua non abbiano colpito le buone intenzioni.

È la pioggia che va

È la pioggia che va

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Scorrono cicliche le stagioni e come ogni autunno ci ritroviamo a piangere sul latte versato della pioggia che cade, dei fiumi che esondano, delle città che si allagano. Nonostante la moderna ossessione del “rischio zero” abbia creato neologismi terrorizzanti e prodotto allarmismi preventivi dal sapore paternalista – come ha testimoniato con efficacia Piero Vietti su queste colonne – perdura comunque immutata la totale assenza di concrete azioni a tutela del nostro territorio. Il che significa assoluta mancanza di investimenti che, oltre a mettere in sicurezza il territorio, alimenterebbero crescita e occupazione.

Nella lotta al dissesto idrogeologico il governo ha annunciato di aver già sbloccato dai patti di stabilità degli enti locali 2,3 miliardi, a cui si aggiungono i 5 che il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha promesso di stanziare entro il 2020. Bene, ma rischiano di non essere sufficienti. Per tre ordini di ragioni. Primo, perché è necessario superare la logica spot-emergenziale e gli interventi a macchia di leopardo. Secondo, anche quando i soldi ci sono, non è detto che siano usati, come testimonia il caso del Bisagno a Genova, per il quale i lavori di risistemazione della parte interrata sono stati bloccati, more solito, dai ricorsi giudiziari delle aziende che perdono i bandi di gara. O come dimostrano i 50 milioni di euro fermi nelle casse del Comune di Olbia nonostante i 18 morti del 2013 siano ancora freschi. Terzo, la spesa pubblica italiana è subordinata agli stretti margini di bilancio dei vincoli europei, con il rischio che, di fronte alla mancata inversione (probabile) del ciclo economico, i primi tagli saranno proprio alla voce investimenti in conto capitale, come del resto avviene da anni.

Gli effetti del surriscaldamento globale – con le piogge intense aumentate del 900 per cento in due decenni e la temperatura media della Terra cresciuta di 0,84 gradi in 100 anni – sono un fenomeno risolvibile solo nel lungo periodo e con una strategia globale. Soprattutto, mentre le calamità naturali ci sono sempre state nella storia dell’umanità, lo sfruttamento del suolo senza la minima considerazione dell’equilibrio dell’ecosistema negli ultimi decenni ha reso il territorio italiano assai fragile, così che a ogni acquazzone torniamo a parlare di tragedie.

Di fronte a queste condizioni naturali e artificiali e con il 68 per cento delle frane europee che si verifica nel Belpaese, il governo dovrebbe utilizzare le poche settimane che restano del semestre di presidenza europea per fare almeno qualcosa di utile: lanciare una proposta per escludere dai parametri Ue un piano di investimenti continentale che, oltre a salvare vite umane, patrimonio ambientale, centri abitati e zone industriali, stimoli la ripresa della stagnante economia europea. Insomma, un piano federale, in cui coinvolgere i privati con il project financing, che testimonierebbe l’unitarietà dell’Europa, per la prima volta dopo la nascita dell’euro e al di là delle imposizioni del rigore finanziario.

Certo, l’Italia non può certo permettersi di aspettare né il Godot dell’integrazione europea, né anche solo un piano comunitario per la tutela del territorio, visto che nel nostro paese quasi 9 Comuni su 10 sono classificati ad alto rischio e negli ultimi dieci anni lo Stato ha sostenuto spese per 33 miliardi di euro per mettere riparo – spesso malamente – alle conseguenze di eventi naturali. Una somma enorme che, se fosse stata spesa prima, avrebbe evitato danni e vittime. Adesso, però, invece di attendere inermi, perché non dotarsi, come tutti i paesi civili, di un’assicurazione obbligatoria sui rischi catastrofali per le case, che costerebbe ai proprietari in media 1 euro al metro quadro ma che permetterebbe ai contribuenti un risparmio di 3,3 miliardi l’anno?

Al riguardo ha spiegato bene la Consap – società controllata dal ministero dell’Economia che svolge servizi assicurativi pubblici volti alla copertura dei “rischi della collettività” – che tali polizze esistono in Francia, Stati Uniti, Giappone, Messico o Turchia e che, attraverso l’istituzione di un Fondo di garanzia (come quello in ambito Rc Auto) si risparmierebbe a regime almeno 1 miliardo l’anno. Il nostro è uno dei pochi paesi dove a coprire tutti i danni, sia pubblici che privati, e solo lo Stato, mentre altrove esiste spesso un sistema pubblico-privato, con un’assicurazione obbligatoria o semi-obbligatoria contro le calamità. Se le compagnie non dovessero accettare per gli alti rischi, lo Stato potrà dotarsi (come in Francia e Spagna) di una società di riassicurazione pubblica che offre alle compagnie la possibilità di tutelarsi a un tasso fisso, oppure affidarsi alle società di “re-insurance” specializzate in questo tipo di polizze. Tra poco finirà il semestre europeo: tra una “bomba d’acqua” e l’altra, invece di piangere sul latte versato, diamo un segno di vita in Europa, dopo aver fatto i compiti a casa, please.