Enrico Letta

Debito Pubblico: con Renzi è cresciuto a velocità doppia rispetto a Letta

Debito Pubblico: con Renzi è cresciuto a velocità doppia rispetto a Letta

Da quando Matteo Renzi è presidente del Consiglio il debito pubblico italiano è cresciuto a velocità doppia rispetto al periodo in cui l’inquilino di Palazzo Chigi era Enrico Letta. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Bankitalia.
Durante i primi 15 mesi di attività dell’attuale governo, infatti, il debito pubblico ha registrato un incremento in valore assoluto di 98,76 miliardi di euro – passando dai 2.119 miliardi di euro del marzo 2014 ai 2.218 miliardi di euro del maggio 2015 – con un aumento medio mensile di 6,58 miliardi di euro.
Durante i 10 mesi di attività del governo Letta, il debito pubblico ha invece registrato un incremento in valore assoluto di 31,38 miliardi di euro – passando dai 2.075 miliardi di euro del maggio 2013 ai 2.106 miliardi di euro del febbraio 2014 – con un aumento medio mensile di 3,14 miliardi di euro. Un ritmo di crescita più che dimezzato rispetto a quello fin qui registrato durante il governo di Renzi.

 

LEtta Renzi

Sul lavoro Renzi arranca

Sul lavoro Renzi arranca

Metro

«Il governo Renzi non fa bene al lavoro, ottenendo nei suoi primi nove mesi di attività risultati decisamente peggiori di quelli conseguiti nel medesimo periodo di tempo dai governi Berlusconi IV e Letta». Lo sostiene una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” (www.impresalavoro.org) realizzata elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione. Dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3 milioni 254mila a 3 milioni 457mila. «Un risultato nettamente peggiore – sottolinea la ricerca – rispetto a quello dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008 – gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di “sole” 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013 – gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165mila senza lavoro». Peggio dell’ex sindaco di Firenze – evidenzia il centro studi “ImpresaLavoro” – ha fatto solo il “Governo dei Professori”: nei primi nove mesi di Monti-Fornero (ottobre 2011 – luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità (da 2 milioni 183mila a 2 milioni 788mila). Il risultato peggiore di Renzi è nel numero di donne senza occupazione, aumentate di 145mila unità.

Disoccupazione: nei primi 9 mesi Renzi riesce a far peggio di Berlusconi e Letta

Disoccupazione: nei primi 9 mesi Renzi riesce a far peggio di Berlusconi e Letta

NOTA

Il governo Renzi non fa bene al lavoro, ottenendo nei suoi primi nove mesi di attività risultati decisamente peggiori di quelli conseguiti nel medesimo periodo di tempo dai governi Berlusconi e Letta. Lo dimostra una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” realizzata elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione.
Dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3 milioni 254mila a 3 milioni 457mila. Un risultato nettamente peggiore rispetto a quello dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008 – gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di “sole” 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013 – gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165mila senza lavoro. Peggio dell’ex sindaco di Firenze ha fatto solo il “Governo dei Professori”: nei primi nove mesi di Monti-Fornero (ottobre 2011 – luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità e passando da 2 milioni 183mila a 2 milioni 788mila. In tema di disoccupazione generale, quindi, chi ha fatto meglio nei suoi primi nove mesi è abbastanza nettamente il Governo Berlusconi, seguito dall’esecutivo guidato da Enrico Letta.

tabella 1

Anche in tema di disoccupazione giovanile, Berlusconi riesce a far meglio di tutti gli altri governi: nei primi nove mesi del Berlusconi IV, il numero di giovani senza lavoro passa da 392mila a 422mila soggetti, con un incremento di 30mila unità. Peggio di lui fanno sia Letta (+42mila giovani disoccupati) che Monti (+109mila). Nei primi nove mesi di Renzi a Palazzo Chigi, i giovani senza occupazione salgono, invece, di 54mila unità facendo segnare una performance migliore soltanto di quella, disastrosa, del Governo Monti.

tabella 2

L’altro elemento storicamente debole nel nostro mercato del lavoro è quello relativo al numero di donne senza occupazione. Nei suoi primi nove mesi il Governo Berlusconi riesce addirittura a ridurre la disoccupazione “rosa” di 31mila unità. Risultato mai più ottenuto dai governi che si sono succeduti: con Monti le donne senza lavoro sono cresciute di 312mila unità, con Letta l’emorragia si è temporaneamente fermata (+29mila) per poi risalire con i primi nove mesi del Governo Renzi che proprio tra le donne fa segnare uno dei suoi dati peggiori (+145mila disoccupate).

tabella 3

Dati in migliaia di persone. Elaborazione ImpresaLavoro su serie storiche ISTAT su disoccupazione
PERIODI CONSIDERATI:
* per governo Berlusconi: Aprile 2008 e Gennaio 2009
**per governo Monti: Ottobre 2011 e Luglio 2012
***per governo Letta: Aprile 2013 e Gennaio 2014
****per governo Renzi: Febbraio 2014 e Novembre 2014
 
Rassegna Stampa
Metro
Il Tempo
Disoccupazione, Matteo peggio del Cav e Letta

Disoccupazione, Matteo peggio del Cav e Letta

Laura Della Pasqua – Il Tempo

I risultati sul fronte occupazione della politica del governo Renzi sono finora deludenti. È quanto emerge da una ricerca del centro studi «ImpresaLavoro» che ha messo a confronto i dati sul mercato del lavoro dei primi nove mesi di attività del premier con quelli nel medesimo periodo di tempo dei govemi Berlusconi e Letta.

Il rapporto realizzato elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione, rivela che dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3,254 milioni a 3,457 milioni. Una situazione che risulta nettamente peggiore rispetto a quella dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008- gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di «sole» 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013-gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165 milasenza lavoro. Peggio del premier Renzi ha fatto solo il «governo dei Professori». Nei primi nove mesi di Monti- Fornero (ottobre 2011-luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità e passando da 2,183 milioni a 2,788 milioni. La situzione occupazionale risultava nettamente migliore durante il govemo Berlusconi, seguito dall’esecutivo guidato da Enrico Letta. Nei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi la disoccupazione è passata da 1,750 milioni a 1,769 milioni di unità. Durante il governo Letta si è passati da 3,075 milioni di disoccupati a 3,240.

Anche la situazione del mercato del lavoro dei giovani era più favorevole durante il governo Berlusconi: nei primi nove mesi del Cav IV, il numero di giovani senza lavoro passa da 392mila a 422mila soggetti, con un incremento di 30mila unità. Peggio di lui fanno sia Letta (+42mila giovani disoccupati) che Monti (+109mila). Nei primi nove mesi di Renzi a Palazzo Chigi, i giovani senza occupazione salgono, invece, di 54mila unità facendo segnare una performance migliore soltanto di quella, disastrosa, del govemo Monti.

Se poi si esamina la situazione occupazionale femminile, Berlusconi, sempre nell’arco di tempo considerato, è riuscito addirittura a ridurre il numero delle donne senza impiego di 3lmila unità. Risultato mai più ottenuto dai governi che si sono succeduti: con Monti le donne disoccupate sono cresciute di 312mila unità, con Letta l’emorragia si è temporaneamente fermata (+29mila) per poi risalire con i primi nove mesi del Governo Renzi che proprio tra le donne ha uno dei suoi dati peggiori (+145mila disoccupate).

Ieri il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, commentando i dati disastrosi dell’Istat del terzo trimestre del 2014, ha ribadito che non c’è da allarmarsi. «In quel periodo c’è stato un blocco della caduta del nostro Pil, quindi è lecito aspettarsi che la disoccupazione possa cominciare a migliorare dal secondo trimestre 2015». Il punto fondamentale, secondo Taddei, è che quando «quella ripresa avviene trovi un terreno fertile che fino a oggi ha faticato a trovare». E questo dovrebbe essere il Jobs Act.

Renzi tassa più di Letta

Renzi tassa più di Letta

Franco Bechis – Libero

Al momento la differenza è di 10 miliardi di euro, cifra che è sicuramente destinata a cambiare quando finalmente sarà rivelata la relazione tecnica alla legge di stabilità 2015. Ma fino a quel documento – che non incide sui conti del 2014 – la differenza fra il governo di Matteo Renzi e quello di Enrico Letta è esattamente quella: 10 miliardi. E non è poco, perché si tratta di tasse. Con i suoi provvedimenti fino ad oggi il governo Renzi ha segnato nelle relazioni tecniche che li accompagnavano 13 miliardi e 414 milioni di euro di nuove entrate fiscali. Durante tutto il governo di Enrico Letta, con la sola esclusione delle clausole di salvaguardia future (che vengono contabilizzate solo quando scattano), le nuove entrate nette furono di 3 miliardi e 436,5 milioni di euro (anche in questo caso la fonte è nelle relazioni tecniche dei provvedimenti che accompagnavano disegni di legge e decreti).

Sarete sorpresi dal Renzi tassatore. Il premier in carica sostiene infatti di avere fatto la più grande operazione di alleggerimento della pressione fiscale nella storia di Italia. E si riferisce al suo bonus 80 euro e alla riduzione Irap per le imprese. Gli 80 euro sono effettivamente arrivati in busta paga. Ma tecnicamente quelli erogati nel 2014 non hanno toccato nemmeno di un decimale di punto la pressione fiscale prevista. Era un bonus, una sorta di elargizione da parte dell’esecutivo in carica proprio alla vigilia delle elezioni europee (che infatti hanno premiato Renzi e il suo Pd più o meno come al- l’epoca la scarpa donata ai napoletani prima del voto aveva premiato Achille Lauro e la dc dell’epoca). È stato contabilizzato in aumento della spesa pubblica fra i trasferimenti alle famiglie, e così è stato inserito anche nei provvedimenti di finanza pubblica del governo. Non è andato quindi a diminuire la pressione fiscale complessiva, come invece ha fatto (per cifre molto inferiori) lo sconto Irap alle imprese che ora verrà completamente riassorbito nei 5 miliardi del 2015 previsti dalla nuova legge di stabilità.

Il cosiddetto decreto sugli 80 euro (che comprendeva anche l’Irap) aveva invece in relazione tecnica 10,8 miliardi di maggiori entrate tributarie, altri 4,7 miliardi di maggiori entrate extratributarie e 7,2 miliardi di minori entrate tributarie. La variazione netta che si è portata dietro era di 8,3 miliardi di maggiori tasse. Tre di queste erano state conteggiate per l’aumento di sei punti dell’aliquota di tassazione sulle rendite finanziarie, che è passata dal primo luglio scorso dal 20 al 26 per cento. Al governo Renzi spetta la firma anche sul decreto che fa entrate in vigore la Tasi: è stato il suo primo provvedimento, e poco importa che sia conseguente alle previsioni della legge di stabilità precedente. In quel decreto veniva di fatto riassorbita l’Imu sulla prima casa che il governo Letta aveva cancellato nel 2013: si tratta di 3,7 miliardi di tasse in più sulle famiglie. Ma la cifra è indirettamente aumentata, perché il governo precedente aveva approvato un fondo da 500 milioni per il 2014 da girare ai Comuni finalizzato per legge alla concessione delle detrazioni prima casa e figli per le famiglie con redditi più bassi (per loro la Tasi rappresenta una stangata imprevìsta, perchè di fatto con le detrazioni prima l’Imu non la pagavano).

Come suo primo atto Renzi ha incrementato di 125 milioni di euro quel fondo per i Comuni, ma ha abrogato la finalizzazione.Via le detrazioni, è come fosse aumentata la pressione fiscale sulla prima casa per 625 milioni di euro. Nei mesi scorsi con altri due provvedimenti Renzi ha aumentato la tassazione dei tabacchi di 163 milioni di euro l’anno e – per finanziare l’Ace – le accise sulla benzina di 435,4 milioni di euro in più anni futuri (ma già decisi con legge). Altre piccole tasse messe vanno da quelle inserite nel decreto sulla cultura, al nuovo contributo unificato previsto per i pignoramenti, alle maggiori entrate contributive obbligatorie previste dal primo decreto sul jobs act.

Anche Letta non ha scherzato con le nuove tasse, ma è riuscito ben più del suo successore a equilibrarle con la cancellazione di altri tributi. Ha tolto l’Imu e inserito le detrazioni sulla Tasi (poi cancellate da Renzi). Nella sua legge di stabilità ha messo nuove entrate da 8,5 miliardi di euro (in parte sulle banche), e previsto cali di tasse per quasi 3 miliardi di euro al netto delle clausole di salvaguardia. In tutto 5,6 miliardi in più. Ma ha tolto tasse sulla prima casa e anche su alcuni immobili produttivi per quasi 4,5 miliardi di euro. Ha aumentato la tassazione sui giochi e concesso sgravi contributivi più o meno per la stessa cifra. Ha costretto le imprese ad anticipi di imposta anche consistenti per 655 milioni di euro. Si è trovato di fronte a una clausola di salvaguardia messa da Mario Monti sull’Iva. È riuscito a rimandarla di tre mesi con uno sgravio di 1,05 miliardi di euro. Non è riuscito a farlo per gli ultimi tre mesi dall’anno, con un aggravio identico. Sul 2013 il risultato netto è stato nullo.

LA SCHEDA

Sgravi e aggravi
A fronte di sgravi Irap concessi alle imprese pari a 4,1 miliardi di euro la legge di Stabilità ha cancellato di fatto tutti i benefici sulla medesima Imposta introdotti dal governo Letta: 1,9 miliardi.

Clausola capestro
Qualora in corso d’anno (2015) le previsioni contenute nella finanziaria non fossero rispettate scatterebbe la clausola di salvaguardia che farebbe scattare nuove tasse, sotto forma di Iva e accise. Ben 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017 e addirittura 28 l’anno successivo.

Tagli lineari
Sia sui ministeri sia sulle amministrazioni centrali viene operato un taglio che complessivamente vale 6,1 miliardi. Il meccanismo è quello del taglio lineare applicato dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e tanto criticato.

Regioni spremute
Altri 4 miliardi di risparmi dovrebbero arrivare da «efficientamenti» della spesa nelle Regioni. In questo caso, addirittura, l’esecutivo non fissa neppure le linee guida degli interventi. La scelta spetterebbe ai governatori. Palazzo Chigi non ha tenuto conto nemmeno del lavoro svolto al riguardo dall’ex commissario alla spending review Cottarelli.

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Dopo tanti annunci e tante promesse la montagna della legge di Stabilità ha partorito meno di un topolino. Il governo Renzi è tornato indietro perfino rispetto a quanto prodotto dall’esecutivo Letta in materia di credito di imposta per la ricerca. Così da un biennio l’Italia, in piena crisi da mancanza di investimenti privati e da competitività dell’offerta, non ha una bonus che incentiva gli investimenti in ricerca ed in innovazione.

L’ultimo intervento in materia è stato quello del governo Berlusconi che aveva introdotto una vera discontinuità per l’Italia: un credito di imposta pari al 90% degli investimenti fatti nel biennio 2011-2012 con università o enti di ricerca, recuperabile per quote paritetiche in tre anni. I 155 milioni di euro a suo tempo stanziati in bilancio non sono stati neppure tutti utilizzati dal mondo produttivo, a riprova che i timori della Ragioneria spesso cozzano con la realtà della recessione. Prima il bonus fiscale, sempre deciso dal governo Berlusconi, era stato commisurato al valore complessivo degli investimenti fatti dalle imprese: il 10%.

A fine 2013 Enrico Letta vara un credito di imposta pari al 50% delle spese incrementali in ricerca a partire dall’esercizio 2014. La burocrazia ha lasciato la norma inattuata e così le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana e hanno fatto nel corso del 2014 investimenti in ricerca confidando nel credito di imposta si ritrovano oggi con un deficit di cash flow da dover finanziare. In pieno credit crunch non è un gap facile da chiudere attingendo al credito bancario.

Ora la legge di Stabilità cambia nuovamente le carte in tavola: credito di imposta dimezzato al 25%, sempre solo per gli investimenti incrementali e con effetti che si produrranno, ragionevolmente, solo a partire dalla seconda parte del 2016 quando i bilanci saranno stati depositati. Sarebbe stato molto più serio, onde evitare di impattare nuovamente sulle aspettative delle imprese, lasciare la norma Letta invariata e non eliminare il 2014, esercizio ormai chiuso e quindi con effetti risibili sui conti pubblici, dall’applicazione della norma. In questo modo si potevano premiare in pochi mesi le imprese che, nel corso del 2014, hanno avuto il coraggio di investire mentre il pil crollava e la deflazione prendeva il largo, cioè già il prossimo maggio.

In Francia per il triennio 2013-2015 il Cir, il credito di imposta per la ricerca francese, varato nel 1983, è stato dotato di un fondo annuo di 5 miliardi di euro perché raddoppiato dal presidente François Hollande. La legge di Stabilità di Renzi è stata coraggiosa sull’Irap e sugli 80 euro ma troppo timida sulla ricerca.

Mai prima d’ora

Mai prima d’ora

Davide Giacalone – Libero

Va di moda il “non si era mai fatto prima”. Si è passati dal cronoprogramma sincopato alla più lunga maratona dei mille giorni, passo dopo passo. Il che potrebbe essere salutato come un approdo al realismo, se non fosse che ad ogni passo ci viene chiesto di credere che “non si era mai fatto prima”. E neanche mi preoccupa la pretesa, in sé infantile, ma che molti, specialmente fra i politici teleparlanti, mostrino di crederci. O addirittura ci credano. Perché questa non è semplice mancanza di memoria, ma ignoranza allo stato brado.

Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, ebbe a dire che i suoi governi avevano realizzato più cose di tutti quelli precedenti, dalla nascita della Repubblica a quel momento. Boom! La sparata era talmente tonante che non sarebbe neanche stato necessario metterla in dubbio, eppure non passava giorno, anzi non passava ora senza che si sostenesse e facesse valere, su ogni mezzo di comunicazione, una corbelleria eguale e contraria: non ha fatto nulla e nulla sta facendo. Salvo gli affari suoi, naturalmente, perché questo voleva e vuole la vulgata luogocomunista. Insomma: Berlusconi non era certo immune dal dirle tonde, ma cadevano su un terreno vaccinato, se non prevenuto. Ora mi preoccupa una certa predisposizione al contagio della balloneria.

Mai prima d’ora si erano fatti sgravi fiscali. No, se ne sono fatti diversi. Se proprio serve indicarne uno: la cancellazione dell’Ici sulla prima casa, poi replicata con l’Imu, sotto il governo Letta. Ed era appena ieri. Solo che gli sgravi si sono fatti, ma la pressione fiscale continuava a crescere, come ora. Mai prima d’ora s’era messo mano alla Costituzione. No, lo si è fatto un sacco di volte. Purtroppo. Ma mai prima d’ora s’erano diminuiti i parlamentari. Certo che lo si è fatto, solo che il partito il cui segretario oggi crede d’essere il primo, il Pd, allora volle un referendum per cancellare la diminuzione. Lo stesso referendum che servì a far cadere la riforma della pessima riforma del Titolo quinto della Costituzione, che ora è condannata da chi la votò, mentre è reclamata la riforma da chi la affossò. Già, ma mai prima d’ora ci si era dedicati al bicameralismo paritario. Eccome, tanto che nella Costituzione del 1948 non c’era. Solo che a difenderlo era quella sinistra che ora crede d’essere la prima a detestarlo. Mai prima d’ora s’erano messi dei soldi nelle tasche degli italiani. Certo che lo si fece, ad esempio con la social card (osservo che la criticai per la stessa ragione per cui ho criticato gli 80 euro, il che dimostra che non solo non è la prima volta, ma facciamo le stesse cose da troppo tempo). Mai prima d’ora s’è pensato di rivoluzionare la scuola e la giustizia. Ci hanno pensato tutti, fin troppo spesso, solitamente con idee più chiare di quelle fin qui presentateci dai primatisti. Mai prima d’ora s’era messo in discussione l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ne parliamo da quaranta d’anni ed è stato riformato due anni addietro, mentre la delega alla riforma è vuota.

Potrei continuare, ma temo di arrivare ad essere contagiato anch’io, concludendo che: mai prima d’ora si sono detti tanti sfondoni. Me lo risparmio, perché sarebbe una bella gara. Faccio solo osservare che le non raffinate menti di quelli che guardano alla sostanza, nonché i grossolani figuri della Commissione europea tendono ad attenersi alle regola di Totò: è la somma che fa il totale. E se fra di addendi ci si mette i proventi della lotta all’evasione fiscale, pretendendo che sia la prima volta nella storia, va a finire che si ricordano d’averla già sentita. Così che se si dice di voler diminuire i premi delle lotterie, va a finire che qualcuno s’accorge che trattasi di prelievo fiscale. E presto gli sovverrà che non è la prima volta, ma l’ennesima.

In compenso ora, per la prima volta, leggeremo il testo della legge di stabilità, non dovendola desumere da un fiume d’interviste contraddittorie. La studieremo senza prevenzione alcuna. Se conterrà cose mai viste prima, ne daremo atto. Se ci vedremo conti che tornano sopravvalutando le entrate e sottovalutando le uscite, rimandando tutto alla prima trimestrale di cassa, a tutto penseremo, tranne che alle novità.

Sui soldi alle imprese Renzi è peggio di Letta

Sui soldi alle imprese Renzi è peggio di Letta

Franco Bechis – Libero

Quei poverelli delle piccole e medie imprese italiane ce l’hanno ancora lì che campeggia sul loro portale web: facciona di Matteo Renzi e titolo «Debiti PA, Renzi shock: 60 miliardi in 15 giorni». La data era quella del 26 febbraio scorso. Le povere imprese che da lunghi mesi attendevano dallo Stato i pagamenti loro dovuti, ci avevano creduto. E si capisce: il nuovo presidente del Consiglio nel suo discorso per ottenere la fiducia alle Camere aveva detto: «Il primo impegno è lo sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione». Poi era apparso a Ballarò, intervistato all’epoca da Giovanni Floris, e lì aveva annunciato il famoso intervento shock: «La Spagna l’ha fatto da 50 miliardi di euro. Io penso di più: 60». In quanto tempo? «Il tempo di preparare un emendamento: Diciamo due settimane».

Non è andata così, e lo sanno bene i creditori dello Stato. Quella promessa resterà la più famosa, anche perché è la prima e più clamorosa tradita da Renzi premier. In corsa ha tentato di correggere la rotta, e da Bruno Vespa aveva allungato i termini di quelle due settimane, spostate al «21 settembre giorno di San Matteo. Se mantengo la promes-sa, lei Vespa che è scettico andrà a piedi in pellegrinaggio da Firenze a Monte Senario. Se non la mantengo, so dove mi mandano gli italiani». La promessa non è stata mantenuta, ma il 21 settembre Renzi ha sostenuto il contrario, poggiandosi sulla lentezza dei conteggi della pubblica amministrazione, che erano fermi a metà luglio. Ora sono usciti i dati aggiomati al 22 settembre scorso, e il bluff del premier è stato tragicamente svelato a chiunque voglia andarselo a leggere sul sito Internet del ministero dell’Economia e delle Finanze. Con una possibilità in più: i dati sono relativi ai primi otto mesi esatti del govemo Renzi. E sono perfettamente comparabili con quelli degli ultimi otto mesi del governo guidato da Enrico Letta, perché è proprio in quel periodo che sono iniziati i primi pagamenti della pubblica amministrazione alle imprese. E il raffronto che Libero oggi è in grado di offrire ai suoi lettori è impietoso per il governo attuale. Perché Letta è stato due volte e mezzo più veloce e più efficace di
Renzi.

Ecco i numeri. Ad oggi nel bilancio dello Stato – grazie all’emissione di nuovi titoli di Stato dedicati – sono stati stanziati per pagare i crediti delle imprese con la pubblica amministrazione 56,839 miliardi di euro. Una cifra comunque inferiore ai 60 miliardi promessi da Renzi, ma non di molto. Solo che l’83,63% di questa somma, pari a 47,539 miliardi di euro, era già stata stanziata da Enrico Letta prima del ribaltone a palazzo Chigi. Quei soldi erano già tutti quando Renzi ha fatto le sue promesse in Parlamento e a Ballarò. Quindi non potevano fare parte dei 60 miliardi promessi, che avrebbero dovuto essere nuovi pagamenti. In otto mesi Renzi ha stanziato invece solo 9,3 miliardi di euro, pari al 16,37% dello stanziamento totale. Avere stanziato soldi non basta, però. Oltre a metterli in bilancio aumentando il debito pubblico italiano, bisogna anche metterli a disposizione di ministeri ed enti locali che sono poi quelli che materialmente debbono saldare i debiti che hanno con le imprese italiane per le commesse ricevute in passato. Di quei 56,839 miliardi stanziati solo 38,4 miliardi sono stati messi a disposizione degli enti pubblici che dovevano pagare entro il 22 settembre scorso.

Ma anche questa cifra racconta solo in parte. Perché i debiti effettivamente saldati sono ancora meno: a quella data, dopo 16 mesi (8 di Letta e 8 di Renzi) i pagamenti effettivamente avvenuti ammontavano a 31,3 miliardi di euro. Di questi Letta ne ha effettuati durante il suo governo 22,430 miliardi, e cioè il 71,67% (quasi i tre quarti) dei pagamenti totali avvenuti. In otto mesi i soldi arrivati alle imprese grazie a Renzi sono appena 8,87 miliardi di euro, pari al 28,33% dei pagamenti totali. In media il governo Letta ha pagato debiti alle imprese per 2,8 miliardi al mese. Il governo Renzi per 1,1 miliardi al mese, quindi a velocità due volte e mezza inferiore al predecessore. Dei due è Matteo il premier lumaca, Letta al suo confronto sembrava Usain Bolt, il primatista mondiale dei 100 e 200 metri…

Quattro anni sprecati

Quattro anni sprecati

Luciano Gallino – La Repubblica

I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero.

Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani. Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18.

Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il Paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.

Si prenda il caso Germania; non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue. Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari. Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro – quelle tedesche – che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.

Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin D. Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.