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Per fare pulizia sulle partecipate serve la scure, non il bisturi

Per fare pulizia sulle partecipate serve la scure, non il bisturi

di Giuseppe Pennisi*

Per oltre tre lustri ho scritto il capitolo sulle privatizzazioni del rapporto annuale sulla liberalizzazione della società italiana dell’Associazione Società Libera. È parso evidente sin dalla fine degli Anni Novanta che nel processo di privatizzazione molta poca attenzione è stata alle partecipate delle autonomie locali, spesso con il pretesto che si trattava di materie unicamente di competenza delle Regioni, delle Province (quando esistevano) e dei Comuni. Sono stati compiuti studi egregi sul capitalismo municipale, alcuni pubblicati sulla stessa rivista del Ministero dell’Interno “Amministrazione Civile”.

Il tema è stato posto all’attenzione dei Governi dai vari Commissari alla spending review che si sono succeduti in questi anni. Ma ancora oggi non è chiaro quale sia il numero totale (si parla di circa ottomila, che il Governo in carica avrebbe voluto ridurre a mille). Numerose sono in perdita da anni o richiedono forti sovvenzioni per operare. Altre sono costituite unicamente da organi di governo, ossia i CdA, e da manager ma non hanno personale. È chiaro che sono una delle determinanti dell’enorme debito pubblico che frena l’Italia. È un’area dove, per fare pulizia, occorre utilizzare la scure non il bisturi.

* presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Partecipate: Renzi dice di tagliare, ma gli enti locali spendono di più

Partecipate: Renzi dice di tagliare, ma gli enti locali spendono di più

di Sara Dellabella – L’Espresso

Nonostante la parola d’ordine sia “tagliare”, gli enti locali continuano a spendere e spandere nelle società partecipate. Un dossier di ImpresaLavoro, centro studi che si occupa dei temi legati al lavoro e all’economia, mostra che negli ultimi quattro anni i trasferimenti per le partecipazioni pubbliche sono lievitati del 35 per cento, per una somma che sfiora un miliardo di euro.

Eppure, l’obiettivo più volte annunciato da Renzi è quello di una drastica riduzione del numero delle società partecipate per arrivare entro la fine dell’anno a quota mille. C’è da dire però che nonostante ripetuti tentativi nessuno è stato in grado di indicare con precisione quale sia il numero di partenza.

Il Ministero del Tesoro ne conta 7.700, il dipartimento delle Pari Opportunità di Palazzo Chigi oltre 10 mila, tanto che l’ex Commissario alla spesa pubblica, che si era prodigato nell’impresa, era arrivato a definirla una “giungla azionaria” che costa alle casse pubbliche circa 26 miliardi di euro l’anno. In moltissimi casi si tratta di partecipazioni che non superano il 10 per cento, in società che oltre a svolgere i servizi essenziali come trasporti, raccolta rifiuti, distribuzione di acqua, luce e gas, si occupano anche di impianti di risalita, spiagge, farmacie, stabilimenti termali, campi da golf, casinò, cantine sociali, produzioni casearie e tanto, tanto altro ancora. E l’obiettivo del governo è proprio quello di mettere un freno alla fantasia.

Negli ultimi decreti attuativi della riforma della Pubblica Amministrazione è previsto che siano proprio gli enti locali a fare il censimento delle proprie aziende partecipate, provvedendo a chiudere quelle che da più di tre anni hanno i bilanci in rosso. La Corte dei Conti recentemente ha stimato che, queste ultime, su scala nazionale siano più di un terzo e più di mille quelle che hanno solo l’amministratore delegato e nessuna struttura.

Nonostante le ripetute esortazioni di Palazzo Chigi a ritirarsi dalle società che non gestiscono servizi essenziali, gli enti locali hanno fatto orecchie da mercante. Tra il 2011 e il 2014, la spesa erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi di euro, andando a finanziare anche società che senza la costante iniezione di denaro pubblico sarebbero già fallite.

Il 77 per cento di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e il 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo di euro. Il residuo 23 per cento, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi di euro.

Ma quanto grava la spesa per le partecipate su ogni cittadino? Il record se lo aggiudica il Trentino Alto Adige con 295 euro, seguita dalla Val D’Aosta dove si spendono 205 euro pro capite. Chiudono la classifica i cittadini calabresi e molisani, dove la spesa è appena di 8 e 5 euro. Ma stavolta le regioni del sud nessuna maglia nera perché le società partecipate in Italia, si sa, trovano la loro ragione d’esistere soprattutto per dare un’occupazione agli “amici di” e ai trombati della politica.

Gli enti locali tagliano i contributi alle imprese private, cresce la spesa per le partecipate pubbliche

Gli enti locali tagliano i contributi alle imprese private, cresce la spesa per le partecipate pubbliche

Negli anni tra il 2011 e il 2014, la spesa degli enti locali erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi di euro. E nel 2015, anno per il quale non sono ancora disponibili dati definitivi, questa cifra non sembra aver subito variazioni significative. È questo il dato complessivo che emerge da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro su dati Siope (Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici).

La variazione più evidente, negli anni presi in considerazione dalla ricerca, è quella che ha riguardato la distribuzione di questi trasferimenti e partecipazioni tra la quota destinata alle imprese pubbliche e quella riservata alle imprese private. A livello nazionale, infatti, la spesa degli enti locali per le partecipazioni pubbliche è aumentata – tra il 2011 e il 2014 – di quasi un miliardo di euro (+35%), mentre l’importo destinato alle imprese private è calato di circa 800 milioni di euro (-17%).

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Il 77% di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e il 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo di euro. Il residuo 23%, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi di euro.

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Scomponendo il dato che riguarda i trasferimenti verso le imprese pubbliche la ricerca ha individuato una componente stabile e costante – pari a oltre 1,4 miliardi di euro – rappresentata dai trasferimenti correnti operati dalle Regioni (1,1 miliardi) e dagli altri enti locali. Più variabili, invece, i dati dei contributi in conto capitale, che sono praticamente raddoppiati dal 2011 (circa 770 milioni) al 2014 (1,5 miliardi). Crescono tendenzialmente, anche se in modo meno evidente, le partecipazioni azionarie nelle imprese pubbliche (arrivate a 244,5 milioni nel 2014). Mentre il dato sul ripianamento delle perdite, pur residuale, è pesato comunque per oltre 166 milioni nel 2014. La spesa verso le imprese speciali (le cosiddette “municipalizzate”), infine, composta quasi interamente da trasferimenti correnti di Comuni e Province, resta stabile al di sopra dei 300 milioni di euro all’anno.

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Per quanto riguarda le imprese private, la voce più rilevante (che è anche quella più colpita dai tagli degli ultimi anni) resta quella dei trasferimenti in conto capitale a carico delle Regioni, che nel 2011 erano pari a 2,7 miliardi di euro ma che sono scese fino ai 2,1 miliardi nel 2014. La diminuzione dei contributi alle imprese private si nota anche nei trasferimenti correnti delle Regioni: dai quasi 1,5 miliardi di euro del 2011 agli 1,2 miliardi del 2014. Stabili, invece, i trasferimenti da parte di Province e Comuni.

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A guidare la classifica della spesa pro-capite verso le imprese pubbliche e speciali sono le tre Regioni Autonome del Nord Italia – Trentino Alto Adige, Val d’Aosta e Friuli Venezia Giulia – i cui enti locali spendono rispettivamente 295, 205 e 116 euro per abitante. Agli ultimi posti si piazzano invece Molise e Calabria, che spendono meno di 10 euro per abitante.

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Leggi balorde ed enti locali scoppiati si oppongono ai nuovi posti di lavoro

Leggi balorde ed enti locali scoppiati si oppongono ai nuovi posti di lavoro

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

Gli economisti la fanno facile. Apri lì, chiudi là. Il grafico parla chiaro. La correlazione spiega tutto. Il risultato finale però è che, con il denaro quasi a costo zero (ma solo per le banche), nessuno assume più nessuno in Italia. È vero che l’articolo 18 non ispira fiducia. Che il codice del lavoro, in pratica, non esiste e, in ogni caso, le norme che ci sono, hanno una complessità tale da non essere traducibili in inglese, una lingua fattuale, non bizantina come quella che usano i nostri burocrati ma che, in ogni caso, è anche la lingua degli affari, qualsiasi sia la nazionalità dei contraenti. Ma è soprattutto vero, e questo è il punto, che in Italia non c’è un pensiero di massa favorevole all’investimento e quindi alla creazione di nuovi posti di lavoro che producono più ricchezza di quanta ne distruggano.

Fin che i posti di lavoro (veri o falsi) li poteva creare la filiera pubblica (Stato ed Enti locali) il guaio della non creazione di nuovi posti di lavoro era ugualmente presente ma era poco percepito. Ma adesso che la pubblica amministrazione non può più assumere, o sta assumendo con il contagocce, il problema è diventato drammatico come ben illustrato, sinteticamente, dai livelli stellari della disoccupazione giovanile che, in alcune aree del Sud, raggiunge il 70%.

Dagli anni 70 in poi (e lo Statuto dei lavoratori ne è un esempio; ma non certo il solo; né il più pericoloso per l’occupazione) è prevalsa, nel nostro paese, la cultura anti-industrialistica, come risultato del matrimonio fra il movimentismo sessantottardo, il comunismo impermeabile alle dure repliche della storia e il sinistrismo cattolico (diventato, nel frattempo, ateo) ma basato sempre sulla certezza che, alla fine, interverrà la provvidenza a sistemare le cose nate male e costruire peggio. Questo mix ha prodotto una mentalità legislativa devastante che si è tramutata in leggi e regolamenti incomprensibili e che spesso rasentano la demenza, che però sopravvivono al mutato clima intervenuto nel Paese e che spesso impediscono ai burocrati avveduti (ce ne sono) di evitare di creare ostacoli allo sviluppo.

Con norme stupide, anche un burocrate intelligente opera da stupido. Un esempio? Il Politecnico di Milano decide di impartire in inglese l’insegnamento per la laurea specialistica, ambito nel quale i testi di riferimento sono già al 90% in questa lingua. Ebbene, un professore in arretrato sui tempi ricorre al Tar. E il Tar gli dà ragione. Da qui l’accusa che quel magistrato del Tar è uno stupido. No, non è stupido. Ha solo obbedito (come deve) a una legge, quella sì stupida, che, essendo del 1933, in piena epoca fascista, esprimeva un momento in cui il mito italico era stato ingigantito da Mussolini. Il guaio, in questo caso, non è quindi del Tar ma del legislatore (che si dice, da 70 anni, democratico e antifascista) ma che non ha provveduto a cancellare questa norma, appunto, fascista.

Il Corriere della Sera di ieri, in un ottimo articolo da Londra di Michele Farina, ha bene illustrato il calvario di un’imprenditrice inglese innamorata del Salento, nel tentativo di realizzare a Nardò, «in una zona semi-abbandonata con la spazzatura in giro» un resort basato sull’ecoturismo e legato a Slow Food. Un resort che fosse «qualcosa di bello da cui guadagnassero tutti». Per realizzare questo obiettivo, aveva stanziato 70 milioni di euro che però non hanno potuto essere spesi per l’ignavia della Regione (ma non dell’amministrazione comunale e persino dei sindacalisti locali che, onore al merito, si sono immediatamente schierati a sostegno del progetto). Subito è partito «un ricorso al Tar», dice l’imprenditrice inglese. «Il Tar ci ha dato ragione. Ma, subito dopo, è arrivato l’appello. Adesso siamo al Consiglio di stato. Ma la sentenza potrebbe arrivare fra due anni. Non si sa». L’imprenditrice intanto chiede un incontro con la Regione Puglia: «Mi ha accompagnato», spiega, «anche il mio partner nel progetto, Ian Taylor, broker nel petrolio. In Regione ci hanno concesso mezz’ora. Mezz’ora per rispondere a una domanda: Possiamo parlarne? Cosa possiamo fare? La risposta è stata: Forse».

L’imprenditrice coinvolta in questo caso, Allison Deighton, è moglie di Lord Paul Deighton, sottosegretario al tesoro britannico, ex top manager di Goldman Sachs. «Mio marito», dice la Deighton, «era contrario. Oltretutto, il suo lavoro è attirare gli investitori in Gran Bretagna. Adesso lo so anch’io: investire in Italia mette paura». Anche se lo fai per amore dell’Italia, anzi del Salento. Una prece. Per noi. Per i nostri figli e nipoti. Altro che riforma del Senato.