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Italia in coda a un’Europa depressa

Italia in coda a un’Europa depressa

Giuseppe Turani – La Nazione

Stiamo viaggiando dentro un convoglio che ha il freno a mano tirato e, naturalmente, siamo il vagone di coda, quello che si sta perdendo per strada. Questo è il senso del ‘ultimo rapporto Ocse sull’economia europea. È quasi inutile persino guardare le cifre, tanto sono deludenti.

La crescita europea, nel suo complesso, quest’anno sarà grosso modo quella che in America si ha in un trimestre. Se poi dall’insieme del Vecchio Continente passiamo ai singoli Paesi più grandi le cose cambiano di poco. La Germania ha un po’ più di sprint rispetto alla media, ma siamo sempre in una zona di bassa crescita. La Francia fa un po’ peggio della Germania e l’Italia rischia addirittura di farsi, oltre ai due che ha già fatto, altri due anni di recessione: il 2014 e il prossimo. Perché accade questo? La risposta non è difficile: l’Europa è un Paese chiuso dentro una doppia ingessatura.

La prima riguarda il suo assetto istituzionale e le sue regole di convivenza. È un’area lenta, dove nulla si cambia se non dopo lunghi dibattiti e lunghi scontri con delle burocrazie molto potenti, che hanno il solo obiettivo di rendere tutto ancora più labirintico e complicato. Inoltre, non si può nemmeno escludere che l’Europa tenti di difendere un welfare diventato ormai molto costoso. La cura delle persone (il welfare) è la cosa che distingue l’Europa dall’America, ma forse il suo peso comincia a essere eccessivo.

Il secondo tipo di ingessatura che frena l’economia del Vecchio Continente è quella che si potrebbe definire come “avarizia monetaria”. Negli Stati Uniti, allo scoppio della crisi hanno deciso di non badare a spese e le rotative della Federal Reserve hanno lavorato anche di notte per stampare dollari. È probabile che abbiano anche esagerato, ma alla fine il gigante si è mosso e adesso cresce abbastanza bene. In Europa, come tutti sanno, si è seguita la strada inversa. I tedeschi si sono opposti a usare l’euro (magari stampato in quantità industriali) come medicina per la crisi. Poiché molti Paesi (Italia compresa) avevano già esagerato con i debiti, hanno preteso (e pretendono) che prima si faccia un po’ di ordine: i famosi ‘compiti a casa ‘. Abbiamo cominciato con Monti e stiamo ancora andando avanti, tre governi dopo. Gli altri Paesi non stanno molto meglio però. La Germania respira appena, rispetto alle sue potenzialità, e la Francia se ne sta li con l’acqua alla gola.

La conclusione è molto semplice: i tedeschi volevano un Continente serio e ordinato, con governi molto attenti e responsabili, a loro immagine e somiglianza, ma finora non hanno ottenuto quasi niente di tutto questo. Sono solo riusciti a trasformare un’area in cui vivono più di 400 milioni di persone in una zona depressa del pianeta.

New Deal da mille miliardi, vendiamo l’oro dell’Europa

New Deal da mille miliardi, vendiamo l’oro dell’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

È vero. Il problema della bassa crescita economica non è solo italiano, ma di tutta l’area dell’euro. Si crescerà, in media, nei prossimi dieci anni, non più dell’1% (se va bene). La metà, o meno della metà, di quanto cresceranno, invece, gli Stati Uniti. E questa bassa crescita deriva da due fattori fondamentali: il basso livello di investimenti in Europa (si pensi solo alla bassa dotazione infrastrutturale storica dell’intera area) e l’ulteriore caduta degli ultimi 7 anni, quelli della crisi: -20% (di un livello, abbiamo detto, già troppo basso in partenza).

Non è un caso se la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale continuano a richiamare la Germania con riferimento al suo eccessivo surplus delle partite correnti, auspicando, per rientrare nei parametri europei, un aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture e servizi. I benefici si allargherebbero a tutto il sistema economico europeo. Ma se ancora oggi la Germania non spende in casa propria, nonostante un rapporto deficit/Pil praticamente pari a zero, come potevamo pretendere che la politica economica europea degli anni della crisi, germanocentrica, fosse orientata agli investimenti? I risultati del dogma del rigore fine a se stesso e dell’austerità a tutti i costi, che si è tradotto in sangue, sudore e lacrime per gli Stati dell’eurozona, si sono visti. E il cambiamento di rotta è oggi più che mai necessario.

Il combinato disposto del basso livello infrastrutturale storico e l’ulteriore caduta degli anni della crisi ha ridotto la competitività dell’area euro. Per questo l’Europa deve uscire in maniera strutturale dalla crisi non solo con la politica monetaria, non solo con le riforme ma anche e soprattutto lanciando il suo New deal.

Obiezione scontata: dove si trovano le risorse per tutti gli investimenti necessari per colmare il gap infrastrutturale europeo? Risposta: attraverso l’emissione di Project bond garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei). Oppure facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Oppure ancora, attraverso una riconversione del Fondo salva-Stati, quell’orribile mastodonte che oggi, contrariamente alle ragioni per cui è stato creato, utilizza le risorse versate dai paesi dell’area euro (con conseguente aumento dei relativi debiti pubblici) per acquistare titoli del debito sovrano di Stati con rating AAA, come i Bund tedeschi, che hanno rendimento pari a zero.

Per non trovarsi isolato in Europa e per non fallire nel suo semestre di presidenza dell’Unione, Renzi rilanci. Vada oltre la proposta Juncker di 300 miliardi, e presenti un piano europeo di misure concrete che triplichi gli importi del presidente della Commissione europea, fino a 1.000 miliardi. Un piano finalizzato a una maggiore integrazione del mercato interno, in particolare nel settore dei servizi; a migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; a costruire nuove infrastrutture; a migliorare I piani di approvvigionamento energetico; a dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano.

Come fare? Innanzitutto si dovrebbe sfruttare meglio la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) e la sua capacità di assunzione di rischio, mediante lo Strumento di Finanziamento Strutturato (Sfs), che eroga prestiti, e/o altri strumenti come la cartolarizzazione. Si potrebbe pensare anche a un moltiplicatore della capacità di intervento della Bei, prendendo come riferimento il modello previsto per le operazioni di finanziamento della stessa Banca Europea per gli Investimenti nei paesi extra-Ue: in concreto si tratta di un fondo di garanzia capitalizzato per una certa quota del totale degli impegni (circa il 9%) che genera un moltiplicatore di 11 a 1 sulle operazioni in questione.

La quota capitale da inserire nel fondo di garanzia varierebbe in relazione al rischio legato al settore d’intervento. In caso di operazioni a rischio limitato (es. infrastrutture ad alto potenziale di redditività), l’effetto moltiplicatore sarebbe ancora maggiore: con il 3% di capitalizzazione si può garantire il 100% dei finanziamenti. Capitalizzazione da attuare con una semplice redistribuzione interna nel bilancio dell’Unione o con fondi devoluti dagli Stati membri (da stabilirsi sulla base degli stessi parametri di contribuzione al bilancio Ue), che non rientrerebbero nel computo del 3% del rapporto deficit/Pil.

L’Unione potrebbe ricorrere essa stessa all’emissione di un debito mirato. Il servizio di questo debito, poi, verrebbe finanziato da appositi capitoli di spesa del bilancio Ue, e il suo status in qualche modo negoziato con le agenzie di rating, in modo da mantenere un solido rating AAA per le emissioni. Non è una cosa del tutto nuova: il cosiddetto “Sportello Ortoli”, della fine degli anni Settanta, prevedeva proprio la raccolta di fondi da parte dell’Unione, per destinarli a iniziative specifiche. In alternativa, il fondo di garanzia potrebbe anche essere capitalizzato facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Le quote dovrebbero essere considerate trasferimenti a fondo perduto, con la possibilità per la Bce (che sarebbe la custode delle quote trasferite) di vendere il metallo per finanziare le eventuali perdite sulle garanzie (le riserve auree sono infruttifere, mentre il sistema di garanzie del fondo può dover fare fronte a perdite). Last but not least: impiegare, per finanziare investimenti in infrastrutture, la liquidità di fatto ora bloccata nel Fondo salva-Stati. Quanto, infine, ai capitali privati, essi possono dare un impulso considerevole al potenziale di crescita dell’Europa. Ma la realizzazione di partenariati tra soggetti pubblici e privati (o di altre forme di cooperazione tra pubblico e privato) richiede un impegno finanziario certo da parte degli investitori istituzionali.

Il combinato disposto di tutti questi strumenti potrebbe consentire, in un quinquennio/decennio, 1.000 miliardi di investimenti freschi. Risorse nuove. Più di 3 volte l’ammontare del piano su cui sta lavorando il presidente Juncker, e che potrebbe rivelarsi l’ennesima delusione di istituzioni comunitarie poco coraggiose, in quanto mera ridestinazione di fondi già esistenti nel bilancio europeo. Mille miliardi che avrebbero un grande impatto non solo sul Pil dell’Unione, ma sulla competitività strutturale dell’Europa. Non si tratterebbe, infatti, di un moltiplicatore keynesiano di breve periodo, ma di un acceleratore di impatto sul medio-lungo termine. Ne deriva una miscela ottimale, se al New deal europeo da 1.000 miliardi di euro si unisce la politica espansiva della Banca centrale europea e un piano sorvegliato e coordinato di riforme strutturali in tutti i paesi dell’eurozona. Una grande strategia di lungo periodo (5-10 anni), finalizzata alla modernizzazione dell’Unione. Modernizzazione da fare attraverso le reti, materiali e immateriali: infrastrutture, telecomunicazioni, energia, sicurezza, ricerca scientifica, capitale umano.

È questa la proposta che l’Italia deve fare all’Europa. È questo che, probabilmente, l’Europa, delusa dai primi 200 giorni di governo, si aspetta da Matteo Renzi. Per il presidente del Consiglio italiano, una prova di sopravvivenza. Ma, se vorrà seguire i nostri consigli, una prova facile. L’Italia si è storicamente modernizzata grazie al vincolo esterno, come lo chiamava Guido Carli. Rispetto al dibattito attuale: altro che commissariamento. Meglio Juncker che Landini…

Ecco perché non è follia dare i soldi Bce alla gente

Ecco perché non è follia dare i soldi Bce alla gente

Giampaolo Rossi – Il Giornale

La moneta al popolo! Detta così, sembra una frase da aizza-folla, da Masaniello degli anni 2000, eppure è un’idea che circola con sempre maggiore frequenza tra gli economisti. L’idea è questa: stampare denaro in grande quantità e darlo direttamente al popolo (cioè ai cittadini, ai consumatori) senza passare per la mediazione delle banche; probabilmente è l’unica maniera affinché il denaro entri direttamente nell’economia reale rivitalizzando produzione e consumi.

Il meccanismo attuale prevede che le Banche centrali (Fed o Bce che siano) immettano denaro nel sistema dandolo alle banche private a tassi irrisori (più vicini allo zero) e affidandosi poi al fatto che siano le banche stesse ad alimentare la politica di credito. Un meccanismo che non funziona: il denaro ricevuto le banche se lo tengono stretto per coprire i loro bilanci disastrati e reintegrare i loro attivi. La tranche di liquidità che nel dicembre del 2011 la Bce iniettò nel mercato portò nei conti delle banche italiane circa 60 miliardi netti ad un tasso dell’1%. A gennaio 2012 le stesse banche acquistarono circa 69 miliardi tra Btp (ad un rendimento medio del 3,5%) e obbligazioni bancarie; a imprese e famiglie non andò nulla. Stessa cosa avvenne con la successiva operazione da 80 miliardi.

Anatole Kaletsky, economista della scuderia di George Soros, ha spiegato che se la grande quantità di denaro creato dalle banche centrali fosse andato ai cittadini sarebbe equivalente a 6.000 dollari a testa per ogni uomo, donna e bambino Usa e 6.500 sterline per ogni inglese». Conti alla mano, se gli oltre 1.000 miliardi di euro che Draghi stampò nel 2012 attraverso le due operazioni Ltro della Bce fossero stati dati direttamente a noi, ogni cittadino europeo si sarebbe messo in tasca più di 3mila euro: una famiglia francese, italiana o spagnola di quattro persone, avrebbe avuto a disposizione 12mila euro per rilanciare i consumi, investire o anche solo ridurre la propria esposizione debitoria (altro che gli 80 euro di Renzi ai suoi elettori).

L’idea percorre la storia dell’economia da decenni: già Milton Friedman, premio Nobel per l’Economia, suggeriva di prendere un elicottero e di lanciare banconote alla popolazione per stimolare le fasi di crisi. Nel 1998, Ben Bernake, allora non ancora presidente Fed ma solo professore universitario, sollecitò la Banca Centrale del Giappone a dare contanti direttamente alle famiglie per affrontare la crisi.

Recentemente su Foreign Affairs , una delle più importanti riviste di analisi internazionale, gli economisti Mark Blyth e Eric Lonergan hanno rilanciato l’idea: «non serve pompare migliaia di miliardi di dollari di nuovo denaro nel sistema finanziario», generando «un ciclo dannoso di boom e crisi, deformando gli incentivi e distorcendo i prezzi delle attività» ma occorre pensare a qualcosa di «simile ai soldi lanciati dall’elicottero di Friedman». Una soluzione che «nel breve termine, potrebbe far ripartire l’economia; nel lungo termine, ridurre la dipendenza della crescita dal sistema bancario». Insomma, «la moneta al popolo» non è più accolta come una suggestione bizzarra.

Perché fino ad oggi nessuno ha mai avuto il coraggio di rivendicarla? Per due ragioni, una tecnica ed una politica. Quella tecnica attiene alla paura di rischi inflazionistici; problema inesistente in una fase in cui l’economia mondiale scivola verso la deflazione. Stampare denaro, poi, e darlo direttamente ai cittadini significa ridurre il potere delle potentissime lobby bancarie. Questo, forse, è l’ostacolo maggiore perché potrebbe sdoganare ciò che per le oligarchie tecno-finanziarie è un tabù: la «proprietà popolare» della moneta fa passare il principio che il denaro, al momento della sua emissione, non appartiene ai banchieri ma ai cittadini. Una vera rivoluzione.

La sfida di Junker

La sfida di Junker

Sergio Fabbrini – Il Sole 24 Ore

Non è di grande aiuto lo schema “destra-sinistra” per capire se la Commissione Junker promuoverà politiche per la crescita oppure confermerà le politiche per l’austerità fiscale. Certamente, su 28 membri della Commissione, gli esponenti socialisti sono meno del 30%, mentre la componente maggioritaria è quella dei cristiano-democratici, con una buona presenza di liberali. Nella visione tradizionale, si potrebbe dire che siamo di fronte ad una grande coalizione, con il suo baricentro spostato a destra. Eppure, lo schema destra-sinistra dice poco o nulla rispetto ai futuri orientamenti della Commissione.

Dopo tutto, anche nel Parlamento europeo, quando si è trattato di votare su questioni che toccavano gli interessi nazionali (come è stato il caso del voto sugli Eurobonds del 15 febbraio 2012), la distinzione tra destra e sinistra non ha retto e i parlamentari si sono allineati sulle posizioni dei rispettivi paesi. Piuttosto, la domanda da porsi è un’altra: è la Commissione Junker in grado di promuovere un punto di vista sovranazionale che bilanci la logica intergovernativa che è alla base delle politiche di austerità? Sulla base dei fatti, la mia risposta è negativa.

Le politiche dell’austerità sono l’esito di una visione della politica economica europea basata sulla centralità decisionale dei governi nazionali (all’interno del Consiglio europeo e dell’Euro Summit, così come all’interno dell’Ecofin e dell’Eurogruppo). Se le politiche economiche vengono decise dai governi nazionali, è evidente che i governi più forti, anche perché espressione dei paesi più grandi e più ricchi, sono destinati ad imporre la propria agenda, la propria visione e i propri interessi. La Germania non ha complottato per imporre la sua visione su come rispondere alla crisi dell’euro, ma sono state le sue dimensioni demografiche e le sue capacità economiche a trasformarla nel leader dell’Unione e dell’eurozona. Ma queste possono funzionare solamente se vi è un equilibrio tra gli stati che le compongono, equilibrio che richiede il riconoscimento dei loro diversi ma altrettanto legittimi interessi. Per tutta la crisi dell’euro, i legittimi interessi degli stati del sud, il cui modello politico-economico è sostanzialmente diverso da quello proprio degli stati del nord, non sono stati presi in considerazione all’interno delle istituzioni intergovernative. È legittimo auspicare, dunque, che sia la Commissione a introdurre un punto di vista sovranazionale nella logica intergovernativa che è divenuta predominante. Un punto di vista sovranazionale è né di destra né di sinistra, ma esprime (o dovrebbe esprimere) l’interesse dell’Unione e della Eurozona nel loro complesso. Questo interesse non coincide con la somma degli interessi nazionali, né tanto meno con gli interessi nazionali degli stati più forti, perché si sostanzia nel favorire la crescita dell’Unione o dell’Eurozona in quanto tali. Se così è, allora sarebbero necessarie politiche anti-cicliche a livello europeo così da equilibrare gli effetti pro-ciclici delle politiche domestiche di consolidamento fiscale. Potrà la Commissione Junker fermare la deriva intergovernativa?

In realtà la Commissione ha aumentato il suo tasso intergovernativo. Considerando l’incarico che avevano prima della nomina, tra gli attuali commissari vi sono 5 ex primi ministri, 1 ex vice-primo ministro e 12 tra ex ministri o vice-ministri. Ovvero 2/3 dei commissari sono (stati) esponenti dei governi nazionali. Certamente si tratta di una Commissione “politica”, perché composta di leader politici, ma non perché portatrice di un suo programma politico. Se poi si guarda la distribuzione dei portafogli, con ben 4 ex primi ministri nella vice-presidenza, e ai loro orientamenti di politica economica, allora i dubbi sulla capacità della Commissione di esprimere un punto di vista sovranazionale sono destinati a crescere. Come si potrebbe pensare diversamente, se il paese alfiere di un nuovo approccio alla politica economica (come la grande Francia del commissario Moscovici) dovrà farsi coordinare dai due vice-presidenti (come gli ex primi ministri Dombrovskis and Katainen delle piccole Lettonia e Finlandia) che sono stati i più convinti sostenitori delle politiche di consolidamento? Se poi si guarda all’insieme delle nomine europee di questi giorni, allora i segnali sono ancora di meno rassicuranti. Il Consiglio europeo ha eletto, come suo presidente ma anche come presidente dell’Euro Summit, il polacco Donald Tusk, cioè l’esponente di una paese che non fa neppure parte dell’Eurozona. La cosa fa piacere agli inglesi che, insieme ai paesi esterni all’eurozona, potranno condizionare le scelte di quest’ultima. Ma soprattutto la scelta di Tusk viene incontro agli interessi della Germania che potrà esercitare la sua influenza in quelle cruciali istituzioni intergovernative senza dover fare i conti con un presidente dotato di una sua autonoma autorevolezza.

Naturalmente in politica le cose possono cambiare. Così come è possibile che il presidente Juncker possa utilizzare i fondi della Bei per promuovere politiche di sviluppo che abbiano effetti keynesiani sull’Unione nel suo complesso. È anche probabile che le gerarchie interne alla Commissione possano saltare. Tuttavia, se Federica Mogherini, nella sua qualità di vice-presidente della Commissione e non solo di alto rappresentante per la politica estera, vuole promuovere un punto di vista sovranazionale, allora sarebbe auspicabile che non rimanesse prigioniera dello schema sinistra-destra. Non c’è un punto di vista “socialista” da promuovere, ma un interesse alla crescita da rappresentare con i commissari che sanno cosa ha prodotto l’austerità nei loro paesi.

Un rischioso senso di impotenza

Un rischioso senso di impotenza

Francesco Guerrera – La Stampa

A prima vista, la differenza non si vede. Come sempre, il lago di Como risplende nel sole autunnale, Villa d’Este pullula di potenti italiani e stranieri e i dibattiti vertono su argomenti profondi, seri e ambiziosi («Agenda per cambiare l’Europa»; «Oggi il mondo di domani»; «Un’alternativa per l’Italia» e così via). Ma a ben guardare c’è qualcosa di strano al forum economico Ambrosetti versione 2014. L’élite di politici, economisti e scienziati vede riflessa nelle acque cristalline del lago l’immagine della propria impotenza.

Dai conflitti dell’Est-Europa alle barbare decapitazioni nel Medio Oriente, dall’anemia economica che affligge l’Europa alla riluttanza a investire da parte d’imprenditori e aziende, i più importanti esponenti della politica e della finanza mondiale poco possono. Se ne parla, dei problemi annosi e di quelli più recenti, si cercano di mandare messaggi a Putin, a Draghi, a Renzi; si critica la leadership di Obama e la strategia pappamolla dell’Unione Europea nei confronti della Russia. Ma sembra un copione un po’ stanco. Un dovere più che un desiderio vero di affrontare le sfide enormi che la geopolitica e i mercati stanno ponendo alla classe dirigente del pianeta. «Nell’era del terrore, non ci sono vittorie, solo successi temporanei», ha detto uno dei partecipanti alla platea. Si riferiva al terrorismo che sta sconvolgendo il Medio Oriente, ma è una frase che si addice anche ad altre questioni.

Il simposio della Ambrosetti stava per iniziare giovedì quando la Banca Centrale Europea ha sorpreso i mercati con un nuovo taglio ai tassi d’interesse e l’inizio di una manovra di stimolo enorme. Gli investitori hanno applaudito, gli imprenditori, soprattutto quelli che esportano, si sono preparati a godersi un euro in ribasso e le banche hanno promesso di prestare di più. Ma il «magic moment» non è durato nemmeno ventiquattr’ore. Venerdì mattina, è arrivato Peter Praet, uno dei luogotenenti di Mario Draghi, a stemperare gli entusiasmi. «Le politiche monetarie possono solo comprare del tempo e non risolvere i problemi strutturali delle nostre società», ha spiegato il barbuto belga, che siede nel comitato esecutivo della Bce. Traduzione: noi banchieri centrali abbiamo fatto tutto il possibile e forse di più, se i politici non ci aiutano, la ripresa economica ve la scordate e i miliardi di stimolo staranno buttati al vento. I mercati questo lo sanno e hanno già ripreso il tran-tran di prima del taglio dei tassi. La differenza cruciale con l’America, dove queste dosi da cavallo di stimolo hanno evitato la depressione e rilanciato l’economia, è che l’economia Usa è più flessibile. Lascio ad altri i giudizi politici e morali sui diritti dei lavoratori e i costi della sanità e altri servizi, ma non c’è dubbio che gli Stati Uniti sono un atleta più agile: quando cadono al tappeto si rialzano più velocemente della vecchia Europa. Gli investitori se sono accorti e stanno spingendo le Borse americane da record a record, nonostante i venti di guerra provenienti dall’Est e dal Sud del mondo.

Non è che la mossa di Draghi non avrà effetti positivi: l’euro scenderà aiutando i produttori europei che vogliono vendere all’estero. E anche gli spread sui buoni del Tesoro andranno giù, consentendo a debitori cronici come l’Italia di respirare un pochino. Ma non sono vittorie definitive, solo successi di tappa, traguardi della montagna in una corsa in cui non si sono ancora affrontati né le Alpi, né i Pirenei.

Quando ho chiesto a un imprenditore straniero perché non investisse di più in Italia, ha guardato per un po’ il lago, forse cercando di non offendermi con la sua risposta. «Che le devo dire?» ha sospirato. «Qui ci vogliono mesi per ottenere permessi e il mercato del lavoro è ossificato».

«Però il posto è stupendo», ha aggiunto, quasi scusandosi per le parole sincere e crudeli. Non è il solo. Quando i partecipanti del forum hanno dovuto indicare il loro livello di fiducia nelle sorti economiche dell’Ue, quasi la metà ha risposto «basso» o «molto basso». E’ una statistica preoccupante, soprattutto perché rilevata a meno di due giorni dall’annuncio dello stimolo massiccio della Bce. La realtà è che le fantomatiche «riforme strutturali» – il mercato del lavoro, le pensioni, la sanità, le tasse ecc. ecc. – non le fa o non le vuole fare nessuno. Non i politici, né tantomeno l’elettorato. Forse l’attuale governo italiano sarà un’eccezione, ma per ora quasi tutta l’Europa è afflitta dalla sindrome «nimby», l’acronimo inglese per «Not In My Back Yard»: fate pure qualsiasi riforma, ma non nel mio cortile di casa.

L’impotenza dell’economia fa da contrappunto alla debolezza della politica estera dei blocchi occidentali. Dietro le quinte settecentesche di Villa d’Este il dialogo su l’Ucraina e il terrorismo islamico è stato un misto deprimente di dichiarazioni aggressive e ammicchi al compromesso, con l’Europa e l’America impegnati in un gioco transatlantico di scaricabarile. «Putin non ha niente di cui temere da questi qui», mi ha detto un esperto di politica estera dopo l’ennesimo briefing fine a se stesso. Niente è ancora perduto perché l’economia e la politica offrono spesso un’altra chance, ma sprecare giorni, settimane e mesi non facilita la situazione. I terroristi si sentono più forti, i nemici ai confini osano di più e i cervelli e gli investitori vanno altrove. Forse il problema è l’esistenza del salotto buono, come crede il primo ministro. Oppure il fatto che quelli seduti sui divani si ostinano a passare il tempo tra il futile e il dilettevole.

Eurolandia non si fida dell’Italia

Eurolandia non si fida dell’Italia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un’istantanea dell’Italia che resta nella testa di Angela Merkel è quella dell’agosto 2011. Non è la foto da uno dei suoi tanti soggiorni a Ischia. È il ricordo di quello che la cancelliera visse come un tradimento. A quell’epoca, con una lettera di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet sul tavolo, il governo italiano promise misure importanti in cambio del soccorso della Bce. L’aiuto di Francoforte arrivò, le promesse di Roma finirono in soffitta poche ore più tardi.

In Italia di quell’episodio oggi si ricorda il fatto che fu Silvio Berlusconi, allora premier, a determinare il voltafaccia. In Germania invece si continua a pensare che responsabile ne fu semplicemente l’Italia, anche perché da allora tutti i governi seguiti a Berlusconi hanno omesso gran parte degli impegni. Quel passaggio del 2011 torna attuale nella mente della Merkel ora che, di nuovo, in Europa si parla di grandi compromessi. Interventi in Italia o in Francia per mettere le due economie in condizioni di competere, in cambio di un po’ di più pazienza a Bruxelles. Un taglio di spesa e di tasse sulle imprese, insieme a nuove regole sul lavoro, in contropartita a una certa tolleranza sul deficit e sul debito pubblico.

Varie versioni di proposte di questo tipo circolano fra i governi da almeno un anno. C’è però un dettaglio che passa quasi inosservato a Roma, mentre a Berlino resta la tessera centrale del mosaico: niente più concessioni all’Italia in cambio di impegni solenni o altri esercizi verbali. Qualunque accordo sulla “flessibilità”, cioè la speranza per l’Italia di non rischiare una multa e una sorveglianza stringente a Bruxelles, prevede prima i fatti. Precise riforme dell’economia approvate come leggi, tradotte in provvedimenti, applicate nella vita reale del Paese. Nient’altro basta ad avviare un negoziato in buona fede su come applicare il Fiscal Compact, cioè le regole di bilancio, in maniera meno burocratica. Forse perché in Italia sono cambiati quattro governi in meno di tre anni, spesso sfugge alla classe politica come l’erosione della credibilità in Europa oggi riguardi l’intero Paese: non il primo ministro di turno o quello appena sostituito da uno nuovo, forte o debole nei sondaggi che sia. È praticamente certo che di questi argomenti Merkel non parli esplicitamente con Draghi. Il canale di comunicazione diretta fra la cancelliera e il presidente della Bce da anni è aperto e funziona benissimo, fondato com’è sul rispetto dei rispettivi ruoli. Due anni fa, Draghi sapeva di avere l’as- senso di Merkel quando salvò l’Italia dal collasso annunciando che avrebbe fatto «qualunque cosa» per preservare l’euro. Anche oggi il banchiere centrale e la cancelliera la vedono in modo simile, almeno su un argomento: l’Italia, la sua stasi e la depressione in cui si dibatte da cinque anni. Entrambi vorrebbero vedere subito progressi nelle norme sul lavoro e nel taglio fiscale al costo di fare impresa, perché nel frattempo il Paese sta restando indietro anche rispetto alle economie più fragili o ai suoi stessi alleati.

La Francia di François Hollande, in teoria in “asse” con Roma, si è messa in marcia. Manuel Valls, il premier, ha espulso dal governo i dissenzienti e ora procede verso un piano di tagli di spesa da 50 miliardi di euro e riduzioni di tasse sulle imprese da 40 miliardi. Se lo porterà a termine tra tre anni, come da programma, l’export transalpino avrà guadagnato competitività su quello dell’Italia per qualcosa come il 2% del Pil francese. Le imprese francesi torneranno ad assumere, quelle italiane, surclassate, continueranno a chiudere. Quanto alla Spagna, è già avanti nel cambiamento e da anni gode della “flessibilità” di cui parla Matteo Renzi. Il deficit di Madrid viaggia intorno al 7% del Pil, ma il Paese non rischia sanzioni da Bruxelles. Nel frattempo, ha cambiato in profondità le regole sul lavoro e sui rischi d’impresa. Le procedure di fallimento delle aziende piccole e medie sono rapide, concluse senza giudici e a basso costo: gli investitori possono mettersele alle spalle e ripartire. I contratti di lavoro sono commisurati alla capacità di un’impresa di stare sul mercato e guadagnare. I licenziamenti per ragioni economiche o organizzative ora sono più facili, eppure la Spagna sta creando nuovi posti di lavoro ogni mese. L’Italia invece ne distrugge e resta in recessione – non il modo migliore di difendere i diritti acquisiti – mentre la Spagna cresce al ritmo del 2% annuo.

È di fronte a queste realtà che Draghi e Merkel fanno i conti e si trovano d’accordo. La cancelliera deve gestire le pressioni verso il rigore da parte della sua Corte costituzionale tedesca, del suo ministro finanziario Wolfgang Schaeuble e dell’opinione pubblica. Ma, come Draghi, sa che l’Italia è troppo grande per non essere aiutata: l’Italia che fa, ovviamente. Non quella che promette.

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

Paul Krugman – Il Sole 24 Ore

Un nuovo studio dell’istituto economico tedesco Iw mette a confronto le percezioni della disuguaglianza nelle nazioni avanzate: uno dei dati più significativi è che gli americani tendono, molto più degli europei, a pensare di vivere in una società di classe media, nonostante il reddito da quella parte dell’Atlantico sia distribuito molto meno equamente che in Europa. Mettendo a confronto Stati Uniti e Francia, per esempio, esce fuori che i francesi pensano di vivere in una società gerarchica, piramidale, quando in realtà la maggioranza di loro appartiene alla classe media. Gli americani hanno la convinzione opposta. Come sottolineano gli autori della ricerca, anche altri dati indicano che gli americani sottovalutano enormemente la disuguaglianza presente nella loro società, e quando gli si chiede di scegliere un modello di distribuzione ideale della ricchezza, rispondono che gli piace la Svezia. 

Quali sono le ragioni di questa differenza? Io, come molti altri, sono del parere che l’eccezione americana riguardo alla distribuzione del reddito (la nostra peculiare diffidenza e ostilità verso il welfare e i programmi anti povertà) sia strettamente legata alla nostra storia razziale. Tuttavia questo non spiega direttamente perché abbiamo una percezione cosi distorta della disuguaglianza effettiva: la gente potrebbe essere contraria ad aiutare “quelli là”, ma non per questo essere inconsapevole di quanto siano ricchi i ricchi. E’ possibile, tuttavia, che ci sia un effetto indiretto: la divisione razziale rende più forti le formazioni di destra, di ogni tipo, e queste formazioni a loro volta producono propaganda in gran quantità che ignora e minimizza il problema della disuguaglianza.

I sentimenti anti-keynesiani
In un articolo per il Washington Post, Matt O’Brien recentemente ha sottolineato che l’Europa sta andando peggio che ai tempi della Grande depressione. Nel frattempo, il presidente francese François Hollande (che con la sua mancanza di spina dorsale e la sua disponibilità a bersi le fandonie rigoriste ha condannato al fallimento la sua presidenza e forse anche il progetto europeo) incomincia finalmente a suggerire, molto timidamente, che forse ancora più austerità non è la risposta giusta.

L’economista di Oxford Simon Wren Lewis è del parere che l’abbraccio entusiasta delle politiche rigoriste nel Vecchio continente sia dovuto a una contingenza storica: in sostanza, la crisi greca ha rafforzato le posizioni degli austeriani in un momento critico. Secondo me la spiegazione non è così semplice. La mia idea è che in Europa esistevano forti sentimenti anti-keynesiani anche prima della crisi greca e che la macroeconomia così come la intendono gli economisti anglosassoni non ha mai avuto davvero cittadinanza nei corridoi del potere europei. Qualunque sia la spiegazione, sta di fatto che ci troviamo di fronte, come sottolinea O’Brien, a una delle più grandi catastrofi della storia economica.

Dai vincoli politici armi spuntate per la Bce

Dai vincoli politici armi spuntate per la Bce

Riccardo Sorrentino – Il Sole 24 Ore

L’inflazione scende ancora. Dove andrà? Qualcuno argomenta che ora può solo salire; ma anche se cosi fosse non sarebbe un buon motivo per pensare che la politica della Bce sia oggi sufficiente. Non si può infatti sperare in un vero aumento dei prezzi. L’inflazione, a fine anno, potrà forse allontanarsi un po’ dalla temuta quota zero, ma resterà bassa. Troppo bassa per consentire quel riequilibrio delle economie europee che richiede prezzi alti dove la ripresa ha più forza e prezzi più competitivi dove invece l’attività e più lontana dalle potenzialità del paese. È così quasi scontato che le nuove proiezioni della Bce, giovedì prossimo, indicheranno un peggioramento delle previsioni di inflazione: le indicazioni date a giugno per 2014 (+0,7%) e 2015 (+1,1%) non sono raggiungibili. 

Non si può allora dire che le misure della banca centrale stiano avendo effetto. Soprattutto a giudicare dalle aspettative di inflazione, che sono il vero obiettivo della politica monetaria e che, con i dati di agosto e i prossimi di settembre – destinati a essere altrettanto brutti – non potranno che peggiorare. A luglio, la Bce già ammetteva nel suo bollettino che «le aspettative di mercato suggeriscono» che l’inflazione possa tornare «vicino al 2% non prima del 2020». A inizio mese, scegliendo il meno favorevole degli indicatori a disposizione, il presidente Mario Draghi ha detto che le aspettative di inflazione a cinque anni puntano all’1%, e il 22 agosto a Jackson Hole ha ammesso che queste aspettative sono peggiorate. L’obiettivo del 2% a medio termine è lontano. 

Possono bastare allora le prossime operazioni finalizzate ai prestiti alle imprese? Forse no. Innanzitutto lasciano tutta l’iniziativa alle banche (mentre occorre chela Bce sia attiva nell’aumentare la liquidità). Aumenta poi la sensazione che, in assenza di domanda, questi Tltro possano solo favorire la concorrenza sui tassi tra le aziende di credito, in un gioco quasi a somma zero. È troppo poco, e questo poco può segnalare due cose. O la politica della Bce è asimmetrica, teme l’inflazione che sale troppo sopra il 2% ma non quella che scende troppo sotto il 2%, e questo è un errore. Oppure i vincoli politici sono troppo forti, e questo è un male.

Le recenti ingerenze del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, sono state in questo senso un segnale molto brutto. Schäuble prima si è sentito in diritto di dare l’interpretazione autentica delle parole di Draghi a ]ackson Hole, dicendo che è stato frainteso. Poi ieri ha detto di non ritenere «che la Bce abbia gli strumenti per combattere la deflazione». Detta da un giornalista, sarebbe una sciocchezza, ma detta da un ministro è una dichiarazione politica: quegli strumenti non vanno usati. Perché? Perché aiutano la politica fiscale. Il punto – se si vuole il problema – è però proprio questo: la politica monetaria può sostenere prezzi e crescita anche, se non soprattutto, aiutando la politica fiscale. Altrimenti gli obiettivi sfuggono e la politica monetaria fallisce.

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Grazie ad un incrocio fortunato di eventi i Paesi dell’euro hanno oggi la possibilità di attuare quella svolta che è necessaria per uscire dal lungo periodo di stagnazione economica in cui viviamo da quasi sette anni. Il governo italiano potrebbe avere un ruolo fondamentale nel renderlo possibile.

Venerdì scorso Mario Draghi ha detto chiaramente che per ricominciare a crescere sono necessarie riforme strutturali dal lato dell’offerta, accompagnate però da una ripresa della domanda, in particolare dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese. E che questo la Bce non può farlo, almeno non da sola. La prima mossa spetta ai governi che, oltre a fare le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, devono abbassare le tasse riducendo al tempo stesso la spesa pubblica. E se le due cose non possono procedere alla medesima velocità, perché le tasse si abbassano in un giorno mentre per tagliare le spese serve un po’ più tempo, non bisogna strapparsi le vesti se il deficit temporaneamente cresce. Forse anche la Germania se ne sta convincendo. Infatti (anche se questa non è una buona notizia) i dati recenti lasciano intravvedere un rallentamento dell’economia tedesca che potrebbe rendere Angela Merkel meno ostile a provvedimenti concordati volti ad aumentare la domanda interna nell’eurozona.

Domenica a Parigi il presidente Hollande ha chiesto al suo primo ministro, Manuel Valls, di sostituire i membri del governo che si opponevano alle riforme e ai tagli di spesa. Il cambiamento più significativo è avvenuto al ministero dell’Economia e dell’Industria dove Emmanuel Macron (36 anni), il più liberista dei consiglieri di Hollande, ha sostituito Arnaud Montebourg (56 anni), un socialista del secolo scorso, alfiere dell’intervento dello Stato nell’economia, strenuo oppositore della globalizzazione e apertamente ostile alla Bce. Una svolta che ricorda il marzo del 1983 quando Mitterrand, dopo due anni di illusioni, cambiò radicalmente politica, si affidò a Jacques Delors e salvò la sua presidenza. Anche a Parigi si comincia ad accettare che «il liberismo è di sinistra».

A Roma Matteo Renzi si è impegnato a varare oggi, il giorno prima del vertice europeo di domani, la riforma della giustizia e il decreto cosiddetto sblocca Italia. Ma la riforma più importante riguarda il mercato del lavoro. Renzi ha promesso che si adopererà affinché entro il mese di settembre il Parlamento vari il disegno di legge delega proposto dal suo governo, che riprende le idee del senatore Pietro Ichino riscrivendo da zero lo Statuto dei lavoratori. E quindi modificando anche il famoso articolo 18.

Come non sprecare questo incrocio fortunato? L’Italia ha una responsabilità particolare, e non solo perché il vertice europeo di domani sarà presieduto da Matteo Renzi. Siamo (con l’eccezione della Grecia) il Paese dell’euro con il debito più elevato e quindi quello che più di ogni altro deve convincere che la qualità delle riforme attuate giustifica un allentamento temporaneo dei vincoli sul deficit, condizione necessaria per poter abbassare subito le tasse sul lavoro. Le parole «qualità» e «attuate» qui sono cruciali. Le riforme non devono essere annunci ma leggi approvate. E a queste leggi devono seguire in tempi rapidi i decreti che le rendono operative, la qualità appunto. Ad esempio a 5 mesi dalla legge che ha abolito le Province (Legge 56 del 7 aprile) i decreti che ne ripartiscono le funzioni fra Stato, Comuni e Regioni non sono ancora stati varati, cosicchè quella riforma per ora rimane una norma senza effetti. Anche se va riconosciuto al premier di aver abolito il livello elettivo dei Consigli provinciali.

Uscire dalla riunione Ue di domani senza un accordo sulla necessità di sostenere la domanda interna significherebbe rimandare almeno di un altro anno la ripresa dell’eurozona. Raggiungere quell’obiettivo dipende anche dalle decisioni che prenderà oggi il Consiglio dei ministri, dalla determinazione con cui Renzi ripeterà l’impegno a varare il Jobs Act entro settembre e dall’esempio che egli saprà offrire al nuovo governo di Parigi, che si trova ad affrontare problemi analoghi.

Essere convincenti sulle riforme e sul percorso che vogliamo seguire per uscire dalla recessione deve essere l’obiettivo di Renzi nel vertice europeo. Se egli invece lascerà che la riunione si perda in una trattativa defatigante sui nuovi commissari e sul ruolo che avrà Federica Mogherini a Bruxelles, avrà perso un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più. È improbabile che domani vengano già varati provvedimenti a livello europeo per far crescere la domanda. Ma sarebbe importante che una prima discussione cominciasse.

Oltre il feticcio del 3 per cento

Oltre il feticcio del 3 per cento

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Perché il deficit dovrebbe essere inferiore al 3 per cento? Perché non l’1, il 2, il 4 o anche il 10 per cento? Da dove è stato tirato fuori questo numero? L’Italia aveva un deficit basso prima della crisi, eppure il rapporto debito/Pil ha continuato a crescere. Questo dovrebbe farci capire che il problema non è il deficit in sé e per sé. Eppure oggi tutta l’attenzione è su quel numero magico, quasi un feticcio. Non conta quanto è grande il deficit, ma come è composto: e la verità è che gran parte del deficit è prodotto da fattori che non hanno nulla di strategico.

Qui non si tratta di uno Stato che vuole «espandersi» spendendo di più, ma di una reazione automatica a quello che sta succedendo sul versante della crescita. Quando crescita e occupazione stentano, come è il caso dell’Italia negli ultimi vent’anni, il deficit cresce automaticamente a causa del costo di cose come la cassa integrazione e i minori introiti fiscali. La verità, quindi, è che il deficit è il sintomo del problema. Il problema è la crescita bassa e la disoccupazione, che porta per definizione a un aumento del rapporto debito/Pil. Non il contrario, co- me vuole la logica che continua a orientare le misure della trojka e a tenere in ginocchio Paesi prigionieri di un circolo vizioso di assenza di crescita.

Il deficit, pertanto, è una conseguenza automatica della mancanza di crescita. Solo quando l’Eurozona smetterà di aggrapparsi a cifre feticcio come il 3 per cento e sposterà l’attenzione su quelle tipologie di investimenti e riforme in grado di aumentare occupazione, produttività e crescita, si riuscirà a tenere il deficit sotto controllo, e soprattutto a consentire agli Stati di avere qualche speranza di veder crescere il denominatore del rapporto debito/ Pil e non solo il numeratore.

Ma che cosa sappiamo della crescita? È ovvio che avere le giuste condizioni «generali » (meno burocrazia, più flessibilità del mercato del lavoro, meno corruzione ecc.) è indispensabile. Ma senza i necessari investimenti pubblici e privati che incrementano la produttività nel lungo termine, la crescita è semplicemente impossibile. Sfortunatamente i commentatori, sia di destra che di sinistra, continuano a ignorarlo. Sentiamo dire spesso, per esempio, che il miracolo dell’export tedesco è merito delle riforme di Schröder che alla fine degli anni 90 tennero a freno i salari, con l’ovvio corollario che l’Italia e gli altri Paesi della «periferia» dovrebbero anche loro ridurre i salari e accrescere la flessibilità del mercato del lavoro.

Quello di cui non tiene conto questa analisi, però, è che (1) a tenere temporaneamente a freno i salari in Germania fu un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l’unificazione tedesca, che altrimenti avrebbe provocato disoccupazione di massa, specialmente nel Länder occidentali, e (2) che questo accordo fu stipulato in cambio non solo del mantenimento dei livelli occupazionali, ma anche di una riduzione dell’orario di lavoro (35 ore) e di investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione, che creano più posti di lavoro e posti di lavoro migliori in futuro. E sono proprio questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri Paesi come l’Italia sul versante della produttività.

Il vero disastro della «periferia» non è il costo del lavoro, ma la produttività. L’indicatore solitamente usato per la competitività è il costo unitario del lavoro, che può essere diviso in due componenti: (a) il costo del lavoro e (b) la produttività. La cosa evidente è che la differenza più marcata tra Paesi non è tanto nel costo del lavoro (in sé e per sé, specialmente se includiamo i contributi sociali, che in Germania sono più alti), ma nel rapporto con la produttività. L’Italia, per esempio, negli ultimi quindici anni ha avuto una crescita della produttività pari a zero (o addirittura negativa).

E come si ottiene produttività? Pagando meno i lavoratori? No. Si ottiene produttività consentendo ai lavoratori di lavorare in modo più efficiente, con una formazione all’avanguardia, macchine tecnologicamente avanzate, una divisione del lavoro innovativa e rapporti armoniosi tra capitale e lavoro. Si ottiene produttività anche avendo una percezione strategica della direzione in cui si vuole che vada l’economia. Quando la Germania decise di imboccare la strada della grüne strategie ( la strategia verde), sindacati, governo e imprese si sedettero a un tavolo e si mossero in modo concertato per trasformare i modelli di produzione, distribuzione e consumo in tutta l’economia e per disegnare nuove forme di istruzione in grado di preparare tecnici e ingegneri alla «rivoluzione verde». Fu il prodotto di una visione, non di un decreto ministeriale!

È tempo di riconoscere, in modo forte e chiaro, che il vero problema dell’Italia non è che i lavoratori guadagnano troppo, ma che i salari non crescono allo stesso ritmo della produttività, perché quest’ultima risente della stagnazione degli investimenti, sia da parte del settore pubblico che di quello privato, e della costante conflittualità, sia tra partiti politici che tra capitale e lavoro. Le aziende private italiane continuano a spendere meno della media in settori come la ricerca e sviluppo (cruciale per la produttività) e la formazione del capitale umano, e il settore pubblico italiano continua a preferire «sovvenzionare» e «incentivare», invece di investire strategicamente in aree a forte crescita. Si può liberalizzare, privatizzare, sottoporre a riforma strutturale qualsiasi cosa, ma non ci sarà crescita fintanto che non ci saranno investimenti dinamici e trasformazioni istituzionali di questo tipo. È questa la parte «strategica» (non automatica) del deficit che viene completamente ignorata. È chiaro che si devono ridurre gli sprechi, riformare i sistemi pensionistici europei in modo da renderli più uniformi ed eliminare la burocrazia non necessaria. Ma a meno che queste riforme non siano accompagnate da massicci investimenti (di dimensioni simili a quelle del Piano Marshall, ossia il 2,5 per cento del Pil dell’Unione europea), con nuove tipologie di collaborazione tra pubblico e privato che consentano un incremento della produttività e garantiscano posti di lavoro e opportunità per le nuove generazioni, rimarremo impantanati nella «stagnazione secolare». E non è un destino ineluttabile: è una nostra scelta, figlia di una totale mancanza di visione.