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Italia e Ue: un incrocio favorevole

Italia e Ue: un incrocio favorevole

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Grazie ad un incrocio fortunato di eventi i Paesi dell’euro hanno oggi la possibilità di attuare quella svolta che è necessaria per uscire dal lungo periodo di stagnazione economica in cui viviamo da quasi sette anni. Il governo italiano potrebbe avere un ruolo fondamentale nel renderlo possibile.

Venerdì scorso Mario Draghi ha detto chiaramente che per ricominciare a crescere sono necessarie riforme strutturali dal lato dell’offerta, accompagnate però da una ripresa della domanda, in particolare dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese. E che questo la Bce non può farlo, almeno non da sola. La prima mossa spetta ai governi che, oltre a fare le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, devono abbassare le tasse riducendo al tempo stesso la spesa pubblica. E se le due cose non possono procedere alla medesima velocità, perché le tasse si abbassano in un giorno mentre per tagliare le spese serve un po’ più tempo, non bisogna strapparsi le vesti se il deficit temporaneamente cresce. Forse anche la Germania se ne sta convincendo. Infatti (anche se questa non è una buona notizia) i dati recenti lasciano intravvedere un rallentamento dell’economia tedesca che potrebbe rendere Angela Merkel meno ostile a provvedimenti concordati volti ad aumentare la domanda interna nell’eurozona.

Domenica a Parigi il presidente Hollande ha chiesto al suo primo ministro, Manuel Valls, di sostituire i membri del governo che si opponevano alle riforme e ai tagli di spesa. Il cambiamento più significativo è avvenuto al ministero dell’Economia e dell’Industria dove Emmanuel Macron (36 anni), il più liberista dei consiglieri di Hollande, ha sostituito Arnaud Montebourg (56 anni), un socialista del secolo scorso, alfiere dell’intervento dello Stato nell’economia, strenuo oppositore della globalizzazione e apertamente ostile alla Bce. Una svolta che ricorda il marzo del 1983 quando Mitterrand, dopo due anni di illusioni, cambiò radicalmente politica, si affidò a Jacques Delors e salvò la sua presidenza. Anche a Parigi si comincia ad accettare che «il liberismo è di sinistra».

A Roma Matteo Renzi si è impegnato a varare oggi, il giorno prima del vertice europeo di domani, la riforma della giustizia e il decreto cosiddetto sblocca Italia. Ma la riforma più importante riguarda il mercato del lavoro. Renzi ha promesso che si adopererà affinché entro il mese di settembre il Parlamento vari il disegno di legge delega proposto dal suo governo, che riprende le idee del senatore Pietro Ichino riscrivendo da zero lo Statuto dei lavoratori. E quindi modificando anche il famoso articolo 18.

Come non sprecare questo incrocio fortunato? L’Italia ha una responsabilità particolare, e non solo perché il vertice europeo di domani sarà presieduto da Matteo Renzi. Siamo (con l’eccezione della Grecia) il Paese dell’euro con il debito più elevato e quindi quello che più di ogni altro deve convincere che la qualità delle riforme attuate giustifica un allentamento temporaneo dei vincoli sul deficit, condizione necessaria per poter abbassare subito le tasse sul lavoro. Le parole «qualità» e «attuate» qui sono cruciali. Le riforme non devono essere annunci ma leggi approvate. E a queste leggi devono seguire in tempi rapidi i decreti che le rendono operative, la qualità appunto. Ad esempio a 5 mesi dalla legge che ha abolito le Province (Legge 56 del 7 aprile) i decreti che ne ripartiscono le funzioni fra Stato, Comuni e Regioni non sono ancora stati varati, cosicchè quella riforma per ora rimane una norma senza effetti. Anche se va riconosciuto al premier di aver abolito il livello elettivo dei Consigli provinciali.

Uscire dalla riunione Ue di domani senza un accordo sulla necessità di sostenere la domanda interna significherebbe rimandare almeno di un altro anno la ripresa dell’eurozona. Raggiungere quell’obiettivo dipende anche dalle decisioni che prenderà oggi il Consiglio dei ministri, dalla determinazione con cui Renzi ripeterà l’impegno a varare il Jobs Act entro settembre e dall’esempio che egli saprà offrire al nuovo governo di Parigi, che si trova ad affrontare problemi analoghi.

Essere convincenti sulle riforme e sul percorso che vogliamo seguire per uscire dalla recessione deve essere l’obiettivo di Renzi nel vertice europeo. Se egli invece lascerà che la riunione si perda in una trattativa defatigante sui nuovi commissari e sul ruolo che avrà Federica Mogherini a Bruxelles, avrà perso un’occasione che potrebbe non ripresentarsi più. È improbabile che domani vengano già varati provvedimenti a livello europeo per far crescere la domanda. Ma sarebbe importante che una prima discussione cominciasse.

Banche di sviluppo per uscire dalla recessione

Banche di sviluppo per uscire dalla recessione

Giuseppe Pennisi – Avvenire

In che misura può l’investimento pubblico (e privato) in programmi a lungo termine aiutare l’Europa – e in particolare l’eurozona – a uscire da una recessione che dura quattro anni? Cosa possano fare le Banche di sviluppo per facilitare questo compito? Tutti gli Stati dell’area dell’euro hanno drasticamente tagliato i loro bilanci in conto capitale ossia gli investimenti pubblici. In media, l’investimento pubblico è passato dall’8% della spesa complessiva delle pubbliche amministrazione a meno del 4%. In effetti, è più facile ritardare programmi ben definiti che comportano investimento in capitale fisico che operare su spese correnti come gli stipendi per il pubblico impiego oppure i trasferimenti alle famiglie. Lo ha fatto anche la Germania. Nel breve periodo gli investimenti pubblici attivano capacità produttiva non utilizzata – in un’eurozona con un tasso di disoccupazione dell’11,5% della forza di lavoro ce ne è moltissima – senza innescare inflazione. Nel medio periodo migliorano la produttività dei fattori produttivi. È in quest’ottica che il neopresidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha proposto un programma speciale di 300 miliardi di euro (aggiuntivo ai fondi europei già in essere) su tre anni per rilanciare programmi di lungo periodo. Un anno fa è stato completato l’aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei). Non ci sono, quindi, difficoltà a finanziare il programma, anche tramite obbligazioni targate Bei.
In Europa non manca liquidità, specialmente presso le famiglie, e il desiderio di impiegarla in collocamenti che non diano necessariamente rendimenti mirabolanti (numerose dita si sono scottate con le varie «bolle»), ma consentano di staccare cedole sicure, dormendo tra due guanciali. Ciò non vuole dire che la Bei debba diventare l’unico finanziatore di investimenti a lungo termine – compito immane che le sue strutture farebbero fatica a reggere.
Tuttavia, al mondo sono state censite circa 300 banche di sviluppo, in gran parte istituite negli ultimi cinquant’anni sulla scia del successo delle istituzioni di Bretton Woods (in particolare della Banca mondiale). I «puristi» ritengono cheVnesheconombank, creata in Russia nel 1917, sia la prima istituzione a potersi fregiare del titolo di «banca di sviluppo» .In Europa, oltre a banche di sviluppo regionali come la Bei e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), esistono numerose banche di sviluppo nazionali di qualità. Le principali – ad esempio la Caisse des Dépôts et Consignation, la Cassa Depositi e Prestiti italiana, la German Kreditanstalt für Wiederaufbau tedesca, per citare le più note – hanno costituito nel 2009 un «club» di investitori a lungo termine non solo per forgiare strategie in comune, ma sopratutto per operare su alcuni fondi d’investimento a lungo termine ben definiti.
Da poco più di un mese il club è presieduto dalla Cassa Depositi e Prestiti, e quindi dal suo presidente Franco Bassanini. Gli strumenti non mancano. Occorre chiedersi se in questi anni difficili non sia stata ridotto, oltre al finanziamento all’investimento di lungo periodo, anche la progettazione. In molti Paesi – tra i quali l’Italia – sono stati costituiti fondi specifici per la progettazione (elaborazione di schemi progettuali, di progetti definitivi con computi metrici, documenti di gara). Sono stati utilizzati al meglio?
Oltre il feticcio del 3 per cento

Oltre il feticcio del 3 per cento

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Perché il deficit dovrebbe essere inferiore al 3 per cento? Perché non l’1, il 2, il 4 o anche il 10 per cento? Da dove è stato tirato fuori questo numero? L’Italia aveva un deficit basso prima della crisi, eppure il rapporto debito/Pil ha continuato a crescere. Questo dovrebbe farci capire che il problema non è il deficit in sé e per sé. Eppure oggi tutta l’attenzione è su quel numero magico, quasi un feticcio. Non conta quanto è grande il deficit, ma come è composto: e la verità è che gran parte del deficit è prodotto da fattori che non hanno nulla di strategico.

Qui non si tratta di uno Stato che vuole «espandersi» spendendo di più, ma di una reazione automatica a quello che sta succedendo sul versante della crescita. Quando crescita e occupazione stentano, come è il caso dell’Italia negli ultimi vent’anni, il deficit cresce automaticamente a causa del costo di cose come la cassa integrazione e i minori introiti fiscali. La verità, quindi, è che il deficit è il sintomo del problema. Il problema è la crescita bassa e la disoccupazione, che porta per definizione a un aumento del rapporto debito/Pil. Non il contrario, co- me vuole la logica che continua a orientare le misure della trojka e a tenere in ginocchio Paesi prigionieri di un circolo vizioso di assenza di crescita.

Il deficit, pertanto, è una conseguenza automatica della mancanza di crescita. Solo quando l’Eurozona smetterà di aggrapparsi a cifre feticcio come il 3 per cento e sposterà l’attenzione su quelle tipologie di investimenti e riforme in grado di aumentare occupazione, produttività e crescita, si riuscirà a tenere il deficit sotto controllo, e soprattutto a consentire agli Stati di avere qualche speranza di veder crescere il denominatore del rapporto debito/ Pil e non solo il numeratore.

Ma che cosa sappiamo della crescita? È ovvio che avere le giuste condizioni «generali » (meno burocrazia, più flessibilità del mercato del lavoro, meno corruzione ecc.) è indispensabile. Ma senza i necessari investimenti pubblici e privati che incrementano la produttività nel lungo termine, la crescita è semplicemente impossibile. Sfortunatamente i commentatori, sia di destra che di sinistra, continuano a ignorarlo. Sentiamo dire spesso, per esempio, che il miracolo dell’export tedesco è merito delle riforme di Schröder che alla fine degli anni 90 tennero a freno i salari, con l’ovvio corollario che l’Italia e gli altri Paesi della «periferia» dovrebbero anche loro ridurre i salari e accrescere la flessibilità del mercato del lavoro.

Quello di cui non tiene conto questa analisi, però, è che (1) a tenere temporaneamente a freno i salari in Germania fu un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l’unificazione tedesca, che altrimenti avrebbe provocato disoccupazione di massa, specialmente nel Länder occidentali, e (2) che questo accordo fu stipulato in cambio non solo del mantenimento dei livelli occupazionali, ma anche di una riduzione dell’orario di lavoro (35 ore) e di investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione, che creano più posti di lavoro e posti di lavoro migliori in futuro. E sono proprio questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri Paesi come l’Italia sul versante della produttività.

Il vero disastro della «periferia» non è il costo del lavoro, ma la produttività. L’indicatore solitamente usato per la competitività è il costo unitario del lavoro, che può essere diviso in due componenti: (a) il costo del lavoro e (b) la produttività. La cosa evidente è che la differenza più marcata tra Paesi non è tanto nel costo del lavoro (in sé e per sé, specialmente se includiamo i contributi sociali, che in Germania sono più alti), ma nel rapporto con la produttività. L’Italia, per esempio, negli ultimi quindici anni ha avuto una crescita della produttività pari a zero (o addirittura negativa).

E come si ottiene produttività? Pagando meno i lavoratori? No. Si ottiene produttività consentendo ai lavoratori di lavorare in modo più efficiente, con una formazione all’avanguardia, macchine tecnologicamente avanzate, una divisione del lavoro innovativa e rapporti armoniosi tra capitale e lavoro. Si ottiene produttività anche avendo una percezione strategica della direzione in cui si vuole che vada l’economia. Quando la Germania decise di imboccare la strada della grüne strategie ( la strategia verde), sindacati, governo e imprese si sedettero a un tavolo e si mossero in modo concertato per trasformare i modelli di produzione, distribuzione e consumo in tutta l’economia e per disegnare nuove forme di istruzione in grado di preparare tecnici e ingegneri alla «rivoluzione verde». Fu il prodotto di una visione, non di un decreto ministeriale!

È tempo di riconoscere, in modo forte e chiaro, che il vero problema dell’Italia non è che i lavoratori guadagnano troppo, ma che i salari non crescono allo stesso ritmo della produttività, perché quest’ultima risente della stagnazione degli investimenti, sia da parte del settore pubblico che di quello privato, e della costante conflittualità, sia tra partiti politici che tra capitale e lavoro. Le aziende private italiane continuano a spendere meno della media in settori come la ricerca e sviluppo (cruciale per la produttività) e la formazione del capitale umano, e il settore pubblico italiano continua a preferire «sovvenzionare» e «incentivare», invece di investire strategicamente in aree a forte crescita. Si può liberalizzare, privatizzare, sottoporre a riforma strutturale qualsiasi cosa, ma non ci sarà crescita fintanto che non ci saranno investimenti dinamici e trasformazioni istituzionali di questo tipo. È questa la parte «strategica» (non automatica) del deficit che viene completamente ignorata. È chiaro che si devono ridurre gli sprechi, riformare i sistemi pensionistici europei in modo da renderli più uniformi ed eliminare la burocrazia non necessaria. Ma a meno che queste riforme non siano accompagnate da massicci investimenti (di dimensioni simili a quelle del Piano Marshall, ossia il 2,5 per cento del Pil dell’Unione europea), con nuove tipologie di collaborazione tra pubblico e privato che consentano un incremento della produttività e garantiscano posti di lavoro e opportunità per le nuove generazioni, rimarremo impantanati nella «stagnazione secolare». E non è un destino ineluttabile: è una nostra scelta, figlia di una totale mancanza di visione.

Sfiduciati

Sfiduciati

Davide Giacalone – Libero

L’immagine della locomotiva, riferita alla Germania, fa deragliare molti ragionamenti. In qualche caso, negli ultimi anni, oltre a non trascinare nessuno la Germania è stata trainata. Tenerlo presente aiuta a capire i dati sul calo della fiducia (indice Ifo), da parte delle aziende tedesche: è il quarto ribasso consecutivo e, per giunta, ci si aspettava il calo di un punto (a 107 da 108 di luglio), invece è stato di un 1,7 (106,3). Posto ciò, e prima di guardare dentro al problema, meglio non dimenticare che il prodotto interno lordo tedesco è previsto in crescita di un punto e mezzo, alla fine del 2014, avendo perso mezzo punto rispetto alle previsioni di inizio anno. Noi, invece, abbiamo perso di più (0,6-0,7), rispetto alle previsioni del governo, e chiuderemo a zero o a zero più un nulla, in quel caso festeggiando il non avere chiuso in negativo. Così, giusto perché non sfuggano le differenze, ingigantite dai dati del passato prossimo.

Torniamo alla locomotiva. La Germania sarebbe effettivamente tale se i suoi consumi interni trascinassero le esportazioni di altri paesi europei. Ma non è così. Il modello tedesco, negli ultimi anni, s’è retto su tre pilastri: a. riforme del mercato interno, per rilanciare la competitività; b. basso costo per l’accesso ai capitali; c. esportazioni verso aree extra Unione europea (in questo incorporando importanti componenti made in Italy). La prima cosa è un loro merito (ed è una nostra colpa stare ancora qui a chiacchierare anziché adeguarci). La seconda è stata un coltellata alla schiena degli altri europei, noi per primi, in parte responsabili del loro disordine finanziario, in parte inchiodati da come l’euro è stato concepito e fin qui realizzato. La terza è un legittimo successo, salvo che ora il mondo s’è fatto meno ospitale, sicché le tensioni rendono meno floridi i commerci. A questo aggiungete che il nuovo governo, che ha sempre Angela Merkel come cancelliere, ma una composizione politica che ora comprende i socialdemocratici, ha deciso di indebolire il primo pilastro, puntando all’aumento dei salari minimi. Mettete assieme queste cose e vi spiegherete perché le aziende tedesche nutrono qualche preoccupazione.

Quel modello, comunque, non era una locomotiva per l’economia Ue. Noi italiani siamo stati vicini alla caldaia, a spalare carbone e consentire al ciuf-ciuf di non ansimare. Lo abbiamo fatto pagando il denaro assai più dei tedeschi. E lo abbiamo fatto finanziando gli europei in grave crisi e, con questo, alleggerendo le banche tedesche dai non pochi errori (e orrori) commessi. Il frutto di questi squilibri lo si sente nel cappio che il debito pubblico stringe attorno al nostro collo, costandoci il doppio del deficit consentito. E lo si vede anche nella bilancia commerciale tedesca, patologicamente e irregolarmente in avanzo. A far da controprova che la locomotiva era un vagone letto.

Nel corso di questa estate si sono lette tante cose, circa le ricette economiche da adottare. L’ingrediente più diffuso è stato la novità. C’è bisogno di idee nuove, s’è detto e scritto. Le ricette nuove sono sempre interessanti, se non pretendono di venderti un cecio con sentore di tamarindo quale pasto completo e sofisticato. Però la cucina ha una sua tradizione di ragionevolezza, destinata al nutrimento con soddisfazione. Supporre che i banchieri centrali o i mumble-mumble economici possano trasformare i debiti in ricchezza e la nullafacenza in produttività, non è da ottimisti, ma da illusi. Noi italiani abbiamo bisogno di cose semplici, benché non facili: lavorare di più, più numerosi, con meno tangente fiscale, avendo meno mantenuti sulle spalle. Rozzo? Certo, ma anche un panino al salame può esserlo, restando più convincente del citato cecio. In Europa, invece, ci si deve decidere: o si sta tutti ai parametri, nel qual caso i tedeschi paghino per i loro sforamenti; oppure ci si decide a ricordarsi che siamo l’area più ricca e produttiva del mondo, sicché si potrebbe provare ad accompagnare la politica, e la democrazia, alla moneta comune.

Non c’è modo che questi problemi si risolvano da soli. Mentre è da sciocchi supporre che qualcuno li risolva per noi.

Due regole non scritte

Due regole non scritte

Antonio Polito – Corriere della Sera

Appena sabato scorso Arnaud Montebourg aveva detto a Le Monde che «l’Europa deve fare come Matteo Renzi» e liberarsi dell’«ossessione tedesca per l’austerità». Non gli ha portato bene. Tre giorni dopo è stato licenziato da François Hollande, aprendo a Parigi una crisi di governo di inusitata gravità, solo cinque mesi dopo la nascita dell’esecutivo guidato da Manuel Valls (un altro che è stato spesso paragonato a Renzi).

Naturalmente il ministro dell’Economia francese non è stato punito perché troppo renziano. Anzi, se si vuol stare al paragone con l’Italia, il Don Chisciotte della sinistra d’Oltralpe assomiglia più a un Fassina o a un Bertinotti vecchia maniera. Ma la sua cacciata conferma due leggi della politica europea da cui neanche la Francia si è mai allontanata, e che faremmo bene a tenere sempre a mente anche noi italiani. 
La prima è che delle «due sinistre» quella che non fa i conti con la realtà, che si illude e illude gli elettori di poter tornare all’età dell’oro socialdemocratica facendo deficit e mettendo tasse, è destinata a perdere. Seppure su scala minore, la crisi di Parigi ricorda lo scontro con cui alla fine degli anni Novanta il Cancelliere Schröder si liberò del ministro Lafontaine a Berlino. La rottura della Spd con la sinistra interna diede il via alla stagione di riforme che salvarono la Germania dal declino economico, e aprirono la strada all’era Merkel. Hollande, allo stesso modo, vuole riaffermare la sua autorità sul partito e sul governo proprio mentre è impegnato in un programma di riforme liberali della stagnante economia francese.

La seconda legge che esce confermata dalla punizione di Montebourg è che Parigi, chiunque sia al governo, non guiderà mai un fronte di opposizione alla Germania. La Francia non ha alcun interesse a diventare il capofila dei deboli. Sia perché la sua missione politica è quella di stare nel cuore dell’Europa, sia perché i mercati la premiano finché resta attaccata a Berlino, con tassi di interesse bassi quando non addirittura negativi, nonostante deficit alti e crescita zero. Perché mai Hollande dovrebbe dunque trasformare la sua retorica anti-austerità in un vero e proprio scontro con la Merkel, come il ministro ribelle lo invitava a fare?

È bene dunque non farsi troppe illusioni su presunti assi mediterranei tra Parigi e Roma per piegare Berlino. Ogni Paese deve contare sulla sua credibilità prima di ogni altra cosa. La Spagna, per esempio, ha fatto riforme efficaci dell’economia che le hanno consentito a giugno, insieme al Portogallo, di dire di no alla richiesta italiana di maggiore flessibilità nei conti, e che probabilmente le varranno la nomina di Luis de Guindos alla presidenza dell’Eurogruppo (con il francese Moscovici che conquista l’Economia e la nostra Mogherini piazzata alla Politica estera).

Non abbiamo dunque altra strada che trasformare le promesse e gli annunci della stagione Renzi in realtà. Il nostro governo ha ancora un grande capitale di fiducia da spendere in Europa. Ma deve agire. Riforme radicali della giustizia e del mercato del lavoro sono, nelle prossime settimane, l’unica vera arma di cui dispone. E, come i fatti francesi hanno dimostrato, valgono molto più degli applausi di un Montebourg.

La partita che l’Italia rischia di perdere

La partita che l’Italia rischia di perdere

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Dal Consiglio dei capi di Stato o di Governo della Ue di sabato dovrebbero arrivare le designazioni sia dei commissari europei sia del presidente del Consiglio sia dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Sembra che il commissario per gli affari economici e monetari sarà francese, che il presidente del Consiglio (di cui Van Rompuy ha dimostrato l’importanza) sarà spagnolo, che l’Alto rappresentante (di cui la Ashton ha dimostrato l’irrilevanza) sarà italiana.

Noi abbiamo sempre sostenuto che l’Italia doveva avere un commissario per l’economia reale sia con un ruolo di coordinamento tra vari altri commissari sia per varare l’industrial compact. Così avremmo pesato davvero nei prossimi cinque anni sia nel governo economico dell’Europa sia nell’attenuare la linea (per necessità) filotedesca della Francia. Cioè quella del rigore senza crescita. Già ora non sono un buon segnale le dimissioni del governo francese per sbarazzarsi del ministro dell’economia che aveva accusato la politica economica francese di sudditanza alla Germania. Anche se Hollande stesso, sia pure garbatamente, ha più volte espresso riserve sulla politica del rigore.

L’urgenza della crescita. Il prossimo quinquennio istituzionale europeo sarà infatti cruciale per il rilancio della crescita perché la crisi occupazionale della Uem da socio-economica potrebbe diventare istituzionale. Sono preoccupazioni espresse nei giorni scorsi sia da Mario Draghi (con il garbo del suo status) sia più duramente dal premio Nobel Joseph Stiglitz che ha paventato un quarto di secolo di crisi europea se non si fanno investimenti infrastrutturali e non si spinge la domanda. Angela Merkel gli ha risposto direttamente (e forse indirettamente anche a Draghi) confermando la politica del rigore e delle sanzioni (da appesantire!) ai Paesi europei che non rispettano i vincoli di bilancio. Su queste premesse un confronto tra governi sarà inevitabile nei Consigli della Ue dove non basta la determinazione perché ci vuole anche potere e competenza. Carature che Draghi ha, ma che non userà certo per l’Italia essendo il suo ruolo nella e per la Uem.

Le valutazioni di Draghi. Nel recente simposio dei banchieri centrali negli Usa, Draghi scegliendo di trattare della “disoccupazione nell’area euro” ha ricollocato la sua funzione di banchiere centrale in quella ben più ampia di una personalità preoccupata della tenuta della Uem stessa. Così noi interpretiamo liberamente il suo intervento. Egli è stato netto sia sui danni pervasivi di una elevata disoccupazione che diventa crescendo sempre più strutturale in molti Paesi sia sull’urgenza di combatterla accettando il rischio di fare troppo piuttosto che troppo poco. Su questo obiettivo primario Draghi articola (garbatamente) le sue proposte di politica economica a tutto campo (monetaria, fiscale, delle riforme strutturali, per gli investimenti) con riferimento sia alle politiche della domanda che a quelle dell’offerta, per l’Eurozona e i singoli Paesi membri.
In premessa Draghi segnala che la Bce ha fatto e farà tutto il possibile per combattere la disoccupazione (che per noi si coniuga con deflazione-stagnazione) dell’Eurozona. Precisa però che la Bce, date le condizioni iniziali della Uem e i vincoli legali, non ha potuto (diversamente dalla Banche centrali di altri Paesi) attuare un acquisto generalizzato di titoli obbligazionari di Stato (e non) creando moneta (quantitative easing) e così supportando la politica fiscale.

Noi dubitiamo che adesso questa scelta sarebbe efficace nella Uem dove la fiducia s’è volatizzata e per questo preferiamo altre politiche economiche proposte da Draghi per rilanciare la Uem e ridurre la disoccupazione. Continuando nella nostra libera sintesi interpretativa (soprattutto per i riferimenti ai Paesi che egli non cita), Draghi rivolge moniti ai Paesi (come Italia e Francia) che non possono fare politiche espansive dati i vincoli di bilancio, invitandoli a riforme strutturali e ad una migliore composizione tra tassazione (da abbassare) e spesa pubblica (da ristrutturare). Rivolge anche moniti ai Paesi (come la Germania) che possono invece fare politiche espansive della domanda che contribuirebbero alla crescita di tutta l’Eurozona.

La governance dell’Eurozona. Draghi rivolge infine raccomandazioni per una governance dell’Eurozona affinché interpreti le regole di bilancio vigenti in modo flessibile così da ridurre i costi delle riforme e aumentare la crescita nei Paesi più deboli (leggasi scambio flessibilità-riforme) e dia corso a un programma di investimenti pubblici. Queste valutazioni chiariscono che il tempo si è fatto davvero breve e che urge la concretezza delle decisioni da combinare però con riforme a medio termine del governo dell’Eurozona. Ciò significa ripartire dai due programmi del novembre e dicembre 2012 per “un’autentica unione economica e monetaria” elaborati rispettivamente dalla Commissione europea e dai quattro presidenti (Van Rompuy, Barroso, Juncker, Draghi). Sulla loro base il Consiglio europeo del dicembre 2012 ha preso delle deliberazioni che si sono però concentrate sulle prescrizioni di bilancio e sull’Unione bancaria. Tenui sono invece le tracce di politiche per gli investimenti e le infrastrutture salvo un accenno a investimenti pubblici produttivi ricompresi nel quadro di bilancio poliennale della Ue e nel rispetto dei vincoli di bilancio per i singoli Stati. Adesso che la situazione si è fatta (ancora) più grave (anche perché allora non c’era deflazione) vanno forzate le tappe ricollocando i citati programmi per la Uem dentro quello del neo-presidente della Commissione Juncker (si veda il nostro articolo del 20 luglio scorso) e sfruttando le possibilità del Trattato di Lisbona sulle cooperazioni rafforzate dell’Eurozona.

Una conclusione: finanziare gli investimenti. Juncker ha prefigurato infatti un programma di investimenti per 300 miliardi nei prossimi 3 anni ponendo una forte enfasi sull’economia reale, sull’industria, sulle infrastrutture e sulla Bei. Juncker e Draghi, che hanno collaborato spesso, potrebbero dare una scossa alla Uem puntando subito ad una emissione di obbligazioni ventennali della Bei per 100 miliardi sottoscritta dalla Bce. Si potrebbero così spingere gli investimenti infrastrutturali e delle imprese per entità che, anche per i moltiplicatori e per i partenariati pubblico-privati, arriverebbero facilmente ai 300 miliardi del piano Juncker. La Bei darebbe la certezza di investimenti veri senza intaccare i bilanci dei Paesi deboli e così superando anche le obiezioni della Germania alla “golden rule” per i singoli Paesi.

In economia meno potere agli Stati

In economia meno potere agli Stati

Stefano Lepri – La Stampa

Mario Draghi è oggi il primo degli europeisti. E si tratta di un europeismo democratico, non tecnocratico. Il suo discorso dell’altro giorno rappresenta in primo luogo una svolta radicale nella dottrina della Bce: l’economia nell’area euro non ripartirà senza un impulso – uno stimolo, per dirla all’americana – dai bilanci pubblici. Per realizzarlo occorreranno decisioni che esprimano l’interesse dei cittadini dell’area euro nel loro insieme; non basta la sommatoria delle politiche dei governi, che ci ha condotto nel vicolo cieco dove ci troviamo. Questo risulta dalla stringente analisi economica condotta da Draghi; ovviamente trarne le conclusioni spetterà ai politici. Ne saranno all’altezza?

Nei mesi scorsi, il presidente della Bce era stato accusato di muoversi con troppa lentezza, timoroso di nuove rotture con i tedeschi. Per molto tempo, aveva proceduto a passi piccoli, talvolta quasi impercettibili, seppur con costanza. Infine, davanti a un pubblico americano a lui più vicino per studi e mentalità, ha compiuto un balzo. Alcune cose che ha detto stanno facendo, faranno scandalo in Germania. Ha detto che l’austerità degli anni 2011-12 era «necessaria» a causa dei difetti di costruzione dell’area euro, ma è stata anche eccessiva. Continua a sostenere che le riforme strutturali sono urgenti ma vi aggiunge – novità assoluta – che per la ripresa occorrono «politiche di domanda» ossia meno rigore di bilancio.

Si attenua l’ansia per l’eccessivo debito pubblico, di fronte a troppe persone senza lavoro. In parte, la crescita la può ottenere ciascuno Stato tagliando spese poco utili e abbassando le tasse (operazione politicamente ardua, perché le resistenze delle relativamente poco numerose vittime dei tagli sono più forti, all’inizio, della gratitudine dei contribuenti). Ma non basta.

Tuttavia non si possono infrangere le regole di bilancio europee, frutto della diffidenza reciproca tra gli Stati, giustificata dai passati comportamenti irresponsabili di alcuni tra essi. Ne risulterebbero contrasti capaci solo di condurre alla paralisi. Ma la somma di politiche nazionali che rispettano le regole produce, oggi, un bilancio troppo restrittivo, recessivo, per l’insieme dell’area euro. Questa è la vera «cessione di sovranità» che Draghi propone. Non dunque di esautorare governi liberamente eletti a favore di qualche gelido progetto tecnocratico. Tutt’altro: in nome degli interessi dei cittadini dell’area euro – soprattutto di quelli che sono disoccupati – occorre vedere che cosa aggiungere alle politiche dei governi nazionali. Ovvero, se lo Stato italiano ha troppi debiti per spendere, gli investimenti necessari al futuro benessere nostro e del resto dell’area euro dovranno venire dal bilancio della Germania e degli altri Stati dai bilanci sani, o da quel programma comune promesso dal neopresidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e a cui Berlino fa resistenza.

Nel gioco europeo sono dunque cambiate molte carte in tavola. Ricordiamoci che fino a ieri la Bce sosteneva che le regole del Fiscal Compact, casomai, non erano severe abbastanza. D’ora in poi, pignolerie eccessive contro l’Italia sono escluse. Tanto più quando Draghi ricorda che la stessa Commissione europea esprime dubbi su uno dei parametri usati per definire l’«obiettivo di medio termine» dei bilanci pubblici. Dove sono gli ostacoli da superare? C’è in realtà una simmetria perversa tra il nazionalismo economico conservatore dominante in Germania e un nazionalismo di sinistra che, presente da tempo in Francia, trova ora le sue forme anche in Italia. Una Europa più vicina ai cittadini si costruisce, appunto, in Europa; non ridando potere alle classi politiche nazionali.

Il lavoro la priorità

Il lavoro la priorità

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

Dopo giorni passati a strologare sui contenuti del dialogo Renzi-Draghi a Città della Pieve, ci ha pensato il presidente della Bce a dare qualche indizio in più: «La Bce – ha detto nel suo intervento a Jackson Hole – non può sostituirsi ai governi che devono fare le riforme». E la «riforma decisamente prioritaria è quella del mercato del lavoro». Non è dato sapere come il tema sia stato affrontato nel dettaglio nell’incontro con Renzi, ma questo è il Draghi-pensiero. Ed è difficile non condividerlo se si guarda alle differenti performance sull’occupazione nei vari Paesi europei interessati dalla crisi. Con gli Stati che hanno introdotto per tempo una maggiore flessibilità nel proprio mercato del lavoro che fanno registrare la risposta migliore in termini di tassi di disoccupazione.

Eppure è proprio sul lavoro che si registrano i ritardi maggiori del riformismo di Renzi. Impostata a gennaio, in piene vacanze natalizie e con al Governo ancora Enrico Letta, la delega sul Jobs act è ancora lontana dal via libera parlamentare. Doveva essere approvata a luglio dal Senato, poi la maggioranza ha deciso di farla slittare. Si riprenderà a settembre, ma le divisioni nella maggioranza sull’articolo 18 (e non solo) rendono più che concreto il rischio di un ulteriore rinvio. Si tratta, tra l’altro, di un disegno di legge delega, che rinvia di fatto gran parte della riforma ai successivi decreti delegati. E qui la lista d’attesa è lunga, come dimostra l’aggiornamento della periodica inchiesta di Rating 24 sui provvedimenti attuativi. Nuovi ritardi possono dunque assommarsi ai vecchi, lasciando il surreale dibattito agostano sull’articolo 18 come l’ennesima espressione dello sterile riformismo parolaio di cui si alimenta la parte peggiore della politica italiana.

Il Jobs act è stato ed è l’atto originario del rifomismo renziano. E il pressing delle imprese ha portato all’importante primo risultato della revisione per decreto della legge Fornero sui contratti a termine. Ma poi le priorità della maggioranza sono inopinatamente diventate altre. Alla ripresa dei lavori parlamentari è bene che i fari tornino ad accendersi sulla riforma delle riforme. Non perché lo dice Draghi. Ma perché lo dicono i numeri dei Paesi che hanno riformato il loro mercato del lavoro.

I numeri, certamente, della Germania del pacchetto Hartz che – attraverso i mini-lavori, le politiche attive, la flessibilità degli orari e la moderazione salariale – ha conosciuto il più basso tasso di disoccupazione dalla riunificazione con il 5,5% nel 2012. Ma anche gli esempi, ancor più significativi, di alcuni dei Paesi che più hanno risentito della crisi, come l’Irlanda e la Spagna.

Dublino, dopo aver molto sofferto sul piano occupazionale la prima fase della crisi, quella legata ai crack finanziari, ha risposto molto meglio nella seconda (debiti sovrani) grazie all’approvazione di un pacchetto di riforme del lavoro sotto il programma Ue-Fmi a partire dal novembre 2010. Madrid, invece, con il suo rigido dualismo del mercato del lavoro, ha duramente sofferto fino alla riforma del 2012, che ha segnato un’inversione di tendenza e una riduzione dei disoccupati da 5 a 4,4 milioni.

I numeri certamente non dicono tutto. E si può discutere della qualità dei posti di lavoro creati. Ma intanto quei numeri dicono con certezza che chi ha riformato il proprio mercato del lavoro, rendendolo più flessibile e adattabile ai cambiamenti di questi ultimi anni, ha riportato i risultati migliori sul fronte occupazionale. Sarebbe un paradosso che Renzi e la sua maggioranza non ne tenessero conto con una decisa spinta riformista in questo senso.

Del lavoro fa parte anche la questione scuola. L’occupazione in Europa tornerà a crescere solo se, come ha detto Draghi a Jackson Hole, aumenterà «the skill intensity of the workforce». Più formazione, dunque, più education. Renzi ha indicato proprio la riforma della scuola come una sua grande priorità per il Consiglio dei ministri del 29 agosto: «Presenteremo – ha detto – una riforma complessiva che intende andare in direzione dei ragazzi, delle famiglie e del personale docente». Speriamo che vada soprattutto nella direzione degli studenti e della loro capacità/possibilità di trovare/crearsi un lavoro. La verifica sarà facile: se si darà finalmente all’insegnamento della lingua inglese lo spazio che merita, sarà una buona riforma. Altrimenti no. Tenere sui banchi di scuola i nostri ragazzi per 13 anni e non garantirgli uno strumento oggi indispensabile per costruirsi un percorso lavorativo è un delitto. Soprattutto per una sinistra che vuole fare dell’eguaglianza delle opportunità la sua bandiera.

La conoscenza o meno delle lingue è il primo fattore di diseguaglianza, perché si acquisisce proprio nella prima fase della competizione sociale. Se si darà a tutti, non solo ai figli dei ricchi, la possibilità di comunicare in inglese alla fine del percorso scolastico si sarà fatta la più utile riforma della scuola che si possa fare. E forse anche un piccolo pezzo di riforma del lavoro. A volte il riformismo è più semplice di quello che si possa pensare. Sindacati permettendo, ovviamente.

Non è più tempo di alibi

Non è più tempo di alibi

Massimo Gaggi – Corriere della Sera

Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, non parla di «bazooka», di armi monetarie straordinarie per evitare la deflazione e battere le tendenze recessive che riemergono anche nelle economie europee più solide. Non lo fa perché non è una parola del suo vocabolario, ma, soprattutto, perché un’arma simile non esiste. Ci fosse, sarebbe il momento di usarla perché la situazione è veramente difficile. E la Banca centrale europea promette che, per quello che potrà fare, non si tirerà indietro: stretta tra crescente disoccupazione strutturale, economie che non crescono e vincoli di bilancio, l’Europa ha bisogno di interventi simultanei e massicci sia dal lato del sostegno alla domanda da attivare con le politiche monetarie e fiscali, sia da quello delle riforme strutturali.
È il momento di fare: in fretta e rischiando anche molto. È questo il cuore del messaggio che il capo della Bce trasmette ai colleghi banchieri centrali che lo ascoltano al simposio annuale di Jackson Hole, sulle Montagne Rocciose, ma anche ai policymakers europei e ai mercati: «Il rischio di fare troppo è ormai nettamente inferiore a quello di fare troppo poco». Fare di più esponendo maggiormente la Bce, ma anche attuando politiche fiscali più coraggiose, coi governi chiamati a investire il loro capitale politico in strategie di riduzione delle tasse (soprattutto il cuneo fiscale) e della spesa pubblica, ma anche in riforme radicali del mercato del lavoro nei Paesi che oggi soffrono di maggiore rigidità: Draghi non cita mai l’Italia ma il riferimento è implicito, visto che l’esempio sul quale si sofferma è un confronto tra Spagna e Irlanda, con quest’ultima che si è ripresa più rapidamente dalla crisi anche grazie all’elevata flessibilità della manodopera che ha consentito alle imprese, nei momenti più difficili, di risparmiare sul costo del lavoro. La Spagna, rimasta troppo a lungo rigida, ha pagato l’incomprimibilità delle retribuzioni con un forte taglio degli occupati. Fino al 2012, quando Madrid ha cambiato rotta: oggi sta cogliendo i primi frutti della maggiore flessibilità.
L’Italia no. Draghi non lo dice e non solo per evitare nuove polemiche a Roma: a Jackson Hole è andato per parlare delle difficoltà di un’area, l’Europa, che rappresenta il più grande mercato mondiale e che fatica a difendere un modello sociale tanto prezioso quanto fragile. Il capo della Bce era atteso al varco anche da analisti non del tutto benevoli che imputano alla Bce alcuni errori di previsione e l’adozione di misure monetarie meno efficaci di quelle messe in campo dalla Federal Reserve.
Secondo questi critici proprio il confronto ravvicinato con Janet Yellen, l’economista succeduta pochi mesi fa a Ben Bernanke alla guida della Fed (ha parlato a Jackson Hole qualche ora prima di Draghi), avrebbe dovuto far emergere il contrasto stridente tra le due situazioni: l’America in ripresa e con l’occupazione in crescita ormai da cinque anni consecutivi che sta per azzerare i sostegni straordinari offerti all’economia sotto forma di acquisto di titoli pubblici e obbligazioni private sul mercato. E che si prepara ad aumentare, nel 2015, il costo del denaro, pressoché azzerato ormai da sei anni.
In realtà la Yellen, pur confermando le scelte di fondo della Banca centrale Usa e riconoscendo che i numeri ufficiali del mercato del lavoro cominciano a muoversi verso uno scenario di piena occupazione, ha dato un’interpretazione della realtà economica americana molto più problematica e allarmata: i 19 indicatori sui quali la Fed basa le sue valutazioni dicono che il calo della disoccupazione è sovrastimato e che il mercato del lavoro è ancora molto problematico. Chi si aspettava che la Fed potesse accelerare il percorso verso l’aumento del costo del denaro è rimasto deluso. La Yellen non intende anticipare gli interventi in questo campo: se ne parlerà, pare di capire, a metà dell’anno prossimo, non prima.
Da un punto di vista strettamente monetario la cosa non è molto positiva per la Ue visto che potrebbe attenuare la corsa al rafforzamento del dollaro che indebolisce l’euro e rende le nostre merci più competitive. Ma con la sua analisi la Yellen ha anche dimostrato che, pur essendosi mossa meglio, l’America si dibatte tuttora negli stessi problemi che affliggono l’Europa. Niente mal comune mezzo gaudio, ma in questo contesto è più facile per Draghi spiegare perché in Europa tutto è stato molto più difficile: dalle impostazioni divergenti dei vari governi al fatto che il primo choc, quello del sistema creditizio nel 2008, è stato seguito da un secondo trauma, quello dei debiti sovrani dei Paesi più deboli, che ha «gelato» di nuovo l’occupazione europea quando ormai quella Usa era in pieno recupero. Ma, soprattutto, è stato più facile per Draghi concentrarsi sul pesante carnet delle cose da fare.
Il capo della Bce ha parlato molto più di politiche fiscali e del lavoro che di interventi monetari: un’occasione ghiotta per chi vuole alimentare polemiche fini a se stesse. In realtà Draghi ha ribadito quello che per anni Bernanke ha ripetuto davanti al Congresso di Washington: la politica monetaria può fare molto, ma non può sostituire gli interventi dei governi e le riforme strutturali indispensabili per affrontare le sfide di un mondo completamente cambiato sia per quanto riguarda la dislocazione geografica del reddito e delle capacità produttive, sia per il cambiamento di prodotti e tecnologie. La Bce farà la sua parte, ha promesso Draghi senza entrare in dettagli (acquistare obbligazioni sul mercato, ad esempio, è più difficile per l’Eurotower che per la Fed alla quale nessuno ha mai chiesto di non sottoscrivere troppi titoli della California o del Kansas). E l’indebolimento dell’euro indica che i primi risultati di questa politica già ci sono. Ma se si vuole davvero aggredire una disoccupazione strutturale che può diventare irreversibile dobbiamo tutti rischiare molto di più: governi, parlamenti, sindacalisti. E, inevitabilmente, anche noi cittadini.

Saranno droga, prostituzione e mafia a salvare i conti del 2014

Saranno droga, prostituzione e mafia a salvare i conti del 2014

Sergio Soave – Italia Oggi

Matteo Renzi ironizza sulla discussione agostana sulle intenzioni «segrete» dell’esecutivo e in particolare sulle ipotesi che circolano di riduzione delle pensioni o di aumento delle tasse, come se si trattasse soltanto di elucubrazioni giornalistiche prive di fondamento o magari animate da ostilità politica. In questo caso, però, il sarcasmo del premier non è giustificato. Renzi ha ammesso che la crescita prevista per quest’anno non ci sarà, ha insistito a garantire che l’Italia manterrà gli impegni sul deficit, e questi due elementi dicono che mancano almeno cinque miliardi. Se si aggiunge che già la legge di Stabilità in vigore prevede che nel caso in cui non si raggiungano gli obiettivi si ricorrerà a un abbattimento lineare delle detrazioni (cioè a un aumento della tassazione) si vede che l’attesa di nuove tasse, che può essere surrogata solo da riduzioni di spesa che incidono sui grandi aggregati, l’unico dei quali che si può aggredire in tempo per ottenere un effetto sul bilancio dell’anno in corso è la previdenza, è tutt’altro che campata per aria.

D’altra parte, se le cose stanno davvero come dice il premier, il suo obiettivo polemico dovrebbero essere i membri del governo che si sono spesi per spiegare che una riduzione delle pensioni chiamate d’oro (ma che sarebbero quelle superiori a 2 mila euro) sarebbe tutto sommato equa. Renzi spiega che invece i risparmi ci saranno e saranno riduzioni di spesa pubblica, ma è lecito dubitare che queste, se non riguardano la previdenza, possano produrre effetti contabilizzabili nell’ultimo trimestre dell’anno. Probabilmente quello su cui il governo conta è l’effetto del mutamento della base statistica su cui si calcola il prodotto interno e quindi ovviamente la percentuale di deficit. Se in questo modo si aumenta il pil formalizzato si può aumentare il deficit mantenendolo all’interno dei vincoli europei, ma questo artificio si può applicare una volta sola e il problema si riproporrà, aggravato, nell’anno prossimo, nel quale peraltro, dovrebbe cominciare a operare la tagliola infernale del fiscal compact. Sarebbe ingeneroso attribuire al governo la responsabilità della situazione deflattiva che si è creata e che coinvolge quasi tutta l’Europa. Ma è altrettanto ingiusto accusare di strumentalità chi, facendo quattro conti, chiede al governo di spiegare come intende fronteggiare le conseguenze negative di un ciclo che non corrisponde alle previsioni troppo ottimistiche. E se si fa uso di troppa fantasia è anche perchè da parte del governo non si eccede certamente in chiarezza.