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L’ultimo avvertimento

L’ultimo avvertimento

Danilo Taino – Corriere della Sera

La sera del 25 maggio scorso, l’Italia era la beniamina dell’Europa: la netta vittoria di Renzi alle elezioni per il Parlamento di Strasburgo apriva una fase di possibile stabilità politica nella quale realizzare le sempre attese riforme strutturali. La terza economia dell’Eurozona sollevava nei governi e nei mercati aspettative del tutto nuove. Ieri, quella fase era già finita: da Francoforte, Mario Draghi ha separato il caso italiano da quello degli altri Paesi dell’area euro, i quali, mentre Roma rinviava, hanno, chi di più chi di meno, riformato le loro economie. L’Italia sembra tornata a essere il primo problema dell’Europa.

Anche con esempi per un governatore «non convenzionali» – il racconto di imprenditori e di giovani che in Italia non riescono a investire a causa della troppa burocrazia – il presidente della Banca centrale ha dedicato buona parte della sua conferenza stampa mensile a spiegare il perché nell’Eurozona siamo in presenza di una ripresa «non allineata»: i Paesi che hanno fatto le riforme strutturali – «mercato del lavoro, dei prodotti, concorrenza, giudiziario e così via» – crescono, gli altri no, come si è visto dagli ultimi dati del Prodotto interno lordo. Si possono avere tassi d’interesse ai minimi, la Bce può inondare i mercati di denaro, si possono tagliare le tasse (doveroso), ma tutto è inutile se le rigidità del sistema economico impediscono di aprire business, di assumere, di espandere la propria attività, di contare su mercati trasparenti e su norme certe e applicabili. La mancanza di riforme strutturali crea incertezza, «un fattore molto potente che scoraggia gli investimenti».

Poco più di due mesi dopo quel 25 maggio, nelle istituzioni, nei governi ma anche sui mercati, c’è insomma un cambiamento di clima nei confronti della capacità dell’Italia di rendere efficiente l’economia, quasi un contrordine. E questa è una delle ragioni per le quali Draghi insiste sulla necessità di cedere sovranità a Bruxelles anche per quel che riguarda le riforme strutturali: se un Paese non è in grado di farle, glielo si imponga, come già avviene con i bilanci pubblici e con la gestione delle banche. L’Italia è troppo importante e grande per essere lasciata andare a fondo.

Niente di cui essere soddisfatto, per il governo italiano. Il ritorno della recessione e l’analisi del presidente della Bce, non sono però una condanna senza appello per Renzi. Anzi, potrebbero essere un’opportunità per ridefinire priorità e urgenze e per assumere un approccio più solido alla Ue. Se la scelta di iniziare il cammino riformista con l’abolizione del Senato e non con interventi strutturali sull’economia ha probabilmente determinato una tempistica avventata, ora si tratta di mettere sul tavolo impegni precisi e tempi certi per realizzare riforme come quelle indicate da Draghi. Dall’altra parte, va messa in disparte la retorica polemica nei confronti dell’Europa che non darebbe abbastanza flessibilità ai bilanci pubblici, cioè alla spesa: è un argomentare fragile che, tra l’altro, ai partner che hanno fatto «i compiti a casa» appare come la scusa di chi non ha l’energia per impostare una svolta riformista. La Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, persino la Grecia indicano che quando si fanno programmi seri di riforma e li si rispettano l’economia riprende fiducia e riparte prima di quanto ci si aspetti. E che, una volta sollevate, le aspettative non vanno poi lasciate cadere: il 25 maggio non è per sempre.

I rimedi che servono all’Europa

I rimedi che servono all’Europa

Stefano Lepri – La Stampa

Si può obiettare a Draghi un po’ di schematismo, quando afferma che la ripresa economica c’è nei Paesi che hanno fatto riforme di struttura e manca in quelli che esitano. Al momento, nell’area euro a gonfie vele non ci va nessuno. Ma il presidente della Bce fa bene a insistere su quel punto, perché lì l’Europa è bloccata. Finché Italia e Francia non avranno preso di petto i rispettivi problemi non sarà possibile avviare quelle azioni collettive che pure al nostro continente servono. È ovviamente nel nostro interesse avere un Paese che funzioni meglio. In più, un governo che mostri impegno a renderlo tale ridurrà la diffidenza che spinge i Paesi nordici dell’euro a chiudersi nei rispettivi egoismi nazionali. A breve termine, solo più incisive azioni di politica economica a Parigi e a Roma possono rendere facile alla Bce la misura anticrisi aggiuntiva che molti le sollecitano, ovvero una massiccia espansione monetaria («quantitative easing») come attuato dalla Federal Reserve Usa o dalla Banca d’Inghilterra.

Forse sarebbe un po’ tardi. Forse i rischi sono cresciuti, come avvertiva ieri il governatore della Banca dell’India Raghuram Rajan, economista di grande fama: si sono spinte troppo in alto le Borse senza dare impulsi sufficienti alla produzione. Però all’Europa occorrono rimedi fuori dall’ordinario. Il rallentamento che pare estendersi (vedremo nei prossimi giorni altri dati sui Pil del secondo trimestre) non può essere attribuito tutto alla cattiva influenza dei Paesi malati come il nostro.

Può darsi che la ricetta tedesca di puntare tutto sull’export non funzioni più tanto bene nemmeno per la Germania stessa. Mostra aspetti di fragilità la ripresa della Spagna, indicata come esempio perché alcune importanti riforme le ha fatte.

La scarsa fiducia delle imprese nel futuro, che fa mancare gli investimenti, non è un fenomeno solo italiano; stupisce anzi di più nel Nord Europa. In una prospettiva più ampia, occorrono progetti comuni: Draghi indica in quella direzione parlando di sovranità condivisa sulle riforme. Non è molto il tempo per reagire: né in Italia né in Europa. Un avvio rapido delle riforme da noi – inutile discettare se sia più urgente la parte politico-costituzionale o quella economica – può essere utile a tutti gli altri Paesi.

Il rischio, ben presente ai politici, è che gli interventi siano impopolari nell’immediato, fruttuosi molto più tardi. Ma esitando la situazione non potrà che peggiorare. Il nuovo soccorso della Bce, se arriverà, arriverà soltanto verso la fine dell’anno. Se l’Italia si muove, in altre capitali diverrà meno facile negare che esistano nell’area euro problemi comuni per i quali le ricette fin qui sperimentate non bastano. Non nascondiamoci tuttavia che la Francia rappresenta oggi una incognita forse maggiore. Certo non è facile muoversi se autorevoli intellettuali sostengono, contro la riforma del Senato, che la più solida garanzia di libertà è un governo debole o se la sinistra Pd e Sel si uniscono ai Fratelli d’Italia nel firmare il referendum contro il Fiscal Compact europeo. La grande crisi ha posto l’Europa, l’Europa in particolare, davanti a problemi del tutto nuovi. Dunque fa invecchiare rapidamente le idee. Anche di questo occorre tenere conto.

L’Italia tornerà ai livelli pre-crisi solo nel 2042

L’Italia tornerà ai livelli pre-crisi solo nel 2042

Come dimostra plasticamente il grafico qui sotto il passo indietro del Pil certificato ieri dall’ISTAT non è un’eccezione nell’accidentato percorso post-crisi del nostro paese ma la triste regola. Nelle ultime 12 rilevazioni trimestrali, solo in un caso (quarto trimestre 2013) l’Italia ha fatto registrare un segno positivo: ma la dimensione della crescita registrata (+0,1%) fa pensare più ad una casualità che ad un seppur timido segnale di inversione di tendenza.

fonte grafico: Silvia Merler, http://smerler.wordpress.com/2014/08/07/italy-and-the-cycle-that-didnt-turn/

 

Il livello del nostro PIL in valori reali è oggi il più basso dal 2000 e mentre tutte le grandi economie europee hanno iniziato a dare segnali confortati di vitalità, il belpaese diventa sempre più – assieme al caso disperato della Grecia – il grande malato d’Europa. 

fonte grafico: Silvia Merler, http://smerler.wordpress.com/2014/08/07/italy-and-the-cycle-that-didnt-turn/

 

Questo grafico spiega la recessione italiana meglio di qualsiasi analisi tecnica: fatto 100 il Pil delle principali economie europee nel primo trimestre della crisi economica (il secondo del 2008) notiamo come tutti i paesi abbiano pagato la crisi con un arretramento del Prodotto Interno Lordo che inizia ad arrestarsi verso la fine del 2009, per ricominciare a crescere in tutto il continente. Francia, Germania e Regno Unito hanno tutti, in tempi diversi, riconquistato i livelli di Pil che avevano prima della crisi. La Spagna sembra avere finalmente invertito la tendenza mentre l’Italia rimane stancamente in coda, allontanandosi sempre più da quella linea rossa che rappresenta il Pil prima del terremoto dei mercati finanziari.

fonte grafico: Centro Studi Bruegel, http://www.bruegel.org/nc/blog/detail/article/1410-chart-the-uk-reaching-pre-crisis-gdp-levels

Quanto tempo ci servirà per tornare là dove eravamo? Difficile dirlo: continuando a non crescere, come è ovvio, non ci arriveremo mai. Ma anche immaginando di lasciarci andare al più sfrenato ottimismo tipico dei governi italiani c’è poco da stare allegri: volessimo rientrare ai livelli di ricchezza del 2008 in 6 anni avremmo bisogno di una crescita dell’1,5% che appare davvero poco plausibile mentre se crescessimo ai ritmi pre-crisi (+1,26% all’anno) ci torneremo nel 2021.
Tornando un po’ più con i piedi per terra, invece, e sperando di poter crescere nei prossimi anni con ritmi compresi in una forbice tra lo 0,1% e lo 0,5% l’obbiettivo non proprio esaltante di ritornare al 2008 sarebbe raggiungibile tra il 2031 con crescita allo 0,5%, il 2042 con crescita allo 0,3% e il 2096 se la nostra crescita dovesse dimostrarsi particolarmente debole (0,1%).  

Nota: Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat e Istat

Il confronto con i principali paesi europei e mondiali è impietoso. L’Italia è in ritardo tra i 21 e gli 86 anni rispetto a Svezia e Svizzera, tra i 20 e gli 85 rispetto a Usa, Francia e Germania e tra 17 e 81 rispetto al Regno Unito. Non c’è che dire: uno spread piuttosto alto.  
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Compiti per tutti

Compiti per tutti

Leonardo Becchetti – Avvenire

Come purtroppo previsto, il dato sul Pil del secondo semestre (meno 0,2%) conferma che l’Italia continua a essere in recessione o, più ottimisticamente, a camminare su un sentiero di crescita zero che, sommato alla dinamica dell’inflazione anch’essa prossima allo zero, ci allontana da quel 4% (crescita più inflazione) che renderebbe teoricamente possibile il rispetto del Fiscal Compact nei prossimi anni. Con il cappello in mano chiederemo alla Ue altra flessibilità che ci verrà concessa per non far saltare il banco dell’euro, ma saremo tenuti in perenne condizione di inferiorità negoziale.

Pur non dimenticando gli interventi preziosi in materia di cooperazione e di Terzo settore, in questi primi mesi di azione il governo ha ottenuto la fiducia degli elettori promettendo attivismo e moto perpetuo in economia, dedicando però poi la parte preponderante delle sue notevoli energie ad un obiettivo: la riforma del Senato. Venivamo da 20 anni di inazione ed era dunque necessario intervenire per riportare il nostro sistema istituzionale fuori dalle secche dell’inefficienza, ma è chiaro che i dossier chiave per far ripartire il Sistema Italia sono altri: la riforma della giustizia civile (la durata abnorme dei procedimenti è la prima causa che allontana le imprese dal nostro Paese); la lotta all’evasione ed elusione destinando i proventi alla riduzione dell’enorme pressione fiscale su cittadini e imprese; l’incremento della capacità del sistema delle imprese di godere dei benefici dello sviluppo delle reti informatiche. Finisce per servire a poco il bonus di 80 euro nel rilanciare la domanda se lo stesso viene compensato dall’aumento di altre imposte che, sommate al quadro d’incertezza, spingono i beneficiari al risparmio e non al consumo. Farne una bandiera può rivelarsi poi un boomerang se i risultati non tornano. Dovremmo inoltre ridurre le imposte sulle imprese, ma è irragionevole pensare di poter trovare le risorse per farlo con il pareggio di bilancio anche operando drastici tagli alla spesa che peraltro deprimerebbero ulteriormente la domanda.
Il dovere morale della nostra classe dirigente è dunque mettere la stessa decisione e dedicare le stesse energie profuse per la riforma del Senato nella riduzione dei famosi 50 spread di economia reale tra l’Italia e la Germania (oltre a quelli descritti sopra, inefficienza della burocrazia, costo dell’energia e molti altri). Ma dobbiamo essere consapevoli che neppure fare nel modo migliore possibile i “compiti a casa” è sufficiente. Se lo scalatore Nibali (recente vincitore del Tour de France) e un passista decidono di fare una passeggiata in bicicletta, per tenere insieme il gruppo è ragionevole trovare un terreno intermedio piuttosto che fare la scalata dello Stelvio. E se il passista (l’Italia) con l’ottimismo della volontà pensa di poter fare rapidamente un po’ di gamba e recuperare il gap con Nibali (la Germania) allora la colpa del sicuro fallimento è solo sua.

Il sistema dell’euro appare oggi profondamente squilibrato, costruito ad hoc per portare benefici per i Paesi del Nord e deve essere urgentemente riformato per evitare una deriva sempre più grave. La moneta unica in Paesi a diversa velocità genera asimmetrie commerciali tra nazioni in surplus e nazioni in deficit consentendo a questi ultime di aggiustare la situazione unicamente con riduzioni salariali che deprimono ulteriormente la domanda interna. Tra i fattori che possono aiutare a trovare una soluzione ci sono una politica monetaria della Bce più espansiva, una maggiore armonizzazione delle politiche fiscali, penalità simmetriche per i deficit e i surplus commerciali. Infine, l’introduzione graduale di un sussidio europeo di disoccupazione, che sarebbe un importante stabilizzatore automatico in grado di rilanciare la domanda nei Paesi in crisi.

Se ne è cominciato a discutere, grazie all’iniziativa italiana, all’ultimo incontro informale dei ministri del lavoro della Ue a Milano ma siamo ancora lontani da una possibile attuazione. Approfittando di questo momento particolare, in cui l’abbondante liquidità mantiene bassi i tassi, si dovrebbe poi aprire subito un dibattito sulla ristrutturazione morbida dei debiti pubblici dei Paesi Ue attraverso uno dei tanti meccanismi proposti negli ultimi tempi.

La qualità della nostra classe dirigente e il giudizio degli elettori sul governo si misurerà nei prossimi anni sulla capacità di progredire efficacemente nelle direzioni sopra indicate in Italia e in Europa. Se, come è purtroppo prevedibile, nessuno avrà interesse ad alzare il tono dell’allarme e della sfida fino alla prossima crisi finanziaria, dovremo aspettarla per poter vedere forse, una volta messi con le spalle al muro, la realizzazione di alcuni di questi punti.

I debiti della Pubblica Amministrazione costano alle imprese 6 miliardi l’anno

I debiti della Pubblica Amministrazione costano alle imprese 6 miliardi l’anno

COMUNICATO STAMPA

Il ritardo dei pagamenti ai fornitori della PA ha finora determinato un costo del capitale a carico delle imprese italiane di oltre 6 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 30 miliardi nel periodo 2009-2013. Il dato emerge da una ricerca (scaricabile interamente dal sito www.impresalavoro.org) realizzata dal centro studi di ispirazione liberale “ImpresaLavoro” di Udine, promosso dall’imprenditore Massimo Blasoni e il cui board scientifico è presieduto dal professor Giuseppe Pennisi (economista, consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma, già Banca Mondiale e dirigente generale dei Ministeri del Bilancio e del Lavoro).
Lo studio di “ImpresaLavoro” sottolinea come ci si debba peraltro accontentare in questo campo di una stima prudenziale, dal momento che le stesse amministrazioni pubbliche non dispongono di una sistematica e organizzata documentazione sui crediti dei propri fornitori e sulle fatture associate, a causa delle insufficienze nei sistemi di contabilizzazione delle transazioni. Finora, infatti, le stime sulla dimensione del fenomeno si sono basate sull’impiego di metodologie statistiche e di indagini campionarie. «Quel che invece si sa con certezza – osserva il presidente Massimo Blasoni – è che i pagamenti del committente pubblico italiano arrivano in media dopo 170 giorni dal ricevimento della fattura, mentre i fornitori privati di norma pagano dopo 60 giorni. Questo mismatching di uscite ed entrate aggrava la situazione finanziaria di migliaia di imprese, esponendole nei casi più gravi al rischio default. Il fenomeno ha assunto rilevanza maggiore a seguito dell’attuale situazione di congiuntura economica, la quale ha provocato anche una riduzione del credito concesso dalle banche alle imprese, con conseguente aggravio della situazione finanziaria di queste ultime».
Secondo le stime prudenziali di “ImpresaLavoro”, l’ammontare per il 2013 è di circa 74,2 miliardi di €, pari a circa il 4,8% del PIL. Lo stock di debito commerciale della nostra PA risulta in calo: nel 2010, esso aveva toccato la cifra record di 87,3 miliardi di euro, pari al 5,5% del PIL. La diminuzione dello stock è dovuta alla riduzione della spesa pubblica relativa all’acquisto di beni e servizi, nonché dei tempi di pagamento concordati con i fornitori. Non è quindi diminuito il ritardo medio nel pagamento delle fatture.
La ricerca di “ImpresaLavoro” rivela inoltre come, a livello europeo, sia in termini nominali che relativi, l’Italia risulti essere il Paese col maggiore stock di debito. Già dal 2010, ha infatti il peggior rapporto tra debiti commerciali e PIL, superando tanto la Spagna quanto la Grecia, le uniche in Europa (a parte l’Italia) a superare il 3% in questo rapporto. Per un’impresa italiana che lavora con PA, l’incidenza di questi costi sulla singola fornitura risulta così pari al 4,2%: un dato circa 4 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa francese (1,2%) e circa 7 volte superiore a quello sostenuto da un’impresa tedesca (0,6%).
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L’opinione di Giuseppe Pennisi, Presidente del Board Scientifico di ImpresaLavoro
L’opinione di Salvatore Zecchini, Membro del Board Scientifico di ImpresaLavoro
L’opinione di Carlo Lottieri, filosofo, Università degli Studi di Siena
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Il futuro dell’Europa e il dilemma di Thomas Mann

Il futuro dell’Europa e il dilemma di Thomas Mann

Giovanni Scanagatta – Il Sole 24 Ore

Il Terzo Rapporto UCID 2013/2014 “La coscienza imprenditoriale nella costruzione del bene comune” (Libreria Editrice Vaticana, 2014) afferma che per il nostro futuro abbiamo bisogno di più Europa e non di meno Europa, ma di una Europa diversa. È più che mai valido il vecchio dilemma di Thomas Mann: si riuscirà ad abbandonare l’idea di «un’Europa tedesca» per sviluppare invece una «Germania europea», più aperta alle esigenze degli altri popoli?

I destini dell’Italia e della Germania sono incrociati e i tedeschi sono il nostro primo partner commerciale. Ma un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro più vicino a 1,50 che a 1,00, risponde certamente molto di più agli interessi della Germania che a quelli dell’Italia.

Nonostante queste condizioni ed altre fortemente penalizzanti come il fisco e la burocrazia asfissiante, le nostre imprese riescono ad esportare circa il 30% del prodotto interno lordo, una percentuale simile a quella della Cina.
Dal 2000, la nostra competitività rispetto alla Germania in termini di costo del lavoro per unità di prodotto (clup) è molto penalizzata, in relazione ad una dinamica della produttività molto bassa.

Migliora invece in modo notevole la nostra competitività rispetto alla Germania, se misurata rispetto ai prezzi alla produzione, mediante la contrazione dei margini di profitto che però non è sostenibile nel medio-lungo periodo perché viene intaccato il risparmio di impresa e le possibilità di accumulazione e sviluppo.
Un ruolo cruciale, ai fini della competitività, gioca la qualità delle esportazioni italiane decisamente superiore a quella delle esportazioni tedesche. In questi ultimi anni, il contributo delle nostre esportazioni nette alla crescita del prodotto interno lordo è stato largamente positivo, a fronte di un contributo negativo della domanda interna per consumi e investimenti. Senza il contributo delle esportazioni, la crescita della nostra economia sarebbe precipitata su valori negativi pericolosi.
Di fronte a questo quadro e a quello altrettanto difficile dei paesi del Sud dell’Unione europea, la Germania deve essere più europea e meno rigida sulla moneta e sui parametri di Maastricht, soprattutto quelli fiscali (deficit e debito pubblico rispetto al Pil), per favorire la crescita e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Nel nostro paese il tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 40 % e nel Sud il 60 per cento.

Un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro vicino alla parità, darebbe una forte spinta alle nostre esportazioni e alla crescita, senza temere per i prezzi perché ora siamo in deflazione. Per il futuro dell’Europa abbiamo bisogno di leader, come è avvenuto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, con la nascita della Ceca e poi del Mercato Comune, ad opera di statisti illuminati dal cristianesimo come Adenauer, De Gasperi e Schuman. Altrimenti, come stiamo vedendo, prevalgono i burocrati della Commissione europea che ingessano e soffocano tutto con un eccesso di regole e direttive.

Dicevamo prima che i destini dell’Italia e della Germania sono incrociati, anche se gli italiani non amano i tedeschi ma ammirano la Germania, mentre i tedeschi non ammirano gli italiani ma amano l’Italia, come è avvenuto per Goethe e oggi per Angela Merkel che sceglie Ischia per le proprie vacanze. La Germania ha veramente una grandissima responsabilità verso l’Europa. Molti sono coloro che non la ritengono all’altezza del compito: a cominciare dal filosofo tedesco Habermas. Volenti o nolenti, dobbiamo riporre le nostre speranze nella Germania. Se poi la Germania non volesse o non potesse realizzarle, sarebbe un disastro per tutti, a cominciare dai tedeschi destinati a soccombere, ancora una volta, ai sogni di grandezza.

Crescita, la scossa che serve all’Italia: tasse giù, opere pubbliche e investimenti europei

Crescita, la scossa che serve all’Italia: tasse giù, opere pubbliche e investimenti europei

Luca Cifoni – Il Messaggero

L’economia italiana non sembra ancora in grado di uscire dalle sabbie mobili della recessione: le difficoltà in cui continua a dibattersi sono legate ad un insieme di nodi difficili da sbrogliare: da una parte i vizi antichi che già a partire dagli anni Novanta hanno messo il freno al nostro prodotto interno lordo, dall’altra le recenti tempeste, in particolare nell’area dell’euro, che hanno imposto un percorso di risanamento faticoso. Nel 2000 il nostro Paese ha sperimentato per l’ultima volta una crescita robusta, con +3,7 per cento, ma poi nel nuovo secolo l’incremento del Pil è tornato solo una volta sopra la soglia del 2 per cento. E subito dopo è iniziata la grande crisi, prima nel segno degli Stati Uniti e delle sue banche, poi dei debiti pubblici europei.

Il governo guidato da Matteo Renzi rivedrà a settembre le proprie stime, dopo aver preso visione del dato preliminare sul prodotto del secondo trimestre, che l’Istat diffonderà il prossimo 6 agosto. Ma lo stesso presidente del Consiglio ha riconosciuto che sarà praticamente impossibile confermare l’obiettivo fissato in primavera, ossia un pur modesto incremento dello 0,8 per cento. L’esecutivo conta sull’effetto favorevole delle riforme sia economiche che istituzionali, molte delle quali sono però ancora nel pieno del percorso parlamentare. Tra le misure già in vigore c’è l’alleggerimento dell’Irpef per i dipendenti con reddito medio basso: un provvedimento che secondo la Banca d’Italia avrà un effetto di spinta all’economia, ma limitato: nel biennio 2014-2015 due decimi di punto in più per i consumi e un decimo per il Pil. Questo anche a causa del contemporaneo impatto di segno contrario, restrittivo, delle misure di taglio alla spesa incluse nel provvedimento.
È chiaro che non esiste una ricetta magica per la crescita. Né si può pensare che la spinta all’economia venga solo dall’azione di un governo. Ci sono però scelte che possono contribuire a riportare il Paese su un sentiero di sviluppo, soprattutto se perseguite con coerenza nel tempo. Il Messaggero ha chiesto a quattro rappresentanti di altrettante associazioni d’impresa e a due autorevoli economisti di sintetizzare le proprie indicazioni, di spiegare quale può essere la scossa necessaria a far ripartire davvero il Paese.
Il quadro che ne esce è naturalmente variegato, ma emergono alcuni importanti elementi in comune nelle diverse analisi. Da una parte la necessità di alleggerire in modo sensibile un carico fiscale che si è fatto insopportabile in particolare con l’avanzare della crisi. Dall’altra quella di rilanciare davvero l’investimento pubblico, vera vittima della stagione della stretta sui bilanci: al momento di tagliare la mannaia è sempre caduta in maniera più pesante su questa voce che sulle uscite correnti. Ma una vera spinta agli investimenti non può che passare per l’Europa, e questo a sua volta richiede un cambio di marcia sia delle strutture comunitarie che degli stessi governi. Poi certo ci sono i mali atavici del nostro Paese, la burocrazia, l’insufficiente livello di innovazione: occorre agire anche su questi ma i tempi saranno inevitabilmente più lunghi.

Marcella Panicucci (Confindustria)
Puntare sull’impresa regole certe e semplici

Ritrovare la crescita: un imperativo urgente. Le imprese hanno le idee chiare sulla ricetta per farlo.
Regole semplici, certe e stabili nel tempo. Ecco perché le riforme costituzionali sono essenziali. Sono la chiave per accendere il motore dell’economia e fa bene il Premier a perseguirle con determinazione. Parallelamente serve un piano urgente di rilancio dell’economia, per recuperare competitività e permettere alle nostre imprese di andare sui mercati esteri a pari condizioni con i concorrenti stranieri. Un unico perno di questa strategia: puntare sull’impresa manifatturiera. Tre i pilastri: ridurre i costi, rilanciare gli investimenti, dare liquidità. Per ridurre i costi occorre partire dal carico fiscale sul lavoro, abbattendo l’Irap, che è una vera tassa sull’occupazione, e dal costo dell’energia, evitando, come fatto con il taglia-bollette, di distribuire pochi benefici a centinaia di migliaia di soggetti facendone pagare il costo (alto) alle imprese manifatturiere.

Rilanciare gli investimenti il secondo imperativo, a partire da quelli in R&I. La leva fiscale è un grimaldello che se usato in modo virtuoso può dare frutti straordinari. In altri paesi che hanno seguito questa strada è stato così. Per questo serve liquidità. Vanno sbloccati i prestiti alle imprese, anche sfruttando le misure della BCE, e pagati subito tutti i debiti della PA. Le imprese hanno voglia di ripartire. Con pochi, ma decisi interventi la ripresa è a portata di mano.

Carlo Sangalli (Confcommercio)
Un piano credibile per ridurre le imposte

Gli effetti della recessione picchiano ancora duro sulle imprese che continuano a chiudere e sulle famiglie, ancora molto prudenti per il futuro incerto. Per Pil e consumi non c’è ancora nessun chiaro segnale di risveglio ed è evidente che l’export da solo non basta a spingere l’economia. Il 2014 non sarà certamente l’anno della ripresa. In questo quadro la priorità è quella di un’unica, grande riforma economica: quella fiscale. Con l’obiettivo di ricostituire il potere di acquisto delle famiglie. Perché deve essere chiaro a tutti che l’attuale livello di pressione fiscale su famiglie e imprese è incompatibile con qualsiasi concreta prospettiva di ripresa. Quello che serve, dunque, è una certa, graduale e sostenibile riduzione delle tasse perché solo così si possono stimolare nuovi investimenti, favorire nuova occupazione e soprattutto si può dare una scossa tangibile alla domanda interna che, per consumi e investimenti vale l’ottanta per cento del prodotto interno lordo e che può favorire una ripresa più robusta e duratura. Per fare questo occorre agire su due leve fondamentali: da un lato, controllo, riduzione e riqualificazione della spesa pubblica, e qui occorre davvero usare il bisturi su quegli ottanta-cento miliardi di sprechi ritenuti aggredibili sia a livello centrale che periferico.
Dall’altro, fare in modo che ogni euro recuperato dalla lotta all’evasione e all’elusione fiscale venga destinato alla riduzione della tasse.

Antonio Patuelli (Abi)
Recuperare la fiducia per spezzare la crisi
Occorre più fiducia per spezzare ciò che rimane del clima di recessione, per favorire una ripresa degli investimenti di imprese e famiglie. In questi mesi è cresciuta la valutazione internazionale dell’Italia e sono affluiti capitali sui nostri titoli azionari e di Stato e per gli aumenti di capitale (in particolare delle banche) che hanno avuto successo. Paradossalmente vi è più fiducia dall’estero verso l’Italia che di troppi italiani verso l’Italia stessa. Non bisogna arrendersi a stati d’animo del genere né sottovalutare i gravi problemi esistenti: occorre non rassegnarsi ad essi ma favorire uno spirito costruttivo anche quando non gioca la Nazionale di calcio. Occorre rifiutare ogni pessimismo strumentale: non si tratta di diventare ottimisti comunque, ma di imprimere un ottimismo della volontà. In tal senso sarà decisiva la prossima legge di stabilità con le misure che emergeranno. Anche le recenti decisioni assunte dalla Bce per tutta l’Europa potranno contribuire a dare concretezza a un nuovo clima di fiducia. L’innovazione di rendere disponibile nuova liquidità solo per ulteriori prestiti bancari sarà importante e da utilizzare con efficacia appena le nuove misure saranno operative, dal settembre prossimo. Le banche operanti in Italia, tutte sorrette da capitali privati nazionali ed esteri, devono essere in prima fila a spingere la ripresa in convergenza con gli investimenti delle imprese di ogni altro settore. Non è un sogno astratto, ma un obiettivo concreto e realizzabile per innestare un nuovo circuito virtuoso per più produttività e occupazione, anche con più solidi valori etici.

Jean-Paul Fitoussi (Luiss)
Più libertà sul deficit per le spese produttive
Matteo Renzi ha cominciato bene, con energia, dimostrando che alle parole seguono i fatti, agli annunci le riforme. Adesso comincia una fase più difficile, quella di capire quali siano i reali margini di manovra economici, ovvero fino a dove si possa arrivare per sostenere crescita e occupazione. Il proseguimento della politica di Matteo Renzi implica un accordo europeo. Le questione che si pone in questa nuova fase è la stessa per tutti i paesi europei: intendiamo accontentarci di un tasso di crescita leggermente positivo dopo sei anni di segno negativo e di stagnazione, oppure ci decideremo finalmente a prendere misure all’altezza della situazione, molto più radicali, che prevedano spese d’investimento e un aumento transitorio del deficit pubblico nella maggior parte dei paesi europei? In altri termini, o l’Europa si accontenta di registrare unicamente gli aumenti del deficit che sono conseguenza diretta della riduzione del Pil, oppure farà scelte più dinamiche e accetterà aumenti del debito per incoraggiare gli investimenti e facilitare la crescita. Non mi riferisco a cifre o percentuali: è necessario mettersi d’accordo su quali spese si possano considerare produttive, educazione, ricerca, ambiente energie rinnovabili. O l’Europa accetterà che queste spese possano essere finanziate con prestiti – e questo servirà a tutti, Italia compresa – o continuerà con la sua politica puramente aritmetica. Basta con le percentuali e le cifre magiche, bisogna essere intelligenti e pragmatici.

Paolo Buzzetti (Ance)
L’edilizia unico motore del mercato interno
La crisi non è finita. Dopo quasi 5 anni di austerity anche la locomotiva Germania sta perdendo colpi. Segno che le politiche europee di contenimento della spesa pubblica e di tagli radicali agli investimenti (-47% in Italia solo nell’edilizia dall’inizio della crisi) non hanno sortito gli effetti sperati, anzi hanno contribuito alla recessione. Tra le peggiori performance c’è sicuramente quella del nostro Paese che per ripartire non può che puntare sull’edilizia: unico vero motore del mercato interno. Messa in sicurezza delle scuole, manutenzione del territorio, riqualificazione delle città sono alcuni dei principali capitoli sui quali dobbiamo concentrarci nei prossimi mesi. Ma per riuscire a mettere in atto questi ambiziosi programmi, che finalmente sono tra le priorità dell’agenda di Governo, ci vuole una forte spinta politica e il coraggio di superare dogmi finanziari che hanno frenato finora ogni possibilità di ripresa. Come il limite del 3% del rapporto deficit/Pil, un parametro anacronistico e arbitrario, o il patto di stabilità che non consente alle amministrazioni pubbliche di fare manutenzione, pagare le imprese e garantire servizi efficienti ai cittadini. Ci vuole dunque un grande piano di opere pubbliche diffuse su tutto il territorio da realizzare con regole ordinarie, all’insegna della trasparenza e della legalità. Insieme a una politica di sostegno alla casa martoriata da un fisco iniquo che penalizza le fasce più deboli della società.

Giacomo Vaciago (Università Cattolica)
Programma europeo di nuovi investimenti

Tutta l’Europa è ferma, per un semplice motivo: manca una politica economica europea. All’interno del continente naturalmente c’è qualcuno che va avanti e qualcuno che va indietro, ma questo succede anche nel nostro Paese. E non ha senso rallegrarsi perché la Germania rallenta un po’, visto che il suo rallentamento danneggerà anche noi. C’è una sola cosa da fare, subito: i 18 governi dell’Eurozona devono smettere di credere che questa sia composta da 18 Paesi indipendenti, come se l’Europa fosse solo un’espressione storico-geografica. È necessario agire insieme. Invece, come nel caso della polemica sulla flessibilità, passiamo il tempo a discutere su come interpretare la mole di regole che abbiamo prodotto. La crescita però bisogna meritarsela: la Cina ad esempio è riuscita a ripartire dopo i provvedimenti del governo. Noi europei rischiamo di diventare l’ultimo vagone del treno globale, di dipendere da quello che si decide altrove. Dobbiamo piantarla con il giochino di darci la colpa l’un l’altro e iniziare a muoverci. In concreto, si tratta di attivare rapidamente un piano europeo di investimenti, un piano congiunto anche se differenziato nei vari Paesi.
Le cose da fare sono tante, basti pensare in Italia alle infrastrutture per la mobilità o alla messa in sicurezza del territorio. Il nostro Paese ha la responsabilità della presidenza di turno, è fondamentale non far passare questo semestre in chiacchiere ma concentrarsi sulle decisioni. Da noi poi servono investimenti massicci anche nel privato: è giusto ricapitalizzare le banche, ma hanno bisogno di essere ricapitalizzate le stesse imprese.

Riforme radicali per la svolta in Europa

Riforme radicali per la svolta in Europa

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

Gli ultimi dati deludenti sulla crescita nell’area euro e in Italia confermano, se ancora ce ne fosse bisogno, l’inadeguatezza della strategia di politica economica seguita finora in Europa. Ogni Paese deve risollevarsi da solo, con riforme dal lato dell’offerta per riacquistare competitività, e con politiche di bilancio restrittive per riassorbire il debito pubblico. Ma il problema oggi nell’area euro è la carenza di domanda interna, non la competitività, e la stagnazione impedisce il rientro dal debito. Alla fine del 2013, i consumi privati dell’intera area euro erano del 2% sotto i livelli raggiunti a fine 2007; gli investimenti privati erano sotto del 20%; solo le esportazioni sono salite di quasi il 10% negli ultimi sei anni. Questo problema può essere risolto solo a livello europeo: i governi nazionali non hanno strumenti efficaci per stimolare la domanda aggregata, perché hanno le mani legate dal patto di stabilità e non hanno sovranità monetaria.
Dal punto di vista tecnico, la soluzione sarebbe semplice e non avrebbe grosse controindicazioni. Ogni Paese dell’area euro dovrebbe tagliare le imposte di un ammontare rilevante (ad esempio del 5% del reddito nazionale), finanziandosi con l’emissione di debito a lungo termine (30 anni), e impegnandosi a ridurre i disavanzi nell’arco di cinque o sei anni, attraverso una combinazione di maggiore crescita e tagli di spesa. Il debito emesso dovrebbe essere acquistato dalla Bce, senza sterilizzarne gli effetti sull’espansione di moneta.
Il coordinamento tra politica monetaria e fiscale sarebbe essenziale per il successo dell’operazione: l’espansione monetaria farebbe svalutare il cambio e arresterebbe le spinte deflazionistiche; l’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce eviterebbe l’aumento del costo del debito e, restituendo gli interessi sotto forma di signoraggio, ne alleggerirebbe il peso. E il taglio delle imposte darebbe uno stimolo diretto alla domanda aggregata, in un momento in cui i tassi di interesse sono già a zero e il canale del credito è bloccato dalle sofferenze bancarie. Questo è sostanzialmente quanto hanno fatto o stanno facendo, con modalità diverse, Stati Uniti, Inghilterra e Giappone per uscire dalla crisi. Eppure un’ipotesi del genere nell’area euro è pura fantascienza, perché si scontra con i vincoli istituzionali di Maastricht e con il veto politico della Germania che teme l’azzardo morale. Di qui a sei o nove mesi probabilmente la Bce sarà comunque costretta ad acquistare i titoli di Stato, per cercare di contrastare la deflazione. Ma l’intervento sarà ancora una volta timido e tardivo, e soprattutto, senza l’aiuto della politica fiscale, poco efficace. In questo disarmante quadro europeo, cosa può fare la politica economica italiana? Innanzitutto, non deve fare errori. Questo vuol dire soprattutto non aggravare la carenza di domanda aggregata attraverso aumenti della pressione fiscale. La cosa è tutt’altro che scontata, perché l’assenza di crescita mette a rischio gli obiettivi di bilancio, sia per l’anno in corso che per il 2015 (dove manca qualche decina di miliardi). Per il 2014 probabilmente non c’è più nulla da fare, ed è meglio avere un disavanzo sopra il 3% e se necessario rientrare nella procedura di disavanzo eccessivo, piuttosto che aumentare il prelievo.

Per il 2015 non ci sono alternative al dare piena attuazione ai tagli di spesa identificati dal rapporto Cottarelli, accelerandone i tempi. È inutile illudersi che esistano imposte innocue; in questa situazione qualunque forma di maggior prelievo avrebbe effetti negativi sulla fiducia e sulla spesa privata. In secondo luogo, è importante fare tutto il possibile per evitare ulteriori aumenti del debito pubblico. Non tanto perché lo impongono i vincoli europei, ma per non perdere la fiducia dei mercati. Le privatizzazioni devono ripartire, andando oltre i modesti obiettivi indicati dal programma di stabilità del governo Letta e confermati da questo governo (1% del PIL ogni anno), e finora disattesi. La situazione sui mercati finanziari non è sfavorevole, e qualunque ritardo o esitazione sarebbe del tutto incomprensibile. E le politiche dell’offerta per ridare competitività all’economia italiana? Anche se il loro effetto sulla crescita è dilazionato nel tempo, sono comunque urgenti e essenziali, per due ragioni. Primo, per rinforzare la fiducia delle imprese e dei mercati finanziari sulle prospettive future dell’economia italiana. Secondo, per vincere le resistenze europee ad adottare politiche macroeconomiche più espansive. In altre parole: la crisi economica non potrà essere superata senza una svolta nelle politiche macroeconomiche di tutta l’area euro. Ma questa svolta non ci sarà senza riforme radicali nei paesi del Sud Europa. Che ci piaccia o no, questa è la realtà della moneta comune.

Le buone idee e la zavorra delle (non) riforme

Le buone idee e la zavorra delle (non) riforme

Francesco Daveri – Corriere della Sera

Alla presentazione del programma della presidenza italiana dell’Unione al Parlamento europeo, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha elencato una lista di cose da fare perché l’Europa torni a crescere. Ce n’è un gran bisogno, nel Vecchio Continente: dopo due anni di recessione, gli investimenti nell’Eurozona sono scesi al 17,7% del Pil, il loro minimo di sempre. L’industria e il mercato “battono in testa” anche in Germania, non solo in Italia e in Francia.

Per crescere, dicono a Bruxelles, servono le riforme strutturali: bisogna ridurre i monopoli sui mercati e le rendite di posizione nel settore pubblico. Ma quei cambiamenti si fanno oggi per ottenere risultati solo domani. Così, secondo Padoan, ai Paesi che si impegnano da subito dovrebbe essere garantita una maggiore flessibilità nel rispetto dei vincoli di bilancio. Senza stravolgere le regole attuali. Fuori dal gergo della politica, le parole del ministro vogliono dire che l’Italia non proporrà iniziative contro la norma sul pareggio di bilancio strutturale cara all’Europa che rispetta i vincoli. Nello stesso tempo, però, l’idea di flessibilità all’italiana si traduce nella richiesta di lasciare da parte i commissariamenti della Troika (Bce, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) nei confronti dei Paesi che non riescono a rimborsare il loro debito pubblico. Alla Troika in effetti c’è un’alternativa: più coordinamento e più monitoraggio reciproco tra i Paesi europei prima, per evitare tardivi, umilianti e a volte inefficaci aggiustamenti imposti dall’alto poi. Sarebbe un netto cambiamento di rotta rispetto agli anni scorsi.

Sono tutte buone idee. Da quando è iniziato il semestre a guida italiana, da Roma fioccano proposte su come migliorare il funzionamento dell’Unione. Eppure oggi le innovazioni avanzate dall’Italia per stimolare l’Europa a fare di più si scontrano con un macigno: il carniere quasi vuoto delle riforme del governo Renzi nei suoi primi 150 giorni di attività. Senza cambiamenti strutturali, la richiesta di flessibilità di Roma viene percepita a Bruxelles e a Berlino come l’intenzione di aumentare ancora un debito pubblico che è già oltre il 135% del Pil. E l’appello ad abbandonare i commissariamenti dei Paesi a rischio di default può essere visto come il sinistro annuncio di chi in definitiva confida nella Bce per essere tirato fuori dai suoi guai. Senza una chiara accelerazione estiva delle tante riforme annunciate ma non approvate né attuate, il rischio concreto è che anche le migliori proposte della presidenza italiana finiscano nel nulla. Perché alla fine, in Europa come in Italia, tutti sanno che il miglior test per capire se un budino è buono sta sempre nel mangiarlo.

Quei prelievi da tagliare

Quei prelievi da tagliare

Tito Boeri – La Repubblica

L’ultimo bollettino economico di Banca d’Italia ha messo nero su bianco quanto ormai risulta evidente a tutti: il 2014, invece della tanto annunciata ripresa, ci porterà solo crescita zero, stagnazione. Il bonus di 80 euro non sembra aver avuto effetti apprezzabili sui consumi. Ed è illusorio aspettarsi nell’immediato stimoli a livello europeo. Del tutto fuori luogo l’entusiasmo con cui molti politici nostrani hanno celebrato il discorso di investitura di Juncker al Parlamento Europeo. Vero che il Presidente in pectore della Commissione ha detto che crescita e lavoro sono le priorità. Ma quando mai un politico europeo è stato, a parole, contrario alla crescita? In un momento in cui tutto il continente rallenta e ha un tasso di disoccupazione superiore alle due cifre chi potrebbe mai pensare di evitare di esser preso a pomodori esprimendosi contro la crescita? Il vero volto dell’Europa, oggi come oggi, è quello di Katainen, il nuovo commissario agli Affari economici, la cui prima dichiarazione è stata «Il patto di stabilità non si tocca».

Ancora più lontana dalla realtà la pretesa di alcuni di abolire l’austerità con un referendum che abroghi il nuovo articolo 81 della Costituzione, quello che vincola il nostro paese, con tanti se e ma, a tenere il bilancio in pareggio. Com’è possibile attribuire a un articolo che non è stato ancora applicato le colpe delle politiche di austerità degli ultimi anni? Quando mai la Costituzione italiana ha imposto l’austerità? Ricordiamoci che negli anni di esplosione del debito pubblico in Italia, questa imponeva che ogni «legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Perché allora sprecare soldi dei contribuenti per organizzare un referendum e abrogare con voto popolare qualcosa che viene sistematicamente disatteso?

Tutte le energie disponibili devono invece essere concentrate attorno all’obiettivo di rendere strutturale il bonus di 80 euro. Deve risultare credibile come un taglio permanente delle tasse finanziato da tagli alla spesa pubblica e non da nuove tasse che graverebbero sulle famiglie. Per farlo, senza incorrere nella procedura di disavanzo eccessivo, il governo deve sulla carta trovare 23 miliardi nel 2015. L’audizione alla Camera del ministro Padoan della scorsa settimana fa pensare che l’esecutivo sia ancora in alto mare. E l’impressione è che nella compagine di governo si stia rafforzando il partito delle nuove tasse su quello dei tagli alla spesa. Il governo Renzi, in verità, ha già aumentato delle tasse, dalle banche alle rendite finanziarie. Sotto la reggenza del presidente del Consiglio gli italiani hanno cominciato anche a pagare la Iuc, facendo conoscenza del trittico Imu, Tari e Tasi. I decreti attuativi della delega fiscale prevedono l’eliminazione di molte detrazioni. Al di là del merito di questa scelta, si tratta pur sempre di tasse più alte.

La sbandierata riforma del terzo settore vuole ampliare i trasferimenti alle imprese sociali definendo in modo più ampio che in passato i perimetri del terzo settore (allargato a imprese con partecipazione rilevante di aziende con fini di lucro). Si tratta di nuove spese che dovranno essere coperte da nuove tasse. A quanto pare questi soldi andranno a finanziare il servizio civile per i giovani quando, fra 18 mesi, si esauriranno le risorse per la Garanzia Giovani. Ma quando mai un servizio civile ha migliorato le prospettive di lavoro dei giovani? Perché allora spendere soldi pubblici? Solo per far finta di aver offerto qualcosa ai giovani? E non si sentiranno presi in giro, gli under 25, se viene loro chiesto di lavorare gratis?

La riforma del pubblico impiego, ammesso che ne esista una, non porta risparmi, semmai aggravi di spesa date le promesse di assunzioni e scivoli verso la pensione del ministro Madia. Si mormora che il commissario Cottarelli sia stato commissariato. Quel che è certo è che gli viene chiesto di tagliare le spese con soli atti amministrativi, senza passaggi parlamentari. Il problema è che c’è un limite a quanto si riesce a tagliare accentrando le autorizzazioni di spesa o intervenendo sulle società partecipate, senza toccare il numero dei dipendenti. Tra l’altro, con le nuove regole Sec molte società partecipate (e relativi debiti) finiranno nel perimetro pubblico. Questo avverrà presumibilmente dopo la pubblicazione della nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, perché l’Istat ha annunciato che metterà in pratica le nuove definizioni solo dal 3 ottobre. Avremo così una nota di aggiornamento che viene a sua volta aggiornata nel giro di pochi giorni! Siccome siamo gli unici a essere così in ritardo nell’adeguamento contabile, il rischio è quello di alimentare sospetti sui livelli del nostro debito pubblico, la spesa e la pressione fiscale.

Renzi ha già incassato il suo bonus con gli 80 euro. Era dai tempi di De Gasperi che un governo non godeva di un consenso popolare così vasto. Deve essere utilizzato per costruire supporto a un’operazione sistematica e coraggiosa di riduzione della spesa pubblica, che apra la strada a nuovi tagli di imposte. Si possono fin da subito tagliare i cofinanziamenti statali ai fondi strutturali, senza contravvenire alle regole europee. Al contrario, il cofinanziamento è responsabilizzante solo se fatto da chi utilizza i fondi europei, dunque le Regioni. E poi ci sono leggi con tagli normativi alle spese da varare oggi ed attuare gradualmente. Perché un’operazione di razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe permetterci di invocare la cosiddetta “clausola delle riforme” guadagnando tempo prezioso per l’aggiustamento.

Dopotutto, quale migliore riforma strutturale della ristrutturazione della spesa pubblica? Se mostrasse di saper colpire le rendite annidate ai confini tra pubblico e privato, questa operazione risulterebbe più popolare di quanto si pensi. È questo il vero banco di prova dell’esecutivo. Oggi i partner europei chiedono dimostrazioni delle capacità del ministro Mogherini, che abbiamo candidato alla guida, sulla carta, della politica estera europea. Il ministro ha una grande occasione per mostrarsi all’altezza di questo compito: tagli davvero i privilegi della Farnesina, anziché far solo finta di farlo. Dopotutto investire nella politica estera comune significa saper ridurre le spese diplomatiche dei singoli paesi.