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La politica industriale non è un rebus senza soluzione

La politica industriale non è un rebus senza soluzione

Fabrizio Onida – Il Sole 24 Ore

Nel suo articolo del 4 settembre sul Sole, Il rebus della politica industriale, Franco Debenedetti allarga la sua (giusta) diffidenza verso le tentazioni dirigiste dei governi fino a condannare la politica industriale che si regge sul falso presupposto teorico «che il futuro dell’innovazione tecnologica sia conoscibile ex ante, che esista la ricetta per il successo» e dunque «presuppone una fiducia mistica nel processo di selezione democratica».

Ma non è su queste basi che sia la letteratura economica (Rodrik, Aghion, Nelson, Chang, Stiglitz e non solo), sia istituzioni come la Commissione europea (Horizon 2020) e l’Ocse hanno negli anni più recenti riproposto un ruolo autentico dello Stato facilitatore, coordinatore e partner degli attori di mercato, con una visione meno ideologica e più pragmatica della politica industriale.

Durante la fase delle grandi privatizzazioni degli anni 90, che chiudevano la storia di un modello di partecipazioni statali degenerato in patologica commistione di economia e sistema dei partiti, il «capitalismo senza capitali» ereditato dalle crisi degli anni 70 ha perso l’occasione per rilanciare le sorti della grande impresa in larga parte dei settori ad alta intensità di capitale fisico, capitale umano, innovazione tecnologica e organizzativa.

Tutti conosciamo e apprezziamo il vivace dinamismo delle micro e piccole imprese (dentro e fuori dai nostri distretti industriali), nonché il successo di un «quarto capitalismo» di medie e medio-piccole imprese private specializzate in nicchie di elevata qualità e dinamismo tecnologico, capaci di esportare e insediarsi con profitto in molte «catene globali del valore». Ma tutto ciò non è bastato e non basta – tanto più oggi nel prolungarsi della grande crisi – a mettere il paese nelle condizioni di sfruttare le proprie eccellenze scientifiche e i propri vantaggi competitivi, tornando ad alimentare la crescita di quella produttività totale dei fattori che ristagna da più di un decennio.

I governi non hanno certo la preveggenza di quali settori e prodotti potranno meglio contribuire allo sviluppo economico del paese: su questo ha perfettamente ragione Debenedetti, nessuno ha nostalgia degli ambiziosi e falliti «piani di settore», dalla chimica alla siderurgia, all’aeronautica. Ma oltre le ben note e urgenti riforme istituzionali, certamente cruciali per favorire un eco-sistema imprenditoriale decente e moderno (semplificazioni, giustizia, burocrazia, infrastrutture, scuola e apprendistato, lotta contro evasione e corruzione), lo Stato può e deve riscoprire il proprio ruolo di catalizzatore delle migliori energie imprenditoriali del paese.

Compete allo Stato indicare progetti di filiera e allestire strumenti di ricerche coordinate pre-competitive, coinvolgendo nella scelta imprese leader e il loro indotto, (incluse molte affiliate italiane di multinazionali estere che ancora scommettono sulle nostre capacità e competenze), identificate e monitorate con l’apporto essenziale di esperti indipendenti. Come insegna il fallimento di «Industria 2015», è cruciale prevenire i formalismi giuridico-amministrativi, sottrarsi alle ingerenze di burocrazie ministeriali autoreferenziali, imporre tappe forzate di valutazione dei risultati e riservarsi di abbandonare quei progetti che nel tempo si rivelano inadeguati e perdenti nello scenario mondiale (filosofia del pick the loser).

Del resto è quello che vanno praticando da tempo altri paesi a noi vicini (valga l’esempio dei Catapult Centers britannici, dei distretti tecnologici tedeschi, dei pôles de competitivité francesi). Solo così si può valorizzare un patrimonio tecnologico e imprenditoriale altrimenti disperso, promuovere crescita di produttività totale dei fattori, interconnessioni e reti lunghe di imprese innovative, ridurre l’ancora persistente divario fra ricerca accademico-scientifica e innovazione (industria e servizi), dare concrete prospettive di lavoro non precario ai giovani dotati di istruzione elevata e riconosciuti talenti, attrarre investitori nazionali ed esteri. Politiche industriali e politiche per l’innovazione tecnologica e organizzativa sono due facce della stessa medaglia. Anche così si può combattere la cultura paralizzante della rassegnazione a un inarrestabile declino di un paese che merita invece di risalire la china.

Quando la multinazionale ci fa del bene

Quando la multinazionale ci fa del bene

Fabrizio Onida – Il Sole 24 Ore

Sapete qual è la maggiore impresa italiana esportatrice di prodotti ad alta tecnologia, con circa 10 miliardi di euro? L’americana General Electric, tramite le sue controllate italiane Nuovo Pignone (turbine a gas per centrali e condotte), e Avio (componentistica aerospaziale e aeronautica).

Così Riccardo Monti, presidente della nuova Agenzia-Ice, ha sorpreso una buona parte del pubblico che ieri mattina ascoltava la presentazione del rapporto annuale Ice-Istat “L’Italia nell’economia internazionale 2013-2014”. Sotto lo stesso profilo avrebbe potuto citare anche la italo-francese STMicroelectronics, uno dei maggiori produttori mondiali di circuiti integrati capaci di accogliere le esigenze degli utilizzatori più sofisticati. Del resto l’Istat ci ricorda ogni anno che il 24 per cento delle spese di R&S in Italia e circa il 25 per cento delle esportazioni origina dalle imprese a controllo di capitale estero, le quali generano l’11 per cento del valore aggiunto di industria e servizi.
Un’analisi su quasi 500 acquisizioni estere di imprese italiane negli ultimi 10 anni, commissionata a Prometeia dal viceministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda e illustrata nella stessa occasione dal suo capo Segreteria Marco Simoni, conferma quanto emerge sistematicamente da studi settoriali e da microdati in diversi paesi, cioè che le imprese a controllo estero realizzano migliori performance di crescita del prodotto e maggiore dinamica occupazionale. L’impatto del controllo estero su imprese a precedente controllo italiano si fa sentire non tanto sull’impianto generale dell’attività produttiva (tipo di prodotti, design, canali di approvvigionamento ecc.) quanto su efficienza gestionale, crescita dimensionale, nuovi mercati di sbocco, solidità e articolazione finanziaria (minor dipendenza dal canale puramente bancario), organizzazione e selezione dei canali distributivi. Dite poco?

Più in generale, l’ingresso del controllo estero nella pianificazione e gestione promuove un più incisivo inserimento nelle cosiddette catene globali del valore, in cui l’impresa acquisita viene spinta a processi di diversificazione e specializzazione con un respiro globale. Un sia pur sommario confronto internazionale negli ultimi anni suggerisce che il Prodotto interno lordo dei paesi che hanno attratto quote maggiori di investimenti dall’estero è cresciuto più della media.
Certo la storia economica italiana recente ha visto casi di acquisizioni dall’estero che, lungi dallo scatenare processi virtuosi, hanno concorso a dimagrire, ridimensionare e talora disintegrare pre-esistenti significative eredità di eccellenze tecnologiche. Eccellenze spesso accumulate sotto l’ombrello delle nostre Partecipazioni statali, poi cedute al miglior offerente, senza alcun disegno di politica industriale, in mancanza di imprenditori nostrani disposti a mettere capitale proprio e scommettere sul loro futuro (come Farmitalia Carlo Erba, Olivetti, Italtel, Telettra, pezzi della chimica fine di Eni e Montedison).

Ma un sano giornalismo non farà mai abbastanza nel contraddire con fatti e opinioni una rozza mentalità, purtroppo abbastanza diffusa anche presso esponenti politici e sindacali mediamente illuminati, e peraltro in palese contraddizione con se stessa, secondo cui bisogna andare in giro per il mondo ad attirare investitori esteri nei nostri territori, ma quando grandi gruppi industriali e fondi di investimento di tutto rispetto si fanno avanti, per subentrare a proprietà familiari italiane ormai indebolite e talora prigioniere di conflitti interni inter-generazionali (magari dopo la terza generazione imprenditoriale), gridano all’invasione dello straniero e alla dissipazione del glorioso “made in Italy”. Quasi che lo straniero fosse dominato da un cinico desiderio di rivalsa, e non dal concreto interesse a valorizzare il potenziale di business ancora non pienamente espresso di quel medesimo “made in Italy”, che da solo è in grado di colmare i gusti dei consumatori, fino a imporre un “premium price” rispetto alla concorrenza che viene dal basso.