famiglia

Famiglia: l’Italia spende solo l’1,5% del Pil, pari a 414 euro pro capite

Famiglia: l’Italia spende solo l’1,5% del Pil, pari a 414 euro pro capite

Per il sostegno alla famiglia e alla natalità l’Italia spende risorse pari a solo l’1,5% del Pil: una cifra inferiore all’1,7% del Pil che i paesi dell’Unione a 28 e dell’area Euro spendono in media a favore dei nuclei con figli a carico. È quanto emerge da un’indagine del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione degli ultimi dati Eurostat (2015).

In pratica si tratta di quella parte di spesa pubblica destinata a: protezione sociale a favore di famiglie con figli a carico; indennità o sovvenzioni per maternità, nascita di figli o congedi per motivi di famiglia; assegni familiari; sovvenzioni per famiglie con un solo genitore o figli disabili; sistemazione e vitto fornito a bambini e famiglie su base permanente (orfanotrofi, famiglie adottive, ecc.); beni e servizi forniti a domicilio a bambini o a coloro che se ne prendono cura; servizi e beni di vario genere forniti a famiglie, giovani o bambini (centri ricreativi e di villeggiatura).

Ordinando il totale della spesa di ogni singolo Paese in percentuale al Pil, l’Italia si piazza – con il suo 1,5% – in 17° posizione (sulle trenta nazioni prese in considerazione da Eurostat). Tra i grandi Paesi europei, peggio di noi fanno Portogallo e Olanda (1,1%), Grecia e Spagna (0,6%) mentre questa spesa è analoga nel Regno Unito (1,5%) e superiore in Belgio (2,4%), Austria (2,3%), Irlanda (2,0%), Germania (1,6%) e Francia (2,5%).

La posizione dell’Italia in questa classifica cambia leggermente se, invece che come percentuale del Pil, la spesa è calcolata pro-capite. In questo caso il nostro Paese sale dal 17° al 15° posto (sempre su 30). Molto concretamente questo significa che ogni anno in Italia vengono stanziati e spesi per la famiglia 413,99 euro a cittadino. Una cifra in valore assoluto superiore a quella di Spagna, Grecia e Portogallo (dove però la vita costa sensibilmente di meno) ma nettamente inferiore a quella di tutti gli altri grandi paesi continentali. Tralasciando i paesi nordici e il Lussemburgo, che rappresentano eccezioni oggettive, non si può fare a meno di notare come in Francia la spesa pubblica a favore della famiglia sia il doppio della nostra: 813,17 euro a cittadino (399,18 in più dell’Italia). Meglio di noi fanno anche la Germania (595,12 euro pro capite) e il Regno Unito (590,18 euro pro capite). Il nostro dato è sensibilmente inferiore sia rispetto a quello dell’Unione Europea a 28 (dove la media è di 501,67 euro pro capite) sia rispetto a quello dell’area Euro (530,93 euro pro capite).

La famiglia in una società che invecchia

La famiglia in una società che invecchia

Nel contesto di un più vasto studio sulla “prassi globali per contrastare la povertà e migliorare l’equità”, la Banca Mondiale ha esaminato il tema “dell’invecchiamento e della solidarietà familiare in Europa” in un paper (Policy Research Working Paper No.7678) , diffuso, per ora, solamente in via telematica agli abbonati ai servizi dell’istituzione con sede a Washington. Il documento prende avvio dalla constatazione che “all’inizio del ventunesimo secolo”, le relazioni inter-generazionali rimangono un aspetto essenziale della crescita e della sostenibilità del modello sociale europeo.

Tramite una vasta rassegna della letteratura, vengono messi a confronto i differenti strumenti di “scambio intergenerazionale” attuati in Europa. Ne deriva una tassonomia, in base alla quale i Paesi europei sono divisi in tre gruppi: a) quelli nordici (tra cui vengono inclusi anche Francia e Belgio che hanno una strumentazione abbastanza simile a quelle degli altri della categoria); b) quelli meridionali (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) e c) quelli dell’Europa centrale ed orientale aderenti all’Unione Europea. Una conclusione di rilievo: “l’intensità delle attività dei nonni” nei Paesi dell’Europa meridionale è tale da “rappresentare un’alternativa a servizi pubblici, spesso molto carenti per la cura dei bambini. Vivere insieme è anche una strategia utilizzata dalle famiglie per aiutarsi a vicenda”.

Inoltre, nei Paesi dell’Europa meridionale, le donne dedicano maggior supporto, e maggior tempo, alla cura degli anziani e dei mariti di quanto non facciano gli uomini, i quali invece forniscono maggiori aiuti economici ai figli. “I livelli di istruzione e di reddito” inoltre sono fortemente correlati alle tipologia di supporto familiare: contrariamente alle impressioni superficiali, sono le famiglie a reddito alto e medio alto a fornire più risorse e più tempo agli anziani, ai figli ed ai nipoti, mentre “il supporto informale” è molto debole nei ceti a basso reddito.

Il documento solleva, indirettamente, molti interrogativi per quanto attiene alla politica seguita dall’Italia. Non sarebbe preferibile un sistema tributario basato su quozienti familiari per meglio permettere quel supporto intra-familiare che sembra essere una delle caratteristiche del Paese? Misure come gli 80 euro ai dipendenti a basso reddito ed i 500 euro ai diciottenni (senza differenziazione di reddito o di ricchezza) sono efficienti ed efficaci e vanno nella direzione dove sta andando il resto d’Europa o ci distanziano ancora di più dalle “buone prassi” altrui?

Roccella (Idea): “Per salvare le famiglie, il welfare non basta”

Roccella (Idea): “Per salvare le famiglie, il welfare non basta”

di Eugenia Roccella*

L’Italia da molto tempo investe poco nella famiglia, probabilmente perché i governi hanno dato per scontata la buona salute della famiglia italiana. I dati, a parte un preoccupante declino della natalità, confermavano finora questo giudizio, ma negli ultimi anni i segnali di crisi si sono moltiplicati.

Quella che Giovanni Paolo II definiva l’eccezione italiana (e che si leggeva nei numeri: meno divorzi e separazioni, meno aborti, in particolare tra le minori, meno figli nati fuori dal matrimonio, meno madri single degli altri paesi europei) è oggi a rischio. È urgente quindi intervenire con provvedimenti pesanti, e non occasionali come il bonus bebé. Ma bisogna avere chiaro che le facilitazioni fiscali e il welfare pro-family servono solo in minima parte a fermare l’inverno demografico.

Tutta l’Europa è ormai sotto il tasso di sostituzione, anche i paesi in cui c’è stata e c’è ancora una storica attenzione al problema, come dimostra lo studio di ImpresaLavoro (per esempio la Francia o la Svezia, che investono molto più di noi su famiglia e figli). Per confermarlo basta verificare come l’unico paese europeo che fa meno bambini di noi è la ricca Germania: le cause principali della denatalità europea non sono economiche, ma culturali. In Italia, poi, come dimostrano le ricerche del sociologo Roberto Volpi, i figli si fanno ancora all’interno del matrimonio: se, come accade oggi, i matrimoni sono in calo, c’è poca speranza di risalire la china demografica.

Investire nella famiglia è necessario per motivi di equità, per migliorare la vita delle donne, su cui pesa ancora la gran parte del lavoro di cura,  e per dare un segnale forte di cambiamento; ma bisogna essere consapevoli che non si tornerà a fare figli solo con incentivi economici o con un welfare più generoso, se non c’è anche un investimento culturale per promuovere famiglia e matrimonio.

*Deputato di “Idea”, ex Sottosegretario al Ministero della Salute

Pagano (Area Popolare): “Meno assistenzialismo, più spesa per le famiglie”

Pagano (Area Popolare): “Meno assistenzialismo, più spesa per le famiglie”

di Alessandro Pagano*

I dati pubblicati dal Centro Studi “ImpresaLavoro” non mi sorprendono più di tanto. Anzi, paradossalmente mi rallegro del fatto che questi numeri possano essere diffusi, così da sottolineare tutte le contraddizioni interne di una sterile retorica – presente in ampi strati del mondo politico e governativo – su aiuti, bonus e previdenza in genere. Si tratta, per carità, di iniziative utili e meritorie, ma che troppo spesso non sono in grado di realizzare gli obiettivi per cui sono state messe in campo. È sempre positivo, dunqe, che osservatori neutrali siano in grado di raccogliere dati capaci di far esplodere queste contraddizioni. Perché è proprio su queste contraddizioni che diventa possibile fare qualche ragionamento serio.

Per esempio, è impossibile non notare come la nostra spesa per il welfare sia quasi sempre indirizzata – anche giustamente, da un certo punto di vista – nei confronti di coloro che restano disoccupati in seguito a crisi di lavoro. Questo, però, produce degli elementi fortemente distorsivi per la nostra economia. È normale, oltre che giusto, concedere un sussidio di disoccupazione a persone che, a 55-60 anni, hanno difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro. Ma quando lo stesso sussidio viene concesso in contesti molto differenti, questo provoca inevitabilmente delle distorsioni. Mi spiego meglio, perché si tratta di casi concreti che ho toccato con mano: segni di un malcostume che una volta riguardava soprattutto il Mezzogiorno ma che oggi si è diffuso anche nel Nord del Paese. Parlo dei giovani che si fanno assumere, lavorano per 7-8 mesi e poi, appena raggiunti i requisiti di legge, fanno di tutto per farsi licenziare. E lucrare sull’indennità di disoccupazione. Questa abitudine, più comune di quanto non si pensi abitualmente, porta a una distorsione di tutto il meccanismo del welfare. Le persone che lavorano “in nero” mentre percepiscono il sussidio di disoccupazione (o, peggio, si limitano a poltrire) non solo provocano un danno alla nostra economia, ma anche al tessuto culturale del Paese.

Anche quando il sussidio di disoccupazione è concesso a chi veramente ne ha bisogno, però, gli effetti distorsivi sono sempre dietro l’angolo. Perché queste persone, di fronte all’incertezza nei confronti del futuro, non hanno certo la tendenza a spendere, ma piuttosto cercano di risparmiare il più possibile. Il denaro dei contribuenti, dunque, non va ad alimentare i consumi o gli investimenti, ma viene messo da parte e immobilizzato.

Queste risorse – che oggi in gran parte servono ad alimentare effetti negativi sotto il profilo culturale ed economico – potrebbero essere utilizzate molto meglio se utilizzate a favore della famiglia. Quando lo Stato indirizza la spesa pubblica direttamente verso le famiglie, per esempio stimolandole ad avere figli, si crea inevitabilmente un effetto volano per tutta l’economia, perché i genitori spenderanno quel denaro per i figli: spendono per migliorare la loro qualità di vita, per attività extrascolastiche che altrimenti non potrebbero permettersi, per mandarli in una scuola migliore, per viaggi studio all’estero che possono arricchire in modo decisivo la loro esperienza. Da parte dei genitori, insomma, c’è una propensione virtuosa al consumo. E anche quando si preferisce il risparmio, si tratta di risparmio orientato verso il futuro dei propri figli, non immobilizzato in un cassetto proprio per paura del futuro. Si tratta di spesa pubblica, dunque, che crea effetti positivi sotto il profilo sia economico che culturale.

È chiaro che, partendo da questa prospettiva, è lo stesso modello di welfare del nostro Paese che va completamente ripensato. L’assistenzialismo italiano, così com’è, serve soltanto a trasformarci nella “Calabria d’Europa”, cioè in una macroregione assistita in cui la spesa pubblica serve solo a garantire un’economia minima di sussistenza (e magari i voti sufficienti a mantenere la propria rendita di posizione), ma che non riesce a diventare volano per la crescita. È possibile, invece, immaginare un welfare intelligente, che punta sui figli come risorsa primaria per la nostra società. I numeri della demografia, del resto, ci inchiodano a questa necessità: con 1,1 figli per coppia siamo destinati all’impoverimento. Ed è sotto gli occhi di tutti la banalità della retorica terzomondista che vorrebbe affidarsi ai flussi migratori per correggere questa tendenza: da noi ormai arrivano immigrati che non rappresentano un valore aggiunto significativo, in termini economici o culturali; mentre i nostri ragazzi migliori sono costretti a fuggire dall’Italia per arricchire, in tutti i sensi, gli altri Paesi.

Concludendo, i soldi investiti direttamente nelle famiglie – per esempio con quello che una volta si chiamava “quoziente familiare” – sono qualcosa di molto distante dall’assistenzialismo a cui purtroppo siamo abituati. E questo tipo di spesa pubblica deve crescere, non soltanto per portare l’Italia almeno ai livelli della media europea (e già questa sarebbe, di per sé, una motivazione sufficiente), ma perché si tratta di una spesa capace di avere effetti di moltiplicazione, sia in termini di consumo immediato, sia in termini di progresso culturale. Con una popolazione giovanile schiacciata da pensioni, sanità e assistenzialismo, i conti non tornano. Mentre allargando la base demografica si creano le condizioni per far ripartire il sistema produttivo, tornando a poter contare su una prospettiva di lungo periodo. Lo dico da cattolico: la famiglia non è soltanto la cellula fondamentale su cui è costruita la società, ma anche il destinatario ideale per una spesa pubblica virtuosa, capace di diventare una leva straordinaria per la crescita economica.

* Deputato nazionale di Area Popolare, componente della Commissione Finanze e della Commissione Giustizia

Famiglia, Italia in coda: spende solo l’1,4% del Pil – Il Mattino

Famiglia, Italia in coda: spende solo l’1,4% del Pil – Il Mattino

Il Mattino

Per il sostegno alla famiglia e alla natalità l’Italia spende risorse pari a solo l’1,4% del Pil: una cifra sensibilmente inferiore al 2,2% del Pil che i paesi dell’Unione a 27 e dell’Eurozona spendono in media a favore dei nuclei con figli a carico. È quanto emerge da un’indagine del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione degli ultimi dati Eurostat (2012). Tra i grandi paesi europei, sottolinea il rapporto, peggio dell’Italia fanno solo Portogallo (1,2%) e Olanda (1,1%) mentre il trend della spesa è opposto nel Regno Unito (1,9%), in Germania (3,2%), in Francia (2,6%) e addirittura in Grecia (1,6%).

Ciò significa che ogni anno in Italia vengono stanziati e spesi per la famiglia 363 euro a cittadino, una cifra in valore assoluto superiore a quella di Spagna, Grecia e Portogallo ma nettamente inferiore a quella di tutti gli altri grandi paesi continentali. Ad esempio in Germania la spesa pubblica a favore della famiglia è tre volte superiore a quella italiana: 1.049 euro a cittadino (686 in più dell’Italia). Meglio di noi fa anche la Francia con 792 euro pro capite (429 in più dell’Italia) e il Regno Unito con 569 euro pro capite (206 in più dell’Italia).

Eppure l’Italia, spiega il rapporto, non spende per il welfare meno di questi paesi: per la protezione sociale in genere, infatti, spendiamo un punto di Pil in più della Germania e siamo davanti a larga parte degli stati dell’Europa a Ventisette. Nel 2013, la spesa per prestazioni sociali (che rappresenta circa il 96% della spesa complessiva per protezione sociale) è stata dedicata per oltre la metà alla funzione «vecchiaia» (50,4%), mentre la parte rimanente si distribuisce tra «malattia/salute»

Fisco nemico della famiglia: 640 euro in più in cinque anni

Fisco nemico della famiglia: 640 euro in più in cinque anni

Maurizio Carucci – Avvenire

Che le politiche fiscali italiane non fossero “amiche” delle famiglie si sapeva. Ora arriva anche la certezza “scientifica”. Una famiglia monoreddito con figli ha in media pagato al fisco 640 euro in più di cinque anni prima. Contrariamente agli altri Paesi europei, in Italia il carico fiscale aumenta soprattutto per le famiglie monoreddito con figli (+0,5%) e i single con reddito sopra la media. Ne consegue che il bonus fiscale degli 80 euro ha paradossalmente prodotto effetti distorsivi, colpendo quanti sono costretti a mantenere una famiglia con un solo stipendio. Cioè quelli che maggiormente avrebbero dovuto godere degli effetti del bonus.

Lo certifica il documento del Centro studi ImpresaLavoro sul cuneo fiscale. Ed è l’ennesima dimostrazione, supportata dall’autorevolezza dei dati Ocse, della schizofrenia del sistema fiscale italiano. Tendenza dimostrata anche da un altro dato: rispetto al 2009 le famiglie monoreddito con figli hanno subìto un aumento (+2,1%) superiore a quelloper i single a redito elevato (+1,8%) emedio (+1,4%). La crescita del cuneo fiscale, insomma, finisce per penalizzare quei nuclei familiari che vivono con un solo stipendio e che invece andrebbero aiutate.

In valori assoluti, nel 2014 una famiglia con figli a carico e un unico reddito (in media pari a 32.462 euro) ha infatti sopportato un cuneo fiscale pari a 11.800 euro. Persino un single con un reddito medio e senza figli a carico ha avuto un incremento più contenuto. In conclusione, in Italia vengono varati provvedimenti contrari a quei principi sanciti dalla nostra Costituzione sulla tutela della famiglia e dei figli. In particolare, si continuano a scaricare sui nuclei familiari le contraddizioni delle scelte economiche. E ad attuare politiche fiscali che non rispondono affatto alla crisi economica e demografica.

I ragazzi del ’99

I ragazzi del ’99

Davide Giacalone – Libero

Più morti che nati. La natalità è fiacca in tutta Italia, ma al Sud, nel 2013, sono nati solo 177mila bambini. Meno dei morti. Poco di più degli emigrati: 116mila. Questi dati, pubblicati da Svimez, si accompagnano a quelli dell’economia: sette anni consecutivi di recessione e un 2014 che si chiuderà con un -0,4% del prodotto interno lordo italiano, ma con un -1,5 al Sud. Previsione per il 2015: ottavo anno di recessione, con un -0,7. Se fosse azzeccata, metterebbe in serio dubbio la crescita nazionale dello 0,6%, su cui si regge la legge di stabilità e l’equilibrio dei conti pubblici. Dunque: i numeri dell’economia spiegano la denatalità, la denatalità propizia l’andamento peggiore dell’economia. Meno occupazione genera meno ricchezza, meno ricchezza induce meno consumi, meno consumi giustificano meno investimenti, meno investimenti contraggono l’occupazione. Un cappio che si stringe. Per un giorno, però, lascio l’osservazione dei fatti dal punto di vista economico. Per un giorno provo a leggerli con occhi diversi. Quelli dei ragazzi del ’99.

I ragazzi nati nel 1999 sono i nostri figli e nipoti. Hanno oggi quindici anni. Frequentano una scuola poco selettiva e si preparano a una università poco professionalizzante. Di loro si dice che sono stati derubati del futuro, che dovranno pagare i debiti di quegli sconsiderati che li hanno preceduti, che non potranno avere le sicurezze e le guarentigie dei loro genitori: non avranno il posto fisso, la pensione, l’assistenza sanitaria pronta a spendere anche per i sani. E’ vero. Solo che ci sono anche altri ragazzi del ’99. Alcuni li incontrammo e abbiamo il dovere di conoscere la loro storia. Sono i ragazzi nati nel 1899: un secolo fa vivevano in un’Italia che si apprestava a chiamarli alla guerra. Allora la leva militare era fissata a 21 anni, ma nel 1917 furono chiamati loro, i ragazzi del ’99, appena diciottenni e non maggiorenni, lanciati a sostituire i morti e i feriti nelle sanguinose trincee della prima guerra mondiale. I nostri ragazzi del ’99 hanno in mano terminali digitali che li connettono al mondo, non manca loro l’essenziale ed hanno anche tanto del superfluo, possono viaggiare. Quei ragazzi del ’99 consideravano un successo il consumare almeno un pasto al giorno, erano ignari del mondo, il treno che presero li portò al fronte. Ci dice Svimez che solo nel 1867 e nel 1918 i morti superarono così significativamente i nati. Ma erano morti in guerra (la terza d’indipendenza e la prima mondiale) e i giovani uomini erano da tempo lontani dal “mercato” della natalità.

Fu allora, con la grande guerra, che le donne entrarono massicciamente nel mondo del lavoro. Per sostituire gli uomini che ne erano lontani, o che erano morti. Oggi, al Sud, lavora una percentuale di donne minore di allora. E questo materializza il più grande dei paradossi: si sostiene che la maternità non è accessibile perché non è garantita, nel senso che non è finanziata dal datore di lavoro o dallo stato sociale, ma, a rigor di logica, meno le donne lavorano e più alta dovrebbe essere la propensione a figliare. Avviene il contrario. Avviene il contrario anche in un altro senso: dove le donne lavorano di più, e dove le garanzie sono inferiori, la natalità è più alta. Solo che la spesa pubblica investe in servizi (asili, scuole, sport), non in mance per l’allattamento.

Il Sud è l’esagerazione del resto. Del resto d’Italia, ma anche del resto di un pezzo d’Europa. Quella più ricca, da più tempo libera. Le due generazioni del ’99 la dicono lunga: come fanno a essere più depressi e sfiduciati quelli che stanno incomparabilmente meglio? E se la natalità fosse specchio della fiducia nel futuro, come si spiega che sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale si avviavano più gravidanze che nel diluvio degli happy hours? Guardiamoci nello specchio di questi dati e smettiamola di trovare scuse per le nostre paure. Non nascono da condizioni oggettive, ma dall’avere dimenticato che i diritti sono frutto dei doveri compiuti e i consumi si alimentano con il lavoro e la produzione, non reclamando trasferimenti che a loro volta generano spesa improduttiva e fiscalità produttivicida.

Bonus bebè mensile, fondi più che dimezzati

Bonus bebè mensile, fondi più che dimezzati

Paolo Baroni – La Stampa

La coperta per il bonus mamma si fa più corta. Il passaggio della legge di Stabilità sotto la lente delle Ragioneria generale dello Stato ha lasciato il segno: già era stato introdotto un tetto di reddito complessivo per la famiglia pari a 90 mila euro, ma anche lo stanziamento è stato rivisto in maniera molto significativa. Domenica scorsa in tv il presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva annunciato la novità spiegando che col nuovo anno alle neo-mamme sarebbe stato assegnato un bonus mensile di 80 euro finanziati coi 500 milioni di euro già stanziati a favore delle famiglie. In questo modo, secondo i primi calcoli, praticamente tutti i nuovi nati (che in media sono giusto 500 mila all’anno) avrebbero beneficiato del contributo.

La versione finale della legge di Stabilità in realtà ridimensiona in maniera significativa lo stanziamento. Per il 2015 non si parla più di 500 milioni a disposizione ma di 202 (i restanti 298 vanno ad un fondo ad hoc destinato sempre alle politiche familiari), quindi anziché 500mila i bonus finanziabili saranno meno della metà, 200 mila. Per il 2016 sono invece previsti 607 milioni, 1012 per il 2017 e per il 2018, e ancora 607 per il 2019 e 202 per il 2020.

Perché questo «taglio»? Perché nella versione originaria della proposta, quella lanciata domenica dal premier, il bonus bebè triennale – partendo da una spesa 2015 di mezzo miliardo – nel 2016 sarebbe costata 1 miliardo e addirittura a 1 mi- liardo e mezzo l’anno seguente. Troppo, per i severi controllori del Bilancio. Di qui l’intervento calmieratore: l’anno prossimo si parte con 200 milioni destinati poi a salire in maniera progressiva negli anni seguenti ma insufficienti comunque a coprire l’intera platea. Con la dotazione messa a disposizione nella versione finale del ddl, infatti, solo 4 neonati su dieci avranno diritto al bonus l’anno prossimo, diventeranno poi 6 su 10 nel 2016 e quasi sette su 10 nel 2017.

Il nuovo articolo 13 della legge di Stabilità mette poi nero su chiaro tutti i dettagli del provvedimento. «Al fine di incentivare la natalità e contribuire alle relative spese per il sostegno – recita la norma – per ogni figlio nato o adottato a decorrere dal 1° gennaio 2015 fino al 31 dicembre 2017, è riconosciuto un assegno di importo annuo di 960 euro erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione». Inoltre è previsto che l’assegno non concorra alla formazione del reddito complessivo sottoposto a tassazione Irpef e che venga corrisposto «fino al compimento del terzo anno d’età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione». Varrà per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro della Ue di cittadini extracomunitari con permesso di soggiorno, residenti in Italia.

Come detto è previsto un tetto di reddito di 90.000 euro, limite che non vale più a partire dal quinto figlio (o adottato) in su. All’Inps, ente al quale le neo-mamme dovranno inoltrare le domande, spetterà anche il compito effettuare un monitoraggio e nel caso «si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alla previsione di spesa» è già previsto che il governo possa rideterminare sia l’importo annuo, riducendolo rispetto ai 960 euro di partenza, sia il tetto di reddito dei 90 mila euro.